Tenendo il fascio della torcia elettrica puntato contro la parete Boyd si chinò per esaminare più attentamente la roccia. Non l’aveva immaginato; aveva avuto ragione. Li, in quel punto, la roccia non era compatta. Era fratturata in diversi pezzi, ma quei pezzi collimavano perfettamente con il resto della parete. La frattura poteva venire scoperta soltanto per caso. Se non avesse guardato direttamente in quel punto, cercandola mentre faceva scorrere il fascio luminoso, gli sarebbe sfuggita. Era strano, pensò, che qualcun altro, durante tutto il tempo che avevano lavorato nella grotta, non l’avesse trovata. S’erano lasciati sfuggire ben poco.
Trattenne il respiro, e si sentì un po’ ridicolo perché lo tratteneva: dopotutto, poteva darsi che non significasse nulla. Forse erano crepe causate dal gelo, sebbene sapesse che era improbabile. Sarebbe stato molto insolito trovare lì crepe aperte dal ghiaccio.
Sganciò il martello dalla cintura e, reggendo la torcia con una mano, rivolta verso quel punto, insinuò a forza in una delle incrinature l’estremità a scalpello. La lama penetrò senza difficoltà. Boyd premette delicatamente e la crepa si allargò. Sotto una pressione più accentuata, il pezzo di roccia si smosse. Posò la torcia e il martello, afferrò la lastra e la liberò. Sotto c’erano altre due lastre, e si staccarono con la stessa facilità della prima. Ce n’erano altre, e Boyd rimosse anche quelle. S’inginocchiò sul pavimento della grotta e puntò la luce nel varco che aveva scoperto.
Era abbastanza grande perché un uomo potesse entrarvi strisciando, ma quella prospettiva lo lasciò indeciso per un momento. Solo com’era, sarebbe stato un rischio. Se fosse accaduto qualcosa, se fosse rimasto incastrato, se un frammento di roccia si fosse spostato bloccandolo o gli fosse caduto addosso, nessuno l’avrebbe soccorso. O probabilmente, non l’avrebbe soccorso in tempo per salvarlo. Luis sarebbe tornato alla tenda ad aspettarlo; ma se lui non fosse comparso, Luis l’avrebbe interpretato come un rimprovero per la sua impertinenza o una dimostrazione di insensibilità da parte dell’americano. Non avrebbe mai pensato che Boyd potesse essere imprigionato nella caverna.
Eppure quella era la sua ultima occasione. L’indomani avrebbe dovuto raggiungere Parigi in macchina per prendere l’aereo. E questo era molto interessante: non poteva ignorarlo. L’apertura doveva avere un significato; altrimenti, perché era stata murata con tanta cura? E chi l’aveva murata? si chiese. Certamente non era stato fatto in tempi recenti. Chiunque, trovando l’ingresso nascosto della caverna, avrebbe visto quasi immediatamente i dipinti e avrebbe diffuso la voce. Quindi l’ingresso del varco doveva essere stato ostruito da qualcuno che non conosceva il significato dei dipinti, oppure da qualcuno per il quale erano una cosa banale e comune.
Non poteva lasciar perdere, decise Boyd; doveva entrare. Si fissò il martello alla cintura, riprese la torcia elettrica e s’insinuò carponi.
Il passaggio continuava, diritto e agevole, per una trentina di metri o più. C’era a malapena lo spazio per strisciare ma, a parte questo, non presentava altre difficoltà. Poi all’improvviso finiva. Boyd, sdraiato a terra, puntò il fascio della torcia davanti a sé e fissò costernato la parete di roccia levigata che chiudeva il cunicolo.
Non aveva senso. Perché mai qualcuno doveva essersi dato la pena di murare un crepaccio vuoto? Forse gli era sfuggito qualcosa lungo il percorso, ma pensandoci bene credeva di poterlo escludere. Era avanzato lentamente, e aveva tenuto il raggio della torcia sempre puntato davanti a sé. Certamente, se ci fosse stato qualcosa fuori dell’ordinario, l’avrebbe visto.
Poi gli venne un’idea improvvisa e lentamente, con un certo sforzo, incominciò a girarsi su se stesso, per appoggiare il dorso anziché lo stomaco sul fondo del crepaccio. Puntò la torcia verso l’alto, e trovò la soluzione che cercava. Nella volta del cunicolo c’era un buco.
Cautamente, si sollevò a sedere. Alzò le braccia e trovò appigli per le mani nella roccia sporgente, e si issò in piedi, eretto. Girò il fascio di luce intorno a sé e vide che il buco si apriva: non in un altro crepaccio, ma in una cavità sferica… piccola, con un diametro inferiore ai due metri. Le pareti e la volta erano lisce, come se per un momento fosse esistita una bolla di roccia plastica, nel lontano passato geologico quando la montagna si era sollevata, e avesse lasciato dietro di sé quella sfera solidificata per sempre nella pietra.
Quando girò il raggio della torcia all’interno della sfera, represse un’esclamazione di meraviglia. Animali coloratissimi folleggiavano sull’intera distasa di pietra. I bisonti giocavano a saltaranocchio. I cavalli galoppavano in fila come ballerine. I mammuth eseguivano salti mortali. Tutto intorno al perimetro della base, poco al di sopra del pavimento, i cervi danzavano, ritti sulle zampe posteriori, e si tenevano per mano e ballavano facendo ondeggiare graziosamente le grandi corna.
— Cristo! — esclamò Boyd.
Disney dell’età della pietra.
Se era dell’età della pietra. Era possibile che qualche buontempone si fosse insinuato là dentro in tempi recenti per dipingere gli animali di quella minuscola grotta? Pensandoci meglio, Boyd accantonò l’idea. A quanto aveva potuto accertare nessuno, nella valle o nell’intera regione, aveva conosciuto l’esistenza della grotta grande fino a quando un pastore l’aveva scoperta, diversi anni prima, per cercare un agnello che vi si era infilato. L’entrata era piccola e per secoli era rimasta nascosta dalla fitta vegetazione di arbusti e di felci.
E l’esecuzione dei dipinti aveva un tocco preistorico. La prospettiva vi aveva una parte minima. Le figure avevano quel bizzarro aspetto piatto che caratterizza gran parte dell’arte della preistoria. Non c’era uno sfondo… né orizzonte, né alberi, né erba o fiori, o nuvole, o il senso del cielo. Però, si disse Boyd, chiunque avesse una conoscenza della pittura rupestre sarebbe stato al corrente di tutti quei fattori e si sarebbe dato da fare per riprodurli.
Eppure, nonostante le esibizioni così poco caratteristiche degli animali effigiati, quei dipinti gli davano la sensazione dell’arte rupestre. Quale uomo antico, si chiese Boyd, quale specie di uomo antico avrebbe rappresentato un bisonte che folleggiava e i mammuth che eseguivano capriole? Sebbene la situazione non avesse riscontro in tutta l’arte dei cavernicoli, i dipinti di quella grotta erano assolutamente… tradizionali nella forma e con un onesto, sincero tentativo di ritrarre gli animali come gli artisti li avevano veduti. Non c’era frivolezza, non c’erano neppure le impronte delle mani umane sporche di colore che apparivano tanto spesso in altre grotte. Gli uomini che avevano lavorato in quella caverna non erano ancora corrotti dal simbolismo che si era insinuato piuttosto tardi nel ciclo della pittura preistorica.
Dunque, chi era stato il pagliaccio che era penetrato tutto solo nella piccola grotta nascosta per dipingere quei suoi animali comici? Che fosse stato un pittore esperto non c’era da dubitare. Le tecniche e l’esecuzione erano impeccabili.
Boyd si issò attraverso il buco, sul cornicione ampio mezzo metro che circondava il varco, e rimase curvo perché non c’era spazio per alzarsi in piedi. Quasi tutti i dipinti, notò, dovevano essere stati eseguiti dall’artista steso sul dorso, con le braccia sollevate per raggiungere il soffitto curvo.
Fece scorrere lungo il cornicione il raggio della torcia. Lo arrestò all’improvviso e lo spostò avanti e indietro, per inquadrare qualcosa che stava posato là, senza dubbio dimenticato dall’artista quando aveva ultimato la sua opera e se ne era andato.
Boyd si protese in avanti, e socchiuse le palpebre per vedere meglio. Sembrava la scapola d’un cervo; e accanto alla scapola c’era un pezzo di pietra.
Cautamente, girò intorno al cornicione. Non aveva sbagliato. Era una scapola di cervo. Sulla superficie piatta c’era un grumo. Colore? si chiese. Il miscuglio di grassi animali e di terre minerali che gli artisti preistorici usavano per dipingere? Avvicinò la torcia e non ebbe più dubbi. Era colore, sparso sulla superficie dell’osso che era servito come tavolozza; e parte del colore era in grumi più spessi, pronti per l’uso ma mai usati… colore secco e mummificato che recava alcune impronte. Si chinò, accostando il viso a pochi centimetri dal colore e puntando la luce. Erano impronte digitali, vide, alcune profonde… la firma dell’uomo antico, morto da tanto tempo, che aveva lavorato lì, accovacciato come ora stava accovacciato Boyd, con le spalle aggobbite contro la pietra curva. Tese la mano per toccare la tavolozza, poi la ritrasse. Era simbolico, sì, quel movimento, quell’impulso di toccare l’uomo che aveva dipinto… ma era soltanto simbolico: c’erano di mezzo troppi secoli.
Spostò il raggio della torcia sul piccolo blocco di pietra accanto alla scapola. Una lampada… arenaria scavata, per contenere il grasso e il batuffolo di muschio che serviva come stoppino. Il grasso e lo stoppino non c’erano più da molto tempo, ma un sottile velo di fuliggine rimaneva ancora intorno all’orlo della cavità che li aveva contenuti.
Quando aveva ultimato il suo lavoro, l’artista aveva lasciato lì i suoi strumenti, aveva abbandonato persino la lampada che forse ardeva ancora, con il grasso quasi consumato… li aveva lasciati li e si era calato nel cunicolo, strisciando nell’oscurità. Forse non aveva bisogno di luce: sapeva strisciare nel crepaccio al tatto, guidato dall’abitudine. Doveva aver fatto quel percorso molte volte, perché il lavoro su quelle pareti aveva richiesto parecchio tempo, forse molti giorni.
Dunque se n’era andato, strisciando nel cunicolo, e aveva usato i blocchi di pietra per chiudere l’apertura del crepaccio, e quindi si era allontanato, scendendo il pendio per raggiungere la valle dove gli animali al pascolo avevano alzato la testa per guardarlo e avevano ripreso a brucare.
Ma quando era accaduto? Probabilmente, si disse Boyd, dopo che era stata dipinta la caverna grande, forse addirittura quando ormai i dipinti della caverna avevano perduto gran parte del significato posseduto in origine… un uomo solo che era ritornato a dipingere i suoi animali segreti nel suo luogo segreto. Li aveva ritratti come una beffa della pomposa importanza magica degli affreschi nella grotta principale? Come una protesta del tradizionalismo rigoroso degli affreschi originali? O semplicemente come una risata esuberante, forse una ribellione gioiosa contro la tetraggine e la stoltezza della magia della caccia? Un ribelle, pensò, un ribelle preistorico… un ribelle intellettuale? O forse soltanto un uomo con un punto di vista leggermente in contrasto con la filosofia del suo tempo?
Ma era l’altro uomo, l’uomo antico. E lui? Ora che aveva trovato la minuscola grotta, che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe dovuto regolarsi? Certamente non poteva voltarle le spalle e andarsene come aveva fatto l’artista, dopo aver abbandonato la tavolozza e la lampada. Perché era una scoperta troppo importante. Su questo non c’erano dubbi. Era una finestra nuova e insospettata che si spalancava sulla mentalità preistorica, una sfaccettatura del pensiero antico che nessuno aveva mai sospettato.
Doveva lasciare tutto come stava, richiudere il varco e fare una telefonata a Washington e un’altra a Parigi, disfare le valige e prepararsi a qualche altra settimana di lavoro. Richiamare i fotografi e gli altri della squadra… fare le cose sul serio. Sì, si disse: era l’unica soluzione.
Qualcosa che stava dietro la lampada, seminascosto dall’oggetto di arenaria, baluginò nella luce. Era un oggetto bianco e piccolo.
Tenendosi curvo, Boyd si spostò in avanti per vedere meglio.
Era un pezzo d’osso, probabilmente la tibia di un piccolo erbivoro. Boyd tese la mano e lo prese e, quando vide che cos’era, si aggobbì e restò immobile a fissarlo, senza sapere che cosa pensare.
Era un flauto, gemello del flauto che Luis portava nella tasca della giacca, e che aveva sempre portato in tasca dal primo giorno in cui l’aveva conosciuto, anni prima. C’era la fenditura del bocchino, c’erano i due fori rotondi. Quel giorno antichissimo, quando i dipinti erano stati completati, l’artista si era accoccolato lì, nella luce guizzante della lampada, e aveva suonato sommessamente per sé le semplici arie pigolanti che Luis aveva suonato quasi ogni sera, dopo il lavoro.
— Gesù misericordioso — disse Boyd, in un tono che era quasi di preghiera, — non è possibile!
Rimase cosi, impietrito, e i pensieri gli martellavano nella mente per quanto tentasse di scacciarli. Non volevano abbandonarlo. Li allontanava da sé, e ritornavano a sopraffarlo.
Finalmente, con uno sforzo di volontà, vinse la trance in cui lo tenevano prigioniero i pensieri. Si mise al lavoro con decisione, imponendosi di fare ciò che sapeva necessario.
Si tolse la giacca a vento e si avvolse meticolosamente la tavolozza-scapola e il flauto, lasciando la lampada. Si calò nel cunicolo e prese a strisciare, proteggendo con cura il suo fardello. Quando ritornò nella grotta grande, rimise al loro posto i blocchi di pietra per ostruire l’imboccatura del passaggio, raccolse manciate di terriccio dal pavimento e lo spalmò sui blocchi e poi lo tolse, lasciando soltanto un velo sottile aderente per mascherare l’apertura.
Luis non era nel suo accampamento, sulla terrazza sotto la caverna: era ancora a sbrigare la sua commissione al villaggio.
Quando arrivò in albergo, Boyd fece la telefonata a Washington, e non fece quella a Parigi.