IV IL MAZZO DI ROSE

Quando uscii dalla tenda dell’imbonitore, sollevai lo sguardo verso il sole. L’orizzonte occidentale aveva già raggiunto la metà del cielo ed entro un turno di guardia o anche meno sarebbe giunto il momento di fare la mia apparizione. Agia era scomparsa e ogni speranza di raggiungerla era andata perduta negli istanti frenetici che avevo trascorso correndo da una parte all’altra della fiera; ma nonostante tutto mi consolavano la profezia dell’uomo verde che, secondo la mia interpretazione, significava che io e Agia ci saremmo incontrati un’altra volta prima di morire, e il pensiero che, come aveva assistito all’apertura della casa murata, così sarebbe forse stata presente anche all’esecuzione di Morwenna e del ladro di bestiame.

Queste riflessioni mi tennero occupata la mente durante il ritorno alla locanda. Ma prima di raggiungere la camera che dividevo con Jonas, il ricordo di Thecla e della mia elevazione ad artigiano presero il sopravvento, suscitati dalla necessità di spogliarmi per rivestire la cappa di fuliggine della mia corporazione. Tanto grande era la forza dell’associazione esercitata da quell’abito quando era ancora appeso nella stanza e da Terminus est che era sempre nascosta sotto il materasso.

Quando ancora ero al servizio di Thecla, mi divertivo a prevedere gran parte dei discorsi che avrebbe fatto, specialmente l’inizio, basandomi sul dono che avevo per lei entrando nella sua cella. Se si trattava di qualche pietanza gustosa sottratta in cucina, per esempio, ne nasceva una descrizione dei pranzi nella Casa Assoluta e il genere di cibo che avevo portato rievocava addirittura le caratteristiche del pranzo descritto: in caso di carne, un pranzo di caccia con le grida e i barriti della selvaggina catturata viva che salivano dal recinto del macello, le conversazioni sui bracchetti, i falchi e i leopardi da caccia; in caso di dolci, Thecla raccontava un pranzo privato offerto da una delle grandi castellane per pochi amici, deliziosamente intimo e colorato dai pettegolezzi; in caso di frutti, una festa serale nell’immenso giardino della Casa Assoluta, illuminato da mille torce e animato da giocolieri, attori, ballerini e dai fuochi d’artificio.

Thecla mangiava frequentemente in piedi, camminando avanti e indietro per la cella, e reggeva il piatto con la mano sinistra mentre con l’altra gesticolava. — Così, Severian, zampillano nel cielo e riversano piogge di scintille verdi e violette, mentre quelle marroni rombano come il tuono!

Ma la sua povera mano non poteva mostrarmi in maniera soddisfacente l’ascesa dei razzi, perché il soffitto della cella non era molto più alto di lei.

— Ti sto annoiando. Poco fa, quando mi hai portato le pesche, mi sembravi tanto felice, e adesso hai perso il sorriso. Io invece mi sento bene, qui, nel ricordare queste cose. Come le apprezzerò, quando le potrò rivivere…

Non ero annoiato, logicamente. Ma mi rattristavo nel vedere una donna tanto giovane e bella così rinchiusa…


Quando entrai nella stanza, Jonas stava scoprendo Terminus est. Mi versai una coppa di vino. — Come ti senti? — mi domandò.

— E tu? Per te è la prima volta, in fondo.

Lui scrollò le spalle. — Io devo solo portare l’attrezzatura. Tu l’hai già fatto altre volte? Me lo sto domandando, perché hai un aspetto così giovane.

— Sì, l’ho già fatto, ma mai a una donna.

— Pensi che sia innocente?

Mi stavo levando la camicia; quando ebbi le braccia libere, la usai per asciugarmi la faccia e scossi la testa. — Sono sicuro che non lo sia. Sono andato a parlare con lei, ieri sera… l’hanno incatenata in riva all’acqua. Te l’ho detto.

Jonas allungò la mano metallica per prendere la coppa del vino. — Mi hai detto che è molto bella e che ha i capelli neri come quelli di…

— Thecla. Ma quelli di Morwenna sono lisci, mentre quelli di Thecla erano ondulati.

— Come Thecla. Pare che tu l’abbia amata come io amo la tua amica Jolenta, anche se devo riconoscere che tu hai avuto molto più tempo a disposizione per innamorarti. E lei ti ha raccontato come il marito e i figli fossero morti per una malattia, probabilmente provocata dall’acqua. Il marito era più vecchio di lei, esatto?

— Aveva circa la tua età, penso — risposi.

— E una donna più anziana lo desiderava, e così tormentava la prigioniera.

— Solo a parole. — Nella corporazione, solo gli apprendisti indossano la camicia. Infilai i calzoni e misi il guanto di fuliggine, il colore più scuro del nero, sulle spalle nude. — Generalmente i clienti che vengono esposti in tal modo dalle autorità vengono lapidati. Quando arrivano a noi, sono pieni di lividi e spesso hanno perso anche qualche dente. Talvolta hanno delle ossa rotte e le donne di solito sono state violentate.

— Hai detto che è molto bella. Forse la gente pensa che sia innocente. Forse hanno avuto tutti pietà di lei.

Presi Terminus est, la sguainai e lasciai cadere il morbido fodero. — Gli innocenti hanno sempre dei nemici. La verità è che hanno paura di lei.

Uscimmo insieme.

Quando ero entrato nella locanda, ero stato costretto ad aprirmi un varco fra la folla dei bevitori. Allora, invece, si fecero da parte per lasciarmi passare. Indossavo la maschera e portavo Terminus est sulla spalla. Fuori, il chiasso della fiera si spense man mano che avanzavamo finché si ridusse a un brusio, come se stessimo attraversando un bosco.

Le esecuzioni sarebbero avvenute nel mezzo della fiera, e si era già radunata una folla immensa. Un caloyer paludato di rosso era in piedi accanto al palco e stringeva fra le mani un minuscolo formulario; era vecchio, come la maggior parte dei suoi colleghi. I due prigionieri aspettavano al suo fianco, circondati dagli uomini che avevano fatto uscire Barnoch dalla casa murata. L’alcalde indossava la veste gialla della sua carica e la catena d’oro.

Un’antica usanza vuole che il carnefice non salga sul palco usando la scala, anche se ho visto il Maestro Gurloes aiutarsi con la spada per fare il salto, nel cortile davanti alla Torre delle Campane. Quasi certamente ero l’unico fra tutti i presenti a conoscere tale tradizione, ma non la infransi e quando balzai sul palco con il manto che svolazzava intorno a me dalla folla si levò un urlo animalesco.

— O Increato — lesse il caloyer, — noi sappiamo che coloro che moriranno qui non sono, ai tuoi occhi, più malvagi di noi. Le loro mani grondano sangue. E anche le nostre.

Esaminai il ceppo. Quelli usati al di fuori della supervisione immediata della corporazione sono generalmente inadeguati. «Largo come uno sgabello, robusto e scavato.» Il ceppo che avevo davanti possedeva anche troppo bene i primi due requisiti, ma per volere di santa Caterina era leggermente convesso, e se pure il legno troppo duro avesse smussato il filo maschio della mia lama, fortunatamente potevo servirmi anche dell’altro, riservando a entrambi i condannati un filo fresco.

— …per la tua volontà, in quest’ora, essi purificheranno il loro spirito acquistando forse prestigio al tuo cospetto. Noi che dovremo fronteggiarli allora, se anche oggi versiamo il loro sangue…

Mi misi a gambe larghe, appoggiandomi alla spada come se avessi il completo controllo della cerimonia, per quanto non sapessi quale dei due avesse estratto il nastro più corto.

— Tu, o eroe che distruggerai il verme nero che divora il sole; tu, dinnanzi al quale il cielo si aprì come un sipario; tu, il cui respiro annienterà l’immenso Erebus, Abaia e Scylla che si agita sotto le onde; tu, che sei parimenti vivo nel guscio del più piccolo seme nella più remota foresta, il seme rotolato nelle tenebre dove nessuno lo può vedere.

La donna, Morwenna, stava salendo la scala, preceduta dall’alcalde e seguita da un uomo che la pungolava con uno spiedo di ferro. Qualcuno, fra la folla, urlò un suggerimento osceno.

— …abbi pietà di coloro che non ebbero pietà. Abbi pietà di noi, che adesso non ne avremo.

Il caloyer aveva terminato. L’alcalde prese la parola. — In modo odioso e innaturale…

La voce era alta, molto diversa dalla tonalità che usava generalmente per parlare e dalla retorica che l’aveva permeata nel discorso davanti alla casa di Barnoch. Dopo aver ascoltato distrattamente per alcuni istanti — stavo cercando Agia fra la gente — mi resi conto che era spaventato. Avrebbe dovuto assistere da vicino a tutto quello che sarebbe stato fatto ai due prigionieri. Sorrisi, sebbene la maschera non lo rivelò agli altri.

— …di rispetto per il tuo sesso. Ma verrai marchiata su entrambe le guance, ti verranno spezzate le gambe e la testa ti verrà staccata dal corpo.

Mi augurai che avessero avuto abbastanza buon senso da capire che era necessario un braciere.

— Con il potere della somma giustizia conferito al mio indegno braccio dalla generosità dell’Autarca, i cui pensieri sono musica per i suoi sudditi, dichiaro… dichiaro…

Si era dimenticato le parole. Suggerii: — Che è venuto il tuo momento.

— Dichiaro che è venuto il tuo momento, Morwenna.

— Se hai una supplica da rivolgere al Conciliatore, esprimila adesso nel tuo cuore.

— Se hai una supplica da rivolgere al Conciliatore, esprimila.

— Se hai consigli per i figli delle donne, dopo questo non avrai più voce per darli.

L’alcalde stava ritrovando il controllo di sé e recitò tutto: — Se hai consigli per i figli delle donne, dopo questo non avrai più voce per darli.

Chiaramente, ma abbastanza piano, Morwenna disse: — So che la maggior parte di voi mi crede colpevole. Sono innocente. Non avrei mai compiuto quei gesti orribili che mi avete attribuito.

La folla si avvicinò per ascoltarla.

— In molti possono testimoniare che amavo Stachys e il figlio che lui mi aveva dato.

Una macchia di colore attirò il mio sguardo, neropurpurea nella forte luce del sole di primavera. Si trattava di un mazzo di rose trenodiche, come quelle che si portano ai funerali. La donna che lo teneva era Eusebia, che io avevo incontrato al fiume intenta a tormentare Morwenna. Mentre la fissavo, aspirò il profumo, estatica, quindi si servì degli steli ricoperti di spine per aprirsi un varco fra la folla e arrivare ai piedi del palco. — Queste sono per te, Morwenna. Muori prima che appassiscano.

Colpii il tavolato con la punta smussata della spada per imporre il silenzio. Morwenna disse: — Il sant’uomo che ha letto le preghiere per me e mi ha parlato prima di venire qui mi ha domandato di perdonarvi se avessi raggiunto la beatitudine prima di voi. Fino a questo momento non avevo avuto la possibilità di esaudire una preghiera, ma ora lo faccio. Vi perdono.

Eusebia stava per parlare di nuovo, ma la zittii con un’occhiata. L’uomo sogghignante e senza denti vicino a lei agitò la mano in cenno di saluto e, con un sussulto di sorpresa, riconobbi in lui Hethor.

— Sei pronto? — mi chiese Morwenna. — Io lo sono.

Jonas aveva appena posato sul palco un secchio di carboni ardenti dal quale spuntava quello che doveva essere il manico di un ferro da marchiatura. Ma la sedia mancava ancora. Rivolsi all’alcalde uno sguardo che voleva essere significativo.

Era come fissare un palo. Infine domandai: — Abbiamo una sedia, onorevolissimo?

— Ho mandato due uomini a prenderla. E ho ordinato anche una corda.

— Quando? — La folla iniziava ad agitarsi e a bisbigliare.

— Alcuni istanti fa.

La sera precedente mi aveva garantito che sarebbe stato tutto pronto, ma in quel frangente sarebbe stato inutile ricordarglielo. Non c’è nessuno, come ho avuto modo di appurare in seguito, che vada in confusione su un patibolo quanto un dignitario rurale. Egli si trova infatti diviso fra il desiderio ardente di essere al centro dell’attenzione, cosa che nel caso di un’esecuzione non è possibile, e la paura di non possedere l’esperienza e le capacità per comportarsi nel modo migliore. Persino il cliente più vigliacco, che sale le scale sapendo che gli verranno strappati gli occhi, diciannove volte su venti si comporta meglio. Persino un timido cenobita, non aduso alle voci degli uomini e diffidente sino al timore, merita una maggiore fiducia.

Qualcuno urlò: — Fatela finita!

Guardai Morwenna. Con il volto incavato e la pelle chiara, il sorriso pensoso e i grandi occhi scuri, poteva generare nella folla una indesiderata simpatia.

— Potremmo farla sedere sul ceppo — proposi all’alcalde. Non riuscii a trattenermi e aggiunsi: — Del resto, è più indicato per questo.

— Non abbiamo niente per legarla.

Mi ero già permesso un commento di troppo, perciò non dissi la mia opinione al riguardo di coloro che avevano bisogno di legare i prigionieri.

Così, posai Terminus est dietro il ceppo, feci sedere Morwenna e sollevai le braccia nell’atavico saluto, quindi presi il ferro con la mano destra e, tenendole i polsi con la sinistra, le impressi il marchio sulle guance, poi alzai il ferro ancora incandescente. A quell’urlo la folla si era ammutolita per un istante, dopodiché iniziò a ruggire.

L’alcalde si raddrizzò. Pareva un altro uomo. — Mostragliela — disse.

Io avevo sperato di evitarlo, ma dovetti aiutare Morwenna ad alzarsi. Tenendola per mano, quasi stessimo eseguendo una contraddanza, feci lentamente il giro del palco. Hethor era pazzo di felicità e, sebbene cercassi di non dare ascolto al suono della sua voce, sentivo che si vantava di conoscermi con la gente che gli stava intorno. Eusebia porse il mazzo a Morwenna urlando: — Ecco, presto ne avrai bisogno.

Dopo aver terminato il giro, guardai l’alcalde e, lasciato passare il tempo necessario perché lui si domandasse il motivo del ritardo, mi fece cenno di proseguire.

— Finirà presto? — mormorò Morwenna.

— È quasi finito. — La feci sedere nuovamente sul ceppo e ripresi la spada. — Chiudi gli occhi. Cerca di ricordare che tutti quelli che sono vissuti sono morti, anche il Conciliatore, che risorgerà come il Nuovo Sole.

Lei abbassò le palpebre pallide dalle lunghe ciglia e non vide la spada alzata. Il lampo dell’acciaio fece ammutolire nuovamente la folla e una volta ottenuto il silenzio completo colpii le cosce di Morwenna con il piatto della lama; il rumore dei femori che si spezzavano riecheggiò nitido come il crak-crak dei pugni di un pugile vittorioso. Morwenna rimase per un istante seduta sul ceppo, svenuta, ma senza cadere. In quel frangente indietreggiai di un passo e le recisi il collo con il colpo orizzontale che è molto più difficile da eseguire di quello dall’alto in basso.

Per dire la verità, solo quando vidi il sangue sgorgare e udii il tonfo della testa che cadeva sulla piattaforma capii di esserci riuscito. Nonostante non me ne fossi reso conto, ero nervoso quanto l’alcalde.

Quello è il momento in cui, sempre secondo le antiche usanze, l’abituale dignità della corporazione si infrange. Volevo ridere e far capriole. L’alcalde mi scuoteva una spalla e farfugliava come avrei voluto fare io stesso; non capivo le sue parole… certo qualche sciocchezza. Sollevai la spada, presi la testa per i capelli, alzai anche quella e feci il giro del palco. Non uno solo, ma tre o quattro.

S’era alzata una brezza che macchiava di scarlatto la mia maschera e il braccio e il petto nudi. La gente urlava le consuete battute: — Vuoi tagliare i capelli di mia moglie (o di mio marito)? Mezza misura di salsicce quando avrai terminato. Posso avere il suo cappello?

Ridevo di tutti e fingevo di gettare loro la testa. All’improvviso qualcuno mi tirò per un piede. Era Eusebia, e prima ancora che profferisse una sola parola compresi che era spinta da quell’ossessione di parlare che avevo notato spesso nei clienti della nostra torre. I suoi occhi brillavano e il suo volto era contorto per attirare la mia attenzione; pareva nello stesso tempo più vecchia e più giovane di prima. Non riuscivo a capire che cosa stesse urlando, perciò mi chinai ad ascoltare.

— Innocente! Era innocente!

Non era il momento di spiegarle che non avevo giudicato io Morwenna, così mi limitai ad annuire.

— Mi aveva portato via… Stachys! Adesso è morta. Capisci? Era innocente, ma sono tanto felice!

Annuii una seconda volta e continuai il giro del palco, mostrando la testa.

— L’ho uccisa io! — gridò Eusebia. — Non tu!

— Se vuoi! — le risposi.

— Innocente! La conoscevo… era tanto prudente. Avrebbe tenuto un po’ di veleno per sé! Sarebbe morta prima che ci pensassi tu a ucciderla.

Hethor mi afferrò un braccio e mi additò: — Il mio padrone! Mio! Mio!

— Così è stato qualcun altro. O forse è stata veramente una malattia…

Io urlai: — Solo al Demiurgo spetta la giustizia! — La folla era ancora festante, nonostante si fosse un po’ calmata.

— Ma lei mi aveva rubato il mio Stachys e adesso è morta! — Eusebia gridò ancora più forte. — Stupendo! È morta! — Nascose la faccia nel mazzo di fiori, quasi che volesse riempirsi i polmoni del loro soffocante profumo. Lasciai ricadere la testa di Morwenna nel cesto e asciugai la lama sul pezzo di flanella porpora che Jonas mi porgeva. Quando volsi nuovamente lo sguardo verso Eusebia, era senza vita, stesa a terra al centro di un gruppo di curiosi.

Al momento non vi badai, convinto che l’eccesso di gioia le fosse stato fatale. Ma quel pomeriggio l’alcalde fece esaminare il mazzo dal farmacista e fra i petali venne trovato un veleno forte e sottile, non identificabile. Probabilmente Morwenna l’aveva in mano e l’aveva gettato sui fiori quando le avevo fatto compiere il giro intorno al palco, dopo averla marchiata.


Permettete che mi fermi un istante e che vi parli da mente a mente, anche se forse ci separa l’abisso degli eoni. Nonostante quanto ho già scritto — dalla porta chiusa alla fiera di Saltus — comprenda gran parte della mia vita da adulto e quanto mi resta da raccontare riguardi appena pochi mesi, sento di non essere ancora giunto a metà della mia opera. Per non colmare una biblioteca grande come quella del vecchio Ultan, sorvolerò su molti particolari, vi avviso apertamente. Ho descritto l’esecuzione di Agilus, il fratello gemello di Agia, perché era importante per la mia storia, e quella di Morwenna per le insolite circostanze che la accompagnarono. Non ne descriverò altre, a meno che non svolgano un ruolo importante. Se godete nell’ascoltare le sofferenze e la morte degli altri, da me ricaverete ben poca soddisfazione. Basti dire che feci tutto quello che era stato stabilito al ladro di bestiame, terminando con la sua esecuzione; d’ora in poi, nel raccontare i miei viaggi, dovete tener presente che io esercitai il mestiere della mia corporazione quando era redditizio farlo, anche se non ne parlerò direttamente.

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