23 FORESTA DI SEQUOIE, TEXAS

Odisseo non raccontò la storia dei suoi viaggi, quel mattino, durante la colazione nella verde bolla in cima al Golden Gate a Machu Picchu. Nessuno si ricordò di chiedergliela. Tutti parevano distratti, pensò Ada e ben presto capì il motivo.

Lei era distratta perché aveva dormito poco, ma aveva passato con Harman la notte più fantastica della sua vita. Già in altre occasioni aveva "fatto sesso" (quale donna della sua età non l’aveva fatto?) ma, si rese conto, non aveva mai fatto l’amore, prima. Harman era stato mirabilmente tenero eppure insistente, attento ai suoi bisogni e alle sue reazioni, senza lasciarsi dominare da esse; sensibile, ma energico. Avevano dormito un poco, rannicchiati insieme nell’angusto letto contro la ricurva parete di vetro, ma si erano svegliati spesso e i loro corpi avevano rinnovato l’atto amoroso prima che le loro menti fossero del tutto partecipi. Quando il sole aveva superato la guglia, a est di Machu Picchu, Ada si era sentita un’altra. No, non era esatto: si era sentita una persona più importante, più completa, più "giusta".

Anche Hannah, pensò Ada, si comportava in maniera insolita, quel mattino: rossa in viso, estremamente vigile, attenta a ogni commento fatto dall’uomo che si era presentato come Odisseo, le lanciava di tanto in tanto un’occhiata e subito distoglieva lo sguardo, quasi arrossiva. "Oddio, ho capito" pensò Ada verso la fine della colazione, quando erano quasi pronti a partire in volo verso nord per andare a villa Ardis. "Hannah ha dormito con Odisseo."

Per un minuto non riuscì a crederci: mai, durante gli anni della loro amicizia, Hannah aveva accennato a legami sentimentali o a faccende sessuali; ma poi colse le occhiate che Hannah lanciava al barbuto Odisseo e i segnali fisici (la ragazza sedeva di fronte a Odisseo, ma col corpo reagiva ancora a ogni mossa di lui, muoveva nervosamente le mani, si teneva inclinata in avanti) e capì che era stata una notte intensa, nei domi in cima al Golden Gate.

Daeman e Savi erano chiaramente gli unici spaiati. Daeman, dello stesso umore della sera prima, continuava a fare domande sul bacino del Mediterraneo, ansioso di proseguire con Harman e Savi quell’avventura, ma anche nervoso. Savi pareva pensierosa e preoccupata, quasi afflitta, e aveva fretta di partire.

Harman era silenzioso e, pensò Ada, ovviamente ancora concentrato su di lei, anche se agli altri la cosa non risultava altrettanto ovvia. Colse un paio di volte la sua occhiata e si sentì scaldare il cuore quando lui le sorrise. Una volta le mise la mano sulla coscia, sotto il tavolo, e le diede due colpetti.

«Allora, qual è il piano?» chiese Daeman, mentre terminavano la colazione a base di croissant caldi (Ada aveva guardato con stupore Savi metterli in forno, poco prima) e burro, fragole, succo di frutta appena fatto e caffè forte.

«Il piano è di portare a villa Ardis Odisseo, Hannah e Ada… siamo in ritardo, se vogliamo arrivarci prima che sia buio… e poi di andare al bacino del Mediterraneo, tu, Harman e io» disse Savi. «Sei sempre pronto a partecipare alla spedizione, Daeman Uhr

«Pronto» confermò Daeman. A Ada non parve pronto, ma stanco o con i postumi della sbornia o tutt’e due.

«Allora raccogliamo la nostra roba e muoviamo le chiappe» disse Savi.


Partirono con lo stesso sonie su cui erano arrivati, anche se Hannah disse a Ada che c’erano altre macchine volanti in una delle stanze agganciate alla torre sud del ponte. Il piccolo sonie aveva nella parte posteriore un sorprendente numero di scomparti, utili per gli zaini di Savi e l’altro loro equipaggiamento; ma era Odisseo quello che portava più bagagli, compreso un fodero con una corta spada, lo scudo, cambi d’abito e due giavellotti come quelli che aveva usato nella caccia agli Uccelli Terrore. Savi si distese nell’incavatura centrale anteriore e si mise ai luminosi comandi virtuali, con Ada alla sinistra e Harman alla destra. Daeman, Odisseo e Hannah occupavano le incavature posteriori; Ada girò la testa per dare un’occhiata e vide la sua amica tenere per mano Odisseo.

Volarono a est, sopra alte montagne, e poi si abbassarono e virarono di nuovo a nord, passando su una fitta giungla e un ampio fiume marrone che Savi chiamò Rio delle Amazzoni. La giungla era una foresta pluviale, un baldacchino interrotto solo qua e là da una piramide erbosa il cui vertice s’innalzava per trecento metri, dividendo lente nubi cariche di pioggia. Savi non disse cosa fossero le piramidi e gli altri parevano troppo stanchi o preoccupati da altri pensieri per chiederlo.

Mezz’ora dopo essersi lasciati alle spalle l’ultima piramide, Savi virò bruscamente a sinistra e il sonie proseguì a ovest-nordovest, di nuovo sopra alte montagne. A quell’altezza l’aria era così rarefatta che la bolla a campo di forza entrò in funzione, anche se la distanza apparente dal terreno non superava i centocinquanta metri; l’aria nella bolla fu di nuovo pressurizzata, con un più alto contenuto d’ossigeno.

«Non andiamo fuori rotta?» chiese Harman, dopo un lungo silenzio.

Savi annuì. «Devo girare alla larga dai monoliti di Zorin che corrono lungo lo zoccolo costiero di quelli che un tempo erano Perù, Ecuador e Colombia» disse. «Alcuni sono ancora armati e automatizzati.»

«Cosa sono i monoliti di Zorin?» chiese Hannah.

«Niente di cui dobbiamo preoccuparci oggi» rispose Savi.

«A che velocità viaggiamo?» chiese Ada.

«Non alta» rispose Savi. Diede un’occhiata al display virtuale che le circondava i polsi e le mani. «Circa cinquecento chilometri all’ora, in questo momento.»

Ada provò a immaginare quella velocità. Non ci riuscì. Prima del volo col sonie non aveva mai viaggiato in un mezzo più veloce delle troike tirate da voynix e non aveva idea della velocità di una troika. Probabilmente meno di cinquecento chilometri all’ora, si disse: le montagne e le creste in basso cambiavano molto più in fretta della campagna nella corsa in troika o in carrozzella dal portale fax a villa Ardis.

Volarono per un’altra ora. A un certo punto Hannah disse: «Mi fa male il collo a furia di inarcare la testa per guardare dal bordo del sonie e la bolla è troppo bassa per mettermi a sedere. Vorrei…». Mandò un urlo. Ada, Daeman e Harman la imitarono.

Savi aveva mosso la mano sul pannello virtuale di controllo e il sonie sotto di loro era semplicemente scomparso. Nell’istante prima di serrare gli occhi, Ada vide la perfetta illusione di sei umani e i loro bagagli e le lance di Odisseo volare a mezz’aria, senza niente che li sostenesse.

«Avvisaci, se hai intenzione di farci di nuovo uno scherzo del genere» disse Harman, scosso, a Savi.

La vecchia borbottò qualcosa.

Ada trascorse un paio di minuti a toccare il freddo metallo del cofano davanti a lei, a sentire il contatto morbido e solido come cuoio del contorno dell’incavatura sotto le gambe, il ventre e il petto, prima di trovare il coraggio di riaprire gli occhi. "Non sto cadendo, non sto cadendo" continuò a ripetersi. "Sì che cadi!" le dissero gli occhi e l’orecchio interno. Ada chiuse di nuovo gli occhi e li aprì solo quando, sorvolati gli altopiani, costeggiarono una penisola che dalla terraferma correva verso nordovest.

«Credevo che avresti gradito lo spettacolo» disse Savi a Harman, come se gli altri non fossero coinvolti.

Davanti a loro l’oceano tagliò l’istmo, una distesa d’acqua per un varco di almeno centocinquanta chilometri. Savi prese quota e virò a nord in mare aperto.

«Secondo le carte geografiche che ho visto, l’istmo fra il Nord e il Sud America era sopra il livello del mare» disse Harman, protendendosi dall’incavatura per guardarsi indietro.

«Quelle tue carte sono inutili» disse Savi. Mosse le dita e il sonie accelerò e salì ancora.

Dopo mezzodì fu visibile un’altra linea costiera. Savi ridusse la quota e in breve sorvolarono acquitrini che poco dopo lasciarono posto a chilometri e chilometri di sequoie (così le chiamò Savi) che arrivavano anche a ottanta o novanta metri d’altezza.

«Chi vuole sgranchirsi le gambe sulla terraferma mentre ci fermiamo per pranzo?» chiese Savi. «O appartarsi se gli scappa il bisognino?»

Quattro passeggeri su cinque votarono sì a gran voce. Odisseo sorrise. Fino a quel momento aveva sonnecchiato.


Pranzarono in una radura su una collinetta, circondati da alberi maestosi come cattedrali. Gli anelli equatoriale e polare si muovevano appena nel pezzetto di cielo azzurro visibile fra i rami.

«Ci sono dinosauri qui intorno?» chiese Daeman, scrutando le zone buie sotto gli alberi.

«No» rispose Savi. «Preferiscono le parti centrali e settentrionali del continente.»

Daeman si appoggiò, rilassato, a un ceppo e mangiucchiò frutta, fette d’arrosto e pane, ma si raddrizzò quando Odisseo disse: «Forse Savi Uhr in realtà voleva dire che qui ci sono predatori più feroci che tengono lontano i dinosauri ricombinanti».

Savi lanciò a Odisseo un’occhiataccia e scosse la testa, come se sospirasse sulle malefatte di un incorreggibile ragazzino. Daeman guardò di nuovo nelle ombre di mezzodì sotto gli alberi e si spostò più vicino al sonie per terminare il pranzo.

Hannah, che staccava di rado gli occhi da Odisseo, trovò il tempo per estrarre di tasca il lino e metterselo sugli occhi. Rimase distesa per diversi minuti, mentre gli altri mangiavano in silenzio nel caldo ombroso e silenzioso. Finalmente Hannah si alzò a sedere, si tolse il lino ricamato a microcircuiti e disse: «Odisseo, ti piacerebbe vedere che cosa succede a te e ai tuoi compagni nella guerra sotto le mura della città?».

«No» rispose il greco. Con i denti strappò un pezzo di carne di Uccello Terrore rimasto dalla sera prima e masticò lentamente, poi bevve vino dall’otre che aveva portato con sé.

«Zeus è furioso e ha spostato l’equilibrio verso i troiani guidati da Ettore» proseguì Hannah, senza badare alla reticenza di Odisseo. «Hanno respinto i greci oltre la loro linea di difesa, il fossato e le palizzate, e combattono intorno alle nere navi. Sembra che la tua parte sia sul punto di perdere. Tutti i grandi sovrani, tu compreso, si sono dati alla fuga. Solo Nestore è rimasto a combattere.»

Odisseo brontolò. «Quel vecchio chiacchierone. È rimasto perché gli hanno ammazzato il cavallo e si è ritrovato a piedi.»

Hannah lanciò un’occhiata a Ada e rise. Si era riproposta di trascinare Odisseo in una discussione, era chiaro; ed era altrettanto chiaro che era convinta d’esserci riuscita. Ada ancora non credeva che quell’uomo fin troppo reale, abbronzato, pieno di rughe e di cicatrici, così diverso dai maschi rinnovati nello spedale ai quali erano abituate, fosse lo stesso Odisseo del dramma. Come molte persone intelligenti che lei conosceva, era convinta che il lino fornisse uno spettacolo virtuale, probabilmente scritto e registrato durante l’Età Perduta.

«Ricordi la battaglia vicino alle nere navi?» lo incitò Hannah.

Odisseo brontolò di nuovo. «Ricordo il banchetto la sera prima di quel miserabile giorno da cani. Dall’isola di Lemno giunsero trenta navi cariche di vino, mille misure piene, abbastanza da annegarci gli eserciti troiani, se non avessimo avuto un modo migliore di usarlo. Euneo, figlio di Giasone, lo mandò come dono agli Arridi, Agamennone e Menelao.» Guardò di traverso Hannah e gli altri. «Ecco, il viaggio di Giasone, quella è una storia che vale la pena ascoltare.»

Tutti, tranne Savi, osservarono con espressione vacua il massiccio vecchio in tunica e cintura.

«Giasone e gli Argonauti» ripeté Odisseo. Guardò da uno all’altro. «Di sicuro avete sentito quella storia.»

Savi ruppe l’imbarazzato silenzio. «Questi qui non hanno sentito nessuna storia, figlio di Laerte. I nostri cosiddetti umani vecchio stile non hanno passato, né miti, né storie di qualsiasi genere, a parte il dramma del lino. Non sanno più leggere e scrivere, esattamente come tu e i tuoi compagni non sapevate ancora leggere e scrivere.»

«Non avevamo bisogno di scarabocchi su corteccia o pergamena o fango per essere uomini degni di considerazione» brontolò Odisseo. «La scrittura fu provata in epoca precedente alla nostra e abbandonata come inutile.»

«Esattamente» disse Savi, ironica. «"L’attrezzo di un illetterato sta forse meno eretto?" Credo l’abbia detto Orazio.»

Odisseo le lanciò un’occhiataccia.

«Ci parlerai di questo Giasone e gli… gli cosa?» disse Hannah e arrossì in un modo che convinse Ada: la sua amica aveva davvero dormito con Odisseo, la notte prima.

«Ar-go-nau-ti» compitò lentamente Odisseo, calcando su ogni sillaba come se parlasse a un bambino. «E, no, non ve ne parlerò.»

Ada si trovò a guardare dalla parte di Harman e a tornare con la mente a ricordi della lunga notte appena trascorsa. Voleva allontanarsi con lui e parlargli in privato di ciò che avevano condiviso o, in mancanza di questo, voleva solo chiudere gli occhi nel caldo umido della radura chiazzata dal sole e appisolarsi, forse per sognare del loro amore. "Meglio ancora" pensò, scrutando Harman da sotto le ciglia "potremmo allontanarci di nascosto nel buio della foresta e fare l’amore di nuovo, anziché sognarlo."

Ma Harman pareva non accorgersi delle sue occhiate ed era chiaro che aveva spento il ricevitore telepatico. L’amante di Ada pareva invece interessato e divertito dai commenti di Odisseo. «Ci racconterai una storia sulla tua guerra del dramma del lino?» chiese a Odisseo.

«Era chiamata guerra di Troia e ’fanculo il vostro straccio» disse Odisseo, ma aveva bevuto forte dall’otre e pareva essersi addolcito. «Però posso raccontarvi una storia che il vostro caro pannolino non conosce.»

«Sì, per favore» disse Hannah, spostandosi più vicino a Odisseo.

«Dio ci liberi dai cantastorie» brontolò Savi. Si alzò, ripose nel bagagliaio del sonie le stoviglie del pranzo e andò nella foresta.

Daeman la guardò allontanarsi e parve chiaramente ansioso. «Credi davvero che ci siano animali da preda più pericolosi dei dinosauri?» chiese, a nessuno in particolare.

«Savi sa badare a se stessa» rispose Harman. «Ha l’arma pistola.»

«Ma se una creatura la divora» disse Daeman, continuando a fissare la foresta «chi piloterà il sonie?»

«Sta’ zitto» disse Hannah. Con le lunghe dita marrone chiaro toccò il polso a Odisseo. «Raccontaci la storia che nel lino non compare. Per favore.»

Odisseo corrugò la fronte, ma vide che Ada e Harman annuivano per appoggiare la richiesta di Hannah; allora si spazzò dalla barba le briciole e iniziò.


«Questi fatti vissuti non compaiono e non compariranno mai nel dramma del vostro straccio. Gli eventi che vi racconterò accaddero dopo la morte di Ettore e di Paride, ma prima del cavallo di legno.»

«Paride muore?» lo interruppe Daeman.

«Ettore muore?» chiese Hannah.

«Cavallo di legno?» si stupì Ada.

Odisseo chiuse gli occhi, con le dita si pettinò la corta barba e disse: «Mi lasciate continuare senza interrompere?».

Tutti, tranne Savi che si era assentata, annuirono.

«Gli eventi che ora vi descriverò accaddero dopo la morte di Ettore e di Paride, ma prima del cavallo di legno. Era vero che in quei giorni, fra i suoi più grandi tesori, la città di Ilio possedeva un’immagine divina caduta dal cielo, voi la chiamereste meteorite, una pietra fusa e sagomata da Zeus stesso generazioni prima della nostra guerra, un segno che il padre degli dèi approvava la fondazione della città. Questa figura di pietra e metallo era chiamata Palladio, perché aveva la sagoma di Pallade… no, non di Pallade Atena, ma di Pallade compagno di Atena nella sua giovinezza. Quest’altro Pallade (nella nostra lingua la parola può essere accentata in modo da avere un significato femminile o maschile, ma qui si avvicina al termine latino virago, che vuol dire "forte vergine") era stato ucciso in un finto combattimento con Atena. Ed era stato Ilio, a volte chiamato Ilo — padre di Laomedonte, che a sua volta avrebbe generato Priamo, Tifone, Lampo, Clizio e Icetaone — a trovare la pietra stellare davanti alla tenda, un mattino, e a riconoscerla per ciò che era.

«Quell’antico Palladio, a lungo fonte segreta della ricchezza e della potenza di Ilio, era alto tre cubiti, portava nella destra una lancia, nella sinistra una rocca e un fuso ed era associato alla dea della morte e del fato. Ilio e gli altri antenati degli attuali difensori di Troia avevano fatto fare molte copie del Palladio, in molti formati diversi, e avevano nascosto e sorvegliato le false statue come quella vera, perché tutti sapevano che la sopravvivenza di Ilio dipendeva dal possesso del Palladio. Gli dèi stessi me lo rivelarono in sogno, nelle ultime settimane d’assedio a Ilio, e così esposi a Diomede il mio piano: entrare nella città e trovare il vero Palladio, in modo da tornare poi a rubarlo e segnare l’irrevocabile fine di Troia.

«Per prima cosa mi vestii di stracci come un mendicante e ordinai ai servi di colpirmi con la frusta, in modo da essere sfigurato da lividi e cicatrici. I cittadini di Ilio, vedete, erano notoriamente deboli di stomaco, quando si trattava d’imporre la disciplina ai propri servi: tendevano a viziarli, anziché punirli, e a nessun servo di buona famiglia sarebbe stato mai permesso di mostrare in giro abiti laceri e lividi di frustate; perciò pensai che gli stracci e il puzzo e, peggio ancora, i segni sanguinanti della sferza avrebbero indotto i cittadini a girare la testa dall’altra parte per l’imbarazzo. Un travestimento perfetto per una spia, non vi pare?

«Scelsi per me quel compito perché fra tutti gli achei ero il più abile nel muovermi furtivamente e nello sfruttare la mia astuzia; e inoltre perché ero già stato fra le mura di Troia, più di dieci anni prima, a capo di una delegazione incaricata di negoziare pacificamente la restituzione di Elena, prima che le nostre nere navi giungessero in forze e la guerra iniziasse. Ovviamente quei negoziati fallirono (tutti noi veri argivi ci eravamo augurati che fallissero, perché avevamo una gran voglia di menare le mani ed eravamo affamati di bottino), ma ricordavo benissimo la disposizione della città e delle porte nelle grandi mura.

«Nel mio sogno, gli dèi (quasi sicuramente Atena, che favoriva più d’ogni altro la nostra causa) mi avevano rivelato che il Palladio e le sue numerose copie erano nascosti da qualche parte nel palazzo di Priamo, ma non mi avevano indicato il luogo preciso né spiegato come distinguere dai falsi il Palladio vero.

«Aspettai il cuore della notte, quando i fuochi sui bastioni sono al minimo e i sensi umani sono meno ricettivi; allora con corda e grappino superai le torreggianti mura, uccisi una sentinella e ne nascosi il cadavere sotto un alto mucchio di fieno accantonato per la cavalleria tracia. Ilio era vasta, la più estesa città del mondo, e mi ci volle un poco per orientarmi nelle vie e nei vicoli, fino al palazzo di Priamo. Due volte fui fermato per strada da guardie armate, ma borbottai ed emisi suoni strozzati, agitando in gesti senza senso le braccia segnate dai colpi di frusta; e loro mi ritennero uno schiavo poco sveglio, giustamente frustato per la sua idiozia, e mi lasciarono passare.

«Il palazzo di Priamo era grande, aveva cinquanta stanze da letto, una per ognuno dei cinquanta figli del re, ed era ben sorvegliato dalle più scelte fra le truppe scelte troiane, con vigili guardie a tutte le porte e a ogni finestra esterna a livello della strada, con altre guardie nelle corti interne e lungo le mura (lì nessuna sentinella assonnata mi avrebbe scacciato con un gesto pigro, non importa quanto sanguinassi e quanto grugnissi come un idiota); così, dopo avere ucciso col pugnale il mio secondo troiano della notte e nascosto alla meno peggio il suo cadavere, andai a meridione per qualche caseggiato, fino alla dimora di Elena, sorvegliata anche quella, ma un po’ meno.

«Morto Paride in un duello con l’arco, Elena era stata data in moglie a un altro figlio di Priamo, Deifobo, che il popolo definiva "colui che sgomina il nemico", ma che noi achei sul campo chiamavamo "chiappe di bue"; il nuovo marito non era in casa, quella notte, ed Elena dormiva da sola. La svegliai.

«Non credo che l’avrei uccisa, se avesse gridato per chiedere aiuto: la conoscevo da parecchi anni, sapete, in veste di ospite della nobile casa di Menelao e, prima ancora, in veste di uno dei suoi primi corteggiatori — quando lei fu in età da marito — anche se solo per formalità, perché già allora ero felicemente sposato con Penelope. Ero stato io a consigliare che Tindareo chiedesse ai corteggiatori il giuramento di accettare la scelta di Elena, evitando così di spargere un mucchio di sangue per le brutte maniere dei perdenti. Penso che Elena avesse apprezzato quel consiglio.

«Elena non gridò per chiedere aiuto, quella notte, quando la svegliai da un sonno agitato nella sua casa a Ilio. Mi riconobbe subito e mi abbracciò e mi chiese come stavano il suo vero marito, Menelao, e sua figlia così lontana da lei. Le dissi che stavano tutti bene, ma non precisai che a quel punto della guerra Menelao era stato gravemente ferito due volte sul campo di battaglia e meno gravemente altre cinque o sei volte, compresa la recente freccia nella natica, ed era di pessimo umore. Invece le dissi quanto marito e figlia e familiari a Sparta sentissero la sua mancanza e le facessero auguri d’ogni bene.

«Elena allora si mise a ridere. "Il mio signore e marito Menelao mi vorrebbe morta e tu lo sai, Odisseo" disse. "E sono sicura che ci penserà lui stesso, quando fra non molto le grandi mura e le porte Scee di Ilio cadranno, come l’oracolo Hock-en-bear-eeee ha profetizzato."

«Non conoscevo quel particolare oracolo — Delfi e Pallade Atena sono gli unici veggenti del futuro cui presto orecchio — ma non potevo discutere con lei; pareva probabile che Menelao le avrebbe davvero tagliato la gola, dopo gli amari anni di infedeltà fra le braccia e nel letto dei suoi nemici. Ma non glielo dissi. Le dissi invece che avrei interceduto presso Menelao, figlio di Atreo, per convincerlo a risparmiarle la vita, se lei non mi avesse tradito e mi avesse aiutato a entrare nel palazzo di Priamo e a scegliere il vero Palladio.

«"Non ti tradirei comunque, Odisseo, figlio di Laerte, consigliere abile e sincero" disse Elena. E mi indicò come aggirare le difese del palazzo e come riconoscere il vero Palladio in mezzo alle copie.

«Ma era quasi l’alba, troppo tardi per completare la missione quella notte stessa. Così uscii, percorsi le vie, salii e scavalcai e discesi le mura grazie al varco che avevo lasciato uccidendo la sentinella e dormii fino a tardi il giorno dopo, feci un bagno e mangiai e bevvi, poi ordinai a Macaone, figlio di Asclepio, il più bravo guaritore al soldo dell’esercito, di curarmi i segni delle frustate e di applicarvi un unguento.

«La notte seguente, sapendo che mi sarebbe occorso un alleato perché non avrei potuto combattere e nello stesso tempo portare la pesante pietra del Palladio, inclusi Diomede nel mio piano. Insieme, nel cuor della notte, il figlio di Tideo e io scalammo e scavalcammo il muro, uccidendo con una freccia ben centrata la nuova sentinella. Poi percorremmo rapidamente vie e vicoli, senza ripetere la recita dello sciocco schiavo frustato, quella notte, ma eliminando invece, con efficienza e in silenzio, chiunque ci fermasse; ed entrammo nel palazzo di Priamo, da una fognatura segreta che Elena mi aveva spiegato come trovare.

«A Diomede, uomo orgoglioso come tanti di quegli eroi dalla testa dura giunti da Argo, non piaceva guadare una fogna per niente al mondo, nemmeno per garantire la caduta di Ilio. Protestò e brontolò e si arrabbiò e si lamentò e divenne di umore davvero orribile, quando unimmo insulto a ingiuria, dovendo risalire il foro di uno dei cessi delle latrine nello scantinato del palazzo, dove si trovavano le stanze del tesoro di Priamo, fra le camerate delle guardie scelte.

«Eravamo furtivi, ma il puzzo ci precedeva; così fummo costretti a uccidere le prime venti guardie che incontrammo nei corridoi; la ventunesima ci mostrò come aprire la porta della stanza del tesoro senza far scattare allarmi o altre trappole; poi Diomede tagliò la gola anche a quella.

«Oltre a tonnellate d’oro, montagne di pietre preziose, cumuli di perle, pile di tessuti intarsiati, bauli di diamanti e tante altre ricchezze del favoloso Oriente, nella stanza del tesoro c’erano circa quaranta statue del Palladio disposte in nicchie. Identiche in tutto, tranne che nelle dimensioni.

«"Elena ha detto di prendere solo la più piccola" dissi a Diomede; presi il Palladio più piccolo e lo avvolsi in un mantello rosso tolto all’ultima guardia uccisa. Avevamo nelle mani la caduta di Ilio. Ora non dovevamo fare altro che sfuggire alla cattura.

«A quel punto Diomede decise di saccheggiare il tesoro di Priamo, subito, immediatamente, quella notte stessa. Il miraggio di tutto quel bottino era troppo grande, per l’avido bastardo senza cervello. Avrebbe barattato dieci anni di sangue e di fatica in cambio di poche libbre d’oro.

«Lo… dissuasi. Non descriverò la lite che seguì, quando posai a terra il Palladio avvolto nel mantello rosso e sguainai la spada per impedire al figlio di Tideo, re di Argo, di rovinare per avidità la nostra missione. La lite terminò in fretta, vinta dall’astuzia. E va bene, se insistete, ve la racconto: niente nobile combattimento, in quel caso. Niente gloriosa aristeia. Proposi di toglierci le puzzolenti tuniche prima di duellare; e mentre il grosso idiota si spogliava, gli tirai in testa un blocco di dieci libbre d’oro e lo lasciai tramortito.

«Così, alla fine, mi toccò fuggire dal palazzo di Priamo portando nell’incavo del braccio il pesante Palladio e in spalla l’ancora più pesante e nudo Diomede.

«Non potevo scavalcare le mura in quelle condizioni: ero pronto e disponibile e sul punto di lasciare Diomede nel pozzo nero della fogna dove il grande canale di scolo sfociava nel fiume che scorreva sotto le mura di Ilio; ma proprio allora Diomede riprese conoscenza e convenne di lasciare con me la città. Ce ne andammo in silenzio. Molto in silenzio. Diomede non mi rivolse più la parola, né quel giorno né la settimana seguente né dopo la caduta e il sacco di Ilio né mai più.

«E nemmeno io ho più parlato a Diomede, da quel giorno. «Dovrei aggiungere che poco dopo, quando portai il Palladio al campo degli argivi e lo nascosi bene, sicuro ormai che Ilio vivesse le sue ultime ore, cominciammo a lavorare al gigantesco cavallo di legno. Il cavallo aveva tre scopi: primo, era ovviamente un trucco per far entrare nella città me e un gruppo scelto di fidi guerrieri; secondo, era un sistema per fare in modo che i troiani stessi togliessero il grande architrave di pietra sopra le porte Scee per consentire il passaggio dell’offerta votiva, dal momento che secondo la profezia dovevano accadere due cose prima della caduta di Ilio, ossia la perdita del Palladio e la distruzione dell’architrave delle porte Scee; terzo, infine, il gigantesco cavallo era costruito come dono ad Atena per compensare la perdita del suo Palladio, dal momento che lei era anche chiamata Ippia, la dea dei cavalli, visto che proprio lei aveva domato e imbrigliato Pegaso per Bellerofonte e che traeva grande piacere dal cavalcare e allenare a ogni occasione i propri destrieri.

«Questo, amici miei, è il breve racconto del furto del Palladio e della caduta di Ilio. Mi auguro che vi sia piaciuto. Ci sono domande?»


Ada incrociò lo sguardo di Harman. "Questo era il breve racconto?" pensò. Vide che il suo amante accoglieva quel pensiero come se lei le avesse mandato in soffio un bacio.

«Sì, ho una domanda» disse Daeman.

Odisseo annuì.

«Perché a volte dici Troia e a volte Ilio?»

Odisseo scosse leggermente il capo, si alzò, prese dal sonie il fodero e la corta spada e si allontanò nella foresta.

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