FALCHI

Presto, Therru fu di ritorno con la risposta di Sparviero: «Ha detto che partirà questa notte».

Tenar ascoltò con soddisfazione, lieta del fatto che avesse accettato il suo piano e che si allontanasse dai messaggeri e dai messaggi da lui temuti. Solo più tardi, dopo avere servito a Erica e a Therru il loro piccolo banchetto a base di rane, dopo avere messo a dormire Therru e averle cantato la ninna-nanna, quando sedeva da sola al tavolo, senza lampada e senza luce del fuoco, Tenar sentì una stretta al cuore. Ged se n’era andato. Era debole, spaventato e insicuro: aveva bisogno di amici e lei lo aveva allontanato da coloro che avrebbero voluto aiutarlo. Se n’era andato, ma lei doveva rimanere, per allontanare i segugi dalla sua pista, o quanto meno per scoprire se intendevano rimanere a Gont o ritornare a Havnor.

Il panico di Ged e il fatto che lei lo avesse assecondato cominciarono a sembrarle atteggiamenti così irragionevoli da farle pensare che la fuga di Ged fosse un’assurdità. Avrebbe riflettuto sulla cosa e si sarebbe semplicemente nascosto in casa di Muschio, che era l’ultimo posto di Earthsea dove un re sarebbe andato a cercare il suo Arcimago. Era meglio rimanere laggiù finché gli uomini del re non se ne fossero andati. Poi sarebbe potuto ritornare alla casa di Ogion, che era il posto più adatto a lui. E le cose sarebbero andate come prima, con lei che si prendeva cura di Ged finché non avesse ripreso le forze, e con lui che le offriva la sua preziosa compagnia.

Un’ombra si disegnò sulla soglia, nascondendo le stelle. «Sst! Dormite tutti?» Entrò Zia Muschio. «Be’, se n’è andato», disse, con l’aria di chi prende parte a una cospirazione. «Ha imboccato la vecchia strada della foresta. Dice che da lì, domattina, arriverà alla strada per la Valle di Mezzo, dietro Fontana delle Querce.»

«Bene», rispose Tenar.

Più ardita del solito, Muschio si sedette senza essere invitata. «Gli ho dato una pagnotta e una forma di cacio per mangiare qualcosa durante il tragitto.»

«Grazie, Muschio. Sei stata gentile.»

«Goha.» Nell’oscurità, la voce di Muschio prendeva la cantilena delle sue salmodie e dei suoi incantesimi. «C’era una cosa che volevo chiederti, cara, senza andare al di là di quel che mi è lecito conoscere, perché so che sei vissuta con persone importanti e sei stata una di loro anche tu, e questo mi tappa la bocca quando ci penso. Eppure, anch’io conosco cose che tu non puoi sapere, anche se conosci le Rune, e l’Antica Lingua, e hai imparato molte cose dai sapienti e in terra straniera.»

«È proprio come dici tu, Muschio.»

«Ah, bene. Così, quando abbiamo detto che una strega riconosce un’altra strega e io ho detto… dell’uomo che adesso se n’è andato… che non era un mago, qualunque cosa fosse stato in precedenza, ma tu continuavi a negarlo. Avevo ragione, vero?»

«Si.»

«Proprio come pensavo. Avevo ragione.»

«L’ha detto anche lui», osservò Tenar.

«Certo. Non è uno che dica bugie, e neppure uno di quelli che ti raccontano prima una cosa e poi un’altra, finché non capisci più qual è l’una e qual è l’altra. Su questo non c’è dubbio. E non è neppure uno di quelli che cercano di tirare il carro senza i buoi. Ma ti dico che sono contenta che se ne sia andato, perché non sta bene, ormai, visto che lui non è come prima.»

Tenar non aveva idea di quel che la strega volesse dire, tolta l’immagine di tirare il carro senza i buoi. «Non capisco perché abbia tanta paura», disse. «Cioè, in parte lo so, ma non capisco perché si vergogni tanto. Ma avrebbe preferito morire. Del resto, per me, vivere significa avere il proprio lavoro da fare, e poterlo fare. È questa la soddisfazione, il vanto. E se non puoi fare il tuo lavoro, o te lo tolgono, allora che ti resta? Occorre avere qualcosa…»

Muschio ascoltò e fece vari cenni d’assenso con la testa, come se le avesse rivelato qualche profonda verità. Poi, dopo una breve pausa, disse: «È ben strano che un uomo fatto viva come un ragazzino di quindici anni! Non ti pare?»

Tenar stava quasi per chiederle quale fosse il significato di quell’affermazione, ma qualcosa glielo impedì. Comprese che aveva teso l’orecchio per sentire i passi di Ged che rientrava dai suoi vagabondaggi nella foresta, che si aspettava di sentire la sua voce: i sensi di Tenar negavano la sua lontananza. Alzò gli occhi verso la strega: una macchia scura seduta sulla sedia di Ogion accanto al focolare spento.

«Ah!» esclamò, e in un istante le parve di capire molte cose.

«È per quello che…» continuò. «È per quello che non ho mai…»

S’interruppe, e dopo un lungo silenzio commentò: «E loro… i maghi… Che cos’è, un incantesimo?»

«Certo, cara», disse Muschio. «Una stregoneria che fanno su se stessi. Alcuni ti diranno che fanno un patto, come una specie di matrimonio al contrario, con promesse e tutto il resto, e che così riescono a ottenere un Potere maggiore. Ma a me sembra una cosa sbagliata, come se trattassero con gli Antichi Poteri, cosa che i veri maghi non possono fare. E il vecchio mago mi ha detto che non è così. Anche se so che qualche strega l’ha fatto, e senza gravi conseguenze.»

«Quelle che mi hanno allevato lo facevano», disse Tenar. «Promettevano la loro verginità.»

«Oh, certo. Non c’erano uomini, mi hai detto, ma solo quegli unuchi. Spaventoso!»

«Ma perché», si chiese Tenar, «non mi è mai venuto in mente di…»

La strega rise. «Perché è il loro Potere, cara. Non ti viene neppure in mente! Non ci pensi! E non ci pensano neanche loro, una volta fatto l’incantesimo. E come farebbero, con il Potere che hanno? Non va bene, non possono. Non puoi avere se non dai, e questo vale per tutti. Lo sanno anche loro, i maghi, gli uomini di Potere, lo sanno meglio di tutti. Però lo sai anche tu: non è facile per un uomo adulto non essere uomo, anche se può far cadere il sole dalla sua orbita. Perciò se lo tolgono del tutto dalla mente, con i loro incantesimi di legame. E l’incantesimo non sgarra. Anche nei brutti tempi che abbiamo visto recentemente, con gli incantesimi che non riuscivano o che andavano di traverso, non ho mai sentito dire di un mago che avesse violato quegli incantesimi, e che si servisse del suo Potere per soddisfare i desideri del suo corpo. Nessuno di loro, neanche i peggiori, sarebbe disposto a rischiare. Naturalmente ci sono quelli che si creano delle illusioni, ma non fanno che prendere in giro se stessi. E c’è qualche stregone di poco conto, di quelli che usano la magia per riparare le pentole, che tenta qualche incantesimo di seduzione sulle contadine, ma a quanto ho visto si tratta di incantesimi piuttosto fiacchi. Il Potere dell’uno vale quanto il Potere dell’altra, e non succede niente. Almeno, così mi pare.»

Tenar ascoltò le parole della strega e rifletté. Alla fine disse: «Si isolano».

«Certo. I maghi devono farlo.»

«Ma tu non lo fai.»

«Io? Io sono solo una vecchia strega di villaggio, cara.»

«Vecchia quanto?»

Dopo qualche istante, la voce divertita di Zia Muschio uscì dall’oscurità: «Quanto basta a non cacciarmi più nei guai».

«Ma avevi detto… Non hai sempre mantenuto la castità.»

«Che intendi dire, cara?»

«Come i maghi.»

«Oh, no di certo!» disse la strega. «Non sono mai stata una bellezza, tuttavia riuscivo a guardarli in un certo modo… non era stregoneria, lo capisci anche tu, cara… ma se guardi gli uomini in un certo modo, loro poi vengono a cercarti, come è vero che il corvo gracchia. Dopo due o tre giorni arrivavano da me. ‘Mi occorre qualcosa per il mio cane, che ha la rogna.’ ‘Mi serve una tisana per la nonna, povera vecchia.’ Ma io sapevo benissimo quello che cercavano, e se mi piacevano poteva anche darsi che lo trovassero. Ma solo per amore… non sono di quelle, sai, anche se certe streghe lo sono, e, a mio parere, disonorano tutta la categoria. Io faccio il mio lavoro a pagamento, ma il piacere me lo prendo per amore, l’ho sempre detto. E non è sempre un piacere. Ero pazza di un uomo di qui, lo sono stata per anni, un bell’uomo, ma un cuore duro, gelido. Adesso è morto. Il padre di quel Townsend che è venuto ad abitare qui… devi averlo visto. Oh, ero talmente presa da quell’uomo che ho perfino usato la mia arte. Ho fatto tanti incantesimi su di lui, ma tutti sprecati. Niente di niente. Come cavar sangue da una rapa… E se sono venuta qui a Re Albi da ragazza era perché mi ero cacciata in un guaio con un uomo di Porto Gont. Non dovrei parlarne, perché era gente ricca, una famiglia importante. Erano loro ad avere il potere, non io! Non volevano che il figlio si mettesse con una ragazza del popolo come me, mi hanno dato della sporca puttana e mi avrebbero eliminato senza pensarci due volte, come si fa fuori un gatto, se non fossi corsa quassù. Ma, oh, come mi piaceva quel ragazzo, con le braccia e le gambe lisce, muscolose e grandi occhi neri. Sono passati molti anni, ma lo rivedo ancora davanti a me come se fosse ieri.»

Per qualche tempo, nessuna delle due parlò.

«E quando avevi un uomo, Muschio», chiese Tenar, «dovevi rinunciare al tuo Potere?»

«Nemmeno a una briciola», disse la strega, compiaciuta di sé.

«Ma hai detto che non si ha senza dare. Oppure, per le donne è diverso da com’è per gli uomini?»

«Perché, c’è qualcosa che non è diverso, cara?»

«Non saprei», rispose Tenar. «Mi pare che gran parte delle differenze ce le creiamo da noi, e poi ci lamentiamo della loro esistenza. Non vedo perché la magia, il Potere, debba essere diversa tra uomo e donna. A meno che non si tratti di due tipi diversi di magia.»

«L’uomo dà, cara. La donna prende», sentenziò Muschio.

Tenar non disse niente, ma la spiegazione l’aveva lasciata chiaramente insoddisfatta.

«Almeno in apparenza, il nostro Potere è molto piccolo accanto al loro», riprese Muschio, «ma scende in profondità. È tutto radice, come una vecchia siepe di more. Il Potere dei maghi, invece, è come una pianta di fico, grande, alta, solenne, ma se arriva una tempesta la sradica facilmente. Invece non c’è niente che riesca a distruggere una siepe di more.» Fece la sua risata chioccia, soddisfatta di avere trovato un paragone efficace. «Dunque, allora», continuò allegramente, «come ti dicevo, forse è meglio che se ne sia andato, perché la gente del villaggio cominciava a parlare.»

«A parlare?» fece Tenar, sorpresa.

«Tu sei una donna rispettabile, cara, e la reputazione è la ricchezza della donna.»

«La sua ricchezza…» disse Tenar, in tono vacuo. «Il suo tesoro. Il suo valore.» Si alzò: era stanca di stare seduta, e si stirò varie volte la schiena e le braccia. «Come i draghi che cercano una caverna e poi la trasformano in una fortezza per il loro tesoro, per le loro ricchezze, e poi si stendono sopra di esse, a dormire. Prendere, prendere e non dare mai!»

«Saprai anche tu il valore di una buona reputazione», disse Muschio, asciutta, «quando l’avrai perduta. Non è tutto, certo. Ma è difficile trovare qualcosa che la sostituisca, quando non ce l’hai più.»

«Tu rinunceresti a essere una strega per diventare una donna rispettabile, Muschio?»

«Non lo so», rispose lei, pensosa, dopo qualche istante. «Non so se potrei, però. So fare l’una, ma non so se saprei fare l’altra.»

Tenar la prese per le mani. Sorpresa, Muschio si alzò e si tirò leggermente indietro, ma Tenar la baciò sulla guancia.

La strega alzò una mano e timidamente le sfiorò i capelli: una carezza come quelle che le faceva Ogion. Poi si tirò indietro e mormorò di dover tornare a casa. Sulla soglia, però, chiese: «O forse preferivi che rimanessi, con tutti quegli stranieri che ci sono in giro?»

«Va’ pure», disse Tenar. «Sono abituata agli stranieri.»


Quella notte, addormentandosi, entrò di nuovo nelle grandi distese di vento e di luce, ma la luce era fumosa, rossa, arancione e ambra, come se l’aria stessa si fosse infuocata. In quell’elemento, lei aveva l’impressione di essere e di non essere: di volare nel vento e di essere il vento, il vento che soffiava, la forza che si liberava; e nessuna voce la chiamò.


La mattina seguente, Tenar sedeva sulla soglia e si spazzolava i capelli. Non li aveva chiari come tanti altri abitanti di Karg; aveva la pelle bianca, ma i capelli scuri. Ed erano ancora scuri, senza un solo filo grigio. Li aveva lavati con l’acqua che aveva messo a bollire per lavare i panni, perché quel giorno aveva deciso di fare il bucato, visto che Ged era andato via e che la sua rispettabilità non correva pericoli. Si era asciugata i capelli al sole, continuando a spazzolarli, e a causa dell’aria secca e calda del mattino, tra i capelli e la spazzola crepitavano piccole scintille.

Therru si fermò dietro di lei, a guardarla. Tenar si voltò e la vide così attenta che quasi tremava.

«Che cosa c’è, passerotto?»

«Il fuoco che vola via!» disse la bambina, in tono impaurito, o forse esaltata. «Per tutto il cielo!»

«Sono solo le scintille dei miei capelli», rispose Tenar, leggermente sorpresa. Therru sorrideva, e lei non ricordava di avere mai visto sorridere la bambina. Therru allora sollevò tutt’e due le mani, quella sana e quella bruciata, come per seguire il movimento di qualcosa che volava sui capelli sciolti di Tenar. «Il fuoco, esce da tutte le parti!» ripeté, ridendo.

In quel momento, Tenar si chiese per la prima volta come Therru la vedesse — come vedesse il mondo — e comprese di non saperlo: non sapeva che cosa si potesse vedere con un occhio bruciato dal fuoco. Le tornarono alla mente le parole di Ogion: «Impareranno a temerla», ma non sentì alcun timore della bambina. Invece, si diede un’altra spazzolata ai capelli, vigorosa, in modo che volassero le scintille, e ancora una volta sentì la piccola risatina roca e deliziata.

Tenar lavò le lenzuola, gli strofinacci dei piatti, le sue camicie e la gonna di ricambio, i vestitini di Therru, e posò tutto sull’erba asciutta (dopo essersi assicurata che le capre fossero nel recinto), fermandolo con alcune pietre perché il vento era forte, con una violenza da fine estate.

Therru era cresciuta. Era ancora piccola e magra per la sua età (che doveva essere sugli otto anni) ma negli ultimi due mesi, ora che finalmente le ustioni erano guarite e non le facevano più male, aveva cominciato a mangiare con più appetito e a correre di più. Le erano diventati stretti anche i vestiti, abitini usati che le erano stati passati dall’ultima figlia di Lodola, che aveva cinque anni.

Tenar pensò che poteva recarsi al villaggio per fare visita al tessitore, Ventaglio, e chiedergli un paio di scampoli in cambio degli avanzi che gli aveva fornito per i maiali. Aveva voglia di cucire un vestito per Therru e desiderava rivedere il vecchio Ventaglio. La morte di Ogion e la malattia di Ged l’avevano tenuta lontana dal villaggio e dai conoscenti che aveva laggiù. Come sempre, l’avevano allontanata dalla gente che conosceva e dalle cose che sapeva fare, dal mondo in cui aveva scelto di vivere: un mondo non di re e regine, di grandi potenze e di imperi, di magie, viaggi e avventure (pensò, mentre si accertava che Therru fosse con Erica e si metteva in cammino verso il villaggio), ma di gente comune che faceva cose comuni: sposarsi, allevare figli, coltivare i campi, cucire e fare il bucato. Quel pensiero la irritò e la sua mente allora si rivolse a Ged, che ormai doveva essere a metà strada dalla Valle di Mezzo. Se lo immaginò sul sentiero, vicino alla piccola valle dove lei e Therru erano scese per dormire: un uomo minuto, dai capelli grigi, che camminava solo e in silenzio, con in tasca mezza pagnotta del pane della strega e nel cuore un carico di tristezza.

«È ora che tu lo scopra, forse», disse tra sé, rivolgendosi però a lui. «È tempo che tu scopra di non avere imparato tutto, quando eri a Roke!» E mentre lo apostrofava così, scorse un’altra immagine: vide accanto a Ged uno degli uomini che avevano aspettato lei e Therru su quella stessa strada. Involontariamente, gridò: «Ged, attento!» perché aveva paura per lui, che non portava neppure un bastone. Non vide l’uomo massiccio con i baffi, ma un altro del gruppo, un uomo più giovane con un berretto di cuoio: quello che aveva fissato con ira Therru.

Quando alzò lo sguardo notò, proprio accanto all’abitazione di Ventaglio, la casetta in cui lei era stata ospitata durante la sua permanenza laggiù. Davanti alla casa passava in quel momento un uomo. Era l’uomo che Tenar ricordava, quello con il berretto di cuoio. Camminava per la strada e non l’aveva scorta. Lei lo vide avviarsi lungo le strade del villaggio senza fermarsi. Si dirigeva verso le colline, oppure verso il castello. Senza chiedersi perché, Tenar lo seguì a distanza finché non comprese quale fosse la sua meta. L’uomo salì in direzione del castello del Signore di Re Albi, e non imboccò la strada presa da Ged.

Allora Tenar tornò indietro e si recò dal vecchio Ventaglio.

Anche se, come tanti tessitori, era quasi un recluso, Ventaglio era sempre stato gentile, a modo suo, timidamente, con la ragazza di Karg, e aveva vigilato su di lei. Quante persone, si disse, avevano protetto la sua rispettabilità! Ormai quasi cieco, Ventaglio aveva un’apprendista che faceva gran parte del lavoro. Fu lieto di ricevere una visita. Sedeva come in pompa magna su una vecchia poltrona scolpita, sotto l’oggetto che gli aveva dato il nome: un grande ventaglio dipinto — un tesoro di famiglia -, dono, si diceva, di un generoso capitano pirata a suo nonno, per ringraziarlo di avergli fabbricato in fretta nuove vele in un momento di necessità. Era esposto aperto sulla parete. Gli uomini e le donne delicatamente dipinti, in sontuose vesti color rosa e giada e celeste, le torri e i ponti e le bandiere del Grande Porto di Havnor erano familiari a Tenar, che aveva già visto altre volte il ventaglio. Spesso, i visitatori che giungevano a Re Albi venivano portati a vederlo. Era l’oggetto più bello dell’intero villaggio: su questo, tutti erano d’accordo.

Tenar si soffermò ad ammirarlo, sapendo che la cosa sarebbe piaciuta al vecchio, ma anche perché era davvero bello, e il vecchio tessitore disse: «Non hai visto molte cose come questa, vero, in tutti i tuoi viaggi!»

«No, certo. Nella Valle di Mezzo non c’è niente di simile», rispose Tenar.

«Quando abitavi qui, nella casa accanto, ti ho mai fatto vedere la parte dietro?»

«La parte dietro? No», rispose lei, e allora il tessitore dovette assolutamente togliere dalla parete il ventaglio, anche se fu lei ad arrampicarsi per staccarlo dai chiodi, poiché il vecchio non vedeva bene e non poteva salire sulla sedia. Con voce ansiosa, lui le disse come doveva fare, e Tenar glielo consegnò; Ventaglio lo prese, lo osservò con gli occhi miopi, provò ad aprirlo e a chiuderlo per vedere se le stecche funzionavano, poi lo chiuse del tutto e lo diede a Tenar.

«Aprilo lentamente», le disse.

Lei obbedì, e le parve di vedere muoversi i draghi mentre si muovevano le pieghe del ventaglio. Dipinti con colori tenui sulla seta ingiallita, vide spostarsi e raggrupparsi tra monti e nuvole draghi color rosa, azzurro, verde, nello stesso ordine in cui erano raggruppate le figure sull’altro lato.

«Osservalo controluce», la invitò il vecchio tessitore.

Tenar fece come le diceva, e vide i due lati, i due dipinti, divenire uno solo, grazie alla luce che filtrava attraverso la seta: così, le nubi e i monti divennero le torri della città, e gli uomini e le donne ebbero le ali, e i draghi guardarono con occhi umani.

«Hai visto?» chiese il vecchio tessitore.

«Sì», mormorò lei.

«Io non posso più vederli, ma conservo l’immagine nella mia mente. Non l’ho mostrata a molte persone, quella parte.»

«È meravigliosa.»

«Volevo farla vedere al vecchio mago, ma tra una cosa e l’altra mi sono sempre dimenticato di farlo.»

Tenar guardò ancora una volta controluce il ventaglio, poi lo appese di nuovo al muro come in precedenza, con i draghi nascosti nell’oscurità e gli uomini e le donne a passeggio nella luce del giorno.

Poi il tessitore la portò a vedere i maiali, una bella coppia, ben ingrassata in vista degli insaccati di quell’autunno. Risero della goffaggine di Erica come portatrice di avanzi. Tenar gli disse che le occorreva un pezzo di tela per fare un vestito alla bambina: Ventaglio sorrise soddisfatto e le mostrò una bella pezza di lino, mentre la giovane donna che gli faceva da apprendista, e che pareva avere preso da lui anche la scarsa socievolezza, oltre che la professione, continuava ininterrottamente a lavorare al telaio, con aria irritata.

Tornando a casa, Tenar pensò a Therru seduta a quel telaio. Sarebbe stato un lavoro decoroso. Il lavoro era noioso, sempre lo stesso, ma la tessitura era comunque un lavoro onorevole e nelle mani di alcuni una nobile arte. E non era insolito il fatto che i tessitori fossero un po’ schivi, e che molti di loro non si sposassero, chiusi tutto il giorno a fare il loro lavoro: tuttavia erano rispettati. E lavorando in casa, seduta al telaio, Therru non avrebbe dovuto mostrare la faccia. Ma la mano rattrappita? Con quella poteva spingere la spola, preparare l’ordito?

E si sarebbe dovuta nascondere per tutta la vita?

Ma che cosa doveva fare? «Sapendo come dev’essere la sua vita…»

Tenar cercò di pensare ad altro. Al vestito che le avrebbe fatto. I vestiti della figlia di Lodola erano di ruvida stoffa fatta in casa, brutti come il peccato. Lei, invece, poteva tingere metà della pezza, magari di giallo, o addirittura di rosso con la robbia della palude. E poi fare un grembiule o una sopravveste bianca, con una gala. Perché mai Therru doveva sempre rimanere nascosta in casa, al telaio, e non avere mai una gala al vestito? La tela era sufficiente per un’altra camicia, e forse per un altro grembiule, se l’avesse tagliata attentamente.

«Therru!» chiamò, avvicinandosi alla casa. Quando era uscita, Erica e Therru erano nel recinto delle capre. La chiamò di nuovo, perché voleva mostrare alla bambina la tela e parlarle del vestito. Erica arrivò da dietro la capanna, portando con sé Sippy, legata a una corda.

«Dov’è Therru?»

«Con te», rispose la ragazza, con una tale tranquillità che Tenar si guardò attorno, alla ricerca della bambina, prima di capire che Erica non aveva idea di dove si trovasse, e che aveva semplicemente espresso a voce una sua speranza.

«Dove l’hai lasciata?»

Erica non ne aveva idea. Non aveva mai tradito la fiducia di Tenar, in precedenza; sembrava aver capito che Therru doveva essere sempre tenuta d’occhio, come Sippy. Ma forse era la stessa Therru ad averlo intuito, e a tenersi vicino a lei? Tenar pensò che fosse questa la spiegazione e, non ricevendo indicazioni da Erica, cominciò a chiamare la bambina, ma non ricevette risposta.

Finché poté, evitò di avvicinarsi al burrone. Il giorno del loro arrivo aveva spiegato a Therru che non doveva mai andare da sola nel prato molto ripido, sotto la casa, o lungo il ciglio del Precipizio, a nord, perché con un occhio solo è difficile farsi un’esatta idea delle distanze. La bambina aveva obbedito. Obbediva sempre. I bambini dimenticano. Ma Therru non dimenticava. Però, poteva avvicinarsi al ciglio senza accorgersene. Probabilmente, comunque, era andata a casa di Muschio. Certo. La sera prima c’era andata da sola, e oggi c’era andata di nuovo. Senza dubbio.

Non c’era. Muschio non l’aveva vista.

«La troverò, cara», le assicurò la strega: ma invece di avviarsi lungo il sentiero della foresta per cercarla, come Tenar aveva sperato, Muschio prese a legarsi i capelli per lanciare un incantesimo di ritrovamento.

Tenar tornò di corsa in casa di Ogion, continuando a chiamare la bambina. E questa volta andò a guardare anche nei prati sotto la casa, con la speranza di vedere la piccola figura della bambina giocare tra i massi. Ma vide solo il mare, scuro e corrugato, al di là del ciglio, e sentì un tuffo al cuore: quasi i sensi le vennero meno.

Si diresse verso la tomba di Ogion e fece qualche passo lungo il sentiero della foresta, chiamando di nuovo la bambina. Quando uscì dagli alberi, vide che il gheppio cacciava nello stesso punto dove Ged si era fermato a osservarlo. Questa volta però si gettò in picchiata, colpì, e si alzò con qualche piccola creatura fra gli artigli. Tornò rapidamente nella foresta. Dà da mangiare ai piccoli, pensò Tenar. Ogni genere di pensieri le passò per la mente, pensieri vividi e precisi, quando giunse dove aveva steso la biancheria ad asciugare. Adesso era asciutta; bisognava portarla in casa prima di sera. Doveva cercare meglio nella zona più vicina alla casa, nella capanna e nell’ovile. Era colpa sua. Era successo perché lei aveva pensato di fare di Therru una tessitrice, chiudendola in casa tutto il giorno, al buio a lavorare, di farla diventare rispettabile. Anche se Ogion le aveva detto: «Insegnale tutto!» Anche se sapeva che, quando non si può correggere un difetto, bisogna trascenderlo. Anche se sapeva che la bambina era affidata a lui e che lei aveva mancato al suo dovere, aveva tradito il suo compito, l’aveva perduta, aveva perso l’unica sua ricchezza.

Dopo avere cercato in tutte le altre costruzioni, entrò nella casa e guardò di nuovo nella nicchia e sotto il letto. Si versò un bicchiere d’acqua, perché aveva la bocca asciutta come sabbia.

Dietro la porta, i tre bastoni — quello di Ogion e gli altri due — si mossero nell’ombra e uno dei bastoni disse: «Qui».

La bambina era seduta in quell’angolo buio: tutta rannicchiata su se stessa, era piccola come un cagnolino, la testa piegata sulla spalla, braccia e gambe schiacciate contro il corpo, l’unico occhio chiuso.

«Uccellino, passerotto, fiammella mia, che cosa è successo? Che cosa ti hanno fatto?»

Tenar cullò tra le braccia il piccolo corpo, ora rigido come pietra. «Perché mi hai fatto prendere uno spavento come questo? Perché ti sei nascosta a me? Oh, ero così spaventata!»

Cominciò a piangere, e le lacrime caddero sulla faccia della bambina.

«Oh, Therru, Therru, non nasconderti a me!»

Per i muscoli serrati corse come un fremito, e lentamente si rilasciarono. Therru si mosse, e all’improvviso si strinse a Tenar e tuffò la faccia nell’incavo tra il seno e la spalla, si strinse disperatamente a lei. Però, la bambina non pianse. Non piangeva mai: forse il fuoco le aveva bruciato tutte le lacrime, non ne aveva più. Emise un lungo gemito.

Therru continuò a cullarla. Lentamente, la stretta disperata si allentò. La bambina appoggiò la testa sul petto di Therru.

«Dimmi», mormorò la donna e la bambina rispose, con un sussurro rauco:

«È venuto qui».

Il primo pensiero di Therru fu per Ged, ma la sua mente, veloce come la paura, scartò quell’idea, pensò a quel che Ged significava per lei — Tenar fece un sorriso torto, per un attimo — e proseguì la caccia. «Chi è venuto qui?»

Nessuna risposta, solo un brivido di paura.

«Un uomo con il berretto di cuoio», disse Tenar, cercando di parlare con calma.

Therru annuì.

«Quello che abbiamo visto per la strada, mentre venivamo qui», aggiunse Tenar.

Nessuna risposta.

«Quei quattro uomini, quelli che mi hanno fatto arrabbiare, ricordi? Era uno di loro.»

Si rammentò che Therru, in quell’occasione, aveva tenuto la testa bassa, per nascondere la parte ustionata, e, come faceva in presenza di estranei, non aveva mai sollevato lo sguardo.

«Lo conosci, Therru?»

«Sì.»

«Da quando… da quando vivevi nell’accampamento vicino al fiume?»

Un cenno d’assenso.

Tenar la strinse tra le braccia.

«È venuto qui?» chiese, e tutta la paura provata fino ad allora si trasformò in collera, una collera che bruciava dentro di lei come una verga di fuoco. Le sfuggì una specie di risata — «Aah!» — e le tornò in mente Kalessin, la risata di Kalessin.

Ma per un semplice essere umano, per una donna, non era così semplice. Doveva trattenere il fuoco. E doveva consolare la bambina.

«Ti ha visto?»

«Mi sono nascosta.»

Dopo qualche momento, Tenar disse, accarezzandole i capelli: «Non riuscirà mai a toccarti, Therru. Credimi, non ti toccherà mai più. Non ti vedrà mai più, ma, se succedesse, io ci sarò e lui dovrà fare i conti con me, allora. Mi capisci bene, cara, tesoro, mia bellissima? Non devi avere paura di lui. Lui si nutre della tua paura, ma noi lo faremo morire di fame, Therru. E alla fine sarà costretto a mangiarsi le mani, e le ossa delle sue mani lo soffocheranno… Non darmi retta, in questo momento sono arrabbiata… Sono rossa? Rossa come una donna di Gont? Sono rossa come un drago?» Cercò di scherzare.

Therru sollevò la testa, la fissò con il suo viso raggrinzito, tremante, divorato dal fuoco, e disse: «Sì, sei un drago rosso».


Per Tenar, l’idea che quell’uomo fosse venuto laggiù, fosse entrato nella casa per guardare ciò che aveva fatto e magari portarlo a compimento, non era un semplice pensiero, ma una sensazione fisica di nausea, un conato di vomito. Ma la nausea si consumò sul fuoco della collera.

Si alzarono e si lavarono; Tenar si accorse che la cosa più importante, per il momento, era la fame. «Ho un buco nello stomaco», disse a Therru, e preparò un abbondante pasto di pane e formaggio, fagioli freddi conditi con olio, erbe aromatiche e fette di cipolla, salame. Therru mangiò molto, e così Tenar.

Mentre sparecchiava la tavola, Tenar disse: «Per il momento, Therru, io non mi staccherò da te, e tu non ti staccherai da me. Va bene? E adesso dovremmo andare tutt’e due a casa di Zia Muschio. Stava preparando un incantesimo per trovarti: adesso non c’è bisogno che continui, però lei non lo sa».

Therru s’immobilizzò. Lanciò un’occhiata alla porta aperta e poi si tirò indietro.

«Dobbiamo portare dentro il bucato. Lo faremo al nostro ritorno. E ti mostrerò anche la tela che ho preso oggi. Per farti un vestito nuovo. Rosso.»

La bambina era ancora esitante. Non osava tirare il fiato.

«Se ci nascondiamo, Therru, gli diamo il suo nutrimento. Ma noi, invece, vogliamo affamarlo. Vieni con me.»

La barriera della porta era tremendamente difficile per Therru: la bambina non riusciva a superarla. Si tirava indietro, nascondeva la faccia, tremava, incespicava; era una crudeltà, ma Tenar doveva costringerla a farlo, e non ebbe pietà. «Vieni!» le disse alla fine, e la bambina la segui.

Mano nella mano, attraversarono i campi fino a raggiungere la casa di Muschio. Una volta o due Therru riuscì ad alzare la testa.

Muschio non fu affatto stupita di vederle; ma aveva un’aria strana, guardinga. Disse a Therru di correre in casa sua a vedere i nuovi pulcini della sua gallina dal colletto bianco, per sceglierne due; la bambina si affrettò a scomparire in quel rifugio.

«Era in casa», disse Tenar. «Nascosta.»

«Be’, non le do torto», rispose Muschio.

«Perché?» chiese Tenar, seccamente. In quel momento non aveva alcuna intenzione di discutere.

«C’è… c’è qualcuno in giro», rispose la strega, in tono inquieto.

«Ci sono in giro dei banditi!» esclamò Tenar. La strega la fissò e indietreggiò leggermente.

«Via, adesso», disse. «Su, cara. Hai un fuoco attorno a te, tutto un fuoco attorno alla testa. Ho fatto l’incantesimo per trovare la bambina, ma non è riuscito come volevo. È andato a modo proprio e non saprei neppure dire se è terminato. Sono stupita. Ho visto grandi creature. Ho cercato la bambina e invece ho visto loro, che volavano in mezzo alle montagne e tra le nubi. E adesso tu hai quell’alone attorno a te, come se i tuoi capelli bruciassero. Che cosa è successo?»

«Un uomo con il berretto di cuoio», spiegò Tenar. «Giovane. Di bella presenza. Ha la spalla della giubba scucita. L’hai per caso visto qui in giro?»

Muschio annuì. «L’hanno assunto quelli del castello, per raccogliere il fieno.»

Tenar lanciò un’occhiata in direzione della casa. «Ti avevo detto che la bambina stava con una donna e con due uomini? È uno di quelli.»

«Vuoi dire, uno di quelli che…»

«Sì.»

Muschio s’immobilizzò: sembrava la scultura in legno di una vecchia; era tutta rigida, bloccata. «Non so», disse infine. «Pensavo di sapere tutto, ma non so niente. Che cosa… vuole? È venuto a vederla?»

«Se è il padre, forse è venuto a prenderla.»

«Prenderla?» chiese la strega.

«È sua proprietà.»

Tenar parlava senza emozione. Alzò gli occhi verso la cima del Monte di Gont.

«Ma non credo che sia il padre. Credo che sia l’altro. Quello che è andato dalla mia amica, al villaggio, per dirle che la bambina si era ‘fatta male’.»

Muschio era ancora turbata dai suoi incantesimi e dalle sue visioni, dalla ferocia di Tenar e dalla presenza di un male abominevole. «Non so», disse. «Pensavo di saperne abbastanza. Ma perché è tornato indietro?»

«Per divorarla», disse Tenar. «Ma io non la lascerò mai sola. Domani, però, Muschio, ti chiederò di tenerla qui per un’oretta, appena farà giorno, mentre andrò al castello.»

«Certo, cara. Potrei mettere su di te un incantesimo di invisibilità. Ma… lassù ci sono i signori venuti dalla Città del Re…»

«Be’, vuol dire che vedranno come vive la gente comune», disse Tenar, e Muschio si ritrasse, come si sarebbe ritratta da una fiamma spinta dal vento contro di lei.

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