CAPITOLO NONO

Coloro che sognano di banchettare si lamenteranno al loro risveglio,

Chuang Tse: II

Era la terza settimana di aprile. Orr aveva dato un appuntamento a Heather Lelache, la settimana prima: dovevano pranzare assieme martedì, da Dave. Ma appena uscì dall’ufficio, capì che non c’era da farci affidamento.

Ormai c’erano troppe memorie diverse, troppe matasse di esperienze vitali, pigiate nella sua mente, e non tentava più di ricordare. Prendeva le cose come venivano. Viveva quasi come un bambino, soltanto tra eventi attuali. Non era più sorpreso di nulla, ed era sorpreso di tutto.

Il suo ufficio era al terzo piano del Bureau della Pianificazione Civile; la sua posizione era la più elevata tra quante ne avesse avute fino a quel momento: era direttore della sezione Forestale Urbana Sudest, dipendente dalla Commissione per la Pianificazione Cittadina. Quel lavoro non gli piaceva, e non gli era mai piaciuto.

Era sempre stato un disegnatore fino all’ultimo sogno di lunedì, che, scambiando tra loro le competenze dei governi federale e statale per venire incontro a qualche piano di Haber, aveva talmente sconvolto il sistema sociale da far diventare Orr un burocrate dell’amministrazione cittadina. Non aveva mai avuto un lavoro, in tutte le sue vite, che fosse pienamente adatto alle sue vere capacità; la cosa in cui riusciva meglio era il «design», la professione dello stilista: la realizzazione di forme e di figure adatte agli oggetti, e questo talento non era mai stato particolarmente apprezzato in nessuna delle sue varie esistenze. Ma questo lavoro, che (ora) svolgeva e odiava da cinque anni, gli era completamente estraneo. E la cosa lo preoccupava.

Fino a questa settimana c’era stata una continuità sostanziale, una coerenza, tra tutte le esistenze scaturite dai suoi sogni. Era sempre stato un disegnatore, aveva sempre abitato in Corbett Avenue. Anche nella vita che era terminata sui gradini di cemento di una casa bruciata, in una città morente di un mondo in rovina, anche in quella vita, fino al momento in cui non c’erano più stati lavori e non c’erano più state case, questi elementi di coerenza si erano mantenuti. E per tutti i susseguenti sogni (o vite), altre cose più importanti si erano mantenute. Era migliorato un poco il clima locale, ma non molto, e l’Effetto Serra era rimasto: un’eredità permanente della metà del secolo precedente. La geografia rimaneva perfettamente stabile: i continenti erano sempre al loro posto. E così i confini nazionali, la natura umana eccetera. Se Haber gli aveva ordinato di sognare una razza umana più nobile, aveva mancato lo scopo.

Ma Haber stava imparando a controllare meglio i suoi sogni. Le ultime due sedute avevano cambiato radicalmente la realtà. Orr aveva sempre il suo appartamento in Corbett Avenue, le stesse tre stanze, con il debole aroma di marijuana del custode; ma lavorava come burocrate in un grande edificio in centro, e il centro della città era cambiato fino a essere irriconoscibile. Era impressionante: pieno di grattacieli come quando non c’era stato crollo nella popolazione, ma i grattacieli parevano molto più durevoli, più belli. Il mondo veniva diretto in modo assai diverso, adesso.

Stranamente, Albert M. Merdle era ancora presidente degli Stati Uniti. Come la forma dei continenti, quell’uomo pareva immutabile. Ma gli Stati Uniti non erano più la potenza di un tempo, né lo erano le altre singole nazioni.

Portland era adesso la sede del Centro di Pianificazione Mondiale, principale organismo della sovranazionale Federazione dei Popoli. Portland, come dicevano le cartoline illustrate, era la Capitale del Pianeta. Aveva una popolazione di due milioni di abitanti. La zona del centro era piena dei giganteschi edifici del Centro di Pianificazione Mondiale: tutti costruiti meno di dodici anni prima, tutti pianificati con cura, circondati da parchi verdeggianti e da corsi alberati. Migliaia di persone, in prevalenza impiegati della Federazione o del Centro, riempivano quei corsi; comitive di turisti di Ulan Bator o di Santiago del Cile passavano in fretta, con il naso puntato in aria, ascoltando le guide turistiche mediante l’auricolare. Era uno spettacolo vivace e imponente: i grandi, bellissimi edifici, i prati tenuti con cura, la folla di persone ben vestite. Aveva, per George Orr, un aspetto molto futuristico.

Non riuscì a trovare il ristorante di Dave, naturalmente. Non riuscì neppure a trovare la Ankeny Street. La ricordava in modo talmente vivido, da tante altre vite, che si rifiutò di accettare, finché non vi giunse, quanto gli diceva la sua attuale memoria: l’assicurazione che Ankeny Street non c’era affatto. Al suo posto s’ergeva fino alle nuvole il grattacielo del SURA, tra aiole e rododendri. Non si prese neppure il fastidio di cercare il Pendleton Building: c’era ancora Morrison Street (un ampio corso, con in centro una fila di aranci piantati di fresco), ma non c’erano edifici neo-Inca lungo di esso, né c’erano mai stati.

Non riusciva neppure a ricordare con esattezza il nome dell’ufficio legale in cui lavorava Heather: si chiamava Forman, Esserbeck e Rutt, o Forman, Esserbeck, Goodhue e Rutt? Andò in una cabina telefonica e cercò nelle pagine gialle. Non c’era elencato nessuno studio con quel nome, ma c’era un tale P. Esserbeck, avvocato. Telefonò a quel numero e chiese, ma laggiù non lavorava nessuna Miss Lelache. Alla fine si fece coraggio e cercò nella guida alfabetica. Nella guida, il nome Lelache non compariva.

Forse esisteva ancora, ma con un cognome diverso, pensò Orr. Sua madre poteva avere rinunciato al nome del marito quando era partito per l’Africa. Oppure, Heather poteva avere conservato il nome del marito quando era rimasta vedova. Non aveva la minima idea di quale potesse essere il nome del marito. Anzi, forse non l’aveva mai portato; molte donne, oggigiorno, non cambiavano nome quando si sposavano, perché ritenevano che la cosa fosse un residuo di epoche di schiavitù femminile. Ma erano ipotesi senza valore. Forse non c’era una Heather Lelache: forse — questa volta — non era mai nata.

Dopo avere contemplato questa ipotesi, Orr contemplò un’altra possibilità. Se mi passasse davanti in questo momento, cercando di me, si disse, riuscirei a riconoscerla?

Heather era di colore scuro. Un colore deciso e scuro, come ambra del Baltico, o come una tazza di tè di Ceylon, carica. Ma per strada non passava alcuna persona di pelle scura. Nessuno che avesse la pelle nera, o bianca, gialla, rossa. Venivano da tutte le parti del mondo, per lavorare al Centro di Pianificazione Mondiale o per visitarlo: Thailandia, Argentina, Ghana, Cina, Irlanda, Tasmania, Libano, Etiopia, Vietnam, Honduras, Lichtenstein. Ma tutti indossavano gli stessi abiti: calzoni, tunica, mantellina da pioggia; e sotto gli abiti erano tutti dello stesso colore. Erano grigi.

Quando era avvenuta la cosa, il dottor Haber ne era rimasto deliziato. Era successo sabato scorso, durante la prima seduta dopo una settimana d’interruzione. Era andato a guardarsi nello specchio del bagno privato ed era rimasto per cinque minuti a ridacchiare e ad ammirarsi; nello stesso modo aveva fissato Orr. — Questa volta, finalmente, lei ha scelto la via più economica, George! Santo Dio, comincio a credere che il suo cervello si sia deciso a collaborare con me! Sa cosa le ho suggerito di sognare?

Infatti, adesso, Haber parlava con Orr in tutta libertà e gli spiegava esaurientemente cosa faceva e cosa intendeva fare con i suoi sogni. Non che la cosa servisse a molto.

Orr si era fissato le mani color grigio chiaro, le unghie corte e grige. — Credo che mi abbia suggerito di abolire i problemi di colore della pelle. Più nessun problema razziale.

— Esattamente. E, certo, pensavo a una soluzione di natura politica e morale. Invece, il suo processo primario ha preso l’abituale scorciatoia, che di solito riesce a combinare un grande pasticcio, ma che questa volta è andata alla radice. Il cambiamento è stato biologico e assoluto. Non c’è mai stato un problema razziale! Lei e io siamo gli unici due uomini sulla terra, George, che sappiamo che sia mai esistito un problema razziale! Capisce la cosa? Non ci sono mai stati paria in India… nessuno è mai stato linciato in Alabama… nessuno è mai stato massacrato a Johannesburg! La guerra è un problema che abbiamo lasciato dietro di noi con la crescita, e la razza è un problema che non abbiamo mai avuto! Nessuno, in tutta la storia della specie umana, ha mai sofferto per il colore della pelle. Lei sta imparando, George! A dispetto di se stesso, lei sarà il più grande benefattore che l’umanità abbia avuto. Tutto il tempo e l’energia sprecati dagli uomini per trovare soluzioni religiose alla sofferenza, e poi arriva lei e fa fare a Buddha e Cristo e tutti gli altri la figura dei fachiri che erano. Essi cercarono di fuggire dal male, ma noi lo sradichiamo… lo eliminiamo, un pezzo dopo l’altro.

I discorsi trionfalistici di Haber mettevano sempre nell’imbarazzo Orr: non lo ascoltò. Invece, cercò nella propria memoria e scoprì che nessun discorso era mai stato tenuto su un campo di battaglia a Gettysburg, e che la storia non ricordava nessuno chiamato Martin Luther King. Tuttavia questo genere di cose pareva un prezzo accettabile per la completa abolizione retroattiva dei pregiudizi razziali: Orr non fece commenti.

Però il non avere mai conosciuto una donna dalla pelle scura e dai capelli neri ricciuti, tagliati molto corti, per far risaltare la linea elegante della sua nuca come la linea di un vaso di bronzo: no, questo era sbagliato! Era intollerabile! Che ogni persona sulla terra avesse la pelle del colore di un campo di battaglia: no!

E per questo che lei non c’è, pensò Orr. Non poteva essere nata grigia. Il suo colore scuro era una parte essenziale di lei, non un elemento casuale. La sua collera, la sua timidezza, la sua aggressività, la sua gentilezza erano elementi della sua essenza mista, della sua natura mista: scura, ma chiara e trasparente come ambra del Baltico. Non poteva esistere nel mondo degli esseri grigi. Non era mai nata.

Lui era nato, invece. Lui poteva nascere in qualsiasi mondo. Lui non aveva personalità. Era un pezzo di creta, un blocco di legno grezzo.

E il dottor Haber: Haber era nato. Nulla poteva evitarlo. Egli diventava più grande ad ogni reincarnazione.

Durante la terribile giornata del ritorno a Portland bombardata, mentre sobbalzavano su una strada non asfaltata nella Hertz a vapore, Heather gli aveva detto che gli aveva suggerito di sognare uno Haber migliorato, come erano già d’accordo. E, da allora, Haber era stato sincero con Orr per ciò che riguardava le sue manipolazioni. Anche se «sincero» non era la parola giusta: Haber era una persona troppo complicata per essere completamente sincera. La cipolla si poteva pelare, una buccia dopo l’altra, ma non ne veniva fuori altro che cipolla.

Questa perdita di un singolo strato era l’unico vero cambiamento avvenuto in Haber, e forse non era dovuto a un sogno efficace, ma soltanto al cambiamento delle circostanze. Era. così sicuro di sé, ormai, che non aveva bisogno di cercare di nascondere le proprie intenzioni o di ingannare Orr; bastava che lo costringesse a fare ciò che voleva. Orr non aveva alcuna possibilità di sfuggirgli. Il Trattamento Terapeutico Volontario si chiamava adesso Controllo della Salute Personale, ma aveva gli stessi addentellati legali, e nessun avvocato si sarebbe sognato di mettersi contro Haber sulla base delle accuse di un paziente. Haber era un uomo importante: importantissimo. Era direttore del SURA, il fulcro del Centro di Pianificazione Mondiale, il posto dove venivano prese le grandi decisioni. Aveva sempre desiderato il potere per compiere del bene. Ora l’aveva.

Sotto questo aspetto, Haber era rimasto pienamente fedele all’uomo che Orr aveva incontrato inizialmente: l’uomo gioviale e lontano che visitava nell’ufficio da quattro soldi della East Tower Willamette, sotto la fotografia murale di Monte Hood. Non era cambiato; era semplicemente cresciuto.

La caratteristica della volontà di potenza, infatti, è quella di crescere. Il successo è la sua cancellazione. Per continuare a esistere, la volontà di potenza deve aumentare con ogni successo, facendo di questo successo soltanto un passo verso un successo più vasto. Più grande è il potere raggiunto, più grande è il desiderio di ulteriore potere. Come non pareva esserci limite al potere conferito a Haber dai sogni di Orr, così non c’era fine al suo desiderio di cambiare il mondo.

Un Alieno che passava per via urtò leggermente Orr nella folla di Viale Morrison, e si scusò con voce priva di tono, alzando il gomito sinistro. Gli Alieni avevano imparato a non puntare le estremità in direzione delle persone, perché si erano accorti che quel gesto impressionava la gente. Orr alzò gli occhi, sorpreso: si era quasi dimenticato degli Alieni, dopo la crisi del primo aprile.

Nel presente stato di cose — o continuum, come Haber si ostinava a chiamarlo — a quanto ricordava, l’atterraggio degli Alieni era stato molto meno disastroso per l’Oregon, la NASA e l’Aviazione. Invece di dover inventare il loro computer traduttore in fretta, sotto una pioggia di bombe e di napalm, se l’erano portato dietro dalla luna, e, prima di atterrare, avevano sorvolato a lungo il Paese, informando la popolazione delle loro intenzioni pacifiche, scusandosi per la Guerra Spaziale, che era stata un malinteso, e chiedendo istruzioni. C’era stato allarme, naturalmente, ma non panico. Era stato quasi commovente ascoltare quelle voci senza tono, che, da ogni banda della radio e da ogni canale della TV, ripetevano che la distruzione della cupola lunare e della stazione orbitante russa erano state il frutto, non voluto, dei loro tentativi di entrare in contatto e della loro ignoranza; che avevano creduto che i missili della Flotta Spaziale terrestre fossero il nostro tentativo di entrare in contatto; che erano molto dispiaciuti, e che, adesso che avevano finalmente la padronanza dei mezzi di Comunicazione umana, come ad esempio la parola, avevano l’intenzione di rimediare come potevano.

Il Centro di Programmazione Mondiale, fondato a Portland al termine degli Anni della Peste, aveva preso contatto con gli Alieni, ed era riuscito a mantenere calmi la popolazione e i generali. Ora che ci pensava, Orr ricordò che questo non era successo il primo aprile, due settimane prima, bensì l’anno scorso, in febbraio: quattordici mesi fa. Gli Alieni avevano avuto il permesso di atterrare; avevano instaurato dei rapporti soddisfacenti con la razza umana; e alla fine avevano avuto il permesso di lasciare il loro punto di atterraggio, attentamente sorvegliato, vicino a Monte Steens, nel deserto dell’Oregon, e di mescolarsi con la popolazione. Alcuni Alieni adesso si trovavano insieme con gli scienziati della Federazione dei Popoli, nella ricostruita Cupola Lunare, e circa duemila di essi erano sulla terra. Erano tutti quelli che esistevano, o, almeno, tutti quelli che erano venuti nel sistema solare; questo tipo di informazioni non veniva comunicato al pubblico. Nativi di un pianeta della stella Aldebaran, con atmosfera di metano, dovevano indossare costantemente quella tuta a forma di tartaruga quando si trovavano sulla terra o sulla luna, ma pareva che la cosa non desse loro fastidio. Il loro vero aspetto, sotto la tuta, non era noto a Orr. Gli Alieni non potevano uscirne, e non facevano disegni o fotografie. Anzi, la loro comunicazione con gli esseri umani, limitata alle emissioni vocali del gomito sinistro e a qualche specie di ricevitore acustico, era piuttosto limitata; Orr non sapeva neppure se potevano vedere, se avevano un organo di senso per lo spettro visibile. C’erano delle vastissime zone della conoscenza in cui ogni comunicazione era impossibile: come il vecchio problema dei delfini, ma straordinariamente più complesso. Comunque, una volta accettate dal Centro di Programmazione le loro intenzioni pacifiche, e vista l’esiguità del loro numero e dei loro desideri, erano stati accolti con molto interesse nella società umana. Era piacevole mettere finalmente gli occhi su qualcuno che era diverso da noi. Parevano intenzionati a fermarsi sulla terra, se gli umani concedevano il permesso; alcuni di essi avevano già avviato delle piccole attività commerciali, perché parevano molto abili nel commercio e nell’organizzazione, oltre che nel volo spaziale (avevano immediatamente diviso con gli scienziati terrestri le loro conoscenze in questo campo, superiori a quelle umane). Non avevano ancora spiegato chiaramente cosa speravano di ottenere in cambio, né il motivo che li aveva portati sulla terra. Pareva, semplicemente, che il pianeta fosse di loro gusto. E con l’andar del tempo, visto che la loro condotta era quella di cittadini industriosi, pacifici e timorati delle leggi, le voci di «Conquista Aliena» e «Infiltrazione non umana» si erano relegate ai politicanti paranoici dei gruppi dissidenti nazionalistici e alle persone che affermavano di avere visto i veri occupanti dei Dischi Volanti.

L’unico ricordo di quel terribile primo aprile, in effetti, pareva essere il ritorno di Monte Hood alla condizione di vulcano attivo. Nessuna bomba lo aveva colpito, perché nessuna bomba era stata gettata, questa volta. Si era destato, nient’altro. Un lungo pennacchio di fumo grigio si levava ora dalla sua vetta e piegava a nord. Le comunità di Zigzag e Rododendro erano finite come Pompei ed Ercolano. E recentemente si era aperto un fumaiolo vicino al piccolo cratere del Parco Monte Tabor, entro i limiti cittadini. Gli abitanti di Monte Tabor si stavano trasferendo in massa nei nuovi, ricchi sobborghi di West Eastmont, Chestnut Hills Estates e Sunny Slopes Subdivision. Si poteva vivere con il Monte Hood che, all’orizzonte, fumava lentamente, ma trovarsi un’eruzione sotto casa era un po’ troppo.

Orr prese uno squallido piatto di pesce fritto, con patate e salsa di arachidi africana, in un affollato self-service; mentre mangiava, pensò tristemente: Be’, una volta le ho dato un appuntamento a vuoto da Dave, e questa volta è stata lei a darlo a me.

Si sentì prendere da una tristezza insopportabile. La tristezza del dopo-sogno. La perdita di una donna che non era mai esistita. Cercò di gustare il cibo, di guardare le altre persone. Ma il cibo non aveva gusto e le persone erano uniformemente grige.

All’esterno delle porte di vetro del ristorante, la folla si stava facendo più fitta: gente che si dirigeva al Palazzo dello Sport di Portland (un enorme colosseo, costruito con grande prodigalità) per lo spettacolo pomeridiano. La gente non stava più in casa a guardare la TV: nella Federazione dei Popoli, la televisione funzionava soltanto due ore al giorno. Il modo di vivere moderno imponeva di socializzare, di stare insieme. Era martedì: oggi doveva esserci la lotta libera, massima attrazione della settimana fino al football del sabato sera. In verità morivano più atleti nella lotta libera, ma lo spettacolo non aveva gli aspetti drammatici, catartici del football, la pura carneficina che coinvolgeva 144 uomini, gli schizzi di sangue che giungevano fino ai sedili degli spettatori. L’abilità dei singoli lottatori era piacevole a vedersi, ma non dava lo splendido scatenamento abreativo dell’uccisione di massa.

Più niente guerra, si disse Orr, scostando sul bordo del piatto gli ultimi pezzetti di patata, unti e rinsecchiti. Rientrò nella folla. Ain’t gonna… war no more. Non… più la guerra. C’era una canzone. Una volta. Una vecchia canzone. Ain’t gonna… E poi, com’è il verbo? Non «combatterò», non sta nel verso. Ain’t gonna… war no more…

Proseguendo, Orr si imbatté in un Arresto di Cittadino. Un uomo alto con un volto lungo e grigio, rugoso, teneva per la collottola un altro uomo, con una faccia grigia e piena, lucida. La folla andava a sbattere contro la coppia: alcuni si fermavano a guardare, altri proseguivano verso il Palazzo dello Sport. — Questo è un Arresto di Cittadino; per favore, i presenti assistano! — diceva con voce acuta, penetrante, l’uomo alto. — Quest’uomo, Harvey T. Gonno, soffre di un incurabile tumore maligno addominale, ma ha nascosto la sua residenza alle autorità e continua a coabitare con la moglie. Io mi chiamo Ernest Ringo Martin e abito al 2624287 South West Eastwood Drive, Sunny Slopes Subdivision, Grande Portland. Ci sono dieci testimoni? — Uno dei testimoni tenne fermo il criminale, che si divincolava debolmente, mentre Ernest Ringo Martin contò i testimoni. Orr si affrettò ad andarsene, tuffandosi nella folla, prima che Martin somministrasse l’eutanasia con l’apposita pistola ipodermica, portata da tutti i cittadini adulti provvisti del Certificato di Responsabilità Civile. Lo stesso Orr ne aveva una. Erano obbligatorie. La sua, in questo momento, non era carica; la carica era stata tolta quando era entrato come paziente psichiatrico al Centro Programmazione; ma gli avevano lasciato l’arma perché la momentanea perdita di rango sociale non divenisse una pubblica umiliazione. Un disturbo mentale come quello per cui era attualmente in cura, gli avevano spiegato, non doveva venire confuso con un crimine punibile, come ad esempio una malattia grave di tipo infettivo o ereditario. Non doveva pensare di essere in alcun modo un pericolo per la Razza o un cittadino di categoria B, e la sua arma avrebbe riavuto la carica una volta dimesso dal dottor Haber e guarito.

Un tumore. Ma la Peste cancerogena, uccidendo tutte le persone con predisposizione al cancro, o durante il Crollo, o in tenera età, non aveva eliminato il flagello? Sì, ma in un altro sogno. Non in questo. Il cancro si era di nuovo risvegliato, come Monte Tabor o Monte Hood.

Studiare. Ecco il verbo mancante. Ain’t gonna study war no more…

Salì sulla funicolare all’incrocio tra Fourth Street e Alder Street; si innalzò al di sopra della città grigia e verde, fino alla torre del SURA, che coronava le colline occidentali, nell’area di Washington Park in cui era sorta la vecchia Pittock Mansion.

L’edificio sovrastava ogni cosa: la città; i due fiumi; le valli a occidente, velate dalla foschia; le grandi alture cupe di Forest Park che si estendevano a nord. Al di sopra del colonnato del portico, incisa nel chiaro cemento, in quel Romano maiuscolo che con le sue proporzioni conferisce nobiltà a qualsiasi frase, c’era la scritta: IL MASSIMO BENE PER IL MASSIMO NUMERO.

Nell’interno dell’immenso atrio in marmo scuro, copiato dal Pantheon di Roma, c’era un’iscrizione più piccola, a caratteri dorati che coprivano l’intera circonferenza del tamburo della cupola: IL DEGNO STUDIO DELL’UMANITÀ È L’UOMO. A. POPE. 1688-1744.

L’area dell’edificio, così avevano detto a Orr, era superiore a quella del British Museum, e la costruzione aveva cinque piani in più. Era anche a prova di terremoto. Non era a prova di bombe, perché non c’erano più bombe. I depositi di bombe atomiche rimasti dopo la Guerra Cislunare erano stati portati via dalla terra, e fatti esplodere in una serie di interessanti esperimenti, nella Fascia degli Asteroidi. L’edificio poteva resistere a qualsiasi cosa rimasta sulla terra, eccetto che Monte Hood, forse. Oppure un brutto sogno.

Prese il nastro trasportatore per l’Ala Ovest, e l’ampia scala mobile elicoidale per l’ultimo piano.

Il dottor Haber teneva ancora nell’ufficio il divano; una specie di ricordo, ostentatamente umile, dei suoi inizi come analista privato, quando si occupava delle persone a una alla volta, anziché a milioni. Ma occorreva un certo tempo per arrivare al divano, perché il suo ufficio copriva quasi 2000 metri quadrati, e comprendeva sette diverse stanze. Orr si annunciò al citofono della sala d’attesa, poi passò davanti a Miss Crouch, che stava armeggiando con un calcolatore, superò la sala di rappresentanza (un salone maestoso, in cui mancava soltanto il trono) dove il direttore riceveva delegazioni, ambasciatori, vincitori di Premi Nobel, finché giunse a un ufficio più piccolo, con il divano e una finestra panoramica ampia come tutta la parete. Gli antichi pannelli di legno scolpito che coprivano un’altra parete erano aperti e mostravano una magnifica serie di macchine elettroniche da ricerca: Haber in quel momento era tuffato nelle viscere aperte del suo Aumentore. — Salve, George! — tuonò dall’interno, senza voltarsi. — Sto mettendo un nuovo equilibratore nell’ormocoppia. Ancora un momento. Oggi faremo una seduta senza ipnosi. Si sieda, ne ho ancora per qualche tempo, mi sono messo a pasticciare con i circuiti… Senta. Ricorda la batteria di test psicologici che le hanno somministrato quando si è recato alla Clinica Universitaria? Tipo di personalità, Quoziente d’Intelligenza, Rorschach e infiniti altri? Poi io le ho somministrato dei Test di Percezione Tematica e alcune situazioni simulate di incontro, all’epoca della sua terza seduta. Ricorda? Se ne è mai chiesto i risultati?

Il volto di Haber, grigio e incorniciato da capelli e barba neri e ricciuti, comparve bruscamente al di sopra dello chassis dell’Aumentore. I suoi occhi, mentre guardava Orr, riflettevano la luce della parete-finestra.

— Penso di sì — fece Orr. In realtà non ci aveva mai pensato, neppure per un istante.

— Penso che ormai lei abbia il diritto di sapere che, entro i parametri di quei test, standardizzati ma molto acuti e molto utili, lei è talmente sano da rappresentare un’anomalia. Naturalmente, la parola comune «sano» non ha nessun significato obiettivo preciso; in termini statistici, i suoi punteggi corrispondono alla mediana del campo di valori. Il suo punteggio estroversione/introversione, ad esempio, era 49,1. Vale a dire che lei è 0,9 gradi più introverso che estroverso. Ciò non è per nulla inconsueto, ma è davvero strana la comparsa dello stesso rapporto in tutte le misure. Se le mettessimo tutte in un solo diagramma, lei si troverebbe esattamente nel mezzo, a 50. La dominanza, ad esempio; mi pare che lei sia 48,8. Né dominatore né sottomesso. Dipendenza/indipendenza: stesso discorso. Creativo/distruttivo, sulla scala Ramirez: identico. L’una cosa e l’altra. Questo o quello. Dove c’è una coppia di opposti, una polarità, lei è nel mezzo; dove c’è una scala di valori, lei è nel punto di equilibrio. Un dato si cancella con l’altro, così profondamente che, in un certo senso, non resta nulla. Ora, il dottor Walters, giù alla Clinica Universitaria, interpreta questi risultati in un modo leggermente diverso; Walters dice che la sua mancanza di successo sociale è frutto del suo adattamento olistico, qualsiasi cosa sia, e che quella che io chiamo autocancellazione è uno stato molto peculiare di armonia della sua personalità. Dalla qual cosa lei può vedere che come scienziato, diciamolo pure, il vecchio Walters è una pia menzogna, non ha mai superato il misticismo degli anni ’70; ma non è cattivo. Comunque, eccole il giudizio: lei è la persona che sta esattamente nel punto di mezzo del grafico. Adesso ci siamo, metto solo quest’affare sull’altro e siamo a posto… Cristo! — Mentre si alzava, aveva battuto la testa contro uno sportello. Lasciò aperto il pannello di legno che nascondeva l’Aumentore. — Be’, lei è un tipo strano, George, e la cosa più strana in lei è che non ha nulla di strano. — Fece una risata enorme, apocalittica. — Perciò, oggi proveremo un nuovo approccio. Niente ipnosi. Niente sonno. Niente stadio-d e niente sogni. Oggi desidero collegarla all’Aumentore mentre è in uno stato di veglia.

Orr sentì un tuffo al cuore, anche se non ne sapeva la ragione. — A che scopo? — chiese.

— Principalmente per ottenere una registrazione dei suoi normali ritmi cerebrali durante la veglia, come appaiono quando sono incrementati dalla macchina. Ne avevo fatta un’analisi completa durante la prima seduta, ma allora l’Aumentore non poteva fare altro che seguire il ritmo che lei stava emettendo normalmente. Ora posso usarlo per stimolare e registrare più chiaramente certe caratteristiche peculiari del suo cervello; soprattutto quell’effetto «auto-pilotato» che si origina nell’ippocampo. Poi potrò metterle a confronto con i suoi schemi cerebrali dello stadio-d, e con quelli di altri cervelli, normali e anormali. Sto cercando la natura dei suoi meccanismi cerebrali, George, per scoprire la cosa che rende efficaci i suoi sogni.

— A che scopo? — chiese una seconda volta Orr.

— A che scopo? Be’, non è per questo, che lei è qui?

— Io sono venuto qui per essere curato. Per imparare come non fare sogni efficaci.

— Se si fosse trattato di una semplice cura, tipo uno più uno due, crede che l’avrebbero mandata qui all’Istituto, al SURA… a me?

Orr si prese la testa tra le mani, e non disse nulla.

— Non posso mostrarle come fermarsi, George, finché non avrò scoperto la natura di ciò che lei compie.

— Ma, se la scoprirà, mi dirà poi come smettere?

Haber si girò pesantemente sui tacchi. — Perché ha tanto paura di se stesso, George?

— Non ho paura di me stesso — disse Orr. Aveva le mani sudate. — Ho paura di… — Ma aveva troppa paura, in effetti, per pronunciare la parola «lei».

— Di cambiare le cose, come dice lei. D’accordo. Lo so. Ne abbiamo già parlato altre volte. Perché, George? Lei deve rivolgere a se stesso questa domanda. Che c’è di male nel cambiare le cose? Ora, mi chiedo se questa auto-cancellazione, questa centralità della sua personalità, la porta a guardare con atteggiamento difensivo la realtà. Vorrei che lei si staccasse da se stesso e cercasse di esaminare dal di fuori, oggettivamente, il suo punto di vista. Lei ha paura di perdere il suo equilibrio. Ma non è detto che il cambiamento debba farle perdere l’equilibrio; la vita non è un oggetto statico, dopotutto. È un processo. Non esiste qualcosa come rimanere fermi. Lei, intellettualmente, lo sa, ma emotivamente lo rifiuta. Nulla resta mai uguale da un istante all’altro, non si può tuffare due volte il piede nello stesso fiume. La vita, l’evoluzione, l’intero universo di spazio e tempo, materia ed energia, l’esistenza stessa, sono sostanzialmente dei cambiamenti.

— Questo è soltanto un aspetto — disse Orr. — L’altro è la continuità, la conservazione.

— Quando le cose non cambiano più, allora si ha il frutto finale dell’entropia, la morte termica dell’universo. Maggiore è la quantità di cose che si muovono, inter-reagiscono, lottano, cambiano, meno equilibrio c’è, e più vita. E io sono per la vita, George. La vita stessa è un’enorme scommessa contro la probabilità, contro tutte le probabilità! Lei non può cercare di vivere in tutta sicurezza, perché non esiste una cosa come la sicurezza. Tiri dunque il collo fuori dal guscio, e viva fino in fondo! Quel che conta non è il modo in cui siamo arrivati qui, ma il punto dove arriviamo. La cosa che lei ha paura di accettare, in questo momento, è che stiamo svolgendo un esperimento importantissimo: noi due, io e lei. Siamo sulla soglia della scoperta e del controllo, per il bene di tutta l’umanità, di una forza completamente nuova, di un intero nuovo campo di energia anti-entropica, di forza vitale, di volontà di agire, fare, cambiare!

— Tutto questo è vero. Ma c’è una cosa…

— Che cosa, George? — Aveva un tono paziente e paterno, ora, e Orr si costrinse ad andare avanti col discorso, pur sapendo che non sarebbe servito a nulla.

— Noi siamo nel mondo, non contro di esso. Non si può cercare di stare all’esterno delle cose e di comandarle, così. La cosa non funziona, è contraria alla vita. C’è un solo modo, seguire la vita. Il mondo esiste, indipendentemente dal modo in cui vorremmo che fosse. Bisogna stare con esso. Bisogna lasciarlo stare.

Haber prese a passeggiare avanti e indietro per la stanza, poi si fermò davanti alla grande vetrata che incorniciava il panorama del cono sereno, spento, di Monte St. Helen. Annuì varie volte. — Capisco — disse, volgendo la schiena a Orr. — Capisco perfettamente. Ma mi lasci spiegare la cosa in un altro modo, George, e forse comprenderà le mie intenzioni. Lei è solo nella giungla, nel Mato Grosso, e trova un’indigena che giace sul sentiero, morente per un morso di serpente. Lei ha il siero nella bisaccia, ne ha più che a sufficienza, ne ha tanto da curare migliaia di morsi di serpente. Lei cosa fa, si tira indietro perché «le cose stanno così»… lei la «lascia stare»?

— Dipende — rispose Orr.

— Dipende da cosa?

— Be’… non so. Se la reincarnazione esistesse veramente, rischierei di impedirle di passare a una vita migliore, rischierei di condannarla a vivere fino all’ultimo una vita miserabile. O forse, se la salvo, quella donna potrebbe tornare al villaggio e uccidere sei persone. Però, una cosa la so: lei le darebbe il siero, perché lo ha; e mi spiace per quella donna. Ma lei non sa se ciò che sta facendo è bene, è male, o è tutt’e due le cose…

— D’accordo. Ha ragione! Io so cosa fa il siero antiofidico, ma non so cosa faccio io… d’accordo; in questi termini, sono lieto di accettare la cosa. E che differenza fa? Io non ho esitazione a confessare di non sapere, 85 volte su cento, cosa diavolo combino con questo suo pazzo cervello, e neppure lei lo sa, ma noi lo facciamo… Dunque, possiamo procedere? — La sua energia e la sua carica di simpatia erano schiaccianti; rise, e anche Orr si scoprì sulle labbra un debole sorriso.

Mentre Haber gli applicava gli elettrodi, comunque, Orr fece un ultimo tentativo per comunicare con lui. — Mentre venivo qui — disse, — ho visto un Arresto di Cittadino per eutanasia.

— E qual era il motivo?

— Eugenetica. Cancro.

Haber annuì, attento. — Non mi stupisco che lei fosse depresso. Lei non ha ancora accettato pienamente l’uso controllato della violenza per il bene della comunità; anzi, forse lei non riuscirà mai ad accettarlo. Il mondo che abbiamo qui, George, è un mondo duro. Un mondo realistico. Ma, come ho detto, nella vita non c’è la sicurezza. È una società dura, e diventa più dura di anno in anno: ma il futuro lo giustificherà. Ci occorre la salute. Noi, semplicemente, non abbiamo posto per gli incurabili, per i portatori di tare genetiche che degradano la specie; non possiamo permetterci le sofferenze che non sono utili a nessuno. — L’entusiasmo con cui parlava pareva più vuoto del solito; Orr si chiese fino a che punto, in realtà, piacesse a Haber il mondo che si era creato. — No, stia soltanto seduto sul divano, non voglio che si metta a dormire per la forza dell’abitudine. Così, bene. Correrà il rischio di annoiarsi. Desidero che stia seduto per un certo periodo di tempo. Tenga gli occhi aperti, pensi a ciò che le pare. Io intanto devo regolare alcune cose dentro alla macchina. Su, ci siamo. — Schiacciò il bianco pulsante con la scritta ACCESO, nel pannello murale alla destra dell’Aumentore, accanto al capezzale del divano.

Un Alieno che passava per la via urtò leggermente Orr nella folla del viale; alzò leggermente il gomito sinistro per scusarsi, e Orr mormorò: — Mi spiace. — L’Alieno si fermò, ostruendogli il passaggio, e anche Orr si fermò, sorpreso nel vedere quella forma alta tre metri, verde, corazzata e impassibile. Era grottesca al punto da risultare divertente; era simile a una testuggine marina, eppure, come una testuggine, aveva una bellezza strana e poderosa, una bellezza più serena di quella di qualsiasi abitatore della luce, qualsiasi camminatore della terra.

Dal gomito sinistro, ancora levato, giunse la voce senza intonazione. — Gior Gior — disse.

Dopo un istante, Orr riconobbe il proprio nome in quello strano bisillabo. Con qualche imbarazzo, rispose: — Sì, sono Orr.

— Prego scusare interruzione inautorizzata. Lei è umano capace di iahklu’, come in precedenza notato. Questo preoccupa vostra persona.

— Io non… Credo che…

— Anche noi siamo stati variamente disturbati. Concetti si attraversano nella nebbia. Percezione è difficoltosa. Vulcani eruttano fiamme. È offerto aiuto: può essere rifiutato. Siero antiofidico non è adatto a tutti. Prima di seguire ordini che portano in direzioni sbagliate, forze aiutanti possono essere chiamate, nel modo immediatamente seguente: Er’ perrehnne!.

— Er’ perrehnne — ripeté automaticamente Orr, che si sforzava con tutte le sue facoltà mentali di interpretare ciò che l’Alieno gli diceva.

— Se desiderato. La parola è d’argento, il silenzio è d’oro. Persona vostra è universo. Prego scusare l’interruzione che attraversa la nebbia. — L’Alieno, pur non avendo né collo né addome, diede l’impressione di fare un inchino e si allontanò, grosso e verde in mezzo alla folla dal volto grigio. Orr rimase a fissarlo finché Haber non gridò: — George!

— Cosa? — Si guardò intorno con aria ebete, e vide la stanza, la scrivania, la finestra.

— Che diavolo ha fatto?

— Nulla — disse Orr. Era ancora seduto sul divano, con la testa piena di elettrodi. Haber aveva premuto il pulsante SPENTO dell’Aumentore ed ora si trovava di fronte a lui. Guardava alternativamente Orr e lo schermo EEG.

Aprì la macchina e controllò la registrazione permanente, tracciata da pennini su carta millimetrata. — Mi pareva di avere interpretato male lo schermo — disse, e fece una risata strana: una versione molto ridotta della sua solita risata tonante. — Ho visto uno strano tracciato, dalla sua corteccia, ma non la alimentavo ancora con l’Aumentore; avevo appena cominciato a stimolare il ponte, niente di specifico… E questo cos’è? … Cristo, ci dovevano essere almeno 150 millivolt. — Si volse improvvisamente a Orr: — Che cosa stava pensando? Cerchi di ricostruirlo.

Orr provò un’estrema riluttanza, che equivaleva a una sensazione di minaccia, di pericolo.

— Pensavo… pensavo agli Alieni.

— Gli aldebaraniani? E allora?

— Pensavo a quello che ho visto in strada, mentre venivo da lei.

— E le ha ricordato, consciamente e inconsciamente, l’eutanasia che ha visto praticare. Giusto? Bene. Questo potrebbe spiegare lo strano tracciato proveniente dai centri dell’emozione; l’Aumentore lo ha raccolto e l’ha amplificato. Le è parso che qualcosa di speciale, di inconsueto, avvenisse nella sua mente?

— No — rispose Orr, sincero. L’avvenimento non gli era parso inconsueto.

— Bene. Ora, vede, nel caso le mie reazioni l’abbiano preoccupata, dovrebbe sapere che ho già collegato l’Aumentore al mio cervello varie centinaia di volte, e anche a quello di molti pazienti del laboratorio: circa 45 pazienti, nel complesso. Non può farle dei danni, visto che non ne ha fatto a nessun’altra persona. Ma il tracciato che ho visto all’EEG era molto strano per un soggetto adulto, e volevo semplicemente chiederle se aveva provato la stessa impressione soggettivamente.

Haber cercava di rassicurare se stesso, non Orr; ma la cosa non aveva importanza. Orr non era più disposto a credere a nessuna affermazione rassicurante.

— D’accordo. Riprendiamo. — Haber mise nuovamente in funzione l’EEG, e avvicinò la mano al pulsante ACCESO dell’Aumentore. Orr strinse i denti e si preparò ad affrontare il Caos e la Notte.

Ma non li incontrò. Né si trovò in qualche viale del centro a parlare con una tartaruga alta tre metri. Rimase seduto sul comodo divano, osservando dalla finestra il cono grigio-azzurrino, velato dalla foschia, del St. Helen. E, silenzioso come ladro di notte, lo pervase un senso di benessere, una certezza che ogni cosa era a posto, e che lui aveva il suo posto tra di esse. Persona vostra è universo. Non sarebbe rimasto isolato, fuori strada. Era ritornato al proprio posto. Sentì un’equanimità, un’assoluta certezza di dove si trovava lui, e di dove si trovava tutto il resto. Questa sensazione non gli pareva un’esperienza straordinaria o mistica, ma semplicemente un’esperienza normale. Si sentiva come si era sentito sempre, eccetto che nei momenti di crisi, di agonia; erano i sentimenti della sua infanzia e delle ore migliori e più profonde della giovinezza e della maturità; era il suo modo naturale di essere. Negli ultimi anni l’aveva perso, gradualmente ma quasi completamente, senza quasi accorgersene. Quattro anni prima, in aprile, era successo qualcosa che gli aveva fatto perdere completamente, per un certo periodo di tempo, quell’equilibrio; e recentemente i farmaci che aveva preso, i sogni che aveva fatto, il dover saltare continuamente da una serie di ricordi all’altra, il peggiorare del tessuto della vita ogni volta che Haber cercava di migliorarlo, tutte queste cose l’avevano portato fuori dai binari. Ora, tutt’a un tratto, sentiva di essere ritornato al proprio posto.

E sapeva che non poteva esserci ritornato con le sue sole forze.

Disse forte: — E stato l’Aumentore, a farlo?

— A fare cosa? — chiese Haber, curvandosi sulla macchina per controllare i tracciati EEG.

— Oh… non saprei.

— La macchina non fa assolutamente nulla, nel senso in cui parla lei — rispose Haber, con una punta d’irritazione. Haber diventava simpatico in momenti come questo, in cui non recitava nessuna parte e non inventava risposte, in cui era pienamente assorto in ciò che desiderava apprendere dalle reazioni rapide e sottili delle sue macchine. — Si limita ad amplificare quanto il suo cervello sta facendo al momento, rinforzandone selettivamente l’attività, e in questo momento il suo cervello non sta facendo nulla d’interessante… Ecco. — Annotò rapidamente qualcosa, poi tornò all’Aumentore e si chinò ancora a osservare le linee spezzate che apparivano sul piccolo schermo. Ruotando alcune manopole, ne separò tre che parevano una sola, poi le riunì di nuovo insieme. Orr non lo interruppe. Una volta Haber disse bruscamente: — Chiuda gli occhi. Giri la pupilla in su. Bene, li tenga chiusi. Cerchi di visualizzare qualcosa… un cubo rosso. Bene…

Quando alla fine spense le macchine e cominciò a staccare gli elettrodi, la serenità provata da Orr non svanì, a differenza dell’euforia indotta da una droga o dall’alcool. Rimase. Senza premeditazione e senza timidezza, Orr disse: — Dottor Haber, non posso più permetterle di usare i miei sogni efficaci.

— Come? — fece Haber, che pensava ancora al cervello di Orr, non a Orr.

— Non posso più permetterle di usare i miei sogni.

— «Usare» i suoi sogni?

— Usarli.

— Lo chiami come le pare — disse Haber. Si era raddrizzato, e adesso torreggiava su Orr, che era ancora seduto sul divano. Era grigio, grande, grosso, con barba ricciuta, spalluto e aggrottato. «Perché il tuo Dio è un Dio geloso.» — Mi spiace, George, ma lei non è nella posizione di fare affermazioni come questa.

Gli dèi di Orr non avevano nome né invidia, e non chiedevano né venerazione né obbedienza.

— Comunque, torno a ripeterlo — disse Orr, pacato.

Haber lo fissò; lo fissò davvero, per un momento, e lo vide. Parve indietreggiare, come un uomo che, credendo di spostare una tendina di velo, scopre che è una parete di granito. Attraversò la stanza. Andò a sedersi alla scrivania. Orr si alzò e si stiracchiò.

Haber si carezzò la barba nera con la mano enorme, grigia.

— Sono sulla soglia… anzi, no, sono già nel bel mezzo… di una grande scoperta — disse. La sua voce profonda non era più tonante e gioviale, ma cavernosa e possente. — Usando i suoi schemi cerebrali in un normale processo retroattivo di eliminazione, riproduzione, incremento, sto programmando l’Aumentore a riprodurre i ritmi EEG che compaiono durante un sogno efficace. Li chiamo «ritmi dello stadio-e», cioè dello stadio efficace. Quando sarò riuscito a generalizzarli sufficientemente, potrò sovraimporli ai ritmi dello stadio-d di un altro cervello; dopo un periodo di sincronizzazione, essi indurranno, a quanto ritengo, un sogno efficace nel secondo cervello. Capisce cosa significa questo? Potrò indurre lo stadio-e in un cervello appositamente scelto e addestrato, con la stessa facilità con cui gli psicologi che usano la stimolazione elettrica del cervello inducono la collera in un gatto, o la tranquillità in uno psicotico… anzi, più facilmente ancora, perché posso stimolare il cervello senza dover impiantare contatti o iniettare sostanze chimiche. Mi mancano pochi giorni, forse poche ore, per raggiungere la meta. Una volta che io l’abbia raggiunta, lei sarà libero. La sua collaborazione non sarà più necessaria. Non mi piace lavorare con un paziente che non vuole collaborare, e il progresso sarà molto più rapido con un soggetto che abbia le caratteristiche adatte e il giusto orientamento mentale. Ma, finché non sarò pronto, avrò bisogno di lei. Questa ricerca deve essere portata a termine. È probabilmente la più importante ricerca scientifica che sia mai stata compiuta. Io ho bisogno di lei a tal punto che… se il suo senso del dovere verso di me come amico, verso l’acquisizione di conoscenza, verso il benessere dell’umanità, non fosse sufficiente a tenerla qui, allora potrei giungere a costringerla a servire una causa superiore. Se sarà necessario, otterrò un mandato di Trattamento Terapeutico Obblig… voglio dire di Controllo Coercitivo della Salute Personale. Se necessario, userò dei farmaci come con gli psicotici violenti. Il suo rifiuto di prestare aiuto in una situazione di questa importanza, naturalmente, sarebbe un rifiuto psicotico. Però, e non c’è bisogno di dirlo, preferirei infinitamente avere il suo aiuto libero e volontario, senza costrizioni legali o fisiche. Per me sarebbe una cosa estremamente diversa.

— In realtà, per lei non farebbe alcuna differenza — disse Orr, senza belligeranza.

— Perché si mette contro di me… adesso? Perché proprio adesso, George? Ha dato un contributo tanto importante, ed ora che siamo così prossimi alla meta… — «Perché il tuo Dio è un Dio che rimprovera.» Ma il fare appello ai sentimenti di colpa non era il modo adatto per convincere George Orr; se fosse stato propenso a provare sentimenti di colpa, non sarebbe mai giunto alla sua età.

— Perché, più va avanti, peggio diventa. Ed ora, invece di impedirmi di fare sogni efficaci, lei intende cominciare a farne per conto suo. Non mi piace molto costringere il resto del mondo a vivere nei miei sogni, ma mi piacerebbe ancor meno costringerlo a vivere nei suoi.

— Cosa intende dire, con le parole «peggio diventa»? Senta qui, George. — Da uomo a uomo. La ragionevolezza vincerà. Se solo ci sedessimo a parlare dei nostri disaccordi… — Nelle poche settimane in cui abbiamo lavorato insieme, ecco quanto abbiamo fatto. Eliminato la sovrappopolazione; ripristinato il livello qualitativo della vita urbana e l’equilibrio ecologico del pianeta. Eliminato il cancro come una delle maggiori cause di mortalità. — Cominciò a contare sulle dita grige e robuste. — Eliminato il problema delle differenze di colore, l’odio razziale. Eliminato la guerra. Eliminato il rischio di un deterioramento della specie e della trasmissione di tare genetiche. Eliminate, no, diciamo in corso di eliminazione, la povertà, le differenze sociali, la guerra tra classi, in tutto il mondo. E che altro? La malattia mentale, il disadattamento nei confronti della realtà; per questi ci vorrà ancora qualche tempo, ma abbiamo già compiuto i primi passi. Sotto la direzione del SURA, la diminuzione dell’infelicità umana, fisica o psichica, e il costante incremento dell’espressione dell’individuo, sono cose che procedono senza arresti, sono in continuo progresso. Progresso, George! Abbiamo fatto maggiori progressi noi due in sei settimane che l’umanità in seicentomila anni!

Orr sentiva di dover controbattere tutte queste affermazioni. Cominciò: — E dov’è finito il governo democratico? La gente non ha più alcun diritto di scelta. Perché ogni cosa è così scadente, ogni persona è così infelice? Non si riesce neppure a distinguere una persona dall’altra, e, più giovani sono, più sono identici tra loro. Questa faccenda dello Stato Mondiale che alleva i bambini nei Centri…

Ma Haber lo interruppe, davvero incollerito: — I Centri Infantili sono una sua invenzione, non un’invenzione mia! Io mi sono limitato a fornirle un’indicazione molto generica dei miei desideri, tra le varie suggestioni di un sogno, come faccio ogni volta; anzi, ho poi cercato di suggerirle dei miglioramenti, ma sembra che questo tipo di suggestioni non faccia presa, o che venga distorto fino all’irriconoscibile da quel suo maledetto processo primario. Non c’è bisogno che mi dica che lei è contrario a ciò che cerco di ottenere per l’umanità… questo era ovvio fin dall’inizio. Ogni volta che la spingo a far compiere un passo avanti all’umanità, lei lo cancella, la fa incespicare a causa dell’astuzia o della stupidità dei mezzi con cui lo realizza. Lei cerca, ogni volta, di fare un passo indietro. I suoi impulsi sono totalmente negativi. Se lei, mentre sogna, non fosse sottoposto a forti pressioni ipnotiche, avrebbe ridotto in cenere il mondo, settimane fa! Pensi soltanto a cosa ha rischiato di combinare, la sera in cui è scappato con quella sua amica avvocatessa…

— È morta — disse Orr.

— Meglio. Esercitava un’influenza distruttiva su di lei. Irresponsabilità. Lei non ha coscienza sociale, non ha altruismo. Lei è come una medusa, moralmente. Devo instillare in lei ogni volta la responsabilità sociale, con l’ipnosi. E ogni volta me la trovo rovinata, piegata ad altri fini. Questo è appunto ciò che è successo con i Centri Infantili. Le ho suggerito che la famiglia nucleare è la prima fonte di nevrosi, e che c’erano alcuni modi in cui, in una società ideale, si poteva modificarla. Il suo sogno si è limitato a prendere le più rozze interpretazioni dei miei suggerimenti, le ha mescolate con delle concezioni utopistiche da quattro soldi, o, chissà, con delle concezioni ciniche anti-utopistiche, e ha prodotto i Centri. I quali, comunque, sono pur sempre migliori dell’istituzione di cui hanno preso il posto! In questo mondo c’è pochissima schizofrenia… lo sapeva? È una malattia rara! — Mentre Haber diceva queste cose, i suoi occhi scuri brillavano, le sue labbra sorridevano.

— Le cose vanno meglio di una volta… — disse Orr, rinunciando ad ogni speranza di discussione. — Ma, più lei va avanti, più peggiorano. E non è perché io cerchi di metterle i bastoni tra le ruote: è soltanto perché lei intende compiere una cosa impossibile. Io ho questo dono, lo so; e io conosco i miei obblighi verso di esso. Osarlo soltanto quando è necessario. Quando non ci sono alternative. Ma adesso le alternative ci sono. Io devo fermarmi.

— Non possiamo fermarci… abbiamo appena cominciato! Stiamo appena cominciando a esercitare un qualche controllo sulla sua facoltà. Intravedo la possibilità, e intendo riuscire a controllarla. Le paure personali non debbono ostacolare il bene che si può compiere a favore di tutti gli uomini con questa nuova capacità del cervello umano!

Haber cominciava il comizio. Orr lo guardò, ma gli occhi opachi del medico, anche se lo fissavano direttamente, non gli restituivano lo sguardo, non lo vedevano. La concione continuò.

— La mia intenzione è di rendere replicabile questa nuova facoltà. Si può tracciare un’analogia con l’invenzione della stampa, o con l’applicazione di qualsiasi nuovo concetto tecnologico o scientifico. Se gli esperimenti o le tecniche non possono venire ripetuti positivamente da altri, allora non servono. E così lo stadio-e, finché era chiuso nel cervello di un singolo uomo, era inutile per l’umanità, come una chiave chiusa dentro una stanza sbarrata, come una singola, sterile mutazione genetica che desse la genialità. Ma io saprò togliere la chiave dalla stanza sbarrata. E quella «chiave» sarà una pietra miliare dell’evoluzione umana: una tappa fondamentale, come lo è stata, all’origine dell’uomo, la nascita di un cervello capace di ragionare! Qualsiasi cervello che possa usare questa nuova capacità, che meriti di usarla, potrà farlo. Quando un soggetto adatto, addestrato, preparato, entrerà nello stadio-e sotto lo stimolo dell’Aumentore, vi entrerà con un completo controllo autoipnotico. Nulla verrà lasciato al caso, all’impulso accidentale, al capriccio narcisistico irrazionale. Non ci sarà più questa tensione tra la sua tendenza al nichilismo e la mia volontà di progresso, il suo desiderio del Nirvana e la mia pianificazione cosciente, attenta, del bene collettivo. Non appena avrò verificato la mia metodologia, lei sarà libero di andarsene. Assolutamente libero. E poiché lei ha affermato fin dall’inizio di non desiderare altro che di essere libero dalle responsabilità, di non poter più fare sogni efficaci, le prometto che il mio primo sogno efficace comprenderà la sua «guarigione»: lei non farà mai più un sogno efficace.

Orr si era alzato; rimase immobile, fissando Haber; il suo volto era calmo, ma molto attento. — Lei dice che controllerà da solo i suoi sogni — disse, — da solo… senza nessuno che la aiuti o le faccia da supervisore? …

— Ho controllato per settimane i suoi. Nel mio caso… e naturalmente io sarò il primo soggetto del mio esperimento, si tratta di un preciso obbligo morale… nel mio caso il controllo sarà completo.

— Io ho già provato con l’autoipnosi, prima ancora di usare i farmaci per la soppressione del sogno…

— Sì, me ne aveva parlato; e non ha avuto fortuna, ovviamente. Il problema se un soggetto resistente possa giungere a una vera autoipnosi è molto interessante, ma la sua esperienza non può costituire una prova; lei non è uno psicologo di professione, non è un ipnotista addestrato, ed era già disturbato emotivamente a causa di tutta la cosa: lei non è approdato a nulla, naturalmente. Ma io sono uno psicologo di professione, e so con precisione cosa faccio. Posso auto-suggerirmi un intero sogno, e poi sognarlo in tutti i dettagli, esattamente come se si trattasse della mia mente nello stato di veglia. E ho provato a farlo, ogni notte della scorsa settimana, per rimettermi in allenamento. Quando l’Aumentore sincronizzerà con il mio stadio-d lo schema dello stadio-e generalizzato, questi miei sogni diverranno efficaci. E allora… e allora… — Dentro la cornice di barba ricciuta, le sue labbra si spalancarono in un sorriso teso e immobile: un sorriso estatico che costrinse Orr a voltarsi da un’altra parte, come se avesse visto qualcosa che non si doveva guardare; una cosa terrificante e insieme patetica. — E allora questo mondo sarà un paradiso, e gli uomini diverranno simili agli dèi!

— Lo siamo già, lo siamo già — disse Orr, ma l’altro non gli prestò attenzione.

— Non c’è nulla da temere. Il periodo pericoloso… ah, averlo saputo allora!… era quando soltanto lei poteva sognare in modo efficace, e non sapeva come servirsi della sua facoltà. Se lei non fosse venuto da me, se lei non fosse stato affidato alle mani addestrate di uno scienziato, chissà cosa sarebbe successo! Ma lei era qui, e io ero qui: come si dice, la genialità consiste nel trovarsi al momento giusto nel posto giusto! — Rise fragorosamente. — Dunque, ora non c’è niente da temere, e nulla resta affidato alle sue mani. Io so, sia dal punto scientifico che da quello morale, cosa faccio e come devo farlo. Io so dove vado.

— Vulcani eruttano fiamme — mormorò Orr.

— Come?

— Posso andare, ora?

— Domani alle cinque.

— Sarò qui — promise Orr, e uscì.

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