Era passato più di un mese dal solstizio, ma le sere erano ancora lunghe, sul Grande Precipizio che si affacciava verso ovest. Therru era ritornata tardi da una spedizione con Zia Muschio, alla ricerca di erbe, che era durata tutto il giorno, ed era troppo stanca per mangiare. Tenar l’aveva messa a letto e le sedeva accanto, per cantarle qualche canzone. Quando era stanca, la bambina non riusciva a dormire, ma si raggomitolava nel letto come un animale paralizzato, fissava qualche allucinazione fino a portarsi in uno stato di incubo, né sveglia né addormentata, e diventava irraggiungibile. Tenar aveva scoperto di poter evitare quella paurosa condizione stringendo a sé la bambina e facendola addormentare con i suoi canti. Quando terminava quelli che aveva imparato nella fattoria della Valle di Mezzo, iniziava con gli interminabili canti di Karg che aveva imparato da bambina nelle Tombe di Atuan, e cullava Therru con la monotonia e il dolce lamento delle offerte ai Poteri Senza Nome e al Trono Vuoto, che adesso era pieno della polvere e delle rovine del terremoto. In quei canti non sentiva altro Potere che quello della musica in sé, e le piaceva cantare nella propria lingua, anche se non conosceva le ninne-nanne delle madri di Atuan, quelle che sua madre aveva cantato a lei.
Infine, Therru si addormentò. Tenar la infilò sotto le coperte e attese qualche istante per accertarsi che il sonno fosse regolare. Poi, dopo essersi guardata attorno per assicurarsi che nessuno la vedesse, con una sorta di piacere colpevole, posò la mano sulla faccia della bambina, dove il fuoco aveva divorato l’occhio e la guancia, lasciando solo la pelle cicatrizzata. Sotto la mano, non sentì niente di tutto questo. La pelle era liscia: era la guancia tonda di una bambina addormentata. La sua mano aveva ristabilito la verità.
Poi, lentamente, con riluttanza, alzò la mano e vide la perdita irreparabile, la guancia che non sarebbe mai guarita del tutto.
Si chinò sulla bambina e accostò le labbra alla cicatrice, si alzò senza fare rumore e uscì dalla casa.
Il sole tramontava, avvolto da un alone perlaceo. Non c’era nessuno. Sparviero si era probabilmente allontanato nella foresta. Aveva preso l’abitudine di recarsi alla tomba di Ogion, e passava ore intere sotto l’albero preferito dal vecchio mago; da quando gli erano ritornate le forze aveva cominciato a vagare per la foresta, lungo i sentieri amati da Ogion. Mangiare evidentemente non aveva alcuna attrattiva per lui; Tenar doveva sempre ricordarglielo. Inoltre, Ged evitava la compagnia e preferiva la solitudine. Therru l’avrebbe seguito dappertutto, ed essendo silenziosa come lui non gli avrebbe dato fastidio, ma Ged era inquieto, e finiva per rimandare a casa la bambina e per allontanarsi da solo, fino a luoghi lontani. Tenar non sapeva perché ci andasse. Ritornava tardi e si metteva subito a dormire; spesso, l’indomani mattina, si allontanava ancor prima che lei e la bambina si svegliassero. Tenar gli lasciava sempre del pane e del formaggio da portare via.
Quella sera lo vide ritornare dal sentiero che le era parso tanto lungo e faticoso, quando aveva aiutato Ogion a percorrerlo per l’ultima volta. Quando giunse, Ged era circondato dall’aria luminosa, dalle erbe piegate dal vento, e camminava ritto, chiuso nel suo dolore, duro come la pietra.
«Rimani tu, in casa?» gli chiese, quando fu più vicino. «Therru si è addormentata. Volevo andare a fare due passi.»
«Sì, va’ pure», rispose lui, e lei si allontanò, riflettendo sull’indifferenza degli uomini nei riguardi delle esigenze delle donne: che doveva sempre rimanere qualcuno vicino a un bambino che dormiva, che la libertà di uno comportava la schiavitù di un altro… a meno che non si raggiungesse un equilibrio mobile e in continua evoluzione, come quando si cammina e si muove prima una gamba poi l’altra, praticando quella straordinaria arte che è la deambulazione… Poi si accorse che il colore del cielo era diventato più scuro e che il vento si era levato. Proseguì il cammino, senza perdersi in altre metafore, finché non giunse sul ciglio del Precipizio. Là si fermò a guardare il sole che si perdeva in un alone roseo e sereno.
Si inginocchiò e trovò prima con gli occhi e poi anche con le dita il lungo solco irregolare scavato nella roccia, che correva fino al ciglio: la scia lasciata dalla coda di Kalessin. Passò varie volte le dita su di esso, e con lo sguardo si perse nella lontananza della sera, sognando. Disse una sola parola, che quella volta non fu più come il fuoco sulle sue labbra, ma che sibilò e si trascinò lentamente fuori: «Kalessin…»
Guardò verso est. La cima del Monte di Gont, al di sopra della foresta, era rossa e ancora illuminata dal chiarore che aveva ormai lasciato il punto dove si trovava Tenar. Il colore svanì pian piano, mentre la donna lo osservava. Lei distolse lo sguardo per qualche istante e, quando tornò a osservare la cima, la vide grigia, cupa, e la foresta che copriva il fianco del monte le parve nera.
Attese ancora che spuntasse la stella della sera, poi, quando la vide splendere al di sopra dei vapori del cielo, tornò lentamente verso casa.
Una casa che non era la sua. Perché rimaneva lì nella casa di Ogion, invece di ritornare alla Fattoria delle Querce, e perché si occupava delle capre e delle cipolle di Ogion e non delle sue pecore e dei suoi alberi da frutto? «Aspettalo», le aveva detto Ogion, e lei l’aveva aspettato; il drago era giunto; Ged si era ristabilito; abbastanza, almeno. Tenar aveva fatto la sua parte. Aveva badato alla casa. Non c’era più bisogno di lei. Era tempo che se ne andasse.
Eppure, non riusciva a lasciare quell’alta cornice di roccia, quel nido di falco, per ritornare nella pianura, dove la vita era facile, dove non soffiava il vento: al pensiero, si sentiva mancare il cuore, e si rabbuiava. Non aveva fatto un sogno, sotto la piccola finestra d’occidente? E non era venuto a trovarla un drago, lassù?
La porta della casa era aperta come sempre, per lasciar passare la luce e l’aria. Sparviero sedeva al buio, su un basso sgabello, vicino al focolare che Tenar aveva già spazzato. Amava sedere là, e Tenar pensò che doveva essere il posto dove si sedeva da bambino, durante il breve apprendistato presso Ogion. Anche lei sedeva sempre in quel luogo d’inverno, quando era allieva del mago.
Ged la guardò, quando Tenar fece il suo ingresso; fino a un attimo prima non aveva guardato la porta, ma più in là, sulla destra, l’angolo in ombra dietro il battente. C’era il bastone di Ogion, di quercia, pesante, liscio dove il mago lo afferrava, alto come lo stesso Ogion. Accanto Therru aveva messo il bastone di nocciolo e quello di ontano che Tenar aveva tagliato per loro, sulla strada per Re Albi.
Tenar pensò: il suo bastone di mago, il bastone di tasso, quello che gli ha dato Ogion, dov’è? E nello stesso tempo: perché questo particolare mi è venuto in mente soltanto ora?
Nella casa era buio, e si aveva un’impressione di chiuso. Tenar provò un senso di oppressione. Aveva sperato di poter parlare con Ged, ma all’improvviso si accorse di non avere niente da dirgli, e che anche Ged non aveva niente da dire a lei.
«Ho pensato», disse infine la donna, mettendo in ordine i quattro piatti, sul ripiano di quercia, «che ormai dovrei ritornare alla mia fattoria.»
Ged non disse niente. Forse fece un cenno con la testa, ma in quel momento Tenar gli voltava la schiena.
Tutt’a un tratto, lei si accorse di essere molto stanca, e sentì il bisogno di andare a dormire; ma Ged sedeva davanti all’ingresso, e non era ancora buio; Tenar non poteva svestirsi davanti a lui. Per la vergogna, provò una forte irritazione; stava per chiedergli di uscire un momento, quando Ged si schiari la gola e parlò, in tono leggermente esitante.
«I libri», disse. «I libri di Ogion. Il libro delle Rune e i due libri delle formule e dei miti. Li porti via con te?»
«Con me?»
«Sei stata il suo ultimo allievo.»
Tenar si avvicinò al focolare e si sedette sulla sedia a tre gambe appartenuta a Ogion.
«Avevo imparato a scrivere le Rune hardiche, ma credo ormai di essermele dimenticate. Inoltre aveva cominciato a insegnarmi la lingua dei draghi, e in parte me la ricordo ancora. Ma nient’altro. Non sono mai diventata un mago, un adepto. Mi sono sposata, te l’ho detto. Pensi che Ogion avrebbe lasciato i suoi libri magici alla moglie di un fattore?»
Dopo una breve pausa, Ged chiese: «Allora, non li ha lasciati a nessuno?»
«Certamente intendeva lasciarli a te.»
Ged non disse niente.
«Sei stato il suo apprendista, e il suo orgoglio, e inoltre eri suo amico», gli ricordò Tenar. «Non l’ha mai detto espressamente, ma è chiaro che vanno a te.»
«Che cosa me ne faccio?»
Lei lo guardò, nella penombra. Dalla finestra giungeva ancora un riflesso di luce. Il tono severo, incomprensibile, iroso di Ged irritò Tenar.
«Tu, l’Arcimago, lo chiedi a me? Perché mi tratti come se fossi più sciocca di quel che sono, Ged?»
A quel punto, lui si alzò. Con voce tremante, disse: «Ma tu… non capisci che è tutto finito?»
Lei lo fissò, cercando di leggere l’espressione del suo viso, ma non riuscì a distinguerla.
«Non ho più Poteri. Li ho consumati… tutti quelli che avevo. Per chiudere… Per fare… Tutto è finito.»
Tenar cercò di non prestare fede a quelle parole, ma era impossibile.
«Come versare dell’acqua», proseguì Ged. «Come versare nella sabbia un bicchiere d’acqua. Nel deserto. Sono stato costretto a farlo. Ma adesso non ho più niente da bere. E che differenza può fare, un bicchier d’acqua in più o in meno, nel deserto? Il deserto è forse sparito? Ah! Ascolta… Me lo sussurrava sempre, da dietro quella porta: ascolta! Ascolta! E io mi sono recato in quel deserto quando ero giovane. E laggiù l’ho incontrata, sono diventato lei, ho sposato la mia morte. Mi ha dato la vita. L’acqua della vita. Ero un ruscello, una sorgente, che continuava a scorrere, a dare. Ma laggiù non scorrono ruscelli. Alla fine, tutto quel che mi rimaneva era un bicchiere di quell’acqua, e l’ho dovuta versare nella sabbia, sul letto del fiume prosciugato, sulle rocce avvolte dalle Tenebre. Perciò è finita.»
Tenar aveva imparato abbastanza, da Ogion e da Ged, per capire di quale terra parlasse, e che quelle immagini non servivano a mascherare la verità, ma erano la verità che lo stesso Ged aveva conosciuto. Sapeva anche di dover negare le parole di Ged, anche se erano vere. «Devi avere ancora pazienza, Ged», gli disse. «Ritornare dal regno della morte deve essere un lungo viaggio… anche sulle spalle di un drago. Ti occorrono tempo e tranquillità, riposo e silenzio. Sei stato male, ma in futuro guarirai.»
Per qualche tempo, Ged non disse niente, e Tenar cominciò a pensare di avere detto la cosa più giusta, di avergli dato un po’ di conforto. Ma alla fine Ged disse:
«Come la bambina?»
Fu come una di quelle lame talmente affilate che non le senti neppure, quando ti trafiggono.
«Non capisco», continuò Ged, con lo stesso tono di voce basso e asciutto, «perché l’hai presa con te, pur sapendo che non può guarire. Sapendo come dev’essere la sua vita. Suppongo che faccia parte del tempo in cui siamo vissuti finora: un tempo buio, un’epoca di rovina, un tempo in cui tutto doveva finire. L’hai presa, suppongo, per lo stesso motivo per cui io sono andato ad affrontare il mio nemico, perché non potevi fare altro. E così dobbiamo entrare nella nuova epoca con le spoglie della nostra vittoria sul male. Tu con la tua bambina bruciata, e io senza quel che avevo.»
La disperazione parla così, pensò Tenar. In tono pacato, senza alzare la voce.
Si voltò verso la porta, cercando con lo sguardo il bastone del mago, ma l’angolo dietro il battente era troppo buio. Ormai era scesa l’oscurità, dentro e fuori. Dalla porta aperta si scorgeva un paio di stelle, alte e pallide. Tenar le guardò e si chiese che stelle fossero. Si alzò e raggiunse la porta, cercando a tastoni il bordo del tavolo. Si era già levata la foschia della notte, e non si vedevano molte stelle. Una di quelle che aveva visto era la stella bianca dell’estate che si chiamava, nella lingua di Atuan, Tehanu. Non riuscì a riconoscere l’altra. Non sapeva come si chiamasse Tehanu in hardico, e neppure il suo nome vero, quello usato dai draghi. Sapeva solo come l’avrebbe chiamata sua madre: Tehanu. Tenar.
«Ged», chiese dalla soglia, senza girarsi, «con chi vivevi, da bambino?»
Anche Ged si alzò e si fermò sulla soglia per guardare l’orizzonte velato dalla foschia, le stelle, la mole scura della montagna incombente sopra di loro.
«Con nessuno in particolare», rispose. «Mia madre è morta poco dopo la mia nascita. Avevo dei fratelli più grandi,_ma non li ricordo. Poi c’era mio padre, il fabbro. E la sorella di mia madre, che era la strega di Dieci Ontani.»
«Come zia Muschio?» chiese Tenar.
«Più giovane. Aveva dei Poteri.»
«Come si chiamava?»
Ged non rispose.
«Non ricordo», disse infine, lentamente.
Proseguì, dopo qualche istante: «Mi ha insegnato i nomi: falcone, falco pellegrino, aquila, falco pescatore, astore, sparviero…»
«E come chiamate quella stella? Quella bianca, alta.»
«Il Cuore del Cigno», rispose Ged, guardando in alto. «Ma a Dieci Ontani la chiamano la Freccia.»
Non disse il suo nome nella Lingua della Creazione, né i nomi veri dei rapaci che la strega gli aveva insegnato.
«Quel che ho detto prima», si scusò Ged, «era sbagliato. Non dovrei parlare. Perdonami.»
«Se non vuoi parlare, non posso fare altro che andarmene», disse Tenar. Si voltò verso di lui. «Perché pensi solo a te, sempre a te? Va’ fuori per qualche minuto», aggiunse con irritazione. «Devo cambiarmi.»
Sorpreso, Ged uscì, mormorando qualche parola di scusa. Tenar si recò in fondo alla stanza, si spogliò e s’infilò sotto le coperte, nascondendo la faccia contro il collo morbido e tiepido di Therru.
«Sapendo come dev’essere la sua vita…»
La collera di Tenar, la stupida negazione di quel che Ged le aveva detto, nasceva dalla delusione. Anche se Lodola aveva detto decine di volte che non si poteva fare niente, continuava a sperare che Tenar potesse guarire le ustioni della bambina; e anche se aveva sempre affermato che neppure Ogion sarebbe riuscito a farlo, Tenar sperava che Ged fosse in grado di guarirla: la sua mano passava sulle cicatrici e la pelle ridiventava integra e sana, l’occhio morto riprendeva a vivere, la mano rattrappita riprendeva a muoversi, la vita distrutta ritornava intatta…
«Sapendo come dev’essere la sua vita…»
La gente che distoglieva lo sguardo, che faceva scongiuri contro il male, l’orrore e la curiosità, la falsa pietà e l’indiscrezione minacciosa, perché la disgrazia attira il male… E mai un uomo. Mai qualcuno che l’abbracciasse. Tolta Tenar. Oh, Ged aveva ragione: per la bambina, la morte sarebbe stata preferibile. Avrebbero fatto meglio a lasciarla andare nel deserto di cui le aveva parlato Ged, lei e Lodola ed Edera, tre vecchie impiccione, crudeli e tenere di cuore. Ged aveva ragione, aveva sempre ragione. Ma, allora, gli uomini che l’avevano usata per i loro bisogni e i loro giochi, la donna che aveva permesso loro di usarla… avevano fatto bene a picchiarla sino a farle perdere i sensi, e a gettarla poi nel fuoco perché morisse bruciata. Però, non erano andati sino in fondo. Avevano perso il coraggio, avevano lasciato un po’ di vita dentro di lei. Quello era stato lo sbaglio. E tutto quello che aveva fatto lei, Tenar, era sbagliato. Da bambina, lei era stata data alle Potenze delle Tenebre: era stata divorata da loro e si era lasciata divorare. Pensava che bastasse attraversare il mare, imparare un’altra lingua, prendersi un marito, mettere al mondo dei figli, vivere semplicemente la propria vita, per non essere più quello che era… la loro servitrice, il loro nutrimento, la loro proprietà da usare per i propri bisogni e per i propri giochi? Poiché lei stessa era rovinata, aveva portato a sé un’altra vita rovinata, parte della sua stessa rovina, incarnazione del suo stesso male.
La bambina aveva i capelli fini, caldi, profumati. Dormiva rannicchiata fra le braccia di Tenar e sognava. Che male poteva costituire? Le avevano fatto del male irreparabile, ma lei stessa non costituiva un male. Non era perduta, no, no. Tenar la strinse a sé e rimase immobile, pensando alla luce dei suoi sogni, alle immense distese di cielo chiaro, al nome del drago, al nome della stella, il Cuore del Cigno, la Freccia, Tehanu.
Era intenta a pettinare la capra nera per raccogliere la fine lanugine che poi lei stessa contava di filare e di portare al tessitore del villaggio che ne avrebbe fatto la stoffa leggera simile a seta, caratteristica dell’Isola di Gont. La vecchia capra nera era stata pettinata un migliaio di volte, e la cosa le piaceva: lei stessa spingeva in direzione contraria a quella del pettine. La lanugine di colore grigio scuro divenne pian piano una nuvoletta morbida e polverosa, e Tenar infine la mise dentro una rete; tolse alcuni cardi dalle orecchie della capra, come ringraziamento, e le diede affettuosamente una pacca sul fianco a barilotto. «Beeh!» fece la capra, e trotterellò via. Tenar uscì dal recinto e si diresse verso l’ingresso della casa, poi si guardò attorno per controllare se Therru giocava ancora nel prato.
Muschio aveva insegnato alla bambina come intrecciare cestini d’erba, e la piccola, anche se non poteva usare bene la mano invalida, cominciava a imparare. In quel momento sedeva sull’erba del prato, con il lavoro sulle ginocchia, ma non lavorava. Guardava Ged.
Questi era fermo a una certa distanza, sul ciglio del Precipizio. Voltava la schiena alla casa, e non sapeva di essere osservato, perché a sua volta stava osservando un uccello, un giovane gheppio, il quale a sua volta osservava una preda che doveva avere scorto in mezzo all’erba. Sospeso nel cielo, batteva lentamente le ali per mettere in fuga il piccolo roditore, topo o arvicola che fosse, terrorizzandolo in modo da farlo correre al nido. L’uomo era teso e immobile come il rapace, e pareva altrettanto affamato. Lentamente, sollevò la mano destra, tese il braccio e disse qualcosa, anche se il vento si portò via le sue parole. Il gheppio cambiò bruscamente direzione di volo, lanciò il suo grido acuto, secco e lamentoso e poi fuggì verso la foresta.
L’uomo abbassò il braccio e rimase immobile a guardare il rapace. La bambina e la donna non si mossero. Solo il gheppio volò via, libero.
«Una volta è arrivato da me sotto forma di falco, di falco pellegrino», le aveva raccontato Ogion, vicino al fuoco, un giorno d’inverno. Le parlava degli incantesimi di trasformazione, del mago Bordger che era diventato un orso. «È volato fino a me, e mi si è posato sul polso; veniva da nordovest. Io l’ho portato qui, vicino al fuoco. Non riusciva a parlare. Però, dato che lo conoscevo, sono riuscito ad aiutarlo, ha potuto lasciare il suo aspetto di falco e tornare a essere uomo. Ma in lui c’è sempre stato qualcosa del falco. Nel suo villaggio lo chiamavano Sparviero perché i falchi selvatici si recavano da lui, al suo richiamo. Ma chi siamo noi? Che cosa significa essere uomo? Prima che gli venisse dato il suo nome, prima che avesse coscienza, prima che avesse Potere, c’era già in lui il falco, e l’uomo, e il mago, e altro ancora… era qualcosa che non possiamo definire. E tutti noi siamo come lui.»
Nell’ascoltarlo, la ragazza che sedeva accanto al focolare e che guardava le fiamme vedeva il falco; vedeva l’uomo; vedeva gli uccelli che volavano da lui, al suo richiamo, quando li chiamava per nome, e battevano le ali per tenersi al suo braccio con i loro artigli appuntiti; e vedeva se stessa come il falco, come l’uccello selvatico.