Fedele alla sua parola, Janine Gamboul fece in modo che ogni ordine della Dawnay avesse la precedenza su tutti gli altri. Le risorse della Intel erano tali che, persino nelle caotiche condizioni dell’Europa, fu possibile localizzare i materiali, acquistarli e portarli in Azaran per via aerea. Ancora più notevole fu la rapidità con la quale furono trovati alcuni giovani e brillanti chimici, specializzati in batteriologia o nella struttura molecolare dell’acido nucleico. Due di essi erano degli studenti appena laureati a Zurigo, ed una giovane chimica del gruppo di ricerca stipendiata dalla più grande ditta farmaceutica tedesca. Dalle risposte che dettero a Madeleine, parve chiaro che erano venuti del tutto spontaneamente, attratti non solo dal favoloso stipendio, ma dalla speranza di lavorare per quello che era stato presentato loro come un nuovo ed eccitante ramo della ricerca scientifica, in quella che speravano essere una parte meno tempestosa di mondo. Non avevano alcuna idea dei reali propositi della Intel, né dell’incubo incombente dietro le sciagure climatiche. La gente, in tutto il mondo, sperava ancora che il peggio sarebbe presto passato.
La Dawnay parlò ai suoi aiutanti di tutta la situazione, ma tacque la teoria sull’origine dei batteri.
Li fece lavorare fino ai loro limiti di resistenza. Essi si resero conto ben presto dell’urgenza della cosa, e divennero i suoi devoti servitori. Del resto, Madeleine stessa era già al lavoro quando loro arrivavano, al mattino, e rimaneva ancora al lavoro quando, stanchi, se ne andavano per il riposo notturno.
I risultati cominciarono ad apparire prima di quanto la Dawnay avesse osato sperare. Precisamente dieci giorni dopo che si erano messi a lavorare seriamente, la prima gocciolina di batteri sintetici fu deposta su di un minuto schermo di rame, e quindi messa nel microscopio elettronico. Fu un momento drammatico. La Dawnay regolò l’ingrandimento, mentre i suoi assistenti le stavano tutti intorno. Di cinquecentomila volte, poi di un milione. Un milione ed un quarto. Eccola: una forma a molte facce, spigolosa, simmetrica. E non era un inerte cristallo. Viveva.
Senza parlare, Madeleine fece cenno ai suoi assistenti di guardare. Uno dopo l’altro, fissarono il loro trionfo. La vita, infinitamente minuscola, era stata creata.
Con un certo sforzo, la Dawnay riportò se stessa ed i suoi collaboratori alla realtà. Tutto questo non era, in effetti, che una curiosità scientifica; la vera prova restava ancora da fare. I batteri dovevano essere allevati fino a diventare miliardi — cioè appena sufficienti per riempire una provetta. Quindi avrebbero dovuto essere mandati in battaglia contro l’organismo che era il loro nemico predestinato.
Le preziose e sempre troppo poche goccioline furono messe in una dozzina di diversi brodi di coltura. Per sei lunghissime ore non vi fu niente altro da fare, se non aspettare. Il primo controllo mostrò batteri morti in nove delle provette; nelle altre tre avevano raggiunto invece la massima saturazione.
Da queste tre, furono cominciate delle colture più grandi, che si svilupparono benissimo. Era mezzanotte, quando la Dawnay decise che la vera prova poteva cominciare.
Prese dal grande recipiente di metallo una provetta piena di acqua di mare, infestata dai batteri. Era chiusa con un tappo di gomma sterilizzato. Uno degli assistenti riempì da una delle colture riuscite una siringa ipodermica e la porse alla Dawnay. L’ago passò il tappo di gomma, ed il fluido, penetrando nella materia opaca, produsse un piccolo vortice.
«E adesso, un’altra attesa,» disse la Dawnay. Il lieve tremito della sua voce era l’unico sintomo della tensione che provava. «Su, prendiamo un caffè.»
Madeleine non aveva detto a nessuno, fuori del laboratorio, quanto pensasse di essere vicina alla riuscita, temendo, nel caso di un insuccesso, il contraccolpo della delusione. Ma Abu Zeki, attirato dalla luce che veniva dalle finestre del laboratorio, arrivò proprio quando il periodo di attesa stava per finire.
«Entri,» disse Madeleine, «è arrivato in tempo per dividere con noi un successo, oppure aiutarci a trovare i motivi di un fallimento.»
«Funziona?» domandò lui pieno di speranza.
La Dawnay rise incerta. «In teoria, sì. In pratica… be’, lo sapremo fra qualche minuto.»
Andò verso il banco su cui la provetta era stata messa dentro un recipiente sterile. Con mano tremante la prese e la tenne alla luce, mentre gli altri si raggruppavano intorno a lei. Due terzi dell’acqua erano chiari e luminosi. Madeleine continuò a tenerla in alto, fissandola, e anche mentre la guardavano, delle minuscole bolle di gas salirono ondeggiando verso l’alto.
La Dawnay si scosse, ritornando alla realtà. «È stata nella provetta per sessantatré minuti precisi,» mormorò, «adesso faremo la prova nel recipiente grande.»
Non c’era più bisogno di precauzioni e sterilizzazioni, né di misure minuziose. Due provette piene della coltura furono immerse nel recipiente, e tutti si misero in cerchio intorno ad esso per guardare. Una dopo l’altra, cominciarono ad apparire delle piccole pozze di acqua chiara, mentre pigre e grasse bolle venivano alla superficie, scoppiavano, ed erano subito sostituite da altre bolle.
«Quello è l’azoto che viene liberato,» disse la Dawnay. «La pressione dell’aria sta cambiando.»
Era vero. L’ago del barografo saliva lentamente, ma senza scosse.
«C’è quasi riuscita!» esclamò la ragazza di Zurigo.
«Noi ci siamo riusciti,» la corresse Madeleine. «Il resto è un semplice fatto meccanico. Si tratta di produrne in quantità sufficientemente grandi. Bisogna che ci prendiamo un’ora di riposo, poi controlleremo il ritmo della crescita, gli effetti della temperatura e della salinità.» Si volse verso Abu. «Sarebbe bene che cominciassero a programmare la produzione di massa. Vada a parlare alla Gamboul o a Kaufmann. Dica loro che devo incontrarli più presto possibile domani… voglio dire, stamattina.»
Non ebbe bisogno di andare a Baleb, per vedere la Gamboul. Il capo della Intel venne da lei mentre stava inghiottendo frettolosamente la colazione. La Gamboul si limitò a chiedere delle istruzioni, come se fosse una segretaria.
Come risultato, un’ora più tardi, la stazione ad onde corte della Intel stava già trasmettendo una lunga sequela di ordinazioni ai quartier generali della società, a Vienna. Si chiedeva la spedizione per aereo e per nave di imponenti rifornimenti di materiali chimici, fosfati, proteine ed aminoacidi, senza tener conto del costo, né del paese di origine. Si richiedevano tecnici per farli lavorare alle installazioni del petrolio dell’Azaran, dove era necessario vuotare i serbatoi di petrolio ed usarli per contenere le colture. Anche i vecchi oleodotti avevano bisogno di essere riadattati, per pompare l’antibatterio direttamente nel Golfo Persico, mentre se ne preparavano dei nuovi.
Al messaggio fu semplicemente risposto che era stato ricevuto. Non vi furono domande, vaghe promesse o scuse. Quella stessa notte, la prima squadra di trasporti aerei volò verso Baleb con i tecnici ed il carico di materiale chimico. Due di essi precipitarono a causa di una violenta tempesta sul Mediterraneo, ed un terzo saltò in aria quando una piccola tromba d’aria lo colse, proprio al momento dell’atterraggio. Tutti gli altri arrivarono.
Il ponte aereo continuò senza sosta anche il giorno seguente, mentre la prima nave da carico, noleggiata in tutta fretta a Capetown, comunicava per radio l’ora approssimativa dell’arrivo.
Una settimana dopo la prova della coltura, i primi grandi quantitativi di antibatteri furono versati nel mare, lungo la costa dell’Azaran, in dieci punti accuratamente scelti, dopo uno studio delle correnti marine. Gli effetti cominciarono ad essere visibili dopo dodici ore.
Fleming, che era stato autorizzato ad andare sulla costa con la Dawnay, si fermò vicino all’acqua, dove il deserto scendeva con largo pendio a formare la spiaggia dorata, fissando affascinato le grandi bolle di azoto che scoppiavano, salendo alla superficie delle onde. Nemmeno il movimento tempestoso del mare riusciva a nasconderle, ed egli sentì nei polmoni la freschezza inebriante dell’aria rigenerata.
Insieme alla Dawnay, tornò al campo il terzo giorno. «Adesso dovremo tentare di farne uscire una parte con Neilson,» disse lei. «Tutto questo va benissimo, ma è soltanto un fatto locale e, come hai potuto vedere, il clima non è stato affatto influenzato da una quantità così minima.»
«Non c’è proprio speranza che la Intel ne mandi agli altri?» Fleming guardò dal finestrino, reso opaco da un improvviso rovescio di pioggia tempestosa e sabbia.
«Nessuna,» disse la Dawnay, «non ne daranno ad alcuno, se non alle loro condizioni. E quali siano le loro condizioni, non l’hanno ancora detto. Ma posso immaginarlo.» Le sue parole furono coperte dall’urlo di una ventata che fece tremare la macchina. «Il tempo peggiora,» disse Madeleine, con una nota di allarme nella voce. «Mi domando se, dopotutto, abbiamo fatto bene. Ti accorgi di quello che sta succedendo, John?»
Fleming fece cenno di sì con il capo, sporgendosi per cercare di vedere la strada nascosta dalla foschia. «Stiamo lavorando sul mare qui intorno e in nessun altro luogo. Intanto vengono liberati milioni di metri cubi di azoto. Il che crea un cono di alta pressione in una zona localizzata; in tutti gli altri posti la pressione è dannatamente vicina allo zero, ed il primo batterio starà succhiando l’azoto rapidamente quanto noi lo immettiamo. In questo modo non ce la faremo mai; anzi, riusciremo solo a creare degli uragani.»
«Dio mio, come tutto questo mi fa sentire inutile ed impotente!» mormorò la Dawnay.
Per un’ora buona, Fleming guidò in silenzio, concentrandosi nello sforzo di avanzare con la macchina su di un terreno che altro non era, ormai, se non un caleidoscopio di fango, pioggia e sabbia.
A quindici chilometri circa da Baleb il vento cadde, malgrado continuasse a piovere. L’aria era stranamente limpida e faceva apparire gli oggetti molto più vicini di quanto non fossero in realtà.
«Guarda laggiù!» Fleming accennò con la testa verso le montagne sulla linea dell’orizzonte.
Nitide e aguzze, esse si profilavano più chiare di colore delle nuvole nere e violette che lambivano gonfie le loro creste. Proprio al di sopra, un’immensa nube grigia spiraliforme, con la parte più alta simile ad un fungo, continuava a cambiare di forma.
«Il centro del tornado,» disse la Dawnay, «noi siamo nella zona tranquilla che c’è sempre intorno. Preghiamo Iddio che non si muova in questa direzione.»
«Credo che la tromba sia proprio sul villaggio di Abu,» mormorò Fleming, «la sua famiglia la prenderà in pieno, se non hanno notato in tempo le nuvole che si radunavano e non si sono rifugiati nella grotta dove sta Neilson.»
Ma soltanto Lemka aveva raggiunto la grotta, quando il tornado si abbatté. Si era arrampicata per la collina portando il solito cestino di cibo per Neilson. Il professore, notando la calma anormale e le nuvole che si radunavano verso sud, le impedì di tornare indietro.
Sulle prime, Lemka protestò; sua madre ed il bambino sarebbero stati terrorizzati dalla tempesta. Oltre tutto, Yusel aveva promesso di venire per portare qualche notizia sulle possibilità di fare uscire Neilson con gli antibatteri di contrabbando. Ma quanto tutta la furia del tornado li spinse a rifugiarsi nel più profondo recesso della grotta, si acquietò e mantenne un silenzio spaventato.
«Suo cugino starà benissimo, e anche il resto della famiglia,» insisteva Neilson, con un ottimismo che non provava.
Ma le cose non andavano affatto bene per nessuno di loro. Yusel era arrivato alla casa di Abu poco dopo che Lemka era uscita con il cibo per Neilson. Avrebbe voluto partire più presto, nella speranza di riuscire ad accompagnare sua cugina perché aveva delle buone notizie per l’americano: il giorno seguente avrebbe potuto far passare un messaggio per Londra.
Nella sua eccitazione, non aveva fatto molta attenzione durante il viaggio; quindi non aveva visto, attraverso la pioggia e le tempeste di sabbia, una macchina che lo seguiva a circa un chilometro di distanza.
Di conseguenza, era assolutamente impreparato quando la porta della casa di Abu si spalancò e Kaufmann si precipitò dentro con due soldati. Senza aspettare ordini, questi lo afferrarono e, in un attimo, lo imbavagliarono, legandolo ad una sedia per i polsi e le caviglie.
Mentre la madre di Lemka si stringeva contro il muro, tenendo tra le braccia il bambino, Kaufmann cominciò metodicamente a colpire il volto di Yusel con il dorso della mano. I colpi non erano eccessivamente forti, ma continuarono a cadere senza sosta, prima da un lato della testa, poi dall’altro. Yusel cominciò ad essere stordito, quindi cadde in una semiincoscienza. Kaufmann fece un passo indietro, respirando pesantemente. Lo sguardo con cui gli occhi della vecchia donna lo fissavano, al di sopra del velo, lo metteva a disagio. C’erano stati altri, molti anni prima, che lo avevano guardato così — altri che forse avevano dovuto piegarsi per un poco, ma il cui spirito aveva continuato a sfidarlo. «Portate la vecchia ed il bambino fuori di qui,» ringhiò.
Appena un soldato ebbe spinto in cucina la donna con il bimbo, Kaufmann tolse il bavaglio a Yusel. «E adesso, abbi un po’ di buon senso,» disse, dandogli un altro schiaffo, per fargli riprendere i sensi. «Sono un uomo ragionevole, e non mi piace usare la forza, ma devi renderti conto che potrebbero succedere delle cose sgradevoli. Non accadrà nulla se risponderai ad una semplice domanda. Chi hai fatto entrare nel paese?»
Yusel lo fissò con occhi vitrei. Inghiottì saliva ed ebbe un attimo di esitazione; Kaufmann lo colpì di nuovo. La mente di Yusel vacillò. Il capo gli cadde in avanti e ancora una volta perse coscienza. Uno dei soldati lo fece rinvenire con una dolorosa stilettata di baionetta, e Kaufmann ripeté la domanda.
«Il professor Neilson,» mormorò Yusel.
Kaufmann rimase con il respiro mozzo. «Neilson!»
«Il padre,» balbettò Yusel, «il padre del giovane scienziato…»
Kaufmann chiuse un attimo gli occhi in un moto di sollievo. Per un terribile attimo aveva avuto l’impressione di vedere un fantasma. «Perché lo hai portato qui?» ringhiò. «E dov’è?»
Yusel rimase in silenzio. Guardò le mani di Kaufmann che si chiudevano in pugno e si alzavano lentamente all’altezza delle spalle. Abbassò la testa con vergogna e paura. «Nella grotta sopra il tempio,» mormorò.
«Spiegati meglio,» ordinò Kaufmann.
Una volta cominciato a parlare, Yusel trovò più facile proseguire. Quando si fermava, Kaufmann lo colpiva, oppure un soldato lo pungolava con la baionetta, fino a che non gli ebbero estratto l’intera storia.
Allora Kaufmann grugnì soddisfatto e si volse ai soldati. «Uno di voi lo porti giù, alla macchina. Tenetelo legato. E tu,» si volse all’altro, «vieni con me. Prenderemo questo americano.»
Uscì, accompagnato dal soldato. L’aria era ancora calma, ma, dalla loro destra, veniva uno strano suono basso, la cui nota calava, mutandosi nel rombo del vento. Ansioso di raggiungere la sua preda, Kaufmann gettò appena un’occhiata alla massa scura che si avvolgeva in spirale, sfiorando le creste delle colline più lontane, sul lato opposto della catena.
Il tornado li colpì quando furono in vista del tempio. Mezzo annegati sotto una valanga d’acqua, incapaci di reggersi diritti per il vento, strisciarono verso la scarsa protezione creata dalle grandi colonne di marmo cadute. E lì rimasero, appiattiti, tutti e due tremanti di una paura mortale, mentre la tempesta cessava improvvisamente come era cominciata.
«Torniamo indietro,» ansimò Kaufmann, «prima che venga un altro uragano. Vai a vedere se il tuo compagno ed il prigioniero stanno ancora bene. Io andrò ad accertarmi della vecchia e del bambino.»
Aveva una vaga idea di tenerli come ostaggi, ma, quando arrivò al villaggio, la casa non esisteva più. Il tetto piatto di pietra era volato via, facendo crollare le mura. Kaufmann si chinò a guardare attraverso il buco contorto che era stato una finestra, ma si voltò di colpo. Il corpo schiacciato di una donna non era una vista piacevole…
Trovò i soldati occupati con la macchina; l’acqua aveva bagnato i fili dell’accensione, e ci volle una buona mezz’ora prima che riuscissero a metterla in moto. Yusel giaceva sul sedile posteriore, imbavagliato e legato. Kaufmann passò il tempo dell’attesa in piedi, guardando ora verso il tempio, ora le rovine della casa, che era ormai la tomba della vecchia e probabilmente del bambino. La sua mente era piena di timore e, anche se non l’avrebbe mai ammesso, di qualcosa simile al rimorso.
Il motore tossì, ritornando in vita, poi rombò regolarmente. Kaufmann sedette accanto al guidatore. «Va’ più in fretta che puoi,» ordinò, «prima che un’altra tempesta ci colga nel deserto. E vai dritto alla residenza di Mam’selle Gamboul. Porterò lì il prigioniero. Mam’selle Gamboul vuole interrogarlo personalmente.»
Arrivarono che il cielo stava diventando di nuovo scuro come di notte. Mentre scendevano dalla macchina, udirono l’urlo di un secondo tornado, che si avvicinava dal lato opposto della città. Kaufmann corse al riparo, nella casa, lasciando Yusel nella macchina.
La Gamboul era seduta come sempre alla scrivania. Il suo viso era soltanto una macchia nel buio; l’elettricità non funzionava e le pesanti tende erano state strappate via dalle finestre, dove anche i piccoli pannelli dalla forma complicata erano caduti in pezzi.
Janine alzò il capo quando Kaufmann si avvicinò alla scrivania. «Ah, eccola qua,» disse con voce impaziente; «voglio che lei vada al campo appena la tempesta si placherà e telefoni a Vienna. Dica loro che ora comandiamo noi, e che dovranno prendere gli ordini da qui.»
Kaufmann non si mostrò sorpreso. «Non telefonerò a Vienna,» disse con deliberata lentezza. «Vi sono alcune cose nelle quali lei non può mischiarsi, e questa è una. Io mi ci sono trovato; ed ho notizie importanti.»
Janine si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra, mettendosi da un lato, per evitare i vetri rotti che potevano caderne.
«Ha paura anche lei, non è vero?» sogghignò. «Tutti temono la responsabilità, e non vogliono correre rischi. Oggi pomeriggio ho visitato la ragazza. Sta morendo, quella là. E sta vaneggiando, mentre muore. Mi ha detto che il calcolatore ha sbagliato, che il messaggio non diceva questo. Ma io lo so, Herr Kaufmann, io lo so! Il potere e la conoscenza sono nelle mie mani. Nessun altro li ha.»
Kaufmann traversò la stanza e le si mise accanto. In un punto della città era scoppiato un incendio. Malgrado la pioggia, il vento stava sferzando il fuoco, tramutandolo in un piccolo rogo.
«I rapporti su tutto quello che avete fatto nell’ultimo mese sono stati fatti uscire dal paese,» disse lui, «e c’è un uomo che è riuscito a rimanere qui per qualche tempo. Sta aspettando, per poter portare un campione dell’antibatterio a Londra.»
La Gamboul girò su se stessa. «Lei lo fermerà, naturalmente,» disse con tono minaccioso.
Ma Kaufmann scosse la testa. «Non lo farò.» La sua voce era quasi gentile, mentre proseguiva. «Lei è pazza. Ci porterebbe tutti alla rovina.»
«Povero piccolo uomo.» Janine non sembrava adirata, ma solo sprezzante. «Lei è come tutti gli altri. Non ha abbastanza immaginazione per capire. Venga qui!»
Improvvisamente, si mosse verso la porta a vetri che dava sul terrazzo e girò la maniglia per aprirla. Ma dovette poggiarvisi contro con tutta la sua forza per riuscire a muoverla contro vento.
«Venga!» ripeté, «venga a vedere gli elementi al lavoro. Al lavoro per me!» Kaufmann rimase ostinatamente dov’era.
«Ha paura?» rise lei. «Non è il caso. Non ci toccherà. Non può.»
Uscì camminando maestosamente sul balcone, con i capelli che le svolazzavano scoprendole la fronte, e si fermò davanti alla balaustra, alzando le braccia aperte verso il cielo. Kaufmann udì il suono della sua risata estatica confondersi con l’ululato del vento.
Per un impulso improvviso, andò verso la porta-finestra e la chiuse. Il fracasso che veniva da fuori si acquietò, come se si fosse allontanato. Ma, con uno scoppio inatteso, il rumore si spiegò di nuovo in un crescendo terribile, mentre la vecchia casa tremava. Un pezzo di cornicione cadde sul balcone, spaccandosi in mille pezzi.
Kaufmann vide la Gamboul guardare per terra un pezzo di marmo scheggiato, proprio mentre una cascata di sabbia la colpiva. Essa si chinò rapidamente, coprendosi gli occhi con i pugni chiusi. Accecata, avanzò inciampando verso la finestra, e cominciò a battervi contro. Lo spesso vetro decorativo si ruppe. I pugni di lei colavano sangue. Kaufmann poteva vedere la sua bocca che si apriva e si chiudeva, mentre gridava contro di lui.
Si ritirò nella parte più oscura della stanza, guardando impassibile. Le ventate arrivavano più veloci, adesso, e alla fine cominciarono a confondersi una con l’altra. La casa gemeva e tremava. Poi successe: una massa rombante di pietra frantumata che crollò sul balcone e, staccandolo dai suoi sostegni di cemento, lo trascinò di sotto, nel cortile. La polvere dei detriti si mischiò con sabbia simile ad un turbine di fumo. Kaufmann si mosse e andò a premere con aria miope la faccia contro i vetri rimasti, per vedere quello che era successo.
In basso, tutto era indistinto, ma gli sembrò di scorgere un corpo contorto in mezzo ai detriti. Continuò a guardare per qualche minuto. Non provava niente di simile all’inquietudine che gli aveva dato la vista della vecchia araba morta. Finalmente, si cercò una sedia lontana dalle pareti pericolanti. Con mano fermissima, accese un sigaretto.
«Quando la tempesta sarà passata,» disse ad alta voce nella stanza vuota, «chiamerò io stesso Londra. C’è materia per trattare con gli inglesi.»
Si accigliò, sperando che questo non rappresentasse un problema troppo grave; la professoressa Dawnay era forse influenzabile, ma Fleming era un avversario formidabile. Dopotutto, c’erano stati tanti sfortunati incidenti tra loro, nel passato. La mentalità inglese, quando si fermava ostinatamente fissa su di un’idea, era sempre stata incomprensibile per lui.
La tempesta si calmò, le nuvole si diradarono, e la luce tornò, malgrado che il vento continuasse a soffiare forte come prima. Kaufmann scese nel cortile. Yusel era stato portato nello scantinato, riferì una guardia. Kaufmann sentì se stesso dare ordine di sorvegliarlo ma di trattarlo convenientemente, poi andò a guardare il corpo della Gamboul. Giaceva contorto e spezzato tra i pezzi di pietra del cornicione, ed i suoi occhi scuri, segnati di sangue, lo fissavano senza vita.
Una delle macchine non aveva subito danni, così Kaufmann ordinò all’autista di portarlo al campo del calcolatore. I disastri che trovarono sulla strada, uscendo dalla periferia della città, erano impressionanti. Qualche gruppo isolato di arabi stava saccheggiando i negozi devastati; si nascosero all’apparire dell’automobile con le insegne della Intel. Non vi erano truppe né polizia in giro.
Gli edifici bassi e solidi all’interno del campo sembravano abbastanza intatti: qualche finestra era stata sradicata e le appariscenti decorazioni moderne all’entrata degli uffici erano state danneggiate. Kaufmann le sorpassò, dirigendosi verso il laboratorio.
La Dawnay era sola, stava iniettando l’antibatterio in una fila di provette. Il fitto disordine degli apparecchi posti su ogni banco e tavolo, arrivati appena ordinati, era stranamente rassicurante, dopo la desolazione all’esterno.
«Ah, professoressa Dawnay!» disse Kaufmann raggiante, «non ha avuto danni dall’uragano, come vedo.»
«No,» rispose secca Madeleine.
«Devo informarla,» continuò lui, «che Fraulein Gamboul è morta.» Osservò con divertimento il suo sguardo stupefatto. «È stata uccisa dal tornado. Adesso sono io il principale rappresentante della Intel in questo paese. E le chiedo di aiutarmi. Le nostre misure contro il batterio che causa il maltempo: sono riuscite, vero?»
«Sembrerebbe così; per il momento, e nel mare circostante,» rispose lei.
«Wunderbar!» esclamò Kaufmann. «Dovunque le cose stanno andando di male in peggio — a meno che non diamo loro il suo rimedio.»
«Ed al più presto.»
Kaufmann annuì. «Questo è quello che pensavo.» Abbassò la voce. «Sa, professoressa, Fraulein Gamboul era pronta a fare andare avanti le cose così fino a che il mondo non avesse accettato le sue condizioni, le sue spaventose condizioni. Era pazza, naturalmente. Sapeva che ha ucciso Salim, che gli ha sparato lei stessa? Era una donna invasata. Avrebbe ceduto troppo tardi; saremmo morti tutti.»
La Dawnay lo guardò freddamente. «È ancora possibile.»
Kaufmann si leccò nervosamente le labbra e si tolse gli occhiali, pulendone le lenti più volte. «C’è stato un appello alla radio, da Londra. Io intendo rispondere appena saranno riallacciate le comunicazioni. E le proverò che sono in grado di aiutare, mandando loro il suo rapporto sull’antibatterio. Il professor Neilson lo porterà con il primo aereo disponibile.»
Notò il sussulto e lo sguardo di lei.
«Oh, sì,» riprese trionfante, «so tutto del fatto che il professor Neilson sta qui. So anche che non avrà voglia di credermi. Non capisce ancora che io sono soltanto un uomo d’affari, ed un buon uomo d’affari guarda oltre le calamità, verso cose migliori.»
Madeleine non riuscì a nascondere il proprio sollievo. «Così il professor Neilson potrà spiegare in che modo utilizzare i rifornimenti di antibatterio che manderemo al mondo?»
Kaufmann scosse la testa con aria impaziente. «Non immediatamente,» disse, «la gente sarà pronta a pagare una grande quantità di soldi. Le ho già detto che sono un uomo d’affari.» Si volse verso la porta. Il suo sorriso era scomparso. «Prepari un rapporto scritto a macchina perché possa essere spedito fra un’ora.»
Per qualche minuto, la Dawnay continuò il proprio lavoro come un automa. Non aveva tenuto conto del fatto che Kaufmann potesse tirare sul prezzo della vita.
Si avviò verso il fabbricato del calcolatore, in cerca di qualcuno con cui parlare; il grande ingresso era stato superficialmente danneggiato e anche la torre di raffreddamento, ma il calcolatore era intatto. Non c’erano più sentinelle; solo un elettricista le venne incontro, uscendo dalla stanza di riposo dei tecnici. Disse di non sapere dove potesse essere il professor Fleming. Il dottor Zeki, egli credeva, se ne era andato immediatamente dopo il primo uragano del pomeriggio, per vedere la sua famiglia.
Madeleine lo ringraziò, e si avviò verso l’infermeria. L’infermiera aveva costruito una barricata provvisoria di schermi davanti alle finestre rotte. La ragazza sorrise di sollievo nel vedere finalmente qualcuno.
«La signorina André ha dormito fino ad ora,» sussurrò. «Mi sembra che stia un poco meglio.»
Madeleine sedette accanto al letto; l’infermiera aveva ragione; per quanto cattiva fosse la luce, poté vedere che il colorito di André era migliorato.
«Comincia — comincia a funzionare?» André non aveva aperto gli occhi né mosso le labbra, mentre mormorava la domanda.
La Dawnay prese tra le sue la fragile mano. «Sì, funziona,» mormorò. «Il barografo del laboratorio continua a salire. Ma quanto durerà, non lo so.»
André cercò faticosamente di sedere. «Non era nel messaggio che noi dovessimo…» Si fermò e ricadde sui cuscini, esausta. «Ho tentato di dirlo alla… ma non mi ha ascoltato. È venuta l’altra notte. Le ho detto di dare retta a me, e non al calcolatore. Ma…»
«Vuoi dire la Gamboul?» disse Madeleine quietamente. «È morta, André. Ora c’è Kaufmann in carica.»
André annuì piano, come se lo sapesse. Le sue dita cercarono quelle della Dawnay. «Mi crede?» domandò. Vide Madeleine che annuiva; le sue dita si aprirono, ed ella giacque ad occhi chiusi ancora una volta. «Mi dica quello che è successo ed io le dirò cosa fare.»
Più rapidamente possibile, Madeleine le dette un rapido ragguaglio della situazione, per quanto ne sapeva. Mentre stava terminando, pensò che André si fosse addormentata o fosse entrata in coma, tanto a lungo la vide rimanere immobile. Ma, dopo almeno cinque minuti, la ragazza prese a parlare in tono monotono.
La Dawnay la ascoltava intenta; la responsabilità che André stava gettando sulle sue spalle era tremenda. Era una cosa da intimidire chiunque, ma anche esaltante. I motivi razionali e logici erano l’unica cosa che la sua mente scientifica desiderava. Quando André ebbe finito, si limitò ad una breve risposta.
«Vado immediatamente.»
Mezz’ora dopo, era già al palazzo presidenziale e chiedeva ad un cameriere di condurla immediatamente dal presidente. Era arrivata con una macchina che aveva guidato lei stessa, dopo averla prelevata dal parcheggio della Intel, dove era una delle poche non danneggiate. Per la prima volta si trovava di nuovo davanti ad un volante, dai giorni della sua gioventù, quando ancora studiava. La sua andatura incerta non creò nessun problema; l’acqua aveva distrutto la strada in molti punti; i detriti delle case pericolanti dovevano essere continuamente evitati. Davanti al palazzo non c’erano guardie.
Il presidente la ricevette immediatamente. Era seduto sulla solita sedia dallo schienale rigido ed alto, ed appariva più vecchio di molti anni, rispetto al giorno in cui lo era andata a trovare.
La sua cerimoniosa cortesia non era cambiata; si alzò, si chinò sulla sua mano e le indicò una sedia. Il piccolo servo negro era ancora fedelmente al suo posto. Il presidente gli disse di andare a vedere se poteva trovare qualcuno che facesse del caffè. Poi tornò alla propria poltrona.
«Il paese sta morendo, professoressa Dawnay,» disse semplicemente.
«L’intero mondo, forse,» replicò lei. «È per questo che sono venuta. Lei ha il potere di aiutarci. È stato informato del fatto che la signorina Gamboul è morta?» Il presidente annuì. «E così siete liberi.»
«Liberi!» esclamò lui amaramente. «È un po’ tardi.»
«Forse no,» insistette lei. «In parte dipende da lei, Eccellenza. Se l’antibatterio che ho costituito viene usato dalla Intel, e se funziona, allora avremo un mondo della Intel. Kaufmann fisserà un prezzo prima di cederlo.»
«Mi è stato detto molto poco, ma ho potuto capire ugualmente il corso che hanno preso le cose. Cosa posso fare per fermare questo Kaufmann? È come gli altri: Salim, Mam’selle Gamboul…»
«Tratteremo con Kaufmann,» promise la Dawnay, «mentre lei manderà all’estero l’antibatterio, come dono dell’Azaran. Sarà il primo atto di una nazione libera.»
Egli la fissò con i suoi occhi tristi ed intelligenti. «Oppure l’ultimo,» suggerì.
«No, se tutti i laboratori del mondo ne riceveranno una scorta. In questo caso avremmo una speranza. Se riusciremo a farlo nel modo giusto, attraverso le persone giuste.» Pensò alle lunghe battaglie combattute con le autorità, a Thorness. «Da quando il messaggio è stato ricevuto, ed un calcolatore costruito per spiegarlo, poche persone hanno lottato con tutte le loro forze per mantenere questo potere lontano dalle mani sbagliate e metterlo in quelle giuste.»
«E cosa sono le mie?» chiese lui mitemente.
«Quello che noi ne faremo per lei!»
Il ragazzo negro entrò con un vassoio. Il presidente versò il caffè e ne porse una tazza alla Dawnay. Prima di parlare, sorseggiò lentamente il proprio.
«E così, voi siete nel giusto?» mormorò, fissandola acutamente. «E verso chi sarete responsabili? Centinaia di migliaia di persone sono morte a causa — mi perdoni — di questi vostri esperimenti.»
Madeleine sentì il sangue che le arrossava le guance ed il collo; segno visibile dei suoi sentimenti e del suo enorme senso di colpa. «È stato un incidente,» disse goffamente. «Sarebbe potuto avvenire in qualsiasi esperimento. Ho commesso un errore.»
Un poco del fuoco degli anni rivoluzionari accese brevemente il volto del presidente, mentre si alzava in piedi, di fronte a lei.
«Altre centinaia di migliaia dovranno forse morire per correggere il suo errore,» disse, «gli errori dei politici sono a volte costosi, e talvolta gli uomini d’affari fanno del loro meglio per profittarne. Ma voi scienziati siete in grado di uccidere una metà del mondo. E l’altra metà non può vivere senza di voi.»
La sua ira si acquietò. Sospirò e si permise un leggero sorriso. «Sono nelle sue mani, professoressa Dawnay. Mi perdonerà se aggiungo, però, che preferirei non fosse così.»
La Dawnay tornò al campo decisa a modificare gli eventi nel modo che sapeva essere necessario; ma la responsabilità che si era assunta la spaventava. Sentiva acutamente il bisogno della catarsi che la mente critica di John di solito provocava in lei.
Lo trovò nell’area dei servizi, dietro il calcolatore. Stava lavorando ad un tavolo coperto di carte.
«Ciao,» le disse pigramente, «mi sono scavato un buco qui, al riparo dalle brezze del deserto e dalle interruzioni.» Guardò il suo orologio da polso. «Dio, guarda che ora è! Ho cercato di lavorare a questa cosa per André. Ho già fatto la maggior parte delle conversioni chimiche. Ma non ne viene fuori niente di comprensibile, maledizione.»
Le lanciò dei fogli. Madeleine li scorse rapidamente.
«Se fosse sbagliato, sarebbe letale,» disse brevemente.
«Sta morendo comunque, no? Ho provato in tutti i modi…»
Madeleine lo interruppe impaziente. «John, non c’è tempo per questo.»
Fleming la guardò. «Usatela e poi buttatela, eh?»
Madeleine arrossì. «C’è qualcosa che deve venire prima. Oppure hai dimenticato quello che sta distruggendo tutto il resto del mondo?»
«No, non l’ho dimenticato,» rispose lui.
«Abbiamo fatto una quantità di errori,» continuò lei. «Tutti e due. Sto cercando di rimettere le cose a posto perché è l’unica speranza che abbiamo. Quello che succederà del mondo dipenderà da noi, dal fatto che riusciamo ad avere la meglio o che ci riesca Kaufmann.»
Il ghigno di lui fu sardonico. «Hai avuto anche tu il trattamento, come la Gamboul?»
«La Gamboul è morta,» disse Madeleine senza espressione.
«Morta?» Fleming balzò in piedi. «Allora la macchina è saltata! Ha fatto un tentativo con noi ed ha fallito!»
Madeleine scosse la testa.
«Non è andata bene lo stesso. La Gamboul doveva soltanto proteggerci fino a che non fossimo in grado di usare il nostro giudizio.»
Fleming accennò verso i massicci pannelli del calcolatore.
«O il suo…»
«Il nostro giudizio, John,» ripeté lei. «Siamo noi a prendere le decisioni, ora. Non capisci che questo può essere l’inizio di una nuova vita?»
Fleming raccolse le carte che erano sul tavolo in un mazzo disordinato. «Meno che per André,» disse duramente.
«Dovrà aspettare. C’è tanta altra gente che sta morendo, insieme a lei.»
Fleming dovette accettare la logica del ragionamento, pur non cessando di soffrirne. Ammirava Madeleine e le era amico; proprio per questo, fu ancora più nauseato dalla ben nota e corruttrice aria di potere, che ora sentiva aleggiare intorno a lei.
«Al diavolo tutto,» disse, «non riesco più a pensare, stasera. Sarà meglio che cerchiamo di dormire un poco, prima che il vento ci porti via il tetto.»
Uscirono insieme dal fabbricato. La zona residenziale era un ammasso di fango e di detriti. Ma le loro case potevano ancora servire da rifugio. Fleming diede la buonanotte a Madeleine e se ne andò verso il proprio bungalow. Le finestre erano state staccate dal vento ed egli poteva vedere, oltre le palme sul davanti, l’edificio dell’infermeria. L’infermiera aveva trovato da qualche parte una lanterna antivento; era l’unica luce nell’oscurità più fitta, una pallida macchia giallastra, che attirava i suoi occhi come una calamita, ipnotizzando il suo cervello. Cadde in un dormiveglia, pensando alla vita che ancora pulsava vicino a quella debole fiamma.
Fu svegliato da Abu Zeki.
«Sono successe tante cose,» disse Abu, lottando per controllare le proprie emozioni. «L’uragano, ieri. È stato terribile, sulle montagne. La mia casa è distrutta.»
Fleming si alzò a sedere. «E la sua famiglia?»
«Lemka e Jan — loro sono vivi. Mia suocera, è morta.» La voce di Abu si ruppe. «Si era buttata per terra con il piccolo sotto di sé, tra le braccia. Quando sono arrivato ho creduto che fossero tutti e due morti. Poi Jan ha cominciato a piangere. Era coperto di sangue. Del sangue di sua nonna.»
«Dov’era Lemka?»
«Nella grotta con il professor Neilson. Era andata a portargli del cibo. Neilson l’ha costretta a rimanere, quando è scoppiato l’uragano. Sono arrivati al villaggio proprio appena avevo ripreso Jan. Temo che Lemka sia molto amareggiata su tutto quello che lei e la professoressa Dawnay… che tutti noi abbiamo fatto qui.»
«Non amareggiata, Abu, soltanto nel giusto.» Fleming sentiva la ben nota sensazione di disperazione afferrarlo. «È inutile dire che mi dispiace. Che ne è di Yusel e di Neilson?»
«Yusel è in salvo, per ora. Era andato a casa mia per parlare sul modo di portare fuori l’antibatterio con il prossimo volo. Ma Kaufmann lo aveva seguito. Lo hanno picchiato. Poi lo hanno riportato a Baleb. Suppongo che sarebbe rimasto ucciso sotto le macerie della casa, se non lo avessero fatto. Subito dopo, mentre stavo sistemando mia moglie ed il bambino nella casa di una vicina, è arrivato in una macchina della Intel. Kaufmann lo aveva rimandato indietro, con una lettera per Neilson. È stato Yusel a darci la notizia che Mam’selle Gamboul era morta.»
«Una lettera per Neilson!» esclamò Fleming. «E che diceva?»
«Kaufmann lo voleva vedere. Gli prometteva che non ci sarebbe stato pericolo per lui. Yusel insisteva sul fatto che doveva essere una trappola, ma il signor Neilson ha detto che voleva andarci. Così l’ho portato con me. Ora sta aspettando che Kaufmann arrivi da Baleb; è nell’edificio degli uffici.»
Fleming si buttò giù dal letto. «Andrò lì anch’io. Sarà bene che venga anche lei, Abu. Se si tratta di uno dei soliti scherzi di pistola di Kaufmann, voglio esserci anch’io.»
Tutti e due corsero verso il fabbricato degli uffici. Nella nitida luce dell’alba, la facciata danneggiata appariva sporca e volgare. Anche nella vasta sala d’ingresso c’erano stati dei danni notevoli, alcuni dei quali erano evidentemente il risultato di un saccheggio, da parte delle sentinelle demoralizzate.
«Kaufmann sarà certamente seduto nella poltrona del capo — nell’ufficio della Gamboul. Sarebbe meglio che lei aspettasse qui, Abu. E ci avverta se arriva qualcuno.»
Corse veloce su per le scale. Una delle doppie porte dell’ufficio del direttore era leggermente socchiusa; Fleming camminò rasente al muro, fino a che non riuscì a sentire le voci.
Quella gutturale di Kaufmann era untuosa e gentile. «L’aereo arriverà da Vienna, io lo spero, professor Neilson,» stava dicendo. «Dovrebbe arrivare molto presto. Il carico sarà fatto immediatamente. Deve aspettarsi un volo molto scomodo, temo. Le condizioni sono piuttosto cattive dovunque.»
«Qualche prova scritta delle sue proposte?» chiese freddamente Neilson.
«Sono riuscito ad ottenere una lettera del presidente,» disse Kaufmann, «il che rende la cosa ufficiale; ma, naturalmente, tutto sarà fatto da noi.»
Questo era proprio il tipo di commercio che Fleming stava aspettando. Spinse la porta ed entrò. Kaufmann alzò gli occhi, sussultò, quindi riprese a parlare come se non l’avesse visto.
«Noi, cioè la Intel, fabbricheremo l’antibatterio e lo venderemo, ma non obbligheremo tutti gli altri esseri umani a stare alle nostre condizioni; questa era l’idea di Fraulein Gamboul. Io l’ho impedita.»
Fleming fece un passo avanti. «Non è nella posizione di dispensare la carità, Kaufmann.»
«E lei non è autorizzato a stare in questo ufficio senza permesso,» ribatté Kaufmann.
«Non ci sono più i soldati dell’Azaran a proteggerla, adesso,» disse Fleming, «e nemmeno un portiere.» Si avvicinò a Neilson, in modo che entrambi si trovarono di fronte al tedesco.
Kaufmann estrasse la scatola dei sigaretti e ne prese uno. Tenne il fiammifero acceso sulla punta più del necessario; la mano gli tremava un poco.
«È inutile mantenere dei vecchi rancori,» disse, spostando il sigaretto. «Si fa quello che è stato ordinato dalla gente per la quale si lavora. Si fa quello che ordinano. Ma, nello stesso tempo, si cerca anche di fare il meglio possibile.» Nella sua voce ci fu un tremito, mentre fissava a disagio i suoi visitatori.
Neilson si alzò, afferrandosi al bordo della scrivania. Le sue nocche erano bianche per la forza con la quale stringeva il legno.
«Lei ha ucciso mio figlio,» disse con calma simulata. «È stato ucciso davanti agli occhi di sua madre ed ai miei, dietro suo ordine. Se ne avessi avuto i mezzi e lei non mi fosse necessario per farmi uscire dal paese, l’avrei ucciso nel momento in cui sono entrato in questa stanza.»
«Per favore!» disse Kaufmann.
«Come è morta la Gamboul?» chiese secco Fleming.
«Il balcone della casa. È caduto. Io ero lì; l’ho visto. Era pazza, completamente pazza. Non ho potuto salvarla.»
«Ci ha provato?»
«No,» gridò il tedesco. «Avrei potuto tirarla dentro la stanza quando il cornicione cominciò a cadere. Ma non l’ho fatto. Ho preferito salvare…»
«…La sua pelle!»
«Il mondo!» Kaufmann si alzò e li fronteggiò con aria di sfida, attraverso la scrivania. Vide un debole sorriso di derisione sul volto di Fleming, e nessun sorriso su quello di Neilson; prima che uno dei due potesse muoversi, girò intorno alla sedia e si lanciò verso una piccola porta che si apriva su di una scala privata. La spalancò, ma arretrò subito. Yusel era lì, senza espressione alcuna in viso, con un curvo pugnale beduino nella mano destra. Kaufmann tornò verso la scrivania. «Non potete mettervi in mezzo in questo modo! Io sto facendo un affare onesto. Sto cercando di aiutare tutti voi!»
Fleming andò verso la finestra. «Il tempo si mantiene,» disse. «L’aereo dovrebbe farcela. Prima che arrivi, lei avrà provveduto a dare l’aiuto del quale parla. Confermerà gli ordini per la partenza del professor Neilson. Si assicurerà bene che l’aereo arrivi a Londra. Questa è l’ultima cosa che ha da fare qui. Cominci.»
Kaufmann ebbe un attimo di esitazione, poi annuì. Prese una penna, poi si chinò verso un cassetto, come per cercare della carta.
Si era mosso ad una velocità sorprendente; si raddrizzò con una pistola in mano, e retrocedette verso la porta.
«Non è la vostra partita, signori,» li sfidò, «fareste meglio a lasciar perdere.» Si volse e scese di corsa le scale.
Fleming e Neilson gli furono immediatamente dietro, ma il tedesco aveva un poco di vantaggio, ed arrivò correndo al piano di sotto. Il grido di avvertimento di Fleming coincise con il rimbombare di un colpo di pistola. Abu cadde rannicchiato a terra. Ma lo slancio di Kaufmann nella corsa era stato tale, che non riuscì a fermarsi in tempo e piombò a testa in avanti sul corpo della sua vittima.
Prima che riuscisse a rialzarsi, Neilson fu su di lui, immediatamente seguito da Yusel. Il pensiero di Fleming fu per Abu; si chinò e lo prese tra le braccia. La testa di Abu cadde all’indietro, ed il sangue uscì come un fiotto di vomito dalla bocca. Fleming non riuscì a capire se gli occhi che lo fissavano non vedessero più, o cercassero ancóra di comunicargli un messaggio. Con delicatezza, depose il corpo sul pavimento.
Neilson stava colpendo Kaufmann come un pazzo. «Lo lasci!» gridò Fleming. Si avvicinò al tedesco che piangeva e gridava. «Non la uccideremo,» disse, «c’è già, a Ginevra, un’accusa di omicidio su di lei, e anche in altri tribunali, se non sono stati tutti distrutti.»
«Non sono stato io a far succedere le cose,» gemette Kaufmann, «dovevo obbedire.»
Fleming si voltò, incapace di sopportarlo. «Tienilo, Yusel,» disse, «portalo all’aeroporto. Prendi la sua pistola; non darà più noia.»
«Aspetti!»
Si volsero tutti insieme e videro la Dawnay che era ferma sulla porta d’entrata.
«Cosa fate tutti qui?» domandò lei. Poi vide il corpo di Abu. Fleming le dette qualche spiegazione, quindi accondiscese a salire con lei al piano di sopra, nell’ufficio principale.
«Venite anche voi,» ordinò Madeleine a Neilson ed a Kaufmann. Yusel era uscito e stava rientrando con un panno bianco, col quale coprì il corpo del cugino morto. Andarono tutti nell’ufficio della Gamboul e la Dawnay si sedette alla scrivania, di fronte a Kaufmann, sorvegliato da Yusel. Fleming, a disagio, andò verso la finestra, ma ella lo richiamò indietro.
«John,» disse Madeleine, «non è così semplice come puoi pensare; non abbiamo ancora finito con Herr Kaufmann.»
Fissò la faccia ammaccata e avvilita di Kaufmann. «A chi ha fatto rapporto a Vienna?»
Il tedesco non rispose subito, ma quando vide la Dawnay alzare lo sguardo su Yusel, cambiò idea.
«Al Consiglio dei direttori,» disse cupo.
«Al quale ha riferito della morte della Gamboul?»
«Sì.»
«E chi comanda ora qui?»
Kaufmann guardò per un attimo altrove. «Io.»
«Ma lei non è direttore.»
Il tedesco si raddrizzò con un ritorno di sicurezza: «Sono in carica temporaneamente.»
«E fino a quando?» domandò la Dawnay. Ci fu un’altra pausa.
«Farebbe meglio a dircelo con le buone,» disse Fleming.
«O preferisce che le rompa il collo?» aggiunse Neilson.
«Ci sono tre direttori in arrivo, sull’aereo di oggi da Vienna.» Kaufmann si rivolse unicamente alla Dawnay, cercando di capire se sarebbe stata più indulgente. Madeleine non parve affatto sorpresa.
«Tre?»
«Sarebbero dovuti venire prima!» Kaufmann cominciò a parlare velocemente, sempre più eccitato. «Fräulein Gamboul non era all’altezza. La cosa l’aveva sconvolta, ma non avrebbe voluto nessuno al fianco. Abbiamo avuto dei dirigenti ridicolmente inferiori alla grandiosità del progetto; ma lei aveva molta influenza sul presidente.» Strizzò leggermente un occhio nel modo furbo di chi la sa lunga. «Era una donna affascinante. Ma ora è tutto diverso; io ho messo ogni cosa su un regolare piano d’affari. Avremo direttori, funzionari ed assistenti… ne porteranno molti, oggi.»
«Davvero?» chiese la Dawnay con interesse.
«Certo. Ed ogni genere di rinforzo di cui ci sarà bisogno. E così…» Si volse trionfante verso Fleming e Neilson, ma la Dawnay lo interruppe.
«Così dovremo mettervi tutti sotto sorveglianza,» disse calma. «È una cosa che si può fare. Nel frattempo, appena l’aereo sarà arrivato, lei ci aiuterà a spedire a Vienna per telex un messaggio nel vostro codice.»
«Per dire cosa?»
«Che sono arrivati sani e salvi, che tutto va bene, e che non avrete bisogno di altri aiuti. Ci darà anche i nomi e tutti i particolari necessari sul vostro presidente e su tutti i direttori in Europa e tutti gli indirizzi ed i numeri di telefono che si troveranno qui, nell’ufficio.» Si volse al collega americano. «Io le darò un rapporto da portare a Londra, professore, e tutto l’antibatterio che potrò procurare. Dovrebbero riuscire a farla arrivare prima di notte.»