I

«Dovere…» rispose lei, poi rivolta a Olimpia e Giulietta: «Dai andiamo, vi accompagno a mettervi il costume… non capisco tutta questa fretta degli uomini, che fanno il bagno senza cambiarsi!».

«Già…»

«E vero… Hanno sempre troppa fretta.»

E ridendo andarono negli spogliatoi.

Poco più tardi furono tutti in piscina. Passarono un pomeriggio bellissimo fatto di un caldo sole, di tuffi e di qualche altro scherzo. Riccardo si addormentò sul lettino gonfiabile in mezzo alla piscina e per l’ora del tè gli amici non poterono fare a meno di svegliarlo rovesciandolo.

Arrivò Maria Tondelli, la cameriera, che portò del tè verde freddo, alla menta, alla pesca, al ribes, e dei biscotti fatti in casa. Erano al cioccolato, alla crema, alla vaniglia e anche alla cannella. Maria li mise sul piccolo tavolino bianco di ferro battuto vicino ai lettini, poi guardò Claudine. «Ci sono anche quelli che ti piacciono tanto.»

La ragazza le sorrise. «Grazie.» Andava particolarmente d’accordo con Maria Tondelli e questo aveva sorpreso un po’ tutti, che conoscevano il carattere chiuso di Claudine. Poi la cameriera si allontanò e subito i ragazzi si tuffarono sui biscotti.

«Mmm, buonissimi.»

Tancredi ne aveva preso uno al cioccolato. «Sai, Francesco, che anche Claudine li sa fare?»

Francesco non capiva bene se fosse uno scherzo o no. «Sul serio sei così brava?»

«Ancora credi a mio fratello? Ma da quanto lo conosci? E comunque non è vero, non so fare proprio niente in cucina…»

Tancredi decise di non mollare. «Ma ha tantissime altre qualità che un uomo con un po’ di cervello non può non indovinare…»

Claudine si mise a ridere. «Ti sta mettendo in mezzo, vuole convincerti che io sia brava in non so che cosa…»


«Già…» Francesco senza volere pensò al sesso e questa cosa lo eccitò.

Claudine se ne accorse ma fece finta di niente. Anzi cambiò discorso. «Hai sentito Gianfilippo?»

Tancredi dava ogni tanto qualche piccola spinta e scherzava con Olimpia cercando di recuperare, ma lei gli teneva il broncio. «No, tu?»

«Sì, non poteva venire questo weekend perché doveva studiare, ha fatto altri due esami, sai che ha quasi finito l’università?»

«Sì.» Tancredi cercò di baciare Olimpia che ridendo si sottrasse a quell’ennesimo tentativo. «Deve aver preso da papà. Noi invece abbiamo i geni di mamma, preferiamo divertirci.»

Questa volta Tancredi riuscì finalmente a dare a tradimento un bacio a Olimpia che resistette per un po’ a bocca chiusa e poi si arrese.

«Già…» fece Claudine. «Può essere…» Poi stranamente si incupì e si allontanò mangiando un biscotto. Si fermò in un angolo del giardino, si tolse i grandi occhiali da sole, li lanciò su un lettino e si buttò in piscina. Fece un tuffo perfetto con le gambe unite e senza sollevare troppa acqua. Riaffiorò poco dopo in mezzo alla piscina. I capelli, ora più scuri, erano tutti indietro. Iniziò a nuotare perfettamente a rana: da dove si trovava, Francesco poteva osservare le sue gambe lunghe e abbronzate piegarsi e al-lungarsi. Arrivata in fondo alla piscina fece una capriola, toccò con i piedi il muro, si spinse e nuotò sott’acqua. Ri-emerse poco più avanti e continuò per un po’ a rana. Poi all’improvviso si fermò, andò di nuovo sotto con la testa e quando uscì buttò lentamente fuori l’aria dal naso. Era a filo d’acqua. I suoi occhi verdi colpirono Francesco. Era veramente bella, sexy e strana con quei silenzi, quei suoi segreti. Non capiva bene che persona fosse, però gli piaceva un sacco. Claudine tornò improvvisamente allegra per un’idea che aveva appena avuto.


«Ehi Tank, perché tu e i tuoi amici non rimanete a cena?»

Tancredi fece una carezza a Olimpia, poi guardò gli altri. «Perché invece non andiamo tutti insieme a mangiare da qualche parte qui intorno? E pieno di posti dove cucinano benissimo!»

«Ma abbiamo Franca! È la miglior cuoca che ci sia!

Ci può preparare quello che vogliamo, meglio di qualsiasi ristorante… sai quanto ci tiene papà alla cucina. E

poi a me non va di muovermi!»

Tancredi sbuffò. Era la solita storia. La cosa più difficile era farla uscire di casa. Ma non era il momento di iniziare una discussione davanti agli altri.

«Ok. Come vuoi» fece Tancredi. «Siete d’accordo anche voi?»

«Sì, sì, certo.»

«Per me va bene.»

«Anche per me!»

Nessuno di loro aveva obiezioni da fare e Claudine era ancora più felice.

«Avete qualche preferenza? Volete una cena pie-montese, lombarda, cucina toscana, siciliana, o volete qualcosa di francese? Dirò tutto io a Franca… Ve lo giuro, ogni sera provo a metterla in difficoltà, ma niente, non ci sono mai riuscita. A furia di leggere nuove ricette, sto diventando anch’io una cuoca!»

Le ragazze decisero per una cena tutta francese, con tanto di crêpe salate per iniziare e dolci per finire e in più le chiesero se era in grado di preparare della selvag-gina come secondo. Olimpia e Giulietta si ricordarono di alcuni piatti particolarissimi che avevano provato in un ristorante francese.

«Era un capriolo in salmi.»

Ma Franca non si smentì, conosceva anche quello.

«Lo preferite con il sugo rosso o in bianco?»

A quella domanda tutte le ragazze erano naturalmente impreparate. Così andarono a fare la doccia. Claudine in camera sua, Francesco e Riccardo in una camera degli ospiti, Giulietta ne ebbe una tutta per lei. Tancredi, che ormai si era fatto perdonare, accompagnò Olimpia nella camera scelta apposta per lei ma prima la dirottò nella sua con una scusa.

«Il mio bagno è più elegante, te lo vorrei mostrare…»

Poi chiuse la porta. Olimpia sorrise, si lasciò sfilare il costume e poco dopo si stavano baciando sotto l’acqua calda. Scendeva abbondante dalla grande doccia, som-mergeva i volti dei due giovanissimi ragazzi che non se ne curavano, tanta era la voglia di quelle bocche piene di passione. Le mani di Tancredi cercavano, frugavano, delicatamente accarezzavano fino a spingerla contro il muro, ad alzarle le gambe… «Stai attento…» furono le uniche parole di Olimpia. Poi un sospiro, sentendolo entrare dentro di lei, e continuarono così, sotto l’acqua calda, travolti dal desiderio. Quando si spostarono sul letto, si tuffarono sulle lenzuola, scivolando sui loro corpi ancora bagnati, amandosi con passione, leccan-dosi, assaggiandosi, mordendosi, perdendosi… Tancredi rimase per un po’ in silenzio sopra di lei. Dalla finestra entrava l’ultimo tramonto. Alzò un po’ la testa, la guardò negli occhi, illuminati da quella luce del giorno, gli sembrò il momento adatto per dire ciò che non aveva mai detto prima.

«Io ti amo.»

Lei lo guardò, il suo viso si aprì in un sorriso incredibile e lo abbracciò stringendolo forte, poi fece un respiro enorme.

«Vorrei stampare le tue parole sul mio cuore e sotto avere la tua firma, così non potresti mai negarlo…»

Poi si staccò da lui per guardarlo negli occhi. «Quindi mi ami…»

Tancredi sorrideva nascosto tra le sue braccia ma non voleva guardarla negli occhi. Olimpia si muoveva su e giù, a destra e sinistra, cercando di incontrare il suo sguardo.

«Ehi, che fai, ci hai già ripensato?» Lo provocava e intanto rideva. Era un’entusiasta della vita. Forse per questo era riuscita a farlo innamorare.

Poi Tancredi si tirò su e la guardò negli occhi. «Sì, te l’ho detto, ti amo. Allora? Dove devo firmare?»

Poco dopo erano tutti a cena. Le crêpe salate erano buonissime. Francesco, che sembrava intendersi di vini, era andato nelle cantine a sceglierlo. Ci aveva messo molto e tutti, soprattutto Tancredi, avevano pensato al peggio, anzi al meglio, visto che l’aveva accompagnato Claudine. Quando tornarono tutti li presero in giro.

«Finalmente! Ce l’avete fatta!» Poggiarono le bottiglie sul tavolo. «Allora? Vi eravate persi? Oppure… vi siete trovati?»

Francesco si sedette, sembrava un po’ scocciato. «Ci sono più di cinquemila vini in questa cantina.»

«Che cosa hai preso?»

Avevano scelto del vino francese per essere in tema con la cena, delle bottiglie di Château La Mondotte Saint-Emilion.

Claudine, a differenza di Francesco, era serena e sorridente.

La cena continuò tranquilla. Franca ancora una volta aveva superato se stessa. La mamma di Claudine e Tancredi aveva preferito mangiare prima per non di-sturbarli e il padre aveva avvisato che sarebbe tornato il giorno dopo.

Verso mezzanotte i ragazzi se ne andarono.

«Tornate presto, mi raccomando!» Claudine li salutò come una perfetta padrona di casa. Le auto erano state lavate e Tancredi decise di dare personalmente un passaggio a Francesco. Prima accompagnarono Olimpia a casa. Tancredi la baciò di nuovo sulla porta. Poi, prima che se ne andasse, lei lo fermò.

«Vale sempre quel discorso?»

«Quale?»

«Quello che mi hai detto in camera tua.»

«Non mi ricordo…»

«Cretino.» Capì che scherzava.

«Ma certo, amore. Ti amo. E poi ho firmato, no?»

Tancredi tornò all’auto, salì di corsa, l’accese e partì.

Poco dopo, quando furono soli, guardò Francesco. Era tutto il pomeriggio che voleva fargli quella domanda.

«Allora? Che te ne sembra di mia sorella?»

«È bellissima e molto simpatica.»

«Bene.» Tancredi annuiva soddisfatto. Francesco si girò verso di lui.

«C’è solo un problema.»

«Quale?»

«Ha un uomo.»

Tancredi rimase a bocca aperta. Questa non se l’aspettava. «E che ne sai?»

«Me l’ha detto lei.»

«E quando?»

«In cantina, mentre sceglievamo il vino.»

«Ah, per questo stavi così.»

«Già…»

«E chi è?»

«Non me l’ha detto. Se non lo sai tu poi… Ti pare che lo viene a dire a me?»

«Già.» Tancredi rimase in silenzio. Sua sorella aveva un uomo. Era l’ultima cosa che avrebbe potuto immaginare.


Il grande panfilo era al largo di Isla Mujeres in Messico. Tancredi si era svegliato presto, all’alba, ed era uscito con il tender insieme a Esteban, un ottimo pescatore che viveva sulla nave e si occupava di rifornire la stiva.

Tancredi amava pescare. Lo aveva sempre fatto fin da giovanissimo, era l’unica cosa che in qualche modo aveva condiviso con il padre. Suo fratello Gianfilippo invece si annoiava un po’, per non parlare di Claudine che aveva per la pesca un vero e proprio odio. Una volta che si trovavano alle Maldive da bambini, Claudine aveva visto Vittorio e Tancredi uscire una mattina in barca. Tenera e sensibile come era lei, li aveva sgridati.

«Già c’è tanta gente che si diverte a rovinare il nostro mondo, dovete mettervi anche voi due a fare gli assas-sini di pesci?»

Il padre aveva cercato di rassicurarla con la sua solita saggezza e tranquillità e soprattutto con senso prati-co. «Amore, noi lo facciamo come sport, altri lo fanno solo per guadagnare. E comunque è una legge della natura. Sai quel piatto che ieri sera ti è piaciuto tanto cos’era?»

Claudine era rimasta in attesa della risposta.

«Era un astice, un crostaceo. L’hanno pescato e tu lo hai mangiato. Però ti è piaciuto, no? Che differenza ci vedi con quello che andiamo a fare noi?»

Claudine era scappata sentendosi terribilmente in colpa. La madre era rilassata davanti al suo bungalow a prendere il sole, quando l’aveva vista rientrare piangendo e chiudersi la porta alle spalle. Le ci era voluta tutta la mattina per convincere la figlia che non era assolutamente colpevole della morte di quell’astice. Alla fine ci era riuscita dovendo però rinunciare a un bel massaggio, che poi era la principale ragione per la quale lei andava al Conrad Rangali Resort delle Maldive.

Naturalmente Vittorio ed Emma avevano litigato.

«Cosi spaventi tua figlia…»

«Amore, è solo per farle capire come va la vita…»

«Sì, ma che fretta c’è?»

«D’accordo, però dobbiamo aiutarla a essere meno emotiva, non credi?»

«Sì, però adesso per colpa tua va in giro sentendosi un’assassina di astici! E pensare che era una delle poche carni che oltre tutto le piacesse…»

Gianfilippo e Tancredi la prendevano in giro e ridevano moltissimo della sorella.

Quella vacanza a Natale alle Maldive era da sempre uno dei ricordi più belli e cari che Tancredi avesse. Era stata forse l’unica volta in cui aveva sentito la sua famiglia unita. Andava a pesca la mattina con suo padre e la sera cenavano tutti insieme a quel tavolo apparecchiato sul pontile, che sembrava galleggiare sotto le stelle.

Tancredi si divertiva ogni tanto a buttare un pezzo di pane. Non faceva in tempo a toccare l’acqua che subito spariva ingoiato al volo da uno dei tanti pesci. Allora ne buttava subito un altro e loro si precipitavano in branco. Tancredi li guardava stregato da quei riflessi della luna sulle squame, sembravano come dei bagliori, delle lame argentate sott’acqua. Nel silenzio, sotto quella banchina, si sentivano solo gli schizzi di quei pesci.

Aveva pensato spesso a quelle cene con la sua famiglia sull’isola. Erano stati gli unici momenti in cui si era sentito felice.

«Eccolo, eccolo, è preso, è preso!» Esteban gli fece I

notare che il mulinello dalla sua canna aveva cominciato a correre a una velocità incredibile. Tancredi si era completamente distratto, inseguendo i suoi ricordi.

«Lasci andare, lasci andare… Non è tempo.»

Esteban si raccomandò di non bloccare il rocchetto, di farlo correre ancora affinché il grosso pesce, che doveva aver preso, si sfiancasse. Poi afferrò un secchio, lo calò in mare, lo tirò su per la corda che era legata al manico e rovesciò un po’ d’acqua sul mulinello che ancora correva.

«Così non si scalda troppo» gli spiegò Esteban. Tancredi annuì, anche lui conosceva quei trucchi.

Chiuse gli occhi per evitare gli schizzi dell’acqua buttata sul mulinello. Faceva caldo e questo lo rinfrescò.

Poi infilò una mano nel secchio, si bagnò le spalle, il petto e infine la pancia. Era abbronzato e dimagrito.

Era ormai da una settimana al largo del Messico con il suo panfilo Ferri. Quello era il gran giorno. Guardò l’orologio. Sarebbe dovuto arrivare nel primo pomeriggio. Gli aveva detto di aspettarlo per le e così sarebbe stato, ne era sicuro.

«Ora!» Esteban vide che il mulinello si era fermato, il pesce doveva essersi stancato ed era quindi il momento di recuperare. «Tiri, tiri…»

Tancredi provò ma, sentendo troppa resistenza, allentò di nuovo la presa e lasciò andare il mulinello. Il filo di nuovo libero correva via, così che il pesce si stan-casse ancora per qualche minuto. Esteban osservava il rocchetto che si srotolava e poi guardava lontano in ma-re. «Bravo così…» Poi guardò Tancredi.

«Deve essere una bella bestia…»

«Già!»

Esteban era soddisfatto. Poi alzò il sopracciglio. Era preoccupato, il combattimento durava da più di un’ora.

Osservò Tancredi. Aveva un bel fisico, era asciutto, muscoloso, allenato, ma sarebbe stato capace di sostenere una fatica fisica come quella? Esteban aveva visto sfian-carsi uomini ben più grossi di lui.

«Ce la faccio.»

«Eh?»

Tancredi si girò verso Esteban. «Ti ho detto che ce la faccio, non ti preoccupare, non lo perdo, stai tranquillo, dovessi anche metterci qualche ora. Lo mangeremo per cena.»

«Sì, sì, certo, ne sono sicuro» mentì Esteban.

Ma Tancredi gli sorrise per tutta risposta. «No, che non ne sei sicuro.» Conosceva bene la psicologia delle persone che lo circondavano. «Se lo perdo, vorrà dire che stasera ti servirò io a cena una di quelle belle aragoste che abbiamo a bordo, se invece lo porto in barca, me lo cucini tu come sai fare…»

Esteban sorrise ammettendo di essere stato scoperto. Poi si preoccupò della scommessa. Lo avrebbe imbarazzato essere seduto a tavola e servito da Tancredi Ferri Mariani in persona. Il boss, come lo chiamava lui, non era certo tipo da non pagare una scommessa, anche se così particolare come quella. Ma ciò che lo preoccupava era il rapporto con il comandante e tutto l’equipaggio. Cosa avrebbero detto di lui? Esteban fece un sospiro. Ormai era fatta. Controllò la canna troppo piegata.

«Non così, non così, señor. Non sta tirando troppo?»

«Lasciami fare. Ci sto giocando. Lo stanco ancora un po’… e poi gli do di nuovo corda. Ecco, così.»

Tancredi liberò il mulinello. Il rocchetto cominciò a correre veloce. «Vedi…»

Infilò la canna nel passante della cintura. Aveva le braccia libere, così le allungò, stirandosi un po’ i muscoli. «Portami una birra, Esteban, por favor… Mi sa che ne avremo ancora per molto.»

«Subito, señor.» E infatti così fu. Ci vollero tre ore e mezza di continui tira e molla, recuperare parte del filo \

e poi lasciar andare di nuovo il mulinello, ma alla fine Tancredi tirò sulla barca un marlin da settanta chili.

«Fiuuu, che bestia!»

«Complimenti, señor.»

Esteban era veramente sorpreso e anche stupito di come ce l’avesse fatta con la schiena piegata in quel mo-do a resistere sotto il sole.

Tancredi era sfinito. Il potente Marlin sbatteva la grossa pinna sulle tavole della barca ed Esteban, prima che potesse fare un salto in acqua e mettere a repentaglio l’esito della loro scommessa, lo trafisse veloce con un machete da parte a parte.

«Veramente un diablo, señorl Complimenti sul serio.»

Tancredi si aprì un’altra birra. «Non credevi che ce l’avrei fatta, eh, Esteban?»

Esteban stavolta fu sincero. «No, señor. Era un pesce molto grande per la maggior parte degli uomini, possibile solo per grandi pescatori.»

Tancredi lo guardò felice di quel complimento e si scolò d’un fiato la birra. Poi prese il secchio con la corda, lo buttò in acqua, lo riempì e se lo rovesciò in testa.

Era a pezzi. Guardò l’orologio. Mezzogiorno, mancavano ancora tre ore. «Forza, torniamo sulla nave.»

I marinai issarono il Marlin con un piccolo argano sopra coperta.

«Bravo, Esteban!» Lo applaudirono facendogli i complimenti e battendogli le mani. «Che pesce!»

Ma Esteban fu ancora più fiero nel rispondere. «Ma che bravo Esteban… Bravo el señor\ Io mica lo tornavo un pesce come quello…»

E tutti risero di quella espressione e furono ancora più sorpresi ed entusiasti di quella pesca.

Poco più tardi Esteban servì il marlin a Tancredi, sul tavolo principale a poppa, sotto l’ombra del ponte.

«Ecco, señor. L’ho fatto alla brace come piace a lei, con un po’ di limone e vino bianco spruzzato mentre arrostiva.»

«Bravo, Esteban. Siediti con me. Mangiane un pezzo anche tu.»

«Non posso, señor. L’equipaggio…»

«E dai, fammi compagnia.»

«Un’altra volta, señor.»

Tancredi decise di non insistere. Si chiese cosa sarebbe successo se avesse perso la scommessa. I debiti di gioco si pagano, in quel caso non esistono padroni o servitori. Mangiò di gusto quel Marlin. Gli sembrava che avesse un sapore particolare, forse perché dentro c’era tutta la fatica di quelle tre ore e mezza che erano servite per tirarlo su. Tancredi inarcò la schiena, gli faceva davvero male. Aveva i muscoli gonfi e doloranti, era tanto tempo che non faceva uno sforzo di quella portata. Prese un bicchiere di Ruinart Blanc de Blancs del. Quello champagne era gelato e buonissimo, perfetto con il pesce. Assaggiò un po’ dell’insalata che gli avevano messo in un piatto lì vicino, pomodori e lattuga. Si chiese come facessero ad averla così fresca.

Erano lontani dalla costa. Per un attimo si domandò se non ci fosse anche un orto a bordo. Poi sorrise di quella stupidaggine. Però non sarebbe stato male. Ne avrebbe parlato con Ludovica, la sua personal stylist. Se fosse stato possibile, lei avrebbe trovato il modo.

Sentiva i muscoli troppo contratti. Ma a quello Ludovica aveva già pensato. Tancredi scese al secondo piano. Le ragazze della sua spa personale gli sorrisero e lo accompagnarono in una cabina. Gli chiesero di cosa avesse bisogno in particolare.

«Un massaggio completo, soprattutto alla schiena, ho i muscoli del trapezio molto duri.»

Poco dopo arrivò una massaggiatrice che lo fece stendere su un lettino. Tancredi la guardò solo per un attimo. Era molto bella, aveva i capelli castani e la I

carnagione scura. La donna gli sorrise con gentilezza ma Tancredi chiuse gli occhi. “Che mi succede? Sono diventato perfino indifferente alla bellezza… se non è quella di Sofia?” Sorrise tra sé. “Forse è colpa del pesce” si disse, “mi ha veramente stancato.” E mentre sentiva le mani della ragazza che iniziavano a sciogliere il suo trapezio, si addormentò. Quando si svegliò guardò subito l’orologio. Dieci minuti alle quindici. Stava per arrivare. Si alzò dal lettino e si accorse che la ragazza aveva fatto un ottimo lavoro. Si fece una doccia calda, togliendosi con il sapone tutto quell’olio. Poi indossò un accappatoio poggiato all’interno della cabina. Aveva le sue iniziali ricamate in acciaio e blu, esattamente come il colore della barca. La personal stylist aveva veramente gusto.

Salì sul ponte e chiese un caffè. Rimase a sorseggiarlo scrutando il cielo verso la costa. Guardò l’orologio. Le.. Niente, ancora niente. Che strano, era in ritardo.

Poggiò la tazzina su un tavolino e trascorse i successivi minuti seduto su una grande poltrona bianca di pelle.

Sfogliò alcuni quotidiani, erano di quel giorno ma non c’era niente che lui non sapesse già o che lo potesse sorprendere. Guardò di nuovo l’orologio. Le.. Il tempo sembrava non passare mai.

Decise di tenersi impegnato. Scese al ponte inferiore e cercò l’attrezzatura. C’era un po’ di vento e sembrava che stesse aumentando. Tancredi sorrise. “Be’, vorrà dire che dopo dovrò fare un altro massaggio. Magari questa volta non mi addormenterò…” Un attimo do-po era in mare. Tirò a sé le manopole, il kite si gonfiò subito, i cavi si tesero e in pochi secondi l’aquilone salì verso il cielo e lo strappò quasi dall’acqua. Tancredi vo-lò via, tenendo ben saldi i piedi dentro le staffe. Atterrò qualche metro più in là e subito, come toccò l’acqua, la tavola che teneva ben ferma sotto di lui cominciò a planare e in pochi secondi era già lontano dal panfilo.


Continuò a navigare in mare aperto. Il panfilo diventava sempre più piccolo, l’acqua più scura e profonda.

Pensò al Marlin che aveva preso, a tutti i pesci che nuotavano sotto di lui, a qualche possibile vendetta. Ma fu solo un attimo. Quella tavoletta volava che era una meraviglia. Forse sarebbe riuscita a seminare perfino uno squalo… Ma era meglio non dover tentare l’impre-sa. Eppure non aveva paura. Aveva sempre preso la vita come una continua sfida. Solo così in qualche modo aveva potuto affrontare e superare la storia di Claudine.

Ma l’aveva veramente superata? Tancredi continuò a correre su quelle onde, portato dal vento, perdendosi tra impossibili domande. Poi cambiò rotta, andò verso ovest e, quando ormai il sole stava per tramontare, prese la via del ritorno.

Il panfilo si avvicinava sempre di più. Mentre stava arrivando spedito con il kitesurf, da dietro la nave comparve l’elicottero. Finalmente. Guardò l’orologio.

Le.. Tancredi lasciò che il kite piano piano per-desse vento, si afflosciò cadendo in acqua poco più in là, mentre lui con la tavola arrivava sotto la scaletta. Diede tutto l’equipaggiamento a un marinaio che gli era venuto incontro, fece al volo una doccia calda esterna, si asciugò, si mise una felpa e corse sul ponte superiore dove l’elicottero stava atterrando. Le pale rallentarono, la porta della cabina si aprì e Gregorio Savini saltò giù. Tenne bassa la testa e stretto al corpo tutto quello che sarebbe potuto volare via. Poi corse verso Tancredi che lo aspettava a qualche metro di distanza.

«Ma cosa è successo? Come mai tutto questo ritardo?»

Savini si scusò. «Non è stato facile.»

Tancredi guardò l’incartamento che Gregorio Savini teneva sotto il braccio.

«È lì?»


«E anche qui» disse lui alzando una valigetta che aveva nell’altra mano.

«Questa ragazza ha avuto una vita particolare.»

«Sì» disse Tancredi. «Immagino di sì.»

Finalmente avrebbe potuto conoscere la vera storia di Sofia.


Tancredi andò nella sua cabina. Era stata ricavata interamente nella prua: un grande salotto, uno studio, un bagno e una camera da letto con due grandi finestre laterali. Erano di plexiglass, spesse oltre quarantacin-que centimetri, pescavano per circa quattro metri sotto la superficie dell’acqua. Avevano un sistema oscurante ma si potevano anche lasciare a vista, così da vedere il mare scorrere sotto la camera da letto. A volte, quando l’acqua era particolarmente trasparente, si riuscivano perfino a vedere i fondali.

Tancredi entrò nello studio. La luce del tramonto illuminava tutta la stanza rendendo quell’ambiente particolarmente caldo. Si sedette al tavolo, prese il fascicolo e lo aprì, poi tirò fuori dalla valigetta tutto il materiale, foto, fogli, e altri documenti. Questa volta Gregorio Savini aveva fatto un lavoro impeccabile, era andato indietro nel tempo, dai primi anni della vita di Sofia fino agli ultimi giorni, quando Tancredi l’aveva vista per la prima volta. Non aveva mai ricevuto una documentazione così dettagliata, neanche quando si era trattato di affrontare grandi affari dove erano in gioco cifre astronomiche. Tancredi non credeva ai suoi occhi.

Non era stato tralasciato niente, ventinove anni di vita passati al setaccio, un fascicolo di oltre cento pagine pieno di appunti.

Gregorio Savini aveva capito che questa volta la posta era diversa. Non sarebbe stata la solita partita e \

soprattutto l’esito non era per niente sicuro. Tancredi decise di non pensarci. Affondò con tutte le mani dentro la vita di quella donna. Sfogliò una dopo l’altra una serie di cartelle. Era emozionato, curioso, preoccupato.

Trovò subito l’atto di nascita, luglio. Sorrise pensando che mancava almeno un mese per poter decidere il regalo. Poi rimase senza parole. Vide le sue prime foto, ancora prima che nascesse, l’ecografia di un essere appena accennato, qualche tratto del viso, il nasino, una mano. Quella era la prima immagine di Sofia. Poi la vide in fasce, in una culla, in una carrozzina, che si teneva aggrappata all’inferriata di un terrazzo. Dietro si vedeva il mare. Chissà dov’erano? Controllò il numero della foto: nove. Cercò sugli appunti il riferimento.

Nove: Mondello, prima vacanza a Palermo. Continuò a sfogliare quelle pagine, si accorse che i genitori erano siciliani, di Ispica, un paese vicino a Modica per l’esattezza. Da giovanissimi si erano trasferiti a Roma e poi erano tornati a vivere in Sicilia. Erano ancora vivi e non si erano separati. Continuò a sfogliare. Quella ragazzina cresceva pagina dopo pagina, i primi dentini, le prime feste, i primi passi, la prima bicicletta, il primo motorino. E le scuole. C’erano perfino i temi.

Gregorio Savini aveva fatto un ottimo lavoro. Tancredi iniziò a leggerli. Si accorse di come uno dopo l’altro la sua scrittura cambiasse, da tonda e infantile diventava piano piano più lineare e precisa, come le sue frasi, i suoi pensieri. Poi gli esami, la maturità e quella ragazzina che diventava improvvisamente donna. Ed ecco il suo primo amore importante e il primo bacio.

Poi passò in rassegna tutte le pagine fotocopiate di un vecchio diario, i suoi disegni, le sue foto, cuori disegnati, scritte con il pennarello, nomi di amiche, altri nuovi possibili amori e frasi rubate a qualche famoso autore e fatte sue.

Tancredi respirava la vita di quella donna, ne sentiva i profumi, studiava i cambiamenti, immaginava i suoi passi, la sua voce, si nutriva di tutti quei mille piccoli dettagli. Tra i vari fogli vide una busta. L’aprì, all’interno trovò una minicassetta. Si alzò e la inserì nel registra-tore. Era la sua segreteria telefonica, ascoltò la sua voce, le sue risposte, le amiche, gli inviti alle feste. Lesse alcuni sms. Rimase sorpreso da come quella ragazza fosse cambiata in quegli anni. Da Ispica era andata a Roma, aveva studiato lì per un breve periodo, poi a Firenze dove aveva vissuto da una zia, ma in tutto quel tempo aveva sempre seguito la passione di una nonna siciliana, il pianoforte.

Un’altra cassetta. Tancredi sentì la prima esibizione. Schubert. Sofia aveva appena sei anni eppure gli sembrava già una pianista eccellente, per quello naturalmente che lui conosceva della musica. Continuò ad ascoltarla suonare, mise una cassetta dopo l’altra e intanto leggeva i temi del liceo, pieni delle sue idee, dei suoi pensieri a volte contorti e complessi, a volte più semplici e ingenui. Sfogliò le foto, anno dopo anno, e quella ragazza sembrava sbocciare sotto i suoi occhi, capelli scuri, poi più chiari, poi più corti, vestiti da bambina, poi da ragazzina, da ragazza, infine da donna. Le feste di Natale, di Pasqua, al mare, a capodanno in montagna e intanto riprendeva i suoi diari, la prima fuga, il primo viaggio all’estero. Provava quasi fastidio nel vedere tutti quegli anni trascorsi in giro per l’Italia, per il mondo, le sue feste, i suoi giorni a scuola, i suoi pomeriggi divertenti o noiosi, di sorrisi o di pianto, ma tutti senza di lui. E improvvisamente si sentì geloso di quel tempo ormai sfuggito, che non sarebbe mai più potuto essere suo.

Poi la sua prima volta. Cercò di carpire da quelle frasi sul quel diario, da quelle lettere, da quelle foto scattate poco prima e subito dopo, come doveva essere stata. Il sesso le era piaciuto? Aveva avuto paura? Aveva provato dolore? Aveva riso, pianto, goduto? Come aveva fatto l’amore con lei quel ragazzo? Con dolcezza, con passione, o in maniera distratta, frettolosa, sbrigativa?

Lesse più volte quel passaggio e immaginò quella storia. Lui, Giovanni, il suo primo ragazzo del suo stesso paese, di Ispica. Sofia lo aveva guardato ogni estate su quella spiaggia, lo aveva visto crescere sotto i suoi occhi, i primi peli, la sua voce che cambiava, la barba.

Continuò a leggere il fascicolo di quel periodo. L’aveva conosciuto in un bar. Aveva più anni di lei, ma Sofia non si faceva problemi. Gli aveva fatto capire che le piaceva ma lui la considerava semplicemente una ragazzina, simpatica, divertente, anche carina, ma non certo una donna. Allora lei aveva deciso di aspettare. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, non aveva fretta. L’aveva preparato ogni estate, era tutto documen-tato in quei diari. Le sue mosse, i suoi passaggi, le sue battute, le telefonate, piano piano era diventata la sua amica del cuore e aveva cominciato a giocare con lui.

Gli faceva regali, sorprese, passava da lui con qualcosa da mangiare, gli lasciava sempre un bigliettino sul suo “motore”, come chiamavano i motorini in quel paese.

Anno dopo anno, Sofia si era spinta sempre più in là, una battuta maliziosa, un’allusione, l’odore del possibile sesso. E così diventò desiderabile per lui e infine una vera e propria ossessione. Poi il cambiamento. Da che scherzava e sembrava non dargli tregua, improvvisamente sparì. Dopo qualche giorno Giovanni era co-me impazzito, allora andò a cercarla a casa e chiese ai genitori, ma Sofia li aveva preparati. «Vado da Lucia a studiare perché c’è uno che non mi dà pace. Anche se insiste non ditegli dove sto!»

I genitori l’avevano presa in parola, così quando Giovanni aveva bussato a casa, avevano fatto finta di essere preoccupati anche loro, gli dissero che ogni tanto Sofia li chiamava per tranquillizzarli ma non sapevano assolutamente dov’era né lei voleva dirglielo. Giovanni sembrava fuori di sé. I genitori di Sofia si erano perfino preoccupati, avevano visto questo ragazzo molto ner-voso, troppo. Pensarono il peggio, una di quelle tante storie d’amore folle che finiscono con un gesto violento.

«Ce ne sono tante oggi! O Santa Maria… Proprio nostra figlia finirà così…»

E invece quando Sofia tornò in paese tutto andò nel migliore dei modi. Giovanni lasciò la sua ragazza, si mi-se con Sofia e iniziò una storia bellissima e passionale.

Quell’estate lei la passò con lui esattamente come aveva deciso. Fu un’estate fatta di libertà, di baci e scoperte, di giri sul motore e notti su tutte le spiagge intorno a Modica. Fu l’estate della sua prima volta. Poi tornò a Roma a studiare al conservatorio. Naturalmente per Giovanni perse qualsiasi interesse. Il suo era stato un semplice capriccio, voleva quella cosa solo perché non la poteva avere e, una volta che l’aveva ottenuta, se ne stancò facilmente.

Tancredi osservò le foto di quel periodo. Il viso di Sofia, il suo sguardo. Qualcosa aveva capito di quella ragazza: era un’ambiziosa, una volitiva, una donna capace, decisa e determinata. Bella e consapevole di esserlo.

In un’altra foto aveva un vestito di cotone leggero, una spallina caduta giù, il seno prosperoso e libero, senza reggiseno. Il vento le scompigliava i capelli, lei si stava passando una mano sulla fronte per cercare di fermarli, e aveva un’espressione come scocciata. Doveva aver capito che la stavano fotografando e in quel momento non avrebbe voluto. Non si sentiva perfetta. Tancredi avvicinò la fotografia per guardarla meglio. Invece lo era.

Anche di più. Bellissima, semplice, provocante. Quel vestito battuto dal vento le si stampava quasi addosso. Sotto la sua pancia piatta faceva qualche piega, poi diventava più aderente, sui fianchi le ricalcava le mutandine mettendone in risalto i piccoli bordi. Tancredi socchiuse gli occhi, si poteva vedere quel piccolissimo nastro di pizzo. Dovevano essere sexy. Poco più sotto il vestito, leggermente increspato, scendeva morbido sul suo sesso. Avvertì il sapore selvaggio di quella foto che non riusciva a nascondere nulla e si eccitò a quel pensiero. Era seduta su un motorino. Le fissò le gambe lunghe e abbronzate, in parte scoperte, e appena socchiuse.

Tancredi si sentì improvvisamente travolgere da un’ondata di passione, sentiva un calore crescere dentro. Voleva quella donna, ora, subito, averla come l’aveva avuta quel ragazzo a vent’anni, possederla su quel motorino, su quella spiaggia, sul tavolo del suo ufficio.

Ma da dove nasceva quell’improvvisa, assurda passione per una donna che aveva visto solo due volte? Avrebbe voluto capire quale ricordo, quale sconsiderata somi-glianza, con chi, quando, come, gli stava provocando tutto questo. Un uragano.

“La voglio. La devo avere.” Ed era quasi rabbia, una fame sessuale. Gli sembrava di impazzire. La sua vita, abituata al comando, improvvisamente disarcionata, cadeva a terra e lo guardava ammutolita. “Com’è possibile?” continuava a gridare dentro di sé. “Com’è possibile? Cosa ti succede, Tancredi?” ripeteva ora più piano, sapendo già di non poter trovare nessuna risposta.

Era come circondato. Il suo ufficio, quel tavolo, quei fogli, quelle foto, tutto ciò che gli stava intorno sapeva di lei. Bevve del rum con ghiaccio e limone, se lo servì da solo, non voleva sentire né vedere nessuno. Poi riprese a leggere, a sfogliare, a guardare altre foto. E

in un attimo era di nuovo nella vita di quella ragazza.

Il conservatorio, la sua vita a Firenze, un esame dopo l’altro e poi di nuovo a Roma. Sofia aveva cominciato a suonare nelle più grandi orchestre europee. All’età di diciannove anni aveva debuttato a Vienna e non si era fermata più. Parigi, Londra, Bruxelles, Zurigo, in giro per il mondo, concerti con i più grandi direttori d’orchestra. Non erano più diari o foto a parlare di lei ma filmati. Uno dopo l’altro Tancredi poté vedere dei concerti meravigliosi. Per la prima volta, da quando era nato, ascoltava con un’emozione diversa Chopin, Schubert, Mozart. Dalla sua cabina, uno dopo l’altro si levarono pezzi classici tutti perfettamente eseguiti da una grande pianista: Sofia Valentini. Non staccava gli occhi da lei, come rapito la seguiva piegata sui tasti di quel pianoforte. Una televisione austriaca, una polacca, una francese, una tedesca e infine una scozzese, tutte ne avevano messo in risalto la bravura, la perfezione, la freddezza, la precisione dell’esecuzione. Tancredi aveva osservato per ore le sue mani, aveva infilato uno dopo l’altro quei dvd, aveva vissuto i suoi successi in giro per il mondo e l’aveva trovata sempre più bella, in Argentina come in Brasile, in Canada come in Giappone. Era stupito dalla bravura di quella donna, ma soprattutto sorpreso da quello che provava per lei. Prima l’aveva desiderata tantissimo fisicamente. Ora quasi se ne vergognava. Era come se aver desiderato solo il suo corpo fosse peccato. Sì, peccato. Si ritrovò ad ascoltare quella parola come un’eco lontana, che echeggiava nel suo cervello, lo teneva sveglio e lucido in quella notte fonda, su quel panfilo, in mezzo al mare, al largo del Messico.

Si appoggiò allo schienale della poltrona, prese il telecomando e fermò il filmato. Dov’era ora Sofia? Cosa stava facendo? Che ora era a Roma? Era notte? Stava dormendo? Guardò quell’ultimo fascicolo rimasto. Gli mancavano gli ultimi otto anni. Eppure era più piccolo degli altri. Bevve l’ultimo sorso del suo rum. Cos’era successo in quel periodo? Come mai c’erano così poche pagine? Chi aveva conosciuto? Con chi viveva? Aveva dei figli? Perché aveva smesso di suonare? Era sposata? E soprattutto, era felice? E per un attimo Tancredi si sorprese. Avrebbe voluto bruciare tutto, non sape-I

re più niente di quella donna, dimenticarla, non averla mai incontrata. Ma sapeva che essere entrato in quella chiesa era stato solo l’inizio. Ormai non poteva più tirarsi indietro. Era troppo tardi. Allora si versò dell’altro rum, diede un lungo sorso e aprì l’ultimo incartamento.

Cominciò a leggere. Vide altre foto, altri filmati e alla fine capì.

Era l’alba. I gabbiani volavano bassi sull’acqua. I loro versi echeggiavano lontani su quel mare piatto. Le prime luci del sole che stava sorgendo illuminarono il panfilo. Dalla cabina di prua venivano le note di Schubert, il suo ultimo concerto. Tancredi era lì che la guardava, bella e irruente su quel pianoforte. Ora aveva capito perché un talento di quella portata aveva rinunciato alla musica. E sapeva anche perché l’aveva incontrata. Era come lui. Un’anima alla deriva.

«Allora, come ci sentiamo oggi?»

«Meglio di ieri e peggio di domani.»

Andrea sorrise a Stefano. Era diventato ormai il lo-ro buongiorno. Si vedevano tre volte a settimana. Da quando si erano conosciuti il loro rapporto era molto cambiato.

Subito dopo l’incidente le cose non erano certo state così facili.

«Amore… c’è lo psicoterapeuta.» Sofia rimase sulla porta lasciandolo entrare. Andrea girò lentamente la testa. Nella penombra vide un ragazzo della sua età, forse di poco più grande. Era alto, magro, con i capelli corti, sorrideva e soprattutto era in piedi sulle sue gambe. Andrea lo guardò per un attimo, poi voltò di nuovo la testa verso la finestra. La tapparella era abbassata. La luce filtrava appena. Ci doveva essere il sole fuori. Si sentiva la voce di ragazzi, era come un’eco lontana.

«Dai passa, lancia lungo…»

Si sentiva la loro fatica, la loro corsa, il rumore di quei passi sul campo assolato. Se lo immaginò asciutto, bianco, impolverato. Giocavano a pallone. Vide le gambe dei ragazzi, alcuni con i calzettoni tirati giù, pieni di peli, qualcun altro glabro, qualcuno abbronzato, qualcuno più grande, ma tutti avevano una cosa in comune: correvano. Con destrezza o con impaccio, con una grande visione di gioco o senza una particolare prestanza fisica, ma tutti correvano dietro quella palla.

Quello che lui non avrebbe più potuto fare. Rimase in silenzio a guardare la finestra. Si sentiva morire dentro, gli mancava il respiro. Provò a muovere le gambe. Te-stardo, come se fosse semplicemente un incubo, come se tutto quello che era accaduto se lo fosse solo immaginato. “Dai” pensò, “dai che ce la faccio, è solo un brut-to sogno. E solo questione di volontà. Spingi, spingi, come quando giocavi a rugby all’Acqua Cetosa, quando arrivava la palla e finalmente la stringevi tra le braccia ed era tua. E allora correvi, abbassavi la testa e le tue gambe volavano sul quel prato verde e nessuno riusciva a starti dietro, nessuno riusciva a placcarti. Volavano quelle gambe, altro che se volavano…”

Andrea ci provò di nuovo. Spingeva, stringeva i denti, ormai sudava, impegnato come un pazzo in quello sforzo. Piccole gocce di sudore gli scendevano lungo la fronte, sulle guance, sotto il collo. Sembrava pianges-se. Ma non era così. Con la coda dell’occhio guardava il fondo del letto. Sperava di vedere un minimo movimento, un accenno, una piccola piega improvvisa delle lenzuola, un segno di vita delle sue gambe. Nulla.

Una mano si poggiò proprio lì dove stava guardando.

Era quel ragazzo.

«Posso sedermi? Mi chiamo Stefano.» Non aspettò risposta. Prese una sedia e l’avvicinò al letto. Andrea era sempre lì con il viso rivolto verso la finestra. Aveva sentito chiudere la porta. Sapeva di essere rimasto so-lo con lui in quella camera. Sofia lo aveva preparato a quella visita. «L’ospedale ci manda una persona. Vorrei che tu provassi a parlare con lui. Può darti una mano.»

Erano passati appena tre mesi dall’incidente. Era rimasto in un letto, poi su una sedia a rotelle e aveva cominciato a girare per i corridoi fino a quando aveva incontrato il chirurgo che lo aveva operato.


“Buongiorno, professor Riccio!” Era allegro quella mattina Andrea. “Ma quando potrò alzarmi?”

Il professor Riccio lo aveva guardato con un sorriso.

Poi gli aveva fatto una carezza sulla testa come se fosse quel padre che ormai non aveva più da dieci anni.

“Ci vorrà tempo, Andrea. Ma ti trovo in forma…”

E se n’era andato così, di spalle, subito raggiunto da un giovane assistente che gli aveva sottoposto la cartella di un paziente. Aveva sfogliato quelle pagine ma era come se sentisse ancora lo sguardo di Andrea, quegli occhi insistenti, interrogativi. Allora il professore si girò e lo fissò. Fu un attimo, ma in quegli occhi Andrea vide la tristezza di quella bugia e allora capì. Non si sarebbe rialzato mai più da quella carrozzella.

«Sono ormai tre anni che faccio questo lavoro…» Andrea si accorse che quel ragazzo ai piedi del letto stava parlando da un po’. Non aveva seguito nulla di quello che aveva detto. In quel momento sarebbe voluto essere da un’altra parte, su un’isola, anzi in acqua, nel mare, aveva caldo. «E credo di aver capito che cosa mi ha spinto a fare questo mestiere.» Fece una pausa come se cercasse la sua attenzione, un po’ di curiosità, un accenno di risposta. Sapeva che non ne avrebbe avuta, così continuò: «Un film». Rimase in silenzio come se quella frase avesse potuto fare effetto. Andrea invece guardava verso la finestra. Stefano riprese il racconto. «È stato un film a farmi decidere per questa vita. Magari se quella sera non fossi rimasto a casa e non avessi acceso la tv oggi non sarei qui. Ecco…» Rise. «È stata colpa di quel film.» Cercava di essere spiritoso. Ma Andrea non gli prestava attenzione. “E io?! Che film ho visto io, cosa ho fatto, che possibilità di scelta ho avuto? Nessuno mi ha chiesto: vuoi forse vivere così? Non potevo essere dimenticato sul bordo di quella strada? Non potevano farmi sbattere contro quella macchina e basta? Oppure rendermi completamente incapace di intendere e di \

volere, così che oggi io non sentissi, non sapessi, non potessi nemmeno capire queste parole così sciocche? “

Una lacrima scese dai suoi occhi. Ma Andrea pensò che si sarebbe confusa facilmente con il suo sudore e, se anche fosse stata scoperta, non gliene sarebbe importato nulla. Non gli interessava più niente di niente.

Quel ragazzo continuò a parlare. Andrea non lo ascoltava più, aveva chiuso gli occhi, inondati dalle lacrime, ed era da un’altra parte. Era fuori, al sole, aveva una maglietta e un paio di pantaloncini, era accaldato e correva, sì, correva in mezzo a quei ragazzi con la palla incollata al piede e ne dribblava uno e poi un altro e lan-ciava la palla avanti e correva sulla fascia senza fermarsi, veloce, più veloce di ognuno di loro, sulle sue gambe, sulle sue belle gambe.

Quando si svegliò in camera non c’era più nessuno.

La sedia era stata messa a posto, la luce che entrava dalla finestra era più bassa. Dal campo di calcio non arrivava più nessun rumore, la partita era finita. La porta si aprì piano piano e, come se avesse sentito che si era appena svegliato, Sofia entrò nella stanza con un vassoio. Sopra c’era una teiera piena di tè caldo e un succo di pomodoro condito, alcuni biscotti dolci, delle patatine e delle olive. Andrea fece leva sulle braccia, sollevò il bacino tirandolo a sé. Sofia gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena, poi la buttò lì come se fosse una chiacchierata di tutti i giorni.

«Stefano è andato via. Che te ne sembra?»

Andrea la guardò con un sorriso sarcastico. «È l’ultima persona al mondo che avrei voluto conoscere. Di-sprezzo il suo pietismo e la sua presunzione di intelligen-za, mi ha trattato come se avessi sbattuto la testa e non la spina dorsale, come se fossi un coglione di sei anni, che ha paura di quello che lo circonda… Se avessi ancora le gambe lo prenderei a calci in culo fino all’ospedale.»

Poi la guardò a lungo. Lo aveva detto apposta, cercava la lite, era pieno di rabbia e reagiva così perché voleva allontanarla.

Sofia lo aveva capito e si sorprese nel vedere come fosse quasi un’altra a rispondere al posto suo.

«Tu hai ancora le gambe e loro non hanno perso le speranze, dicono che un giorno potrai muoverti.

L’ospedale non è poi così lontano. Magari potrai pren-derlo sul serio a calci fino a lì.» Anche lei aveva cercato di essere spiritosa. In realtà non sapeva più che fare.

«Ma loro chi? Chi non ha perso le speranze? I medici? Quelli non possono che vivere di speranze, non hanno altro da dare ai loro pazienti, oltre ad analge-sici, farmaci antipanico, antistress, antidepressivi. Ad-dormentano il mondo per chiavarsi senza essere visti le infermiere, le loro o quelle degli altri… Io odio i medici.

Figuriamoci uno psicoterapeuta del cazzo.»

E prese il succo di pomodoro con tale violenza che urtò la teiera e il tè caldo gli si rovesciò tutto sul lenzuo-lo e in parte sulle gambe.

«Ma che fai?»

«Che faccio? Che cazzo di domande! Mi rovescio il tè addosso… Tanto non sento nulla! Mi sono bruciato?

Non sai quanto mi dispiace ma non sento niente!»

E su quelle parole prese la tazza e la lanciò con forza contro la finestra, poi anche il bicchiere e lo lanciò contro il muro, poi le patatine e la vaschetta piena di olive.

E alla fine scaraventò lo stesso vassoio contro la lampada sul tavolo. Cominciò a tirare ogni cosa che trovava a portata di mano, il libro sul comodino, il cassetto. Poi si allungò sul letto, si aggrappò alle tende con tutte e due le mani, i ganci al muro ressero il suo peso per un attimo, poi si staccarono con tutto il binario, Andrea si sbilanciò e cadde giù dal letto. Scivolò per terra, nel tè versato, nel pomodoro tra le olive, le patatine, i pezzi di vetro. Si portò dietro il peso morto delle sue gambe, intrappolate nelle lenzuola.


Sofia, che era rimasta impietrita, gli fu subito accanto. «Amore, non fare così, ti prego, amore, ti prego…»

«Maledetta vita, maledetta.» E cominciò a dare pugni per terra, poi cercò di alzarsi con le mani aperte ferendosi i palmi, tagliandosi. Il sangue si mischiava al pomodoro, al tè, a quei biscotti sbriciolati in un impia-stro dolciastro.

«Perché… Perché…» Andrea cominciò a piangere.

Sofia lo abbracciò, lo strinse forte e cominciò a piangere anche lei.

«Perché non mi hanno lasciato morire? Perché mi hanno punito in questo modo? Dovevo morire, dovevo morire, non dovevo essere qui. Guardami…»

Sofia si staccò da lui. Lo teneva tra le braccia. «Ti guardo e sei bello come sempre…»

«Non è vero, faccio schifo.»

«Amore, ti prego non dire così. E della mia vita? Cosa sarebbe stato della mia vita, non ci pensi?»

Andrea rimase in silenzio. «Era meglio anche per te se non ci fossi più stato.»

Sofia lo abbracciò di nuovo e lo strinse ancora più forte. «Ma non è vero, perché dici così?» Aveva il vi-so nascosto tra i suoi capelli. Respirava il suo profumo piangendo.

«Perché è così.»

Sofia gli accarezzò i capelli. «Ti amo, è l’unica cosa che conta.»

«Allora giurami una cosa.»

Sofia si staccò. «Te lo giuro, amore.»

Andrea finalmente sorrise. «Ma ancora non sai cos’è…»

Anche Sofia gli sorrise. «Qualunque cosa… Dobbiamo stare meglio, comunque. Così non è possibile continuare.»

Andrea fece un lungo sospiro. «Il giorno che non sarai più innamorata, il giorno che ti dovesse piacere qualcun altro…» Sofia provò a parlare. Ma lui le mise subito una mano sulla bocca. «Fammi finire…»

Sofia chiuse gli occhi per un attimo poi lì aprì e annuì.

Andrea continuò. «Anche se non ci fosse nessuno e ti fossi solo stancata di me… Tu mi dovrai lasciare senza farti problemi.»

«Ma…»

«No, ci lasceremo come qualsiasi coppia. Giuramelo.»

«Te lo giuro.»

«Qualunque cosa accada. Se tu non avrai più voglia di stare con me ci lasceremo e basta. Va bene?»

«Te l’ho giurato.»

Andrea la guardò negli occhi. Sofia incontrò il suo sguardo. E vide un uomo diverso da quello che aveva sempre conosciuto. Lo vide fragile, insicuro, bisognoso d’affetto, di ricostruire tutte quelle che erano state le sue certezze.

«Fammi sentire un uomo come tutti.»

Allora a Sofia si riempirono gli occhi di lacrime e scappò via dalla stanza. Poco dopo tornò. Si era lavata il viso, si era pulita dal mascara che aveva iniziato a co-larle dagli occhi. «Scusami.»

«Figurati, anch’io ho pianto.»

Si misero a ridere. Sofia tirò un po’ su con il naso.

Andrea era riuscito a rialzarsi da terra e a mettersi sul letto. «Non ho potuto pulire per terra…»

Sofia gli sorrise. «Quello non lo facevi neanche prima…» E se ne andò di là.

«Non è vero…» le urlò Andrea dalla camera. «Qualche volta ho rifatto il letto.»

«Una volta, per sbaglio. O chissà cos’altro avevi combinato tra quelle lenzuola.»

«Come sei perfida.»

Sofia lo guardò alzando il sopracciglio. «Di più.» Cominciò a spazzare per terra, raccolse i vetri, le olive e le patatine. Poi Andrea la prese per il vestito e la tirò a sé.

«Scusami.»


«L’ho già fatto.» L’abbracciò forte.

«Scusami di più.»

«Fatto anche quello.»

«Scusami con amore.»

Sofia lo guardò, sorrise e gli diede un bacio. «Ecco fatto.»

«Ora sono felice.»

Solo allora Sofia si accorse che la sua gonna era tutta sporca di sangue. «Ma amore, guarda le tue mani! Sono piene di pezzi di vetro.»

«Qualcuno l’ho tolto.»

«Ma non ci deve essere più nulla…» Sofia si alzò, po-co dopo tornò dal bagno con dell’alcool e dei batuffoli di cotone che usava per struccarsi.

«Ecco… Le devi disinfettare.» Li passò imbevuti di alcool sulle sue mani. «Come va? Pizzica?»

Andrea sorrise. «Poco.»

«Allora ne metto di più.» E spruzzò l’alcool direttamente sulle mani.

«Ora sì!»

Sofia non gli diede retta e continuò a disinfettarle. Poi senza guardarlo negli occhi: «Devi farmi un favore…».

«Tutto quello che vuoi.»

Sofia lo fissò. «Vorrei che Stefano potesse venire ogni giorno.»

Andrea alzò le sopracciglia. Poi sorrise. «Ti piace co-si tanto?»

«Che stupido.» Tornò seria. «Dobbiamo fare tutto il possibile. Ci serve un aiuto, ci dobbiamo impegnare se ce la vogliamo fare, amore.»

Andrea pensò che era bello che avesse usato il plu-rale.

Sofia lo capì. «Se no, non ce la facciamo. Sarebbe impossibile per chiunque.»

Andrea rimase un po’ in silenzio. «Ok. Però tu devi tornare a suonare.»


«Questo è impossibile.»

«Lo hai detto tu, dobbiamo impegnarci.»

«Sì, lo so, ma questo è diverso…»

Sofia gli spiegò che si trattava di un voto. Così insieme stabilirono un po’ di regole, prima di tutto che lei avrebbe insegnato musica alla sua vecchia scuola in piazza dell’Oro e lui avrebbe visto Stefano tre volte alla settimana.

Il giorno dopo tornò Stefano. Questa volta Andrea gli parlò. Guardarono insieme il film che aveva in qualche modo suggerito a Stefano il suo lavoro, A proposito di Henry con Harrison Ford. Quando il film finì Stefano spense il televisore e tirò fuori il dvd dal lettore.

«Lo conoscevi?»

«No.»

«Ecco, diciamo che io dovrei essere per te quello che è Bradley per Harrison Ford.»

«Ma lui era il suo fisioterapista…»

Stefano sorrise. Guardò Sofia.

«Per quello sono stato più generoso, ti ho portato una donna…»

Entrò Marisa, una signora di circa sessant’anni con due braccia da camionista.

«Pensavi fosse una di quelle infermierine tenere e morbide, eh…»

Marisa sorrise a tutti e due. «Quando voglio lo so-no… Ma non in questo caso… Forza tu, fuori di qui.»

Cacciò fuori dalla camera Stefano e poi fece un’ora di fisioterapia con Andrea. Fu molto dura, movimenti difficili che in qualche modo riattivavano la circolazio-ne. Più tardi, quando Marisa se ne andò, Andrea stava molto meglio. Stefano rientrò nella sua stanza e si accorse di quella luce nuova sul suo volto.

«Ecco, così ti voglio. La prima guarigione avviene qui.» Stefano gli indicò la testa. «E nello stesso tempo qui…» Gli indicò il cuore. «E per fortuna…» gli indicò tra le gambe, «qui tutto funziona ancora molto bene, mi ha detto Marisa!»

Andrea arrossì. Senza volerlo mentre Marisa lo mas-saggiava aveva avuto un’erezione. «Non ti preoccupare…» gli aveva detto. «Sono abituata ed è bene che accada, è a casa che ogni tanto vorrei avere la bacchetta magica!» E aveva riso alla grande togliendo così Andrea da qualsiasi imbarazzo.

Erano passati più di sette anni da allora e piano piano Stefano e Andrea erano diventati amici. Quella mattina Marisa aveva appena finito i massaggi. «Ecco fatto…

Come nuovo!»

Andrea si mise a ridere. «Magari. Ho comunque trentatré anni, non sono più un ragazzino.»

Marisa comparve sulla porta del bagno. Si stava asciugando le mani dopo averle lavate. «Stai meglio di molti altri che conosco. Le tue gambe hanno muscoli ancora tonici, rispondono aTTelettrostimolatore che abbiamo sempre usato. Per certi lati…» disse Marisa, «sono ancora più forti di prima. Oggi tutta questa ginnastica pas-siva è diventata lo sport preferito di un sacco di gente.»

Andrea la guardò mentre s’infilava il cappotto. “Già”

pensò. “L’idea di correre su e giù per un bosco in mezzo alla natura invece sarebbe il mio sogno.”

«Allora vi saluto, fanciulli…» Poi li guardò con aria maliziosa. «Comportatevi bene…» E uscì.

Stefano la guardò divertito. «Che tipo. Doveva essere proprio una bella donna. Secondo me è anche molto divertente e poi l’idea della massaggiatrice in qualche modo mi ha sempre eccitato…»

«Anche a me.»

Andrea sorrise ripensando a tutte le volte che si era eccitato sotto le mani di Marisa e a come lei lo avesse ogni volta tranquillizzato, a come quella donna fosse riuscita a saper tenere perfettamente distinti gli stimoli naturali e fisici di un corpo dalla malizia e dai desideri di un uomo.

Stefano si sedette davanti a lui. «Allora come va?

Non rispondere subito. Pensaci bene.»

Andrea sorrise.

«Io intanto vado a prendere qualcosa da bere.»

«Fai come se fossi a casa tua.»

Stefano alzò la voce dalla cucina. «Ma sono a casa mia!» Poi si presentò con due birre, gliene passò una e si sedette di nuovo al suo posto. Diede un lungo sorso alla birra. «Ah… bella gelata. Proprio come piace a me.»

Anche Andrea diede un bel sorso.

«Allora che mi dici?» Stefano lo guardava sereno, con curiosità. «E un buon momento, mi sembra… No?»

«Sì, dipende dai punti di vista.»

Stefano annuì. «Anche questo è vero.»

«Dipende dal punto di vista, come uno vede le co-se, il vecchio detto del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto…»

«Già.»

Tutti e due diedero un altro sorso. Si stava bene, c’era una bella atmosfera, serena, senza tensioni, come accade tra amici e loro in qualche modo lo erano. Non avevano avuto mai segreti uno per l’altro. Era questo che aveva cercato di fare Stefano con Andrea, fargli vedere come la vita di tutti è piena di difficoltà, di cadute e di successi, di soddisfazioni e insofferenze, di compromessi e di felicità, di oscillazioni per stare in equilibrio.

«Ti ricordi cosa ti avevo detto quando ci siamo conosciuti?»

«Me ne hai dette talmente tante di cose…»

«Anche questo è vero, quando parlavo dell’altalena.»

«Ah sì… com’era?» Cercò di ricordare. «La vita è co-me un’altalena che oscilla tra un campo al sole…»


«E un temporale.» Stefano sorrise. «Bene. Allora qualcosa è rimasto impresso tra queste sporche lenzuola.»

«Ma se sono state appena cambiate!»

Stefano rise, poi cambiò improvvisamente marcia.

«E con Sofia come va?»

Andrea finì di bere la birra, poi la poggiò sul comodino lì vicino. «Bene… Cioè mi sembra bene.»

«Certo che oggi è così complicato portare avanti una storia. È un mondo pieno di tentazioni, è così facile tradire…»

Andrea allargò le braccia. «Diciamo che la mia ten-tazione più grande è stata Marisa… Ma non ti preoccupare, ho saputo resistere.»

Stefano sorrise. «Ma con quello…» indicò il computer, «potresti fare tutto quello che desideri, potresti iniziare a chattare con una persona, innamorarti e poi farla venire qui.»

«Qui?»

«Sei sempre solo!»

«Allora, a parte che sono sempre con qualche amico, ogni tanto passa mia madre e troppo spesso ci sei tu.

Almeno tre volte a settimana.»

Stefano rise. «Sai che non direi nulla… Il nostro è un rapporto professionale.»

«E comunque c’è un piccolo dettaglio di nome Sofia, forse non ti ricordi bene ma è mia moglie e vive in questa casa. Anzi quella birra che ti sei appena scolato la devi proprio a lei visto che fa la spesa!»

Stefano tornò serio. «Già, Sofia…»

«Che c’è? Mi devi dire qualcosa che non so?»

Andrea divenne improvvisamente teso.

Stefano lo tranquillizzò. «No, no, assolutamente. So-no felice che siano diventate così amiche lei e Lavinia.

Ma non avete mai pensato a un bel bambino?»

«Mi sembri mia madre. Ogni volta che viene qui mi dice la stessa cosa. Vorrebbe un nipotino. In realtà vorrebbe una distrazione per la sua vita, secondo me.

Quando si invecchia si diventa più egoisti… Questo ri-cordatelo.»

«Ah, lo sapevo da me, ma io non voglio perdere tempo!»

«Cioè?»

«Voglio essere egoista da subito.»

«Bravo! Questa sì che è una buona cosa. E tu un bambino con Lavinia?»

«Te l’ho chiesto prima io.»

«Per adesso non ci stiamo pensando e tu?»

«Noi ci abbiamo provato, sembravamo una macchina da riproduzione. Lavinia tornava apposta a casa quel giorno perché lo facessimo in quel modo e a quell’ora esatta… Era terribile.»

«Ma era lei che lo voleva?»

«No, sono stato io a chiedere un figlio a Lavinia, co-me sono stato io a chiederle di sposarmi.»

«Bravo, pensa che invece nel mio caso è stata Sofia…»

Erano passati tre anni dall’incidente.

«Amore… Si può?» Andrea stava leggendo Cecità di José Saramago. Mise il segnalibro, poi chiuse il romanzo e lo poggiò sul comodino. «E va bene, entra. Come posso dirti di no?»

Entrò Sofia, era truccata, con un vestito di seta nero, i capelli raccolti, due ciocche le scendevano davanti al viso come dei boccoli, incorniciandole il sorriso.

Andrea fece lo sciocco. «Ci deve essere un errore…

Dov’è la mia ragazza? Credo che se ne debbano dare indietro due per avere una bella come lei!»

«Cretino!» Sofia gli si lanciò addosso e gli diede un bacio. Piano piano Andrea si abbandonò tra le sue braccia, su quelle labbra morbide, lei lo baciava con passione. Quando si staccarono lui la guardò curioso.


«Ma che è successo?»

«Niente, perché?»

«Cioè, sei tutta truccata, super elegante, mi baci in questo modo e mi dici che non è successo niente? Di solito in casi come questo lei lo uccide e poi fugge con un altro…»

Sofia scosse la testa e andò in cucina. «Niente di tutto questo…» Poi riapparve spingendo un carrello con sopra alcuni piatti coperti e portate in argento.

«Non ho sentito di nessuna vincita dell’Enalotto e soprattutto… io non ho giocato. E merito tuo?»

Sofia non gli diede retta. «Allora, ho preso tutto ciò che ti piace. Spero che tu non abbia cambiato gusti proprio in quest’ultimo periodo.»

In effetti era molto tempo che non andavano più nei loro ristoranti preferiti.

«Tagliolini al burro con tartufo bianco, coniglio alla cacciatora, pesche e poi gelato al pistacchio coperto da pistacchi di Bronte, tutto accompagnato da…» inclinò verso di lui una bottiglia di vino, «un ottimo Barolo Brúñate. Come sono andata?»

«Non potevi andare meglio… Ma sul serio, dimmelo.

È la mia ultima cena? No, perché in quel caso non man-gerei con la mia solita fretta, ecco.»

Sofia si mise le mani sui fianchi. «Ma perché tutto deve essere sempre così complicato con te? Non avevamo detto che dovevamo essere una coppia come le altre? Sai che ogni tanto gli uomini e le donne si fanno delle sorprese, si danno dei baci amorosi, si fanno delle coccole, sono felici?»

«O fingono di essere tali?»

«Non so fingere. Non sei felice con me?»

Il suo tono cambiò. Le braccia le scesero lungo i fianchi. Stava per piangere.

Andrea se ne accorse. «Moltissimo, amore, è che non credo di meritarmelo.»


«Hai ragione. Quando rompi i coglioni così non te lo meriti proprio. Forza, a tavola.» E se ne andò in cucina.

Andrea ne approfittò per tirare a sé la carrozzella e scivolarci sopra. Si spinse velocemente fino all’armadio e si infilò una camicia bianca di lino. Cercò di fare più in fretta possibile. Era pronto quando lei arrivò. Le sorrise imbarazzato per essere riuscito a cambiarsi solo a metà ma lei fece finta di niente. Apparecchiò e poco dopo erano seduti a tavola.

«Mmm. Buonissimo. Sei diventata un’ottima cuoca.»

«Magari sapessi cucinare così. Non insegnerei più musica… A volte soffro nel vedere i miei allievi indecisi su dei passaggi così belli…»

Andrea si pulì la bocca. «E cosa faresti?»

«Aprirei una scuola di cucina in giro per il mondo, organizzerei dei catering per gli eventi più importanti e mondani…» Andrea non fece in tempo a sentirsi escluso. «E porterei te come supervisore chef…»

«Ah, ecco.»

«Credevi di poterti sbarazzare di me, eh?» Sofia gli sorrise. «Impossibile!»

Continuarono la cena in silenzio. Era tutto molto buono. Sofia doveva aver fatto presto a portare le vivande a casa, perché i tagliolini non erano scotti e il secondo era ancora caldo. Andrea sorseggiava il vino.

Lo assaporava apprezzandone il retrogusto fruttato, perfetto. Chiuse gli occhi. Per un attimo gli sembrò di essere in una condizione magica. Stava gustando una sensazione nuova da quando aveva avuto l’incidente.

Era soddisfatto, appagato, in qualche modo realizzato.

Ecco, era felice e non sapeva spiegarsi il perché.

“Ma allora la felicità è solo uno stato mentale? Siamo noi che ci creiamo i problemi o viviamo male quelli che abbiamo? Allora il fatto che io non possa più camminare non è poi così importante?”


Aprì gli occhi, erano lucidi, si era commosso, e quando la vide rimase sorpreso.

Sofia era in ginocchio davanti a lui. «Tieni…»

«Cos’è?»

«E per te.»

Andrea prese quel piccolo pacchetto e lo girò tra le mani.

«Aprilo…» Mentre lo scartava, Sofia continuò a parlare. «Forse sono stata una ragazzina testarda e capricciosa, a volte ho messo il muso per delle sciocchezze e ho fatto degli errori…» sorrise vedendolo preoccupato, doveva domandarsi che cosa avesse mai commesso che lui non conosceva, «ma mai così gravi da farti perdere fiducia in me… Sono stata a volte casinara, distratta, mi dimentico dove metto le cose o, ancora peggio, quello che mi hai appena raccontato. Però ti amo e questa è la cosa più importante… Credo.»

Proprio in quel momento Andrea aveva finito di scar-tare il pacchetto. Posò la carta sul tavolo. In mano aveva solo una piccola scatola di pelle blu scuro. «Aprila…»

Andrea lo fece lentamente. Un anello in oro bianco, una fascia larga, compatta, con incisi un sole e un piccolo diamante al centro. Sofia allora glielo prese dalle mani e glielo infilò. «Tu sei stato, sei e sarai la mia luce…

Andrea, mi vuoi sposare?»

Andrea la guardò. Sofia era lì, commossa, con le lacrime agli occhi, ai suoi piedi. E per un attimo Andrea cercò le parole, una battuta da dire, oppure semplicemente quella domanda: “Perché mi vuoi sposare, Sofia?

Lo sai che non cammino, vero? È un gesto di compassione il tuo?”. E ancora: “Ma non spettava a noi uomini chiedere la mano, la sorpresa, l’anello e tutto il resto?”.

E infine: “Ho paura, Sofia, che vuol dire tutto questo?”.

Ma poi capì che in quel momento doveva rinunciare a ogni ragionamento, alla necessità di fare lo spiritoso, e apprezzare la semplicità con la quale Sofia gli mostrava il suo cuore. Allora si aprì in un gran sorriso e disse semplicemente: «Sì».

Si abbracciarono felici. Sofia lo riempì di baci. «Avevo paura che mi dicessi di no.»

«Perché? Non sei così male, sai?»

«Ma sai che sono una fregatura, vero?»

«Sì… lo so. Ma l’amore è fatto così, più ci rimetti e più sei felice.»

Si sposarono due mesi dopo in una piccola chieset-ta sul lago di Nemi, fu un bellissimo matrimonio con tutti gli amici più cari dai tempi della scuola. Vennero i rugbisti amici di Andrea e tutti i musicisti che avevano accompagnato Sofia nei suoi concerti. Un famoso direttore d’orchestra cinese, una violista svedese, un trombettista americano e un tedesco, uno dei migliori suonatori di xilofono al mondo. Si organizzarono per suonare in chiesa e la cerimonia fu una specie di jam session che pochi teatri si sarebbero potuti permettere.

Vennero i genitori di Sofia da Ispica e la mamma di Andrea che abitava a Formello.

La madre di Sofia, Grazia, era voluta arrivare una settimana prima a Roma. Voleva essere sicura del passo di sua figlia e così, per la prima volta dopo tanti anni, era stata lei a cercare un dialogo e invitarla a pranzo. Si erano trovate al Pain Quotidien, un ottimo locale in via Toma-celli. Sembravano due turiste straniere, se non fosse che la madre aveva mantenuto forte e chiaro il suo accento siciliano.

«Sei sicura di quello che fai, Sofia? Il Signore ti avrà perdonato per quel capriccio. Non è che ora lo devi anche sposare per forza. Poi sarà più difficile ripensarci.»

Sofia mangiava serena un ottimo piatto di gricia.

«Mmm. Hai sentito che buoni, mamma?»

«Non cambiare discorso!»

«Ma chi cambia discorso? Sono buoni per davvero!»

La madre rimase in silenzio. Poi cominciò a parlare.


«Sai quante volte avrei voluto lasciare tuo padre? Non fare lo stesso errore.»

«Scusa, mamma» Sofia si pulì la bocca e poggiò il tovagliolo sul tavolo, «perché non l’hai lasciato?»

«Per te e tuo fratello. E forse anche perché non ne avevo il coraggio.»

«Be’, ti ringrazio se lo hai fatto per noi. Non credo che avremmo sofferto così tanto però. Molti dei nostri amici avevano i genitori separati.»

«Molti di loro infatti non sono riusciti a farsi una vita.»

«Sei esagerata, mamma. Non è che tutto è sempre collegato… Nessuno di voi due per esempio ha mai suonato uno strumento.»

«Sì, ma infatti hai smesso di suonare.»

«Ora sei cattiva.»

«E per lui che lo hai fatto, no? E ora? Ti stai sposan-do sempre per colpa dell’incidente?»

Sofia rimase in silenzio. Poco dopo parlò.

«Mamma, se tu avessi lasciato papà, io sarei stata dispiaciuta per voi perché un matrimonio rotto è una storia che finisce e fa soffrire. Ma se lo aveste fatto non sarebbe cambiato il mio amore per voi. Vorrei solo sentire il tuo amore per me in questo momento, io sono felice di sposarmi con Andrea. Sono felice con lui e, a parte la musica, sono felice della mia vita.»

La madre ci pensò un po’ su. «Va bene. Ho trovato la soluzione. Sposalo…»

«Oh…»

«Ma riprendi a suonare.»

«Non posso, mamma, lo sai, ho fatto un voto.»

«È una cosa senza senso. Ora se tu lo sposi è come se annullassi quel voto!»

«Hai una strana concezione della fede, mamma.»

«Già. In questo momento della mia vita, la fede mi sembra inutile.»

«Perché?»


«La Chiesa, la fede, ti servono solo quando hai qualcosa da chiedere.»

Sofia rimase in silenzio. Sua madre era molto dura.

Non sarebbe servito a nulla cercare di farla ragionare.

Doveva accettarla così. «Mangia la pasta, mamma, è buona, sul serio.»

Finalmente la madre si decise, infilò con la forchetta due o tre spaghetti e li portò alla bocca. Li masticò e infine li mandò giù. «E vero, è ottima. Sii felice, figlia mia.»

«Lo sono, mamma.»

Continuarono a mangiare in silenzio e non toccarono più quell’argomento.

Al matrimonio sua madre si commosse e pianse. Durante il ricevimento non smise di cercare l’approvazione delle persone.

«Bella mia figlia, vero?»

Tutti la prendevano in giro.

«Certo, Grazia, che non lo sapevi?»

«Me la sarei sposata io!»

«Anche Andrea è un bel figliolo però…» le rispose Anna, la madre dello sposo.

«Certo, certo…» fece Grazia.

«Sono una bellissima coppia.»

Il matrimonio era stato perfetto. Andrea, ormai lau-reato a pieni voti in architettura, si era divertito a organizzare tutta la scenografia della chiesa e quella del ricevimento. Aveva scelto delle splendide piante, degli addobbi bianchi come il casale che aveva trovato sul la-go a pochi passi dalla piccola chiesa. Aveva voluto che quella festa fosse una specie di scampagnata tra amici.

Alla fine del ricevimento, gli sposi avevano registrato su un file tutte le musiche che erano state suonate dagli amici di Sofia, tutti grandi musicisti internazionali, così che a ognuno rimanesse la colonna sonora di quel matrimonio.


Il giorno dopo i genitori di Sofia erano tornati in Sicilia e gli sposi erano partiti per la luna di miele. Avevano scelto un crociera al Nord. Era stato un viaggio bellissimo, a contatto con la natura, su una grande imbarcazione che aveva raggiunto l’estremità del Sognefijord, il più lungo fiordo norvegese, per tornare infine a Oslo. Lì avevano passato due giorni bellissimi. Erano andati anche a un concerto tenuto da una giovane pianista giapponese che aveva suonato le Variazioni Diabelli di Beethoven.

Sofia uscendo gli aveva chiesto: «Ti è piaciuto?».

«Moltissimo ma suoni meglio tu…»

«Lo dici perché sono tua moglie.»

«Ah già… Me l’ero dimenticato!»

E ridendo erano tornati in albergo.

«Allora? Si può sapere cosa aspetti per questo figlio?» La voce di Stefano lo riportò al presente.

«Ma hai detto tu che decidono tutto loro!»

Proprio in quel momento sentì la chiave nella toppa.

«Eccola. Non parliamone più. Sofi, sei tu? C’è Stefano.»

«Ciao, ragazzi.» Sofia comparve sulla porta. «Cosa state combinando?» Li guardò tutti e due con aria indagatrice. «Avete l’aria furbetta.»

Andrea pensò che la miglior difesa fosse l’attacco.

«Niente di che, stiamo organizzando una serata per soli uomini.»

«Ah bene. Sono d’accordo, avete il mio permesso.»

Così dicendo Sofia andò in cucina a poggiare la spesa, ma la voce di Stefano la prese in contropiede.

«D’altronde voi ieri sera siete uscite con quelli della palestra, no?»

A Sofia caddero per terra alcuni pomodori, si piegò a raccoglierli appena in tempo, Stefano era sulla porta della cucina.


«Com’è stata la serata? Vi siete divertite?»

Sofia rispose restando chinata. «Sì, abbastanza, ma sai come sono queste cose…»

Sofia non aveva la minima idea di cosa stesse parlando e ringraziò quei pomodori che le avevano permesso di rispondere senza farsi vedere in faccia. Contempo-raneamente maledisse l’amica che non l’aveva avvisata.

“Le si è proprio fuso il cervello” pensò. Si rialzò siste-mandosi la gonna. Stefano purtroppo era ancora lì.

«E dove siete stati a cena?»

«In Prati.» Aprì il rubinetto dell’acqua sperando non ci fossero altre domande. Sentì che lui la stava osservan-do, così continuò. «Non mi ricordo bene, mi ci hanno portato, quelli della palestra vanno sempre lì.»

«Ah sì… Deve essere la pizzeria Giacomelli, si mangia bene e si spende poco. Me l’aveva detto Lavinia che l’altra volta erano stati lì…»

«Sì, credo di sì.» Sofia aprì la busta dell’insalata e cominciò a lavarla. Stefano non accennava ad andarsene.

«Mi passi i pomodori sul tavolo, per favore?»

«Certo.»

Sofia li prese senza voltarsi. Poi pensò che quel suo tono freddo potesse essere un segno evidente di colpe-volezza, allora si girò con un sorriso, come se le fosse venuto in mente solo in quel momento. «Ehi… Ma ti va di rimanere a cena? Faccio una frittata con patate e zucchine…»

Stefano rimase in silenzio a fissarla. Sofia si sentì morire. Aveva capito. Aveva capito tutto. Poi finalmente lui le sorrise. «No grazie. Un’altra volta molto volentieri. Ho promesso a Lavinia che stasera saremmo andati a cena fuori e poi al cinema. Sai, è il nostro anniversario.

Dice che me lo dimentico sempre.»

«Be’, meno male che non è successo stavolta!»

«Sì, anche perché voi donne ci tenete molto a queste cose, no?»


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