2 Il fronte del freddo

L’ambasciata dell’Azaran era facilmente identificabile in mezzo alla lunga fila di case edoardiane, i cui occupanti ed affittuari amavano dichiarare di vivere nel quartiere Belgravia, mentre il loro indirizzo postale era, in realtà, quello di Pimlico. Era una costruzione che si notava, con i suoi stucchi cadenti e crepati, riparati e pitturati di un lucido color crema. Sulla facciata, inoltre, facevano bella mostra una sfarzosa bandiera, ed una lucidissima targa di ottone.

L’interno era lussuoso. Lo studio dell’ambasciatore era ammobiliato con quella perfezione di gusto e quegli oggetti sfarzosi, che sono possibili soltanto quando il denaro non costituisce un problema. E l’Azaran, durante gli ultimi, pochi anni, aveva navigato verso una prosperità superficiale e temporanea sul piccolo lago di petrolio che i geologi inglesi avevano scavato nel deserto.

Il colonnello Salim, suo rappresentante accreditato alla corte di San Giacomo, era stato l’uomo forte dei militari nella rivoluzione del suo paese. Aveva dovuto lavorare duramente per rendersi indispensabile a quell’idealista, che il fato e l’intrigo avevano fatto diventare presidente, e il presidente, per ricompensa, gli aveva offerto un posto in diplomazia: nella migliore sede a disposizione. Per essere esatti, l’Azaran non si preoccupava molto per lo stato delle sue ambasciate in tutti gli altri paesi d’Europa, ma non dimenticava che la Gran Bretagna, per il momento, era la padrona della sua economia nazionale.

A Salim piaceva vivere in Occidente; ma questo cambiamento dalla forza alla diplomazia, non gli andava giù. Era un uomo duro e, in un certo senso, un idealista genuino; ma aveva dimenticato i precetti della propria religione abbastanza da amare i liquori e temperato le fiere credenze della sua razza tanto da prendere gusto alle donne occidentali. Ma, più di ogni altra cosa, era stato impressionato dal modo in cui gli europei usano le loro ricchezze. Nel suo paese, la ricchezza veniva sfarzosamente ostentata. Ma in Occidente, essa era sfruttata per ottenere qualcosa di infinitamente più desiderabile: il potere.

Ed era proprio la prospettiva di un potere illimitato che spingeva Salim a passeggiare ininterrottamente nel suo studio, in quella grigia sera d’inverno. Stava diventando piuttosto fiacco, a forza di vivere comodo e di lavorare al tavolino. Il grasso cominciava a depositarsi sui suoi fianchi e intorno al mento, sotto la sua bella faccia bruna. Tuttavia, si sentiva ancora abbastanza giovane. Non era soltanto la vanità a suggerirgli di essere tuttora un uomo notevole.

Si volse vivacemente quando sentì un cameriere entrare ed annunciare che Herr Kaufmann desiderava vederlo.

«Lo faccia entrare,» ordinò Salim. Svelto, sedette alla propria scrivania ed aprì una cartella.

Il cameriere tornò con il visitatore. Kaufmann era alto, e si teneva rigidamente eretto. Salim riconobbe il portamento da militare; probabilmente un ex giovane ufficiale nazista oppure un ex sergente, probabilmente in un reggimento di prim’ordine delle S.S. A Salim questo non importava. C’era stata un’occasione, nel lontano 1943, in cui egli aveva fiduciosamente assicurato ad un emissario di Rommel che, quando i tempi fossero stati maturi, avrebbe saputo portare l’esercito dell’Azaran dalla parte dei tedeschi.

«Signor Kaufmann!» esclamò, porgendogli la mano, «si metta comodo.» Salim era piuttosto orgoglioso della propria padronanza delle forme gergali inglesi. Suscitavano un atteggiamento amichevole, egli ne era convinto.

Kaufmann si inchinò leggermente con il solo tronco, e sorrise. I suoi chiari occhi celesti, ingranditi dalle spesse lenti non cerchiate degli occhiali d’oro, stavano considerando ed approvando tutto, sulla scrivania e nella stanza.

Continuò a sorridere, mentre mormorava deferente che gli era stato ordinato dai suoi superiori di assistere l’ambasciatore.

«Quelli della Intel,» annuì Salim, «che altro le hanno, detto?»

Kaufmann gli rese lo sguardo senza battere ciglio. «Niente altro, Eccellenza.»

Salim gli porse una scatola d’argento, pesantemente lavorata. «Vuol fumare?»

L’altro trasse un pacchetto dal taschino interno della giacca: «Questo, se non le dispiace.» Scelse un piccolo sigaro quasi nero, e lo accese.

Salim si alzò e traversò la stanza, andando verso un tavolino, sul quale erano in mostra alcune fotografie dell’Azaran.

«Le interessa l’archeologia, signor Kaufmann?» domandò. «Da noi c’è una particolare abbondanza di rovine: templi greci, stadi romani, moschee turche, castelli di crociati, trincee anticarro inglesi. Sono tutti passati da noi.» Volse gli occhi verso Kaufmann. «E ora la Intel. I suoi superiori cominciano a provare un profondo interesse per il mio piccolo ed inoffensivo paese.»

Kaufmann emise una nuvola di fumo, che investì Salim; questi fece un gesto di fastidio. «E se i nostri impiegati stessero davvero tenendo aggiornate le loro informazioni commerciali? Come fanno di solito, si intende. Questo sarebbe importante per voi?»

Salim abbassò la voce. «Non è cosa nuova che degli interessi industriali finanzino un paese ribelle. E noi proponiamo di rompere con gli interessi del petrolio britannico, signor Kaufmann. Il loro operato non è stato molto brillante. Noi crediamo che voi possiate offrire qualcosa di più del petrolio.»

Kaufmann scosse pensosamente la cenere dalla punta del suo sigaretto.

«E per noi, quali garanzie?» chiese.

Salim si stropicciò le mani. «Siamo franchi. Voi siete un’organizzazione commerciale. Probabilmente la più grande impresa commerciale mai esistita. Quali siano veramente i cartelli ed i gruppi implicati con voi, nessun governo occidentale è stato capace di scoprirlo. Holdings, compagnie, trattative segrete, accordi privati, monopoli apparenti, uffici registrati in paesi piccoli e tolleranti. Ma che bisogno ho di dirle tutto ciò? Lo sa. Sa anche che, con il Mercato Comune e la crescente tendenza dei governi a collaborare, l’organizzazione della Intel avrà più difficoltà a proseguire nella sua maniera privata. Nessuno ama molto le imprese di tanto successo.»

«Questo può essere vero,» acconsentì Kaufmann.

«Le vostre sedi conosciute sono in Svizzera,» continuò Salim. «Ho letto l’altro giorno con interesse come, sia il Cantone che il Governo Federale, stiano diventando impazienti sulla questione delle tasse sui redditi. Si è anche accennato a leggi che permettano di indagare più a fondo sui conti, e così via. Sembra che i vostri direttori si incontrino di solito a Vienna, capitale di un paese tollerante e non compromesso. Ma l’Austria non vorrebbe — né potrebbe — rischiare di ignorare le pressioni dei suoi potenti vicini. Voi siete, in realtà, un’organizzazione senza dimora.»

Kaufmann non sembrò impressionato. «Abbiamo sedi in almeno sessanta paesi; e grande influenza in altrettanti.»

«Le vostre sedi sono semplicemente uffici commerciali, innocui e politicamente irrilevanti. La vostra influenza è piuttosto in pericolo.»

Salim si mosse verso la carta del Medio Oriente, che copriva metà della parete principale dello studio. «Quella piccola zona di colore rosso è il mio paese. Esso potrebbe divenire la casa-dolce-casa della Intel. Nessuna interferenza. In cambio, soltanto degli esperti che ci aiutino nei nostri piani.»

Di nuovo, Salim si sedette. «Che cosa sa di Thorness?»

Kaufmann ponderò qualche attimo.

«Thorness?» ripeté, come se la parola non avesse per lui alcun significato.

Salim ebbe un gesto di impazienza. «Sono informato del fatto che per molto tempo siete stati in contatto con la stazione sperimentale del governo britannico a Thorness. Non ufficialmente, s’intende. Ho idea che possiate persino spiegare la disgraziata fatalità toccata ad uno degli scienziati di laggiù, chiamato Bridger; ma non importa. Ho menzionato questo fatto per mostrarle che non manco di essere al corrente delle vostre normali attività.»

«Non sono più normali,» grugnì Kaufmann, «la stazione è stata virtualmente distrutta. Il calcolatore e tutto quello che lo riguardava è stato fatto saltare in aria e bruciato. Questo, ad ogni modo, è quanto ho potuto accertare io.»

«Fatti saltare?»

Salim era fuori di sé; le sue maniere da corte di San Giacomo sparirono ed egli agitò le mani per scacciare il fumo del sigaro. Sembrava che una violenza latente fosse esplosa in lui.

«Per cortesia, faccia a meno di fumare quella roba nauseabonda, finché è qui. Se proprio vuole, vada a fumarli alla toletta.»

Il suo visitatore spense obbedientemente il sigaretto. Sembrava del tutto impermeabile agli insulti. «No, grazie,» disse, dopo aver accuratamente spento la brace. «Ma forse desidera interrompere il colloquio?…»

Salim guardò le carte sulla propria scrivania; tutto era cambiato improvvisamente, e quello che ora ci si aspettava da lui era qualcosa che capiva bene: azione. Rilesse una copia del rapporto contenente la valutazione dei fatti che aveva dettato pochi giorni prima. Un sorriso vagò sulle sue labbra; dopotutto, gli dèi stavano forse lavorando a suo favore, nel loro modo misterioso, persino con il disastro di Thorness.

«C’è una certa professoressa Madeleine Dawnay, laggiù alla stazione,» disse. «Le offriremo immediatamente un lavoro di ricerca biochimica per il nostro governo. E c’è anche un certo professor Fleming.»

«Una persona difficile, Herr Doktor Fleming,» mormorò Kaufmann, «non mi sorprenderebbe se fosse in qualche modo coinvolto in questa tragedia dell’economia britannica.»

«Davvero,» disse pensosamente Salim. «Ad ogni modo, sarà d’accordo nel riconoscere che possiede un’intelligenza brillante. Le mie informazioni dicono che egli è stato il supervisore, nella costruzione del calcolatore.»

«È vero,» annuì Kaufmann, «Fleming ha un cervello astuto ed immaginoso. Alla maggior parte dei suoi colleghi non piace affatto.»

«Ma piacerebbe al governo dell’Azaran,» mormorò Salim. Ora era di nuovo calmo, quasi dolce. Sorrise a Kaufmann. «È mia fondata opinione che il nostro presidente confermerebbe la sua offerta alla Intel solo a patto che funzioni come un accordo complessivo, postale, come amano dire qui; un accordo che contenga Fleming. Come leale funzionario della Intel, ha qualcos’altro da dire?»

Kaufmann tirò fuori la scatola dei sigari, rifletté un istante, quindi la rimise nella tasca. «Sarebbe difficile, costoso,» mormorò. «Se la mia teoria del sabotaggio è corretta, Herr Fleming è già stato arrestato.»

«I vostri superiori senza dubbio preferiscono i fatti alle teorie,» osservò Salim. «Forse dovrebbe tornare in Scozia, e continuare ad investigare. Mi telefoni regolarmente per riferirmi ogni progresso. Con cautela, naturalmente. Non dimentichi che sono un diplomatico.»

Kaufmann si alzò, si inchinò rigidamente, prendendo congedo.

«Può fidarsi di me, Eccellenza,» disse.


Avvicinandosi alla casa, Fleming prese a muoversi più cautamente. Per quanto fosse ansioso di mettere André al riparo, non aveva nessuna intenzione di andare a finire nelle braccia dell’avversario. Lasciò quindi lo stretto sentiero, ed incominciò ad avvicinarsi lateralmente attraverso il giardino incolto.

La casa era quella tipica dei contadini delle Western Isles — brutta ma solida. Le imposte di legno suggerivano l’idea di un interno intimo. Era stata proprio una imposta rotta, che aveva permesso alla luce della lampada di penetrare il buio.

Fleming si accostò ad un lato della finestra. La tenda di cretonne a disegni era stata tirata senza cura da un lato del vetro. Nell’interno vedeva un uomo, seduto davanti ad una tavola. Il suo volto pallido ed ascetico possedeva una specie di semplice giovinezza, in contrasto con le ciocche di capelli grigi e le fitte rughe intorno agli occhi. Fleming giudicò che fosse tra i quaranta ed i cinquant’anni. Portava un pullover a collo alto di buona qualità, ma molto vecchio. Le mani sensibili gesticolavano, tenendo tra le lunghe dita una matita, che si muoveva nell’aria in un ritmo ondeggiante, ed era evidente che stava parlando da solo.

Fleming premette la faccia sul vetro, per. riuscire a vedere il resto della stanza, stracarica di vecchi mobili e di libri posati dovunque. Ma non vi era nessun altro. La porta di legno non verniciato, sul lato opposto, era chiusa. Fleming fu soddisfatto; il rifugio sembrava abbastanza sicuro. Bussò forte alla pesante porta di quercia.

Si udì una sedia stridere sulle tavole lisce del pavimento, ed una voce piuttosto alta e belante chiedere: «Chi è?» La porta rimase chiusa.

«Ci faccia entrare, per favore,» gridò Fleming più forte che poté, «è urgente!»

Un chiavistello prese a scorrere gemendo. Con un rumore di saliscendi smosso, la porta si socchiuse di qualche centimetro.

«Chi siete? Cosa volete?» Un occhio grigio guardava attraverso la fessura.

Fleming spinse la porta con la spalla. «Prima facci entrare, nonnino,» disse, «le spiegazioni dopo.»

L’uomo lasciò la porta spalancata, e si fece da parte, mentre Fleming entrava. Sogguardava con aria sospettosa, ma anche rassegnata, la ragazza ancora incosciente nelle braccia di Fleming.

«Lei non è mio nipote,» disse incerto, «e sono quasi sicuro di non aver mai incontrato questa signorina.»

Chiuse la porta con un gesto sconsolato ed un poco fatuo, da vecchia zitella.

«No,» ammise Fleming, dirigendosi verso il caminetto dove un fuoco di sterpi bruciava stizzoso ma caldo. «Nonnino è una vecchia forma di saluto runico.» Depose delicatamente André su di un sofà che era stato trascinato accanto al caminetto.

Gli occhi dell’uomo si illuminarono per l’interesse. «Runico, ha detto? Non ho mai…» La sua voce morì.

Fleming si tolse la giacca fradicia e la gettò su una poltrona mezzo rotta. «Possiamo restare un poco?» domandò.

L’uomo gironzolava sconsolato. «Suppongo di sì,» rispose senza entusiasmo; «da dove venite?»

Fleming era occupato a sfilare il giaccone che copriva André, tirando delicatamente le maniche, in modo che non toccassero le mani.»

«Dal mare,» disse brevemente, «in barca. Adesso se ne è andata; a pezzi, spero.»

L’uomo smosse il fuoco, sollevando una cascata di scintille.

«Devo confessare che non riesco a capirla,» osservò.

Fleming si rialzò con un ghigno. «Mi dispiace, siamo un po’ mal ridotti. Tempo schifoso, per una gita in mare.»

L’uomo stava fissando André. Ebbe una specie di brivido nel vedere la carne informe e rossastra intorno alle dita.

«Cosa è accaduto alle mani della sua amica?» domandò diffidente, come vergognandosi di questa indelicata curiosità.

«Se le è bruciate; ha toccato dei fili ad alto voltaggio. Non avrebbe qualcosa di caldo, per caso? Della minestra?»

«Solo di quella in scatola.» L’uomo sospirò profondamente, vergognoso del proprio atteggiamento. «Ora la vado a prendere. Mi deve scusare,» continuò, sorridendo quasi infantilmente, «è solo che siete arrivati così all’improvviso. Il mio nome è Preen, Adrian Preen. Io — ehm — scrivo.» Guardò con nostalgia il tavolo sommerso di fogli coperti da una scrittura grande e disordinata. «Vado a prendere la minestra.» Uscì dalla porta interna, richiudendola accuratamente dietro di sé.

André ebbe un brivido, gemette, ed aperse gli occhi. Fleming si inginocchiò accanto a lei. «Come ti senti?» le sussurrò.

Gli occhi della ragazza erano vuoti, ma ella riuscì a volgere la testa ed a guardarlo. Gli sorrise perfino. «Sto meglio, ora. Le mani mi danno delle fitte. Cosa è successo?»

«Stiamo scappando,» disse lui, carezzandole i capelli. «Abbiamo cominciato a fuggire due notti fa, quando abbiamo bruciato il calcolatore. Te ne ricordi?»

Ella aggrottò la fronte e scosse il capo. «Calcolatore? Quale calcolatore? Non riesco a ricordare nulla.»

«Ci riuscirai presto,» la rassicurò, «non ti sforzare per questo.» Si rialzò ed andò verso il tavolo, gettando un’occhiata al manoscritto. «Ser Lionello ed il Cavaliere Verde,» lesse ad alta voce. «Che roba antiquata! Speravo di trovare un guardiano, ma abbiamo incontrato una pecora. Riesci a capire come possa mantenersi con roba simile?»

Fu interrotto dal rumore della porta che si apriva, e si allontanò dalla tavola. Preen era rientrato con due ciotole fumanti su di un vassoio. Prese uno sgabello, e vi pose sopra il vassoio, al lato di André. «Crema di pomodoro, mi dispiace,» si scusò.

«Andrà benissimo,» disse Fleming. Prese un cucchiaio, e cominciò ad imboccare André, che inghiottì avidamente il liquido rosso e denso.

«Come si chiama quest’isola?» continuò Fleming. «Si chiama Soay?»

«È proprio vicina a Soay, ma è molto più piccola.»

«Così lei è il solo padrone, qui?»

Preen annuì. «E alla vostra mercé.» Si scusò di nuovo in fretta. «Sono stato scortese. Ma è una tale sorpresa, per me. Comunque, ora vi lascerò mangiare in pace. Potrei sapere il vostro nome?»

«Fleming, John Fleming.» Non aggiunse di sua volontà quello di André.

«Ve l’ho chiesto solo per cortesia,» disse Preen educatamente, «dato che sono il vostro ospite. Dovrete stare qui, naturalmente. Non ci sono altri posti dove andare. È per questo che ho scelto quest’isola.»

«Ma il perché non me l’ha ancora detto, no?» suggerì Fleming.

Preen esitò, con aria imbarazzata. «Sono venuto perché è sicura. O, almeno, relativamente. Partecipavo a delle proteste contro la bomba, e ad altre cose del genere, ma mi sono stancato di espormi a queste follie, ed ho deciso che era più ragionevole andarsene.»

Fleming inghiottì l’ultimo cucchiaio di minestra. «E così siamo in tre,» ghignò. «Ma quando cadrà la bomba, e lei sarà rimasto nell’unica oasi di vita e di conoscenza, mi sa dire come farà a difendersi dai pirati, da tutti quelli che saranno terrorizzati, privi di aiuto, e coperti di radiazioni pericolose?»

Con un’aria trionfante e cospiratrice, Preen andò verso una pesante e vecchia cesta, che serviva da sedile vicino alla finestra. Ne trasse un corto fucile automatico.

«Splendido,» rise Fleming, «per stanotte dormiremo al sicuro. Mi sembra di aver capito che possiamo sdraiarci tutti in qualche modo, e dormire un po’. È stata una giornata molto faticosa.»

Preen mostrò di avere delle risorse inaspettate. Il suo letto era in un’alcova, accanto al camino. Da un armadio, estrasse delle pesanti coperte di lana. André vi fu avvolta, il fuoco venne ravvivato e anche Fleming si coprì, stendendosi per terra, accanto al sofà. Preen tirò il chiavistello della porta, e spense la lampada a paraffina. Fleming udì vagamente i rumori indistinti che il suo ospite faceva svestendosi ed entrando nel letto, prima che un sonno di profonda spossatezza si impadronisse del suo corpo e del suo cervello.


Passarono tre ore prima che l’assenza continuata di Geers e di Fleming suscitasse delle preoccupazioni, poi una lancia della marina si diresse verso l’isoletta per cercarli.

Quando fu possibile mettersi in moto per tentare di localizzare i fuggitivi, era caduta la notte ed il tempo era divenuto assolutamente impossibile.

Geers, furibondo per la stupida attesa sull’isola e attanagliato dall’apprensione per le possibili ripercussioni su Londra, sedeva al suo tavolo, bevendo del punch bollente e strepitando ordini a Quadring ed a Pennington perché facessero qualche cosa. Ma, dopo un poco, non poté più rimandare lo spiacevole compito di telefonare a Whitehall la notizia della nuova disfatta.

Il ministro della Scienza rispose alla chiamata di persona. Non disse una parola, mentre Geers balbettava in modo sconnesso sulla sfortuna dell’intero affare in generale, e sulla disonestà di Fleming in particolare. I garbati commenti che il grand’uomo fece prima di riattaccare erano peggiori della più sarcastica reprimenda.

«Veramente sfortunato,» disse gentilmente, «non posso che accordarle la mia più completa simpatia, per una situazione nella quale pare sia stato circondato da incompetenti e traditori. Può contare su di me per il miglior modo di presentare la faccenda al Vecchio. È curiosamente seccato di tutto ciò, il che è abbastanza straordinario per lui, non trova? Non è nemmeno andato a Chequers. È rimasto al n. 10. E lei sa meglio di me quanto odia quel posto, da quando è stato rimesso a nuovo. Spero veramente di riuscire a trovare il suo segretario privato. È un tale cuscinetto, quando il Primo ministro è di umore pericoloso. Bene, arrivederci. Teniamoci in contatto.»

Il ministro, in effetti, riuscì a trovare il segretario privato, e non avrebbe potuto esprimersi con lui in modo più onesto di quello che fece.

«Ho appena avuto una chiamata da Thorness, Willie,» disse, «hanno trovato la ragazza e subito dopo, da quei maledetti imbecilli che sono, l’hanno persa. Ora sembra che Fleming l’abbia rapita. Così romantico, vero? Geers non ha fatto che schiamazzare ordini inutili ad ogni posto della R.A.F. e della marina, da Carlisle a Scapa Flow. La mia impressione è che ci sia un mucchio di navi e di aeroplani e di piccoli uomini, con i loro impianti radar, che corrono intorno come matti. I bollettini meteorologici prevedono mare di forza 9, tempeste elettriche e diluvi. Gli inseguitori non avranno molta fortuna, e io non credo che questa sia una situazione in cui la richiesta di un miracolo verrebbe esaudita. Ufficialmente, però, Willie, ti prego di riferire al Vecchio che stiamo guardando sotto ad ogni sasso e facendo tutto il possibile. Sai, la solita favoletta. E, oh, ho deciso di rispedire Osborne a Thorness, per tentare di racimolare qualche fatto coerente, e anche per riuscire a capire delle cose nuove che sono emerse. È caduto alquanto in disgrazia, così è ansioso di fare bene. È un tipo come si deve, in fondo.»

Osborne fu mandato a chiamare nelle prime ore del mattino, e spedito a Thorness in aereo con le prime luci dell’alba. A mezzogiorno, entrava nell’ufficio di Geers. Il direttore era riuscito a concedersi poche ore di sonno su di una branda, arrangiata nella stanza dell’ufficiale di guardia. Per la prima volta, nella sua vita, si rendeva conto di apparire scarmigliato e sconvolto. Per Osborne aveva provato antipatia fin dal primo momento; il fatto che quell’uomo fosse ancora incaricato di un lavoro che altro non era se non di controllare la sua efficienza, glielo rese ancora più antipatico.

«Nessuna notizia dagli inseguitori, naturalmente,» interrogò Osborne, prendendo una sedia senza esserne invitato.

Geers scosse la testa. «Non ci resta che aspettare e sperare. È stata colpa mia,» borbottò, «non avrei mai dovuto…»

«Non è molto importante di chi sia stata la colpa,» disse gentilmente Osborne. «È successo. Come sta Madeleine Dawnay?»

Geers lo guardò sospettosamente, chiedendosi il perché di questo nuovo argomento. «Molto meglio,» rispose, «le bruciature elettriche che si è fatta con il calcolatore non erano poi così gravi. È successo maneggiando quel dannato enzima fatto con la formula della macchina. Oppure qualche errore che quei suoi cretini avranno commesso nel raccoglierlo. Fortunatamente, Madeleine ha avuto capacità intellettuali sufficienti per controllarlo e per trovare l’errore. Da allora è stato più facile; una cura miracolosa che rivoluzionerà le bruciature di ogni grado e tutta la chirurgia plastica. Uno degli ultimi inapprezzabili benefici di quella macchina che dei vandali hanno distrutto.»

«Mi fa piacere… di Madeleine, intendo dire,» disse Osborne. Fece una pausa pensosa. «Non c’è molto altro da fare qui per lei, no? Ora che il calcolatore è rovinato.»

Geers si strinse nelle spalle. «Non c’è più molto da fare per nessuno di noi,» disse. «Mi domando dove diavolo sia andato Quadring… dovrebbe avere qualche notizia di quello che sta succedendo; buona o cattiva.»

Osborne ignorò il problema. «Abbiamo avuto una richiesta per Madeleine, dal governo dell’Azaran.»

«Da chi?»

«Dal colonnello Salim, esattamente. L’ambasciatore dell’Azaran.»

«No, volevo dire: chi hanno richiesto?»

«La Dawnay, della quale stavamo parlando,» disse Osborne con impazienza. «Una richiesta formale, passataci l’altra sera attraverso il Foreign Office. Hanno bisogno di un biochimico.»

«E perché diavolo fare?» domandò Geers, poi aggiunse rassegnato: «Dipende da lei, se ci vuole andare. Io ho altre cose di cui preoccuparmi.»

«Glielo domandi,» rispose Osborne. «O lei o la Dawnay potreste telefonare al ministro. Ma non differisca la decisione per troppo tempo. Questi piccoli stati petroliferi amano il protocollo. Non dobbiamo far pensare loro che siamo scortesi, ignorando la richiesta.»

«Va bene,» brontolò Geers.

Il telefono suonò ed egli staccò il ricevitore. Ascoltò il breve messaggio e quindi riagganciò, sorridendo con aria sollevata e soddisfatta.

«Hanno trovato un relitto, pezzi di legno e altre cose del genere. Su una delle tavole c’è il numero di registrazione. È proprio la barca che ha preso Fleming, non c’è dubbio. Fino ad ora, non hanno trovato i corpi. Ci vuole del tempo, naturalmente, perché tornino a galla. Non avevano nessuna possibilità di sopravvivenza.»

Nella sua voce non vi fu nemmeno l’ombra del rimpianto. Geers non avrebbe pianto la morte dei suoi due colleghi.

«In che punto, all’incirca, hanno trovato il relitto?» chiese Osborne.

Geers dette un’occhiata ad alcune cifre che aveva buttato giù su un foglio, durante la telefonata. «Mi hanno dato come riferimento Victor Sugar 7458,» andò verso la carta murale dei campi di lancio di Thorness, ed indicò con un dito un punto, in uno dei riquadri.

«Più o meno qui. Un poco a sud di Barra e ad est di South Uist. Acque poco profonde. Soltanto un pazzo come Fleming avrebbe potuto arrischiarvisi, con una così scarsa visibilità. Ma la marina continuerà a cercare; per pura formalità, s’intende.»

I due uomini rimasero seduti in silenzio per qualche momento. «Vado a vedere se il servizio riesce ad organizzarci una colazione,» disse Osborne; Geers annuì, ma non si mosse per accompagnarlo.


Era una giornata calda in modo anormale, per quella stagione dell’anno. L’aria era satura di umidità e la nebbia si stava mutando in fitta pioggia. Il mare, verso il largo, era visibilmente più burrascoso. Persino per la Western Scotland, il tempo era eccezionalmente cattivo. Di solito, Fleming si disinteressava del clima, ma adesso lo trovava stranamente in carattere con il dramma in corso e con la crisi di Thorness.

Arrampicandosi sulle rocce dell’isola, udiva di tanto in tanto l’impaziente ululato della sirena di un cacciatorpediniere ed il battito regolare dei motori diesel delle lance, che incrociavano lentamente nei dintorni. Una volta o due, una voce rauca imprecò allegramente, nel tentativo di immettere un poco di buon umore nel compito noioso ed inutile dei ricercatori.

Aveva detto a Preen che aveva bisogno di esercizio, e che avrebbe raccolto della legna per il fuoco. Non aveva parlato della possibilità di ricerche in grande stile dedicate a lui e ad André. Preen appariva evidentemente ansioso di non indagare troppo a fondo nei motivi di quella fuga, e, tuttavia, Fleming riteneva che un uomo con un passato di marciatore della pace non poteva ignorare Thorness o la possibilità che un uomo ed una ragazza, in fuga per salvare la propria vita durante una notte d’inverno, potessero in qualche modo essere collegati a quel posto, ed avere ragioni abbastanza gravi per abbandonarlo.

Ma Fleming non si preoccupava troppo per Preen. La venatura di anarchia che c’era nel comportamento dell’uomo garantiva con una certa sicurezza che non avrebbe pomposamente blaterato sui doveri del cittadino e cose simili. Per un colpo di fortuna addirittura straordinario, essi avevano trovato a poca distanza un alleato perfetto.

Fleming era molto più preoccupato per André. Egli temeva che persino quella costituzione prefabbricata, e scevra di ogni difetto ereditario, che è il peccato originale di tutti gli esseri umani, non riuscisse a combattere la pericolosa setticemia delle mani. A qualunque costo, avrebbe dovuto procurarle un’assistenza competente.

Per tutto il giorno, le imbarcazioni della marina incrociarono nei pressi dell’isola. Nel pomeriggio, la nebbia si alzò tanto da permettere a due elicotteri della R.A.F. di mettere il naso nella zona. Fleming era all’aperto, quando li udì. Allarmato, corse in casa. Afferrò due legni verdi che fumavano nel caminetto, e li immerse in un recipiente che serviva a raccogliere l’acqua piovana, vicino alla porta posteriore della casa.

«Gli elicotteri potrebbero venire a ficcare il naso qui,» spiegò frettolosamente a Preen, «per quanto, io ne dubito. È piuttosto pericoloso gironzolare a bassa quota con questa schifosa visibilità, ed una massa di roccia come questa sotto. Comunque, non è il caso di svegliare la loro curiosità con un camino che fuma.»

Per tutta risposta Preen borbottò qualcosa di incomprensibile e si ritirò in un cantuccio caldo, ad annotare un oscuro volume di testi in Middle English. Aveva fatto del suo meglio per nascondere la propria scontentezza per la presenza continua dei suoi visitatori, ma non intendeva lasciare dubbi a Fleming sul fatto che sarebbe stato felice quando se ne fossero andati.

André sedeva placidamente sul sofà. Dopo una colazione preparata alla meglio da Preen, era uscita con Fleming ed aveva fatto qualche passo. Lo sforzo l’aveva subito stancata, ed ella sembrava temere la solitudine. Così Fleming l’aveva riportata in casa.

Egli era ogni momento più in ansia per lei; non soltanto appariva fisicamente esausta ed in preda a forti sofferenze, ma anche la sua mente sembrava essersi più o meno svuotata. Fleming aveva notato come fosse incapace di fare il minimo sforzo spontaneo, ad eccezione di quelli fondamentali, come mangiare, bere e camminare.

Una volta che Preen era riuscito a trovare alcuni dolci in scatola e glieli aveva offerti, lei aveva semplicemente fissato la scatola, non riconoscendone l’uso. Fleming aveva dovuto mettersene in bocca uno, succhiandolo rumorosamente, perché la ragazza afferrasse l’idea.

Ora, con un orecchio teso ad ascoltare l’eventuale rumore di un elicottero, Fleming sedeva accanto a lei, con un braccio protettivamente allungato sulla spalliera del sofà, e la mano che le toccava la spalla. «Che cosa ricordi di tutto quello che è successo?» le domandò gentilmente.

Essa lo guardò come una bambina stupefatta. «È tutto confuso,» mormorò. «Ho corso. Sono caduta. Nell’acqua.»

Provò a congiungere le mani, e rimase di colpo senza fiato, alla fitta di dolore che la colse.

Fleming si alzò a rovistare sulla mensola del caminetto, alla ricerca di un paio di forbici che Preen teneva lì, in mezzo ad un mucchio di altri oggetti utili. «Non credo che questi stracci con cui ti ho fasciato ieri sera siano stati una buona idea. Temo che le ferite siano in suppurazione. Bisogna che tagli la fasciatura.»

Con delicatezza quasi femminile, cominciò a tagliare la stoffa, cercando di portarla via. Si era chinato sulle mani di lei in modo che non potesse vederlo, e parlava velocemente per distrarla dal dolore.

«Prima della corsa… non ricordi nulla?»

André parlò con aria esitante, non solo perché stava cercando qualche ricordo, ma anche nello sforzo di non gridare per le fitte del terribile dolore. «C’era un campo, una specie di campo, con delle basse costruzioni di cemento e baracche. Eravamo lì, con molta altra gente.»

Fleming aveva ormai tolto la maggior parte delle bende da una mano. Quello che apparve non era bello da vedere. «La macchina… ricordi una macchina?»

«Sì,» disse, come annuendo a se stessa, «era grande e grigia. C’era sempre una specie di ronzio sordo, e spesso molti ticchettii. Erano le cifre che venivano fuori. Ogni cosa era fatta con dei numeri.» Aggrottò la fronte e la sua bocca si piegò, come se stesse per cominciare a piangere per la propria impotenza. «Sono i numeri, che non riesco a ricordare.»

«Bene,» disse Fleming, «possiamo anche andare avanti senza i numeri. Non significano più niente, né per te né per gli altri; quei numeri erano maledetti; sono loro che…»

Si fermò di colpo. La benda dell’altra mano era venuta via facilmente, troppo facilmente. Un intero strato di materia si era staccato con essa. Al di sotto non vi era più la rossa carne viva, ma l’orribile, violaceo colore della cancrena. Egli non era in grado di riconoscerlo, ma aveva qualche idea di come appare una setticemia. Disse ad André di stendere il braccio. La manica del vestito non riusciva a salire oltre il gomito. Il braccio era gonfio, e l’arteria principale spiccava nera sotto la pelle bianca.

«Preen,» egli disse sottovoce, «venga un attimo a vedere, vuole?»

Il loro ospite posò riluttante il libro, e si avvicinò. Dette un’occhiata e poi chiuse di colpo gli occhi, barcollando un poco per la nausea.

«Dio mio!» mormorò, «come può sopportarlo?» Fleming si alzò e condusse Preen accanto alla finestra. Fuori c’era silenzio; la nebbia, ormai familiare, continuava a salire turbinando dal mare. Nessun rumore di elicottero rompeva il silenzio.

«Detesto doverle chiedere un altro favore,» disse Fleming, «ma potrebbe prestarmi la sua barca?»

«Perché?» domandò sospettosamente Preen, «dove vuol andare?»

«A terra.»

«Non reggerebbe il mare fino lì.»

«Va bene, fino all’isola di Skye, allora,» disse Fleming, impaziente, «cercherò di prendere un appuntamento là.»

«Vuol trovare un medico, suppongo. Lo porterà qui? Le mani di quella povera ragazza…» inghiottì, assalito di nuovo dalla nausea.

«Non porterò un dottore, ma qualcosa di meglio. Non porterò nessuno qui, glielo prometto.»

Preen accettò molto a malincuore di dare l’imbarcazione. Una volta presa la decisione, però, parve in ansia perché Fleming se ne andasse subito. Più presto sarebbe partito, più presto sarebbe tornato. E allora, forse, Preen avrebbe cominciato ad intravedere la possibilità di liberarsi dei suoi visitatori e di essere lasciato in pace.

Accompagnò Fleming giù, alla piccola spiaggia, dove la sua lancia stava al riparo di una roccia sporgente. Una piccola latta di benzina era poggiata lì accanto. Mentre preparavano la barca per partire, Preen tentò ancora una volta di scusarsi del proprio atteggiamento. Disse anche che avrebbe fatto del suo meglio per assistere la ragazza.

«Benissimo,» rispose Fleming con maggior ottimismo di quanto non provasse veramente, «non dovrei restare via più di ventiquattro ore, al massimo. Ora, dovrebbe indicarmi brevemente la rotta per Skye.»

Preen si diffuse in una tipica spiegazione da uomo di terra. «La corrente, e qualsiasi vento ci sia, sono sempre verso nordest. Se andrà sempre in quella direzione, troverà le boe luminose che sono all’entrata di Loch Harport, entro mezz’ora. Io mi attracco sempre all’estremo lato del porto, dove c’è una specie di casa, con un emporio.»

«Quanto dista da Portree?»

«Attraverso le colline, non più di quindici chilometri; ma molto di più se andrà lungo la strada. Però, con la luce del giorno, potrebbe trovare chi le dà un passaggio.»

Fleming guardò il suo orologio. «Me ne vado,» disse, «la pila della mia torcia è ancora carica; dovrebbe durare fino all’alba.»

Fece come gli era stato detto. Gironzolò nei paraggi della piccola città finché vide la gente per le strade, e non poté essere abbastanza sicuro di arrivare all’aeroporto senza attirare l’attenzione. Fece anche uno spuntino, quando si fu accertato che il prossimo volo per Oban non sarebbe partito che dopo mezz’ora.

Poi entrò in una cabina telefonica. Thorness aveva un numero non registrato nell’elenco degli abbonati, e le telefonate venivano passate, localmente, attraverso un centralino. Gli sembrò di notare una lieve esitazione nella voce dei centralinista, prima che ripetesse la richiesta, domandandogli da quale numero stesse chiamando. Era un rischio che doveva correre. A meno che la polizia locale non fosse stata molto veloce a muoversi e Quadring ancora più veloce nell’avvertirla, si sarebbe trovato in aeroplano prima che succedesse qualsiasi cosa.

Egli sapeva, naturalmente, che ogni chiamata a Thorness veniva registrata, alla stazione, per regolamento. In un momento di crisi come quello, la cosa era doppiamente certa. Si sforzò di sperare che il ticchettio del microfono fosse il solito ticchettio della normale registrazione, e non qualche nuovo super-controllore, chiuso in una cabina a spiare tutti.

Con sua grande sorpresa, la chiamata fu inoltrata in meno di un minuto. Fleming riconobbe il telefonista addetto alla linea privata della stazione.

«La professoressa Dawnay,» mormorò più piano che poté, «la professoressa Dawnay, che sta all’infermeria.»

«Potrebbe essere nella sua stanza, ora vedo.»

La voce del telefonista aveva l’usuale tono impersonale ed efficiente. Fleming rimase attentamente in ascolto, per cogliere l’eventuale clic dell’inserimento di un’altra linea interna, ma non udì nulla.

«Sono Dawnay.»

Fu sorpreso di notare quanto suonasse maschile la voce di lei quando pronunciava il proprio nome, ma la riconobbe immediatamente.

«Come stai, Madeleine?» domandò.

La sentì trattenere il respiro ed esclamare a metà il suo nome. Fu appena un suono soffocato, ella lo represse subito. Fleming sorrise.

«Ho telefonato soltanto per dire che spero tu sia in forma, come io non lo sono più, adesso,» disse con tono leggero. Più lentamente e distintamente continuò: «Sono preoccupato per una questione di salute. Che si deve fare per delle bruciature? Dimmelo tu che sei così esperta di queste cose. Non per me, s’intende.»

Per un secondo o due, credette che ella avesse riattaccato; ma finalmente disse sottovoce: «Dove?»

«Ad Oban. Solo con la B.E.A. Non avrò molto tempo prima di dover prendere l’aeroplano di ritorno.»

«Sei un pazzo,» gli rispose calma, «ma farò più presto che posso. Nell’edificio dell’aeroporto.»

Il suo volo durò esattamente venti minuti. Dovette aspettare circa un’ora, prima che la Dawnay arrivasse. La vide scendere da un taxi, stando alla finestra dei gabinetti per signori. Notò, dietro di lei, un’altra macchina, ed aspettò per vedere chi ne scendesse. C’erano tre passeggeri: una coppia di mezza età ed un ragazzo con due valige. Tutto a posto, non l’avevano seguita.

Entrò con aria oziosa nella sala d’aspetto, e si mise ad osservare un affisso con l’orario dei viaggi.

«Sei stato un pazzo a venire,» la udì sussurrare dietro di sé, «ma ho portato la roba.»

Egli si volse a metà ed accennò ad un angolo deserto, con una macchina per la distribuzione delle bevande calde. Vi si diressero.

«Tè, caffè, o cioccolato?» domandò lui, porgendole un bicchiere di cartone, mentre si frugava in tasca per cercarvi degli spiccioli.

«Hanno tutti lo stesso sapore, in queste macchinette,» sorrise lei. Prese il bicchiere e, allo stesso tempo, gli passò una piccola scatola bianca. Fleming la fece scivolare in tasca, prima di infilare la moneta nella fessura del distributore.

«Grazie,» disse, «spero che questo sia l’enzima che fa guarire, e non quello che a momenti ti ammazzava.»

La Dawnay sorseggiò la sua bevanda con espressione disgustata. «E lo chiamano caffè… sì, questo è quello buono, lo garantisco. È la formula originale data dal calcolatore la prima volta che lei si bruciò. Ricorderai come funzionò a dovere. La setticemia sopravviene in qualche ora; le fibre nervose e linfatiche si ricreano in tre giorni. Lei come sta?»

Fleming prese del caffè per sé. «Non troppo male, se non fosse per le mani. Ora devo tornare; non vorrei trovare sul posto una ragazza morta.»

Ella lo guardò divertita. «E così, ora pensi a lei come ad una ragazza, non è vero? Però sei stato un pazzo a venire qui,» ripete, «io non so esattamente quello che sta succedendo alla stazione, ma è certo che le ricerche proseguono.»

Fleming guardò l’orologio. «Devo proprio andare,» si scusò. «E grazie per la roba. Parlando di pazzia, anche tu sei abbastanza folle, a fare questo per me; sono un nemico, non lo sapevi?»

«No, non lo sapevo,» rispose, «e, quanto a farlo per te… no, lo faccio per lei. È anche mia, non lo dimenticare, l’ho fatta io!»

Camminarono insieme fino al cancello delle partenze, quando l’altoparlante annunciò il volo per Skye e Lewis.

«Non credo che ti vedrò di nuovo,» disse la professoressa, «mi è stato offerto un altro lavoro. Non c’è più ragione di rimanere a Thorness, ora che il progetto Andromeda è andato. Sarà una bella esperienza; facce nuove, lavoro nuovo.»

«Dove?» chiese lui.

«Nel Medio Oriente, in uno di quei posti tutti sabbia e petrolio, e nient’altro.»

Fleming non era molto interessato. «Buona fortuna,» disse in tono vago. Poi, impulsivamente, si chinò e la baciò sulla guancia. Madeleine ne parve felice come una fanciulla.

Fleming passò i cancelli e si avviò per il campo. Sembrava che ci fossero soltanto tre o quattro passeggeri, tutti dall’aria molto innocente.

Non si accorse di un uomo di mezza età, discretamente vestito di tweed grigio e con una lobbia nera, che era rimasto in piedi accanto al chiosco dei giornali, a leggere il Times. Questi abbassò il giornale soltanto quando Fleming porse il biglietto alla hostess della B.E.A. per il controllo. Appena Fleming fu uscito dall’edificio, l’uomo si affrettò verso l’uscita, sulla strada. L’autista dell’automobile parcheggiata di fronte accese immediatamente il motore…

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