I dù òmini che sinni stavano arriparati sutta la tettoia che era stata messa alla firmata, aspittando con santa pacienza l’arrivata della circolare notturna, macari senza acconoscersi si scangiarono un surriseddro pirchì da dintra di un grosso scatolone di cartone arrovisciato in un angolo proveniva un runfuliare accussì forte e persistente che manco una sega elettrica. Un povirazzo, un pizzente certamente, che aveva trovato provisorio riparo al friddo e all’acqua di cielo e che, conortato da quel tanticchia di calore del suo stesso corpo che il cartone tratteneva, aveva addiciso che la meglio era inserrare gli occhi, futtirisinni di lu munnu sanu sanu e bonanotti. Finalmenti la circolare arrivò, i dù òmini acchianarono, ripartì. Di cursa arrivò uno:
«Ferma! Ferma!»
Il conducente sicuramenti lo vitti, ma tirò di longo. L’omo santiò, taliò il ralogio. La prossima corsa sarebbe passata un’orata appresso, alle quattro del matino. L’omo stette a pinsarisilla tanticchia e doppo una scarrica di santiuna addecise di tarsi la strata a pedi. S’addrumò una sicaretta e partì. Tutto ’nzèmmula la runfuliata finì, lo scatolone traballiò e lentamente principiò a spuntare la testa di un pizzente mezzo ammucciata da un cappiddrazzo spurtusato che gli calava finti a supra l’occhi. Stinnicchiato in terra com’era, ruotando la testa, il pizzente desi un’attenta taliata torno torno. Quanno fu certo che nei paraggi non c’era anima criata e che le finestri delle case di fronte erano tutte allo scuro, l’omo, strisciando, niscì dallo scatolone. Parse un serpenti che faciva la muta della pelli. A vidirlo addritta, non dava la ‘mpressioni d’essiri accussì povirazzo: di personale minuto, era ben rasato e portava un vistito cunsumato, ma di buona fattura. L’omo infilò dù dita nel taschino della giacchetta, cavò fora un paro d’occhiali, se l’inforcò, niscì da sotto la tettoia, girò a mano dritta e, fatti manco una decina di passi, si fermò davanti a un cancello inserrato da una catina con un grosso catinazzo. Supra il cancello una granni insegna al neon, ora astutata, diceva: “Ristorante La Sirenetta – Ogni specialità di pesce”. Accomenzò a chiòviri. L’acqua non era fitta, ma bastevole per assuppare. L’omo armiggiò col grosso catinazzo che era più apparenzia che sustanzia, infatti non fece convinta resistenza al grimaldello, raprì mezza latata del cancello, appena quanto bastava per trasire, la richiuse alle sue spalle, rimise a posto la catina, fece scattari il catinazzo. Il vialetto che arrivava fino al portone di trasuta del ristorante era corto e tinuto bono. Però l’omo non se lo fece tutto, a metà girò a mano dritta e si dirigì verso il giardino che c’era darrè il locale e indovi, appena faciva stagione, apparecchiavano minimo minimo una trintina di tavolini. A malgrado dello scuro fitto, l’omo si cataminava con sicurezza, senza addrumare la pila che teneva in mano. L’acqua di cielo lo stava assammarando, ma non ci faceva caso. Anzi, sintiva un calore tale che manco la ‘stati, gli veniva di levarsi la giacchetta, la cammisa, i cazùna e restarsene nudo sutta all’acqua rinfriscante. Vuoi vidiri che gli era acchianata qualichi linea di fevri?
La vasca coi pisci, vanto del locali, era in fondo al giardino, a mano mancina. Il cliente che lo desiderava poteva andare alla vasca e scegliere personalmente il pisci che addesiderava mangiare: fornito di un coppo, doviva piccarselo da sé. Non sempre la cosa arrinisciva agevolmente e allura era tutto un gran ridere, un grosso divertimento, principiava un ioco di allusioni e doppi sensi specie se nella comitiva era presente qualiche fìmmina. Divertimento che in parte s’abbacava alla presentazione del conto, perché era cògnito che in quel ristorante, in quato a prezzi, non ci andavano di lèggio.
Fermo al bordo della vasca, l’omo principiò a murmuriàrisi in una specie di sussurro a un tempo arrangiato e lamentioso. La notti era tanto fitta che non vidiva niente, manco se la vasca era piena o era stata svacantata. Calò a lento una mano dintra alla vasca, assurdamente scantandosi che qualichi pisci, se ancora ci stava, potesse assugliarlo mangiandogli un dito. Incontrò l’acqua gelida, ritirò la mano di scatto. Allora si addecise ad addrumare la pila per un attimo: fu un lampo, ma bastevole a fargli sparluccicare l’argento dei pisci sutta il pelo dell’acqua. Erano tantissimi, I pisci, evidentemente la vasca era stata rifornita la sira avanti. Questo – pinsò – gli avrebbe facilitato la facenna, pirchì lui doviva pigliari un pisci col coppo praticamente alla cieca, dato che la pila meno si adoperava e meglio era. Al di là del giardino e della strata strapiombava un palazzone di una decina di piani, era assai probabile pirciò che qualichi cornuto che pativa d’insonnia, affacciatosi per caso e notata la luce della pila, aviva l’alzata d’ingegno di dare l’allarmi. Si sintiva, ed era, tutto sudato. Si levò la giacchetta che oltritutto l’avrebbe impacciato nei movimenti, la posò su una seggia di plastica e fece fare un altro lampo alla pila.
Di coppi, posati supra il bordo della vasca, ne scorse almeno tri, quegli stronzi dei clienti certe volte si mettevano a fare gare tra di loro, tipo chi perde paga per tutti. Ne pigliò uno, s’agginocchiò vicinissimo al bordo, calò il coppo tenendolo con le dù mano, gli fece descrivere un ampio semicerchio, lo tirò fora. Dal peso si fece capace che non aveva pigliato nenti. Ma volle sincerarsi e lo tastiò. Dintra c’era sulamenti qualichi goccia d’acqua residua. Riprovò altri volte, e ottenne sempre lo stesso risultato.
S’acculò sui talloni, stanchissimo, col sciato tanto grosso che si scantò che lo potevano sintire macari dal mailìtto palazzo vicino. Non potiva perdiri tutto questo tempo, doviva essiri fora dal ristorante almeno una decina di minuti prima che arrivava la circolare delle quattro, di solito affollata di pirsone ancora mezze addrummisciute, certo, ma sempre capaci d’arriconoscere a qualichiduno. Gli venne di fare una pinsata che gli parse bona assà. Tenne il coppo con la mano manca, lo calò, gli fece fare un veloce mezzo giro, ma, prima di finirlo, addrumò la pila che teneva nella mano dritta. Aviva immaginato giusto: una massa di pisci, scappanno, si era concentrata in quella parte della vasca dove non arrivava il giro della rete. Allora si susì, pigliò un altro coppo, si mise in equilibrio sul bordo della vasca, aspettò cinque minuti che i pisci si calmavano e ripigliavano a natare ognuno per conto so’. Trattenne perfino il respiro. Doppo agì. Mentri faciva fare il solito mezzo giro al primo coppo, calò di colpo il secondo a tagliare la strata alla fuitina dei pisci.
Ci arriniscì, sentì che nella rete almeno tri ci erano trasuti da soli. Gettò il coppo vacante, scinnì dal bordo, posò ‘n terra quello coi pisci, addrumò la pila. Distinse subito un grosso cefalo. Sorrise, s’assittò sul bordo della vasca, aspittò che i pisci finissero di dibattersi ammàtula contro la morte. Quanno fu certo che non si cataminavano più, gettati nuovamente in acqua gli altri dù pisci che non gli servivano pirchì erano troppo nichi, stese il cefalo sul bordo, tirò fora dalla sacchetta posteriore dei cazùna una pistola, ci mise il silenziatore, s’infilò la pila addrumata tra i denti e, tenendo fermo il corpo del pisci con una mano, con l’altra gli sparò un colpo, putando l’arma in verticale in modo che la pallottola non lo decapitava ma gli spappolava la testa. Astutò la pila e rimase immobile pirchì il botto, a malgrado del silenziatore, gli era parso che aviva arrisbigliato l’intera Vigàta. Ma non capitò nenti, nisciuna finestra si raprì, nisciuna voce addimannò cosa fosse capitato.
Allora l’omo cercò in una sacchetta dei cazùna, tirò fora il biglietto che si era portato appresso già scritto e l’assistimò sutta al pisci sparato.
La circolare delle quattro della mattina si fece aspittare a longo, arrivò con deci minuti di ritardo.
Quanno ripartì, tra i passeggeri assonati c’era macari l’omo che aviva appena assassinato un cefalo.
«Dottore, lei lo conosce il ristorante La Sirenetta, quello che si trova dalle parti del monumento a Luigi Pirandello?» spiò Fazio quella mattina di lunedì, 22 settembiro, trasendo nell’ufficio del commissario Montalbano.
Il commissario era d’umore bono. La jornata avanti aveva fatto friddo e pioggia, ma doppo, a nova matinata, era venuto fora un sole ancora agostano, compensato da un venticello arguto. A taliarlo bene in faccia, macari Fazio pareva privo di mali pinseri.
«Certo che lo conosco. Ma non c’è da gloriarsene, a conoscerlo. Ci sono andato una volta con Livia, tanto per provare, e m’è bastato e superchiato. Scrùscio di carta e cubàita nenti. Cammareri eleganti, servizio discreto, inappuntabile, posateria lussuosa, conto da infarto, ma quanto al dunque, alla sustanza, servono piatti che parino preparati da un cuoco in stato di coma irreversibile.»
«Io mai ci mangiai.»
«E bene facesti. Perché me ne parli?»
«Pirchì stamatina presto il signor Ennicello, il proprietario, che poi è un lontano parente di me’ mogliere, mi chiamò qua al telefono e mi contò una storia tanto stramma che mi fece pigliare di curiosità. Accussì ci andai. Lo sa che in quel ristorante c’è una vasca piena di pesci vivi che…»
«So tutto, so tutto. Vai avanti. Che capitò?»
«Capitò che stanotti qualichiduno è trasuto nel ristorante raprendo il catinazzo, ha tirato fora un pisci e gli ha sparato un colpo in testa.»
Montalbano lo taliò strammato.
«Ha sparato al pesce?!»
«Sissignore. E doppo, sotto al catàfero… no, alla salma… boh, sotto a quello che è, ci mise un pizzino, quanto un quarto di foglio di carta a quadretti, che sopra c’era scritto qualichi cosa.»
«Che c’era scritto?»
«Questo è il busillisi. Tra la pioggia, l’acqua e il sangue del pisci, l’inchiostro si è sciolto. E il pizzino è diventato fradicio, tanto che quando l’ho pigliato in mano si è come sfarinato.»
«Ma me lo spieghi pirchì uno s’addiverte a fare tutti questi mutupèrii, mettendosi macari a rischio d’essere arrestato, solamente per andare ad ammazzare un pesce?»
«Nonsi, ma gerarchicamente è lei che lo deve spiegare a me.»
«Siete sicuri che gli hanno sparato?»
«Sicurissimi, in terra c’era macari il bossolo. L’ho portato.»
Cercò nella sacchetta della giacchetta, lo tirò fora, lo pruì al commissario che lo pigliò e lo taliò.
«Questo non c’è nicissità di mandarlo alla Scientifica» fece Montalbano a commento, «ci piglierebbero per pazzi. Ha usato una 7,65.»
Gettò il bossolo in un cascione della scrivania.
«Giusto» disse Fazio. «Secondo mia, dottore, è stato un avvertimento. Viene a dire che 1’amico Ennicello ha saltato qualche rata del pizzo.»
Montalbano gli diede una taliata infastiduta.
«Con tutta l’esperienza che hai, dici ancora queste stronzate? Se non ha pagato il pizzo gli ammazzavano tutti i pesci e per buon peso gli abbrusciavano macari il ristorante.»
«E allora che può essere?»
«Tutto e nenti. Macari una scommissa cretina tra due clienti, una garrusiata…»
«E noi ora che facciamo?» spiò Fazio dopo una pausa.
«Che pisci era?»
«Un muletto granni quanto mezzo braccio mio.»
«Un muletto? Facciamo a capirci, Fazio: il muletto, sino a prova contraria, non è il cefalo?» «Sissi, dottore.»
«E il muletto non è pisci di mare?»
«C’è macari il muletto d’acqua duci. Che a mangiarlo, però, è meno bono di quello di mare.»
«Non lo sapevo.»
«Certo, dottore. A vossia i pisci d’aqua duci ci sdignano. Che devo fare con Ennicello?»
«Te lo dico io cosa devi fare. Torna al ristorante e fatti consegnare il muletto dicendo che ti serve per approfondire 1’indagine. »
«E dopo?»
«Te lo porti a casa e te lo fai cucinare. Te lo consiglio alla griglia, ma la brace non deve essere forte, mi raccomando. Riempigli la panza con rosmarino e tanticchio d’aglio. Condiscilo col salmoriglio. Dovrebbe essere mangiabile.»
Nelle jornate che vennero appresso, in commissariato ci fu il solito trantran, fatta cizzione di tri fatti un tanticchia più impegnativi degli altri.
Il primo fu quanno il ragioniere Pancrazio Schepis, tornato a la so’ casa a ora inconsueta, aviva scoperto la so’ ritogliere, signora Maria Matildina, stinnicchiata completamente nuda supra il letto mentri il famoso “Mago di Bagdad”, al secolo Minnulicchia Salvatore di Trapani, macari lui nudo, “usava il di lui sesso come aspersorio”, siccome scrisse Galluzzo nel suo diligente rapporto. Passato il primo sbalordimento, il ragioniere aviva scocciato il revorbaro ed esploso colpi cinque all’indirizzo del mago fortunatamente pigliandolo solo alla coscia mancina.
Il secunno fu quanno la casa della novantina signora Balduino Lucia venne completamente svaligiata dai latri. Una fulminea indagine di Fazio inequivocabilmente accertò che il latro era uno solo: il nipote della signora Balduino, il sidicino Filippuzzo Dimora, al quale la nonna aviva negato i soldi per accattarsi il motorino.
Il terzo fu quanno tri magazzini di proprietà del vicesinnaco Bartolotta Giangiacomo furono abbrusciati nella stissa notti e la facenna venne catalogata da tutti come un chiaro avvertimento contro certe iniziative del vicesinnaco che passava per essiri uno strinuo combattente antimafia.
Abbastarono dodici ore per accertare che la benzina che aviva dato foco ai magazzini l’aviva accattata l’istisso vicesinnaco.
Insomma, tra una cosa e l’altra, passò una simana.
La notti era scurosa, non si vidiva manco una stiddra, erano tutte cummigliate da nuvole carriche d’acqua. La trazzera era proprio difficoltosa, spuntuna di massi sbucavano all’improvviso dai muretti di pietra, si raprivano buche che parivano voragini. La machina era vecchia e malannata, procedeva a scossoni, affannando. Per di più l’omo ch’era al volante addrumava i fari solo di tanto in tanto, per qualichi secondo, e doppo l’astutava: a quell’ora di notte e su quella trazzera non era facile che passava un’automobile epperciò la meglio era di non fare nasciri curiosità. A occhio e croce doveva mancare picca per arrivare a indovi voliva arrivare. Addrummò gli abbaglianti e a una ventina di metri di distanza, a mano dritta, vitti l’insegna scritta a mano e inchiovata a un palo. L’omo fermò la machina, astutò il motore, raprì lo sportello, scinnì. L’ariata umida e frisca faciva più pungente il sciàuro della campagna. L’omo tirò un respiro profunno e doppo, le mano in sachetta, principiò a caminare. A mezza strata venne pigliato da un pinsero. Si fermò. Quanto tempo ci aviva messo per arrivare? E se era troppo presto? Sapiva che era partito dal paisi eli picca passate le unnici e mezza, ma non aviva incontrato trafico e non arrinisciva a farsi capace di quanto aviva caminato con la machina. S’arrisolse. Cavò dalla sacchetta la torchia, l’addrummò per la durata di un lampo. Bastevole per vidire l’ora al ralogio che teneva al polso. Era la mezzanotte e deci. La jornata nova era principiata da deci minuti. Tutto a posto. Ripigliò a caminare.
Per sparare, l’omo stavolta non ebbe bisogno di silenziatore. Il botto l’avvertì solo qualichi cane lontano che si fece un’abbaiata senza convinzione, tanto per far vidire che si guadagnava la pagnotta.
Lunedì 29 settembiro Fazio s’appresentò in comissariato verso mezzojorno tenendo in mano un sacchetto di plastica, di quelli tipo supermercato.
«Sei andato a tare la spesa?»
«Nonsi, dottore. Un pollo ci portai. A mia non mi piace. Se lo mangiasse lei, io la simana passata mi sono già sbafato il muletto.»
«Spiegati meglio.»
«Dottore, il pollo che ho qua dintra è stato sparato. In testa, come il pisci dell’altro lunedì.»
«Dov’è successo?»
«Nell’allevamento di Masino Contrera, in campagna, verso Montereale, a una mezzorata di machina da qui. Però è un posto solitario. Ecco il bossolo.»
Montalbano raprì il cascione, recuperò l’altro bossolo, li confrontò. Erano identici.
«E macari stavolta ha lasciato un pizzino» ripigliò Fazio cavandolo dalla sacchetta e pruiendolo al commissario.
Era scritto su un pezzo di carta a quadretti con la biro, i caratteri erano a stampatello.
CONTINUO A CONTRARMI
«Che viene a significare?» si spiò Montalbano.
«Posso permettermi?»
«Certo.»
«Io ho pensato che forse questo signore ha sbagliato a scrivere» fece Fazio.
«Ah, sì?»
«Sissi, dottore. Forse voleva scrivere: “Continuo a contrariarmi”. Forse questa pirsona è contrariata per qualche ragione, che ne saccio, le tasse, la mogliere che gli mette le corna, un figlio drogato, cose accussì. E allora piglia e si sfoga.»
«Sparando ai pesci e ai polli? No, Fazio, qua c’è scritto proprio “contrarmi”. Da questo pizzino possiamo però intuire il contenuto del primo, quello che non hai potuto leggere perché si era vagnato. Qua dice: “continuo”.»
«E allora?»
«Vuol dire che nel primo pizzino c’era scritto: comincio, inizio, principio, un verbo di questo tipo. “Comincio a contrarmi” o qualcosa di simile.»
«E che viene a dire?»
«Boh.»
«Che facciamo, dottore?» spiò tanticchia squieto Fazio.
«Questa storia ti fa diventare nirbuso?»
«Sissi.»
«E perché?»
«Perché è una facenna senza capo né coda. E a mia le cose che non sono ragionate m’impressionano.
«Non possiamo fare niente, Fazio. Aspettiamo che questo signore finisce di contrarsi e poi vediamo. Ma proprio proprio il pollo non ti piace?
Aveva dormito bene, per tutta la nottata una friscanzana leggera e danzante che veniva dalla finestra aperta gli aveva puliziato i purmuna e i sogni. Si susì dal letto, andò in cucina a prepararsi il cafè. Aspittando che colasse, niscì sulla verandina. Il cielo era netto, il mare piatto e come ripassato di colore fresco. Qualichiduno lo salutò da una barca, rispose isando un vrazzo. Ritrasì, versò il cafè in un cicarone da latte, se lo scolò, addrumò la prima sigaretta della jornata senza pinsari a nenti, la terminò, andò sutta la doccia, s’insaponò coscienziosamente. E appena l’ebbe fatto, capitarono due cose nello stesso momento: finì l’acqua del serbatoio e squillò il telefono. Santiando, rischiando di sciddricare a ogni passo per il sapone che gli colava dal corpo, corse all’apparecchio.
«Dotori, lei di pirsona pirsonalmente è?»
«No.»
«Domando pirdonanza, non è con l’abitazione del dotori e comisario Montalbano che io sto per parlando?»
«Sì.»
«E alora chi è che pigliò il posto suo di lui?»
«Arturo sono, il fratello gemello.»
«Davero?!»
«Aspetti che le chiamo Salvo.»
Era meglio babbiare accussì con Catarella piuttosto che farsi il fìcato una pesta per l’improvisa mancanza d’acqua. Tra l’altro il sapone, asciucandosi, principiava a fargli chiurito.
«Pronto, Montalbano sono.»
«La sapi una cosa, dotori? Proprio la stisa pricisa identifica voci di suo fratelo gimelo Arturo tiene!»
«Capita tra gemelli, Catarè. Ma perché parli accusì?»
«Acusì comu, dotori?»
«Per esempio, dici dotori invece che dottori.»
«Aieri a sira me lo dise uno milanise di Torino che qua avemo la tinta bitudine di parlari metendoci due cose, come si chiamano, ah ecco, consonatazioni.»
«Vero è. Ma a te che ne fotte, Catarè? Macari I milanesi di Torino fanno gli sbagli loro.»
«Maria santissima, dottori, un piso dal cori mi allevò! Difficile assà mi avveniva di parlari tinendomi accussì!»
«Che volevi dirmi, Catarè?»
«Tilifonò Fazio che mi disse di tilifonarle che hanno sparato al signor Tani. Lui sta per arrivando qua.
« L’hanno ammazzato?»
«Sissi, dottori.»
«E chi è questo Tani?»
«Non ci lo saprei diri, dottori.»
«Dov’è successo?»
«Non lo saccio, dottori.»
In bagno teneva una riserva d’acqua in una tanica. Ne versò la metà nel lavabo, meglio non consumarla tutta, chissà quando si sarebbero degnati di ridarla, l’acqua, a fatica arriniscì a scrostarsi il sapone vetrificato. Lasciò il bagno sporco, una vera fitinzìa, sicuramenti la cammarera Adelina gli avrebbe mandato mortali gastìme e sentiti agùri di mala annata.
Arrivò in commissariato contemporaneamente a Fazio.
«Dov’è avvenuto l’omicidio??»
Fazio lo taliò ammammaloccuto.
«Quale omicidio?»
«Quello di un certo Tani.»
«Gli disse accussì Catarella?»
«Sì.»
Fazio principiò a ridere prima chiano poi sempre più forte. Montalbano si squietò, macari pirchì sentiva un chiurito insistente in quella parte del corpo sulla quale si era assittato per guidare. E non gli pariva cosa decente dare, alla parte, una furiosa grattata. Si vede che non era arrinisciuto a liberarsi di tutto il sapone impiccicato.
«Se vuoi essere così cortese da mettermi a parte…»
«Mi scusasse, dottore, ma è troppo bella! Ma quale Tani e Tani! Io dissi a Catarella di riferirle che avevano ammazzato a un cani!»
«È stato il solito?»
«Sissignore.»
«Un colpo di pistola e via?»
«Sissignore.»
«Oggi è il 6 ottobre, no? Questa pirsona travaglia seguendo una scadenza settimanale e sempre nella nottata compresa tra la domenica e il lunedì» commentò il commissario trasendo nel suo ufficio.
Fazio s’assittò in una delle due seggie davanti alla scrivania.
«Il cane aveva un padrone?»
«Sissi, un pensionato, Carlo Contino, un ex impiegato del municipio. Ha una casuzza in campagna con l’orto e qualche armalo. Una decina di galline, qualche coniglio. Lui stava dormendo, è stato arrisbigliato dal colpo di pistola. Allora si è armato e…»
«Di cosa?»
«Un fucile da caccia. Ha il porto d’armi. Ha visto subito il cane morto e un attimo dopo ha sentito il rumore di una macchina che partiva.»
«Ha capito che ora era?»
«Sissi, ha taliato il ralogio. Era la mezzanotte e trintacinque. Mi ha contato che ha passato il resto della nottata a chiàngiri. Ci era assà aftezzionato, al cane. Poi, quando si è fatto giorno, è venuto qua. E io sono andato con lui a vedere.»
«Ha qualche idea?»
«Nessuna. Dice che non riesce a capacitarsi perchè gli hanno ammazzato il cane. Lui sostiene di non avere nemici e di non avere mai fatto torto a nisciuno.»
«La casa di questo Contino è nei paraggi dell’allevamento della volta passata?»
«Nonsi, e esattamente dalla parte opposta.»
«E rispetto al ristorante?»
«Macari lontano dal ristorante è.»
«Hai ritrovato il bossolo?»
«Sissignore, eccolo qua.»
Era identico agli altri due.
«A trovare il biglietto invece stavolta ci ho messo tanticchia più tempo. Il venticello di stanotte l’aveva portato lontano.»
Lo pruì al commissario. Solito quarto di foglio di carta quadrettata, solita biro.
CONTINUO A CONTRARIMI
«Bih, che grandissima camurrìa» sbottò Montalbano, «quanto minchia di tempo ci mette ‘sto stronzo a finire di contrarsi?»
Trasì in quel momento Mimì Augello, frisco, sbarbato, elegante. Si era fatto una misata di vacanza in Germania, ospite di una picciotta di Amburgo che aveva la ‘stati avanti accanosciuto alla pilaja.
«Ci sono novità?» spiò assetandosi.
«Si» arrispunni secco Montalbano. «Tri omicidi.»
Quanno lo vedeva accussì arriposato e sorridente, al commissario gli smorcava il nirbuso e Mimì gle faceva ‘ntipatia.
«Minchia!» reagì Augello alla notizia saltando letteralmente dalla seggìa.
Poi, taliando in faccia gli altri due, si fece pirsuaso che c’era qualichi cosa di strammo.
«Mi state babbiando?»
Fazio si mise a taliare il soffitto.
«In parte sì e in parte no» disse il commissario.
E gli contò tutta la facenna.
«Questo non è uno scherzo» fece Mimì alla conclusione restando mutànghero e pinsoso.
«Mi dispiace solo che stavolta ha ammazzato un armalo che né io né Fazio ci possiamo mangiare» disse Montalbano.
Augello lo taliò.
«Ah, tu la pigli accussì?»
«E come la dovrei pigliare?»
«Salvo, quello va a crescere.»
«Non ti ho capito, Mimì.»
«Mi riferisco alle dimensioni delle…»
Si fermò, imparpagliato. Non gli pariva giusto chiamarle vittime.
«… degli armali. Un pesce, un pollo, un cane. La prossima volta, vedrete, ammazzerà una pecora.»
Venniridì 10 ottobriro il commissario stava assittato nella verandina che si era appena appena mangiato una caponatina da primo premio assoluto, quanno il telefono sonò. Erano le dieci di sira e Livia, come al solito, spaccava il secondo.
«Ciao, amore, eccomi qua puntuale. A che ora arrivi domani?»
Glielo aveva promesso a Livia, il mese avanti, che in ottobriro avrebbe potuto passare un sabato e una domenica con lei a Boccadasse. Anzi, nella telefonata della sera prima le aviva detto che, essendo tornato Mimì dalle vacanze, si sarebbe potuto trattenere macari il lunedì. Allora perché gli venni ci fatto di rispondere come rispose?
«Livia, mi devi scusare, ma temo proprio di non riuscire a liberarmi. Mi è capitato che…»
«Zitto!»
E calò un silenzio che parse tagliato con un colpo di mannaia.
«Non è per una questione di lavoro, credimi» ripigliò lui doppo tanticchia, coraggiosamente.
Voce di Livia proveniente dalle parti della Groenlandia del nord.
«Che ti è successo?»
«Ti ricordi di quel dente che mi doleva? Bene, mi è tornato all’improvviso un dolore che …»
«Sono io il dente che ti duole» fece Livia.
E riattaccò.
Montalbano s’infurio. Va bene, le aveva contato una farfantarìa, ma metti che il malo di denti ce l’avesse avuto pi davero, era quello il modo di rispondere di una fìmmina innamorata? A uno che arraggia per il duluri? Ma almeno una parola di compatimento, Christo santo! Tornò ad assittarsi nella verandina spiandosi pirchì aviva detto a Livia che non sarebbe più andato a trovarla. Fino a un secondo prima era deciso a partire, poi quelle parole gli erano nisciute dalla vucca accussì, senza controllo, senza che se ne rendeva conto. Un attacco incontrollato di lagnusìa, vale a dire un’irresistibile voglia di non fare nenti, standosene a tambasiare casa casa in mutande?
No, provava veramente gana di aviri Livia allato a lui, sentirla vivere, sentirla respirare nel letto addrummisciuta, sentirla trafichiare, sentirla ridere, sentire la sua voce che lo chiamava dalla spiaggia o dall’altra cammara.
E allura pirchì? Una botta di sadismo, come spisso o capita tra innamorati? No, non era cosa che apparteneva alla natura so’. Possibile che aviva fatto una cosa senza senso, irrazionale?
Lontano, al limite dell’udibilità, un cane abbaiò.
E tutto ’nzèmmula fiat lux! Eccola, la spiegazione! Assurda, certo, ma indubbiamente era quella. Un attimo prima di andare al telefono e rispondere a Livia aviva sintuto lo stesso abbaìo di cane. F dintra di sé, a livello quasi inconscio, aviva capito che era venuto il tempo di occuparsi seriamente della facenna del pisci, del pollo e del cani assassinati. Le frasi scritte su quei pizzini di carta quatrittata contenevano certamente una minaccia oscura, indecifrabile, ma reale. Cosa sarebbe capitato quando quel pazzo avrebbe finito, come diceva lui, di contrarsi? E inoltri quel verbo, contrarsi, in che senso andava pigliato?
Andò a taliare sull’elenco il numero della “Sirenetta”, lo fece.
«Il commissario Montalbano sono. C’è il signor Ennicello?»
«Glielo chiamo subito.»
Il ristorante doveva essere pieno. Si sentivano voci animate, risate di màscoli e fìmmine, scruscio di posate e bicchiera, le note di un pianoforte, una voce fimminina che cantava.
“Al momento del conto vi voglio!” pinso Montalbano.
«Commissario, sempre agli ordini!»
Aveva la voce allegra, Ennicello, gli affari dovivano andargli bene.
«Mi scusi se l’ho disturbata. Le telefono a proposito del pesce dell’altro giorno…»
«Qua da noi lo mangiò? Non era fresco?»
Mangiare alta “Sirenetta”! Manco sutta tortura!
«No, mi riferivo a quel muletto che hanno sparato nella…»
«Ancora di quella passata si ricorda commissario?»
«Non dovrei?»
«Ma quello certamente uno scherzo fu! Vede, nel primo momento mi preoccupai, ma dopo, riflettendoci a mente fridda, mi feci pirsuaso che era stat tutta una babbiata…»
«Una babbiata pericolosa, non crede? Poteva, che so, passare la vigilanza notturna, accogersi di un estraneo armato nel ristorante…»
«Ha ragione, commissario. Però, vede, per fare uno scherzo che arrinesci bene qualcosa bisogna rischiare.»
«Eh già.»
«Senta, commissario, ho il ristorante pieno e…»
«Ancora una domanda e la lascio tornare ai suoi clienti. Signor Ennicello, secondo lei del tipo di pesce da ammazzare fu voluta o casuale?»
Ennicello dovette strammare.
«Non ho capito, commissario.»
«Le rivolgo la domanda in un altro modo. Mi spiega come fece quell’uomo a tirare for a dalla vasca il muletto?»
«Non tirò fora il solo muletto, dottor Montalbano. Col coppo pigliò tri pesci. Scelse quello forse perchè era il più grosso di tutti.»
«E lei come fa a sapere che pigliò tri pesci?»
«Perché quella mattina stessa trovai nella vasca macari una tinca e una trota morte.»
«Sparate?!»
«No, per asfissia, per mancanza d’acqua: secondo me, quello ha svacantato il coppo sull’erba e ha aspettato che i pesci morissero. Gli sarebbe venuto difficile tenerli in mano mentri erano vivi. Poi ha pigliato il muletto e ha rigettato gli altri due nella vasca.»
«In altri parole, ha fatto una scelta. Secondo lei ha pigliato il muletto perché era il più grosso, ma le ragioni potrebbero essere altri, non le pare?»
«Commissario, come faccio a sapere quello che passa per la testa a un…»
«Un’ultimissima cosa. A che ora ha chiuso il ristorante la sera avanti del fatto?»
«Io chiudo sempre, per i clienti, a mezzanotte e mezza.»
«E il personale per quanto si trattiene?»
«Ancora un’orata, pressappoco.»
Ringraziò, riattaccò. Quindi, munito di un foglio e di una biro, tornò ad assittarsi nella verandina. Scrisse:
Lunedì, 22 settembre = pesce
Lunedì, 29 settembre = pollo
Gli venne da ridere, pareva un menu.
Lunedì, 6 ottobre = cane
Perché sempre nelle prime ore del lunedì? Per il momento, meglio sorvolare. Scrisse le iniziali di ogni armalo ammazzato.
PPC
Non aveva senso. E non aveva manco senso se alla p di pesce sostituiva la c di cefalo.
CPC
E meno che mai se alla c di cefalo sostituiva la m di muletto.
MPC
Gli venne un pinsero goliardico: l’unico significato che poteva dare a quelle tri consonanti messe in fila era:
MANCO P’O’ CAZZO
Appallottolò il foglio, lo gettò a terra, si andò a corcare più confuso che pirsuaso.
Mentri Montalbano s’arramazzava nel letto per arrinèsciri a pigliari sonno doppo una mangiata quasi industriale di sarde a beccafico, l’omo, nella sua cammara granni tutta tappezzata da scaffalature stracome di libri e la cui unica splàpita luce era data da un lume da tavolo, isò l’occhi dal libro antico e preziosamente rilegato che stava leggendo, lo chiuse, si levò gli occhiali, si appoggiò allo schienale della poltrona di ligno. Restò qualche minuto accussì, passandosi di tanto in tanto due dita sull’occhi che gli abbrusciavano. Doppo, con un sospiro funnuto, raprì il cascione destro della scrivania. Dintra, in mezzo a carte, gomme da cancellare, chiavi, vecchi timbri, fotografie, c’era la pistola. La pigliò, estrasse il carricatore vacante. Circò con la mano ancora più a fondo sempre nello stesso cassetto, trovò la scatola delle cartucce, la raprì. Ne restavano otto. Sorrise, bastavano e superchiavano per quello che aviva in mente di fare. Introdusse una sola cartuccia nel carricatore, una sola, come sempre faciva, rimise a posto la scatola, chiuì il cascione. La pistola se l’infilò nella sacchetta destra della giacca sformata. Tastiò la sacchetta di mancina: la torcia era al suo posto. Taliò il ralogio, si era già fatta la mezzanotti. Per arrivare al posto stabilito sicuramente ci sarebbe voluta un’orata, il che veniva a significare che avrebbe potuto agire all’ora giusta. Si rimise gli occhiali, stracciò un rettangolino di carta da un quaderno a quadretti, ci scrisse supra con una biro, si mise il pizzino nel taschino della giacchetta. Appresso si susì, andò a pigliare l’elenco telefonico, lo sfogliò fino alla pagina che l’interessava. Doviva essiri più che sicuro che l’indirizzo era quello giusto. Doppo raprì la carta topografica che teneva a portata di mano sulla scrivania, controllò il percorso da fare partendo dalla so’ casa. No, forse ci avrebbe messo qualichi cosa di più che un’orata. Meglio. Andò alla finestra, la raprì. Una vintata fridda lo pigliò in piena taccia, lo fece arretrare. Non era cosa di nesciri col solo vistito. Quanno montò in machina aviva un impermeabili pisanti e un cappello nivuro.
Mise in moto ma doppo qualichi rantolo il motore si fermò. Riprovò. Stesso risuitato. Riprovò ancora e il motore ancora s’arrefutò. Si sentì sudare. Se la machina si era definitivamente scassata, tutto quello che aviva in testa di fare non poteva essere fatto. E allura? Saltare l’avviso di quel lunedì? No, sarebbe stato un gesto di slealtà e lui non poteva, proprio per sua natura, commettere slealtà. Non restava che rimandare, ricominzare daccapo. Ma se fossero scaduti i termini? Sarebbe riuscito a compiere l’eccezionale impresa di contrarsi? Perso era. Riprovò, dispirato, e stavolta il motore, doppo qualichi colpo di tosse, s’addecise a partire.
Mimì Augello c’inzirtò e ci sbagliò. C’inzirtò in quanto alle dimensioni della, diciamo accussì, nova vittima, ci sbagliò invece in quanto non si trattava di una pecora.
La matina di lunedì 13 ottobriro, Fazio s’arricampò in commissariato con la novità, che poi non era per niente una novità, che era stata ammazzata una capra. Solito colpo di pistola in testa, solito bossolo, solito pizzino.
CONTINUO A CONTRARMI
Nisciuno dei presenti sciatò, nisciuno s’azzardò a fare una battuta spiritosa.
Nella cammara del commissario aleggiò un silenzio denso e perplesso.
«Ci sta arriniscendo e come!» fece Montalbano decidendosi a parlare per primo.
D’altra parte, gli attaccava: era lui il capo.
«A che?» spiò Augello.
«A farsi pigliare sul serio.»
«Io l’ho pigliato sul serio subito» disse Mimì.
«Bravo, vicecommissario Augello. La proporrò per un encomio solenne al signor Questore. Contento?»
Mimì non replicò. Quanno il commissario era d’umore accussì agro, la meglio era di starsene con la vucca chiusa.
«Sta cercando di farci sapere qualche altra cosa, oltri a tenerci al corrente dello stato della sua contrazione» ripigliò doppo tanticchia Montalbano.
Parlava a mezza voce pirchì più che altro stava ragionando con se stesso.
«Da che lo capisci?»
«Ragiona, Mimì, se non ti viene troppo difficile. Se voleva farci sapere solo che si stava contraendo, qualisisiasi cosa significa per lui contrarsi, non aveva bisogno di correre da un posto all’altro di Vigàta e dintorni ammazzando ogni volta un armalo diverso. Perché cangia armalo?»
«Forse le lettere iniziali di…» azzardò Augello.
«Ci ho già pensato, PPCC o MPCC ti significa cosa?»
«Potrebbe essere la sigla di un gruppo o di un movimento eversivo» azzardò timidamente Fazio.
«Ah, sì? Fammi un esempio.»
«Che so, dottore. Dico la prima cosa che mi passa per la testa. Per esempio, potrebbe essere Partito Popolare Cristiano-Comunista.»
«E tu pensi che ci sono ancora comunisti rivoluzionari? Ma fammi il piacere!» lo liquitò sgarbato Montalbano.
Calò altro silenzio. Augello s’addrumò una sigaretta, Fazio si fissò sulla punta delle scarpe.
«Astuta la sigaretta» gli ordinò il commissario.
«Pirchì?» spiò sbalordito Mimì.
«Pirchì mentri tu te la stavi a fissiare a Magonza…»
«Ad Amburgo ero.»
«Dove eri, eri. Insomma, mentri tu eri fora da questo nostro bel paese, un ministro s’è svegliato una matina e si è preoccupato per la nostra salute. Se vuoi continuare a fumare, te ne vai a fare due passi strata strata.»
Santiando tra i denti, Mimì si susì e niscì dalla cammara.
«Posso andarmene?» spiò Fazio.
«Chi ti tiene?»
Rimasto solo, tirò un lungo respiro di soddisfazione. Si era sfogato per l’umore nivuro che quel cretino che andava ammazzando armali gli aveva fatto viniri.
Era passata un’orata scarsa che per tutto il commissariato rimbombò la voce di Montalbano.
«Augello! Fazio!»
Si precipitarono. A solo taliare in faccia il commissario, Augello e Fazio si fecero persuasi che qualche ingranaggio si era messo in moto dintra al so’ cirived- dro. Stava infatti facendo una specie di surriseddro.
«Fazio, lo sai il nome del proprietario della capra ammazzata? Aspetta, se lo sai fammi solo segno di sì con la testa, non parlare.»
Fazio, strammato, calò ripetutamente la testa.
«Vuoi vedere che indovino come comincia il cognome del proprietario? Comincia con la lettera o. Giusto?»
«Giusto» sclamò Fazio ammirato.
Mimì Augello fece una breve e ironica battutina di mano e doppo spiò:
«Hai finito di fare giochi di prestigio?»
Montalbano non gli arrispunnì.
«E ora ripetimi i cognomi dei proprietari degli altri animali» disse invece rivolto a Fazio.
«Ennicello, Contrera, Contino, Ottone: il proprietario della capra, quello che abbiamo detto ora ora, si chiama Stefano Ottone.»
«Ecco!» gridò Mimì.
«Ecco che?» spiò Fazio imparpagliato.
«E quello che ha scritto» gli spiegò Augello.
«Hai detto giusto, Mimì» fece Montalbano. «Con le iniziali dei cognomi ci sta scrivendo un altro messaggio. E noi sbagliavamo a pinsari che il messaggio lo stava componendo con gli armali ammazzati.»
«Ora mi spiego pirchì!» fece Fazio.
«Spiegalo macati a noi questo pirchì.»
«Nella casLizza dei pensionato al quale ha ammazzato il cane, c’rano macari due capre. E io stamatina mi spiai perché non tosse tornato dal signor Contino invece di andare a sdirruparsi a venti chilometri di distanza per cercare un’altra capra. Ora ho capito. Gli abbisognava un cognome che principiava con la vocali o!»
«Che possiamo fare?» intervenne Augello.
Il suo tono era tra il nirbuso e l’angosciato. Macari Lazio taliò il commissario con gli occhi di un cane che voli l’osso.
Montalbano allargò le braccia.
«Non possiamo aspettare che spari a un uomo per intervenire. Perché la prossima volta, ne sono più che pirsuaso, ammazzerà a qualcuno» insistette Mimì.
Montalbano allargò nuovamente le braccia.
«Io non capisco come fai a startene accussì calmo» fece, provocatorio, Augello.
«Perché non sono tanto fissa come a tia disse frisco frisco il commissario.
«Vuoi chiarire?»
«Prima di tutto, chi ti dice che sono calmo? Poi: me lo spieghi tu che minchia possiamo fare? Costruiamo un’arca come Noè, ci mettiamo dintra tutti gli armali e aspettiamo che l’omo venga ad ammazzarne uno? Terzo: non è detto, non è scritto da nessuna parte che la prossima volta spara a un omo. Lui ammazzerà un cristiano solo alla fine del messaggio. Fino ad ora ha scritto la prima parola, che è “ecco”. La frase evidentemente non è finita. Non sappiamo quanto sarà lunga, quante parole ci vorranno. Vi consiglio di armarvi di santa pacienza.»
La matina di lunedì 20 di ottobriro, Montalbano, Augello e Fazio si trovarono in commissariato alle sett’albe e senza che si erano dati appuntamento. A vederseli davanti a quell’ora di primo matino a momenti a Catarella gli pigliò il sintòmo.
«Che fu, ah? Che successe, ah? Che capitò, ah?»
Ebbe tri risposte diverse, tri farfantarìe. Montalbano disse che non aviva chiuso occhio per una forti acidità di stomaco, Mimì Augello spiegò che aviva dovuto accompagnare al trino un amico so’ che era venuto a trovarlo, Fazio che era stato obbligato a nesciri presto per accattare l’aspirina a so’ mogliere che aviva tanticchia di fevri. Ma di comune accordo lo mandarono a pigliare tri cafè ristritti dal bar vicino ch’era già aperto.
Vivuto il cafè in silenzio, Montalbano s’addrumò una sigaretta. Augello aspettò che tirasse la prima vuccata e quindi diede il via alla sua privata vendetta.
«Ah ah!» fece agitando un indice ammonitore. «E che gli conti al signor ministro se capita qua e ti vede?»
Santiando, Montalbano niscì dalla cammara e si mise a fumare sulla porta del commissariato. Al terzo tiro, sentì squillare il telefono. Tornò dintra con la velocità di una palla allazzata.
E si vennero a trovare tutti e tri contemporaneamente, Montalbano, Fazio e Augello, a voler trasire in quel vero e proprio pirtuso ch’era l’ingresso del centralino che a sua volta era un vano tanticchia più granni di un ripostiglio per le scope. Principiò una specie di lotta a spallate. Atterrito per l’irruzione, Catarella si fece erroneamente pirsuaso che quei tri ce l’avessero con lui. Lasciò cadere la cornetta che stava sollevando, si susì di scatto con gli occhi sbarracati, si addossò con le spalle alla parete e, le mani isate in alto, gridò:
«Mi arrenno!»
Montalbano si impadronì d’autorità del microfono.
«Qui parla il…»
Venne interrotto da una voce fimminina acutissima, isterica.
«Pronto! Pronto! Cu è ca palla?»
«Qui parla il…»
«Di subito accurrite! Rompitivi l’osso del coddro e accurrite!»
«Per caso, signora, le ammazzarono un qualichi armalo?»
La domanda imparpagliò la fìmmina.
«Eh? Di quali armalo palla? Che è, ‘mbriacu di prima matina?»
«Mi scusi, declini le sue generalità.»
«Ma comu palla, chistu?»
«Nome, cognome, indirizzo.»
A conclusione della disagiata conversazione telefonica, si capì che la signora De Dominici Agata, abitante in contrada Cannatello, “propiu allatu allatu alla funtaneddra”, era scantata a morti per via che il marito Ciccio era nisciuto di casa armato di fucile per andare a sparare a tale Armando Losurdo.
«Accriditimi: se lo dici, lo fa.»
«Ma perché gli vuole sparare?»
«E chinni sacciu? Chi lu veni a cuntari a mia, me’ maritu, ‘u pirchì?»
«Vai a dare un’occhiata» ordinò Montalbano a Fazio.
Fazio niscì murmuriartdosi e, a sua volta, ordinò a Galluzzo, che era appena arrivato in commissariato, di andare con lui.
La signora Agata De Dominici, cinquantina sicca sicca che pariva la personificazione della caristìa, appena vitti i due addecise d’abbattersi in lagrime sul petto capace di Galluzzo. Contò ai due esausti rappresentanti della legge (contrada Cannatello si trovava allo sdirrupo, avevano dovuto farsi tri quarti d’ora di strata a piedi pirchì con la machina non ci si arrivava) che il marito, nisciuto di casa alle cinco e mezza del matino per badare alle vestie, era rientrato deci minuti doppo che pariva addivintato pazzo, una stampa e una figura con Orlando, quello dell’òpira dei pupi, aviva i capiddri dritti in testa, santiava che manco un turco arraggiato, dava tistate al muro. Lei gli andava appresso addimandandogli che era capitato, ma lui pariva addivintato surdo, non ci dava risposta. A un certo momento si mise a fare voci che lui stavolta ad Armando non gliela faciva passari in cavallaria, ci sparava, quant’era veru ’u Signuruzzu. E difatto aveva pigliato il fucile che teneva a capo di letto ed era nuovamente nisciuto.
«Stavolta l’incastro gli danno! Non nesci cchiù dal càrzaro! Pi sempri si consumò!»
«Signora, prima di parlare d’ergastolo» intervenne Fazio, che aveva la testa di tornare al più presto al commissariato, «ci dica chi è questo Armando e dove abita.»
Risultò che Armando Losurdo era un tale che aviva qualiche sarma di tirreno in parte confinante con quello di De Dominici e non passava jornata che i due non si facessero una sciarriatina, ora uno tagliava i rami di un àrbolo all’altro con la scusa che invadevano il suo campo, ora l’altro s’impadroniva di una gallina che aveva casualmente sconfinato e se la faciva a brodo.
«Ma lei, signora, lo sa che è successo stavolta?»
«Non lo saccio! Non me lo disse!»
Fazio si fece spiegare dove abitava Armando Losurdo e partì, sempre a piedi, con appresso Galluzzo che la signora Agata aviva continuato ad abbrazzare vagnandogli la giacchetta di lagrime e mòccaro che le colava dal naso.
Quanno arrivarono sul posto, si vennero a trovare dintra a una scena di pillicola miricana di cobbois.
Dall’unica finestra di una casuzza rustica, qualichiduno tirava revorbarate contro un viddrano cinquantino, chiaramenti Ciccio De Dominici, che, appostato darrè un muretto, ricambiava con fucilate le revorbarate sparate dalla finestra.
Troppo occupato nel duello, De Dominici non si addunò dell’arrivo alle sue spalle di Fazio che gli satò addosso arriniscendo macari, quando quello si voltò, a mollargli un gran cazzotto nella panza. Mentri tentava di ripigliare sciato, Fazio l’ammanettò.
Intanto Galluzzo faceva voci:
«Polizia! Armando Losurdo, non sparare!»
«Non mi fido! Jativìnni o sparu macari a vui!»
«Siamo della polizia, stronzo!»
«Giuralo sulla testa di tua matri!»
«Giura» gli ordinò Fazio, «altrimenti qua facciamo notte.»
«Ma siamo pazzi?»
«Giura e non scassare!»
«Giuro sulla testa di mia madre che sono un poliziotto!»
Mentri dalla casuzza veniva fora Losurdo con le mani isate, Fazio spiò a Galluzzo:
«Ma tua madre non è morta da tri anni?»
«Sì.»
«E allora pirchì la facevi tanto longa?»
«Non mi pareva giusto.»
Appena De Dominici vide comparire Losurdo, con un ammuttuni si liberò di Fazio e, ammanettato com’era, si lanciò a testa vascia, una specie d’ariete, contro il suo nemico. Uno sgambetto di Galluzzo l’atterrò.
Intanto Losurdo gridava:
«Non lo saccio che gli pigliò a questo pazzo! S’appostò e accominzò a spararmi. Io nenti gli feci! Lo giuro sulla testa di me’ matri!»
«Ma quest’omo è amminchiato con le teste delle madri!» commentò Galluzzo.
De Dominici si era intanto messo agginocchiuni, ma la raggia che aviva era tanta che non ce la faceva a parlare, le parole gli si affollavano nella vucca, gliela attuppavano e si trasformavano in bava. La faccia gli era addivintata di colore viola.
«U sceccu! U sceccu!» arriniscì finalmente a dire con voci lamentiosa, a un passo dal pianto.
«Ma quali sceccu?» gridò Losurdo.
«U me’, grannissimo cornuto!»
E poi, rivolto a Fazio e a Galluzzo, spiegò:
«Stamatina lo trovai a u me’ sceccu! Mortu spara- tu! Un colpo in testa! E fu iddru, stu garrusu e figliu di buttana, ad ammazzarimìllu!»
Alle parole “un colpo in testa”, Fazio s’appara- lizzò, appizzando le orecchie.
«Fammi capire» spiò lentamente a De Dominici, «ci stai dicendo che stamatina hai trovato il tuo asino ammazzato con un colpo in testa?»
«Sissi.»
Sparì, letteralmente, alla vista di Galluzzo, De Dominici e Losurdo che impietrirono, come se era passato quell’angelo che dice “ammè” e ognuno resta accussì com’è.
«Pirchì scappò?» spiarono contemporaneamente De Dominici e Losurdo.
Fazio arrivò alla casuzza di De Dominici sudato e senza sciato. Lo sceccu stava ancora attaccato con una corda a un àrbolo nelle vicinanze, ma era stinnicchiato ’n terra, ammazzato. Un filo di sangue gli nisciva da un’orecchia. Trovò subito il bossolo, praticamente tra le zampe della vestia, e, a occhio, gli parse uguale ai precedenti. Ma del biglietto non c’era traccia. Mentri stava a circarlo nei paraggi, capace che il vinticeddro di primo matino se l’era portato appresso, a una finestra della casuzza s’affacciò la signora De Dominici.
«L’ammazzò?» spiò con voce potente.
«Sì» arrispunnì Fazio.
E si scatinò l’iradiddì, il quarantotto, il virivirì.
«Aaaaaaahhhhhh!» ululò la signora De Dominici scomparendo dal vano della finestra. Macari a distanza, Fazio percepì il botto del corpo che cadiva ’n terra. Si mise a curriri, trasì nella casuzza, acchianò una scala di ligno, trasì nell’unica cammara sopraelevata che era quella di letto. La signora De Dominici stava sutta la finestra, sbinuta. Che fare? Fazio le si agginocchiò allato, le diede due schiaffetti leggeri:
«Signora! Signora!»
Nenti, nisciuna reazione. Allura scinnì la scala, andò al focolare, pigliò un bicchiere, lo inchì da un bummolo, risalì, assuppò d’acqua il fazzoletto, lo passò e lo ripassò sulla faccia della fìmmina continuando a chiamarla:
«Signora! Signora!»
Finalmenti, come piacì a Dio, quella raprì l’occhi e lo taliò.
«L’arristastivu?»
«A chi?»
«A me’ marito.»
«E perché?»
«Ma comu? Non ammazzò ad Armando?»
«No, signora.»
«Allura pirchì mi disse sì?»
«Ma io pinsavo che lei m’addumannava dello sceccu!»
«Quali sceccu?»
Mentri s’avventurava in una complessa spiegazione dell’equivoco, Fazio, dalla finestra, vitti arrivare a Galluzzo con De Dominici e Losurdo. Per evitare che I due si pigliassero a botte, Galluzzo li aviva ammanettati e li faciva caminare a cinco passi di distanza l’uno dall’altro. Lasciò perdiri la signora, che del resto pariva essersi ripresa benissimo, e raggiunse il trio.
Coll’aiuto dei due viddrani e di Galluzzo arriniscì a spostare la carcassa dell’asino. Sutta c’era un pizzi- no di carta a quadretti.
MI CONTRAGGO ANCORA
Fazio s’arramazzò in commissariato per riferire della nuova impresa dell’ammazzatore d’armali, ma non ebbero tempo di considerare bene la facenna e di ragionarci sopra tanticchia.
«Ah dottori dottori!» fece Catarella irrompendo nella cammara. «Chi fici? Si lo sdimenticò?»
«Che cosa?»
«La rininione col signori e questori! Ora ora tilifonarono da Montelusa ca l’aspittano!»
«Minchia!» fece Montalbano niscenno fora di cursa.
Subito doppo rimise la testa dintra:
«Parlatene intanto voi.»
«Grazie della gentile concessione» disse Mimì.
Fazio s’assittò.
«Se vogliamo parlarne…»
Lo disse di malavoglia, era cosa cògnita a tutti che non aviva granni simpatia per Augello.
«Bene» principiò Mimì, «il nostro anonimo nemico degli animali…»
Non arriniscì a finire la frase che nuovamenti comparse Catarella.
«C’è uno al tilefono che voli parlari col dottori. Datosi che il dottori è asente, lo passo a lei di pirsona?»
«Pirsonalmenti» disse Mimì.
«Parlo col commissario Montalbano?» spiò una voce sconosciuta e chiaramente annoiata.
«No, sono Augello, il suo vice. Mi dica.»
«Sono un vicino di casa del ragioniere Portera.»
«Embè?»
«Il ragionier Portera, in questo preciso momento, sta di bel nuovo nuovamente sparando a so’ moglie- re. Ora io mi domando e dico: quando la farete finire questa grannissima camurrìa?»
«Arrivo subito.»
La signora Romilda Fasulo in Portera era sissanti- na, nana, le gambe torte a cavaturacciolo, un occhio a Cristo e l’altro a san Giovanni, eppure so’ marito era convinto che fosse una gran billizza e che avesse una quantità di spasimanti ai quali, di tanto in tanto, concedeva i suoi favori.
E quindi, in media una volta ogni quinnici jorna, al termine di una rituale sciarriatina che veniva sintuta macari nelle strate vicine, il ragioniere scocciava il revorbaro che teneva sempre in sacchetta e sparava tri o quattro colpi verso la consorte mancandola regolarmente. La signora Romilda manco si scansava, continuava a fare i fatti so’ mentri i colpi rimbombavano limitandosi pacatamente a dire:
«Qualichi volta m’ammazzi supra u seriu, Giugiù.»
Montalbano una volta aveva provato a farlo ragionare, ma non c’era stato verso.
«Commissario, me’ mogliere è la reincarnazione pricisa ’ntifica di quella grannissima buttana di Messalina!»
«Ma signor Portera, ci rifletta. Se macari la sua signora è la reincarnazione di Messalina, mi spiega quando trova l’occasione, il tempo di metterle le corna? Mi risulta che non esce mai sola da casa, che lei non la molla di un passo, l’accompagna sempre, alla Messa, alla spesa… E inoltri lei stesso esce solo per cinque minuti, va ad accattare i giornali e torna. Allora, me lo dice quando e come s’incontra con i suoi amanti?»
«Eh, commissario mio, quanno che una fìmmina si mette in testa di fari una cosa, cridissi a mia, la fa.»
Stavolta invece Augello, che era nirbuso per lo sceccu ammazzato, non ebbe riguardi. Disarmò il ragioniere (al quale del resto non passava manco per l’anticamera del cervello d’opporre resistenza), sequestrò l’arma e pigliò la decisione di ammanettare lo sparatore alla testata del letto:
«Passo stasira a liberarla.»
«E se mi scappa? Il diuretico pigliai!»
«Preghi sua moglie d’aiutarla. E se la signora non l’aiuta, come io le consiglierei di fare, vuol dire che si piscia addosso.»
Bonetti-Alderighi, il questore, era di umore malo e non faciva nenti per ammucciarlo.
«Le premetto, Montalbano, che ieri ho tenuto una riunione sullo stesso argomento con i suoi colleghi degli altri commissariati. Ho preferito convocare lei da solo e dedicarle la mattinata.»
«Perché a me da solo?»
«Perché lei, non se la prenda, certe volte mi sembra abbia serie difficoltà a capire il nocciolo dei problemi che le espongo. Non credo lo faccia in malafede, però.»
Da tempo aveva sperimentato col questore che, fingendosi assolutamente incapace d’intendere e di volere, quello lo lasciava in pace, lo convocava solo quando non ne poteva fare a meno. Stavolta si trattava delle misure da pigliare in vista di nuovi sbarchi clandestini di extracomunitari. La parlata durò tri ore e passa, pirchì ogni tanto Montalbano si sentiva in dovere d’interrompere.
«Non ho capito bene. Se vuole usarmi la cortesia di ripetere…»
E quello gli usava la cortesia di ripigliare da capo.
Quando il questore, sconsolato, lo congedò, il commissario incontrò nel corridoio il dottor Lattes, il capo di Gabinetto, soprannominato “Lattes e mieles” per il suo modo di fare pericolosamente fàvuso. Lattes affirrò Montalbano per un braccio e se lo tirò sparte. Doppo si susì sulle punte dei piedi per sussurrargli all’orecchio:
«La sa la novità?»
«No» fece Montalbano usando macari lui un tono cospirativo.
«Ho saputo in alto loco che il nostro Questore, che tanto ha ben meritato, sarà presto trasferito. Lei parteciperebbe a un bel regalo d’addio, un pensiero affettuoso che io credo potrebbe consistere in…»
«… in tutto quello che vuole» fece il commissario lasciandolo in tridici e ripigliando a caminare.
Niscì dalla Questura cantando La donna è mobile, tanta era la contintizza per la notizia del prossimo trasferimento di Bonetti-Alderighi.
Festeggiò alla trattoria San Calogero con una gigantesca grigliata di pisci.
Poterono finalmenti tornare a riunirsi alle cinco di doppopranzo.
«Fino a questo momento quello ha scritto “Ecco d…”. Secondo me la frase intera sarà: “Ecco Dio”» disse subito Montalbano.
«Oh Madunnuzza santa!» esclamò Fazio.
«Perché ti squieti?»
«Dottore, a mia, quanno si cominciano a tirare in ballo motivazioni religiose, mi viene di scantarmi.»
«Cosa ti fa supporre che la frase sia quella?» spiò Augello.
«Prima di chiamarvi ho fatto un’indagine telefonica e ho avuto alcune informazioni dal Comune. Ci sono cinque persone e precisamente D’Antonio, De Filippo, Di Rosa, Di Somma e Di Stasio che sono proprietari d’asini. Due li tengono alla periferia del paisi. E invece il nostro omo se lo è andato a cercare allo sdirrupo, lo scecco da ammazzare. E perché? Perché il suo proprietario, De Dominici, ha un cognome che principia con due lettere d. Che equivalgono, volendo, a una D maiuscola.»
«Il ragionamento fila» ammise Augello.
«E se il mio ragionamento fila» disse il commissario, «la cosa s’appresenta làida e pricolosa assà. Con i fanatici religiosi è meglio non averci a che fare, come dice Fazio, quelli sono capaci della qualunque.»
«Se le cose stanno come dici» ripigliò Mimì, «meno ancora capisco che viene a significare quando scrive che si sta contraendo. Ho sempre letto e sentito dire che Dio si manifesta nella sua grandezza, nella sua potenza, nella sua magnificenza, mai nella sua piccolezza. Contrarsi, sino a prova contraria, significa rimpiccolirsi.»
«Per noi ha questo significato» disse il commissario, «ma va’ a sapere quale significato ha per lui.»
«E poi si potrebbe dare un’altra interpretazione» ripigliò Mimì doppo una pausa meditativa.
«Dilla.»
«Può darsi che voglia scrivere “Ecco”, virgola, “Dio”, dopo di che piglia la pistola, si spara e buonanotte ai suonatori.»
«Ma come fa a fare la virgola?» obiettò timidamente Fazio.
«Fatti suoi» tagliò Augello.
«Mimì, tra tutte le stronzate che hai detto, l’altra volta una ne dicesti giusta. E cioè che ammazza in crescenza. Questo mi preoccupa. Un pesce, un pollo,
un cane, una capra, un asino. E ora a quale armalo tocca?»
«Beh» fece Mimì, «a un certo punto dovrà fermarsi per forza, dalle nostri parti non ci sono elefanti.»
Rise solo lui della battuta.
«Forse sarebbe meglio avvertire il Questore» disse Fazio.
«Forse sarebbe meglio avvertire la protezione animali» fece Mimì che, quando gli veniva lo sbromo, la gana di babbiare, non arrinisciva più a tenersi.
La matinata di lunedì 27 ottobriro s’appresentò veramente fitusa, vento, lampi e trona.
Montalbano, che aveva dormito malamente a causa di un eccesso di calamari e di purpitelli, una parte fritti e una parte a oglio e limone, decise di arristarsene corcato tanticchia più del solito. Gli era venuta una tale botta d’umore malo che se avesse incontrato qualichiduno che gli rivolgeva la parola, sarebbe stato capacissimo d’aggramparlo. Tanto, se c’erano novità, figurati se dal commissariato non si apprecipitavano a scassargli i cabasisi.
S’appinnicò senza rendersene conto e s’arrisbigliò verso le nove. Possibile? Vuoi vedere che aveva il telefono staccato? Andò a taliare, tutto regolare. Vuoi vedere che dal commissariato l’avevano chiamato e non aveva sintuto gli squilli?
«Pronto, Catarella, Montalbano sono.»
«Subito alla voci lo riconobbi, dottori.»
«Ci sono state telefonate?»
«Per lei di pirsona pirsonalmente, nonsi.»
«E per gli altri?»
«Quali sarebbiro gli altri, dottori, scusasse la dimanda?»
«Augello, Fazio, Galluzzo, Gallo…»
«Nonsi, dottori, per lori no.»
«E per chi allora?»
«Per mia ci ne fu una, dottori, ma prima ero bisognevole di sapìri se macari io sono gli altri opuro no.»
Appena arrivò in ufficio, Augello e Fazio trasirono nella cammara: erano perplessi, non c’era stata nessuna segnalazione di ammazzatine né di òmini né d’armali.
«Com’è possibile che ha saltato un lunedì?» fu la domanda di Fazio.
«Può darsi che sia stato impossibilitato a nesciri da casa, il tempo è stato tinto, macari non stava bene, gli è venuta la ’nfruenza, le ragioni possono essere tante» disse Mimì.
«O può essere che ha fatto quello che doveva fare, ma non se ne sono ancora addunati e quindi nessuno ci ha avvertito» fece Montalbano.
La matinata di quel lunedì Montalbano, Augello e Fazio la passarono praticamente a curriri dintra al centralino appena sintivano il primo squillo di telefonata, facendo ogni volta venire i sudori friddi a Catarella che non si accapacitava di tutto quell’interesse. Di ora in ora il nirbusismo dei tri crisciva tanto che, a scanso di qualiche feroce azzuffatina, il commissario decise di andare a casa a mangiare. A casa e non in trattoria perché il sabato passato aveva trovato un biglietto della cammarera Adelina:
Totori, alluniddì ci apripparo la pasta ncasciatta.
La pasta ’ncasciata! Un piatto che uno gemeva di godimento a ogni forchettata, ma che Adelina gli faceva trovare raramente dato che ci voleva il tempo so’ a pripararlo.
Visto che il vento si era abbacato, mangiò nella verandina in mezzo a lampi e trona. Ma, davanti a quella grazia di Dio che gustava non solo con il palato, ma con tutto il corpo, del malo tempo altamente se ne stracatafotteva. Poiché il signor ministro, bontà sua, permetteva al cosiddetto libero cittadino di fumare dintra alla so’ casa, raprì il televisore sintonizzandolo su Retelibera che a quell’ora trasmetteva il notiziario, si stinnicchiò in poltrona e si addrumò una sigaretta.
Aviva gli occhi a pampineddra, pinsò che forse una mezzorata di sonno gli avrebbe fatto bene. Si allungò in avanti per astutare il televisore, stese il braccio e si paralizzò col culo a mezz’aria.
Sullo schermo c’era un elefante morto, la telecamera fece una lenta panoramica lungo la testa della vestia, zumò su un enorme occhio sgarrato da un proiettile. Aumentò il volume.
«… assolutamente inspiegabile» fece fuori campo la voce di Nicolò Zito, giornalista amico so’. «Il Circo delle Meraviglie è arrivato a Fiacca sabato mattina e la sera stessa ha dato il suo primo spettacolo. Nella giornata di domenica, oltri alla matinée per i bambini, ha effettuato una rappresentazione pomeridiana e una serale. Tutto si è svolto regolarmente. Verso le ore tri di questa mattina, il signor Ademaro Ramirez, direttore del circo, è stato svegliato da un inconsueto barrire proveniente dalla gabbia degli elefanti che è vicina alla sua roulotte. Alzatosi e recatosi alla gabbia, immediatamente ha notato che uno dei tri elefanti stava disteso su un fianco e in una posizione anormale, mentri gli altri due animali apparivano assai agitati. In quel momento sopraggiungeva la domatrice, anche lei svegliata dai barriti, la quale faticava molto a calmare i due animali pericolosamente innervositi. Quando riusciva a entrare nella gabbia, la domatrice si rendeva conto che l’elefante rimasto a terra, di nome Alacek, era stato ucciso da un solo colpo di pistola sparatogli con estrema precisione e freddezza nell’occhio sinistro.»
Spuntò l’immagine della domatrice una bella fìmmina bionda che chiangiva dispirata. Ripigliò, sempre fuori campo, la voce del giornalista mentri venivano inquatrati altri armali del circo.
«Particolare inquietante: il Maresciallo dei Carabinieri Adragna, che conduce le indagini, ha rinvenuto, all’interno della gabbia, un pezzetto di carta quadrettata sul quale era stata scritta l’enigmatica frase: “Sto per terminare di contrarmi”. Le indagini sul misterioso episodio…»
Astutò il televisore. La prima cosa che fece fu di telefonare a Mimì Augello.
«Lo sai che macari dalle parti nostri ci stanno gli elefanti?»
«Ma cosa?…»
«Poi te lo spiego. Tra un’ora al massimo al commissariato.»
Quindi chiamò Fazio.
«È stato ammazzato un elefante.»
«Babbìa?»
«Non ho gana di babbiare. A Fiacca, apparteneva a un circo. è stato trovato il pizzino. Tu mi pare che sei amico del maresciallo Adragna.»
«Compare mio è.»
«Bene, fai un salto a Fiacca e se il tuo compare ha trovato il bossolo, fattelo prestare per una giornata. Ah, e dato che ci sei, vedi se ti dà macari il pizzino.»
Mentri in macchina si dirigeva al commissariato, pinsò che c’era qualichi cosa che non quatrava. Se la sua teoria era giusta, e lui sentiva che era giusta, all’ammazzatore d’armali abbisognava un nome che iniziava con la vocale i. Allora che ci trasiva il Circo delle Meraviglie? E macari il nome dell’elefante principiava con la a. E allora?
La risposta l’ebbe quasi subito. Sulla facciata laterale di una delle prime case di Vigàta c’era un granni manifesto colorato. Con la coda dell’occhio gli parse di vedere il disegno di un clown. Fermò, scinnì, andò a taliare. Era la pubblicità del Circo delle Meraviglie e doveva trovarsi lì da qualche giorno perché era tanticchia strapazzata dal malottempo. Annunziava che il circo sarebbe stato a Vigàta il 20 ottobre. Troppo tardi per l’ammazzatore.
Però c’era il calendario della tournée in provincia e da lì quello che si credeva Dio, o che pinsava di averci a che fare, era venuto a canuscenza della data della rappresentazione di Fiacca. Nel manifesto faciva naturalmente spicco l’elenco delle attrazioni: al secondo posto c’era, a littri dorate, il nome di Irina Ignatievic, star del Circo di Mosca, domatrice di elefanti.
La littra i da mettiri doppo la d. A questo punto non c’era dubbio che la parola completa sarebbe stata “Dio”.
L’uomo che si credeva Dio, o che pinsava di averci a che fare, aviva liggiuto il manifesto e aviva provveduto d’urgenza. Quale meglio occasione poteva capitargli?
Ma cogliere quell’occasione non doviva essere stata imprisa facile, i rischi che comportava erano enormi e tali da compromettere il progetto che aviva in testa. Bastava un guardiano notturno o un attacco di nirbuso degli armali all’avvicinarsi di uno straneo. Eppure era andato lo stisso in un circo di notte, o almeno alle primissime ore del matino, ed era arrinisciuto ad ammazzare un elefante. Era un pazzo che agiva alla sprovveduta, alla comevieneviene, alla sanfasò o era uno altrittanto pazzo ma della categoria dei puntigliosi, dei metodici? Tutto faceva supporre che l’omo non lasciava mai spazio al caso.
E appresso c’era da considerare bene il progressivo aumento di stazza delle cosiddette vittime. Sicuramente veniva a significare qualichi cosa, c’era ammucciato un messaggio da decifrare. Doppo l’ammazzatina della capra, con una certa inquietudine lui aviva pinsato che ora doviva toccare a un omo. Inveci al posto dell’omo il pazzo aviva ammazzato uno scecco. E quindi era passato a un elefante. Ora, tra una capra e un elefante c’era posto bastevole per il corpo di un omo. Non l’aviva fatto. Pirchì? Per scarsa considerazione degli omini? No, agli òmini lasciava ogni volta un pizzino che dava lo stato della contrazione, qualisisiasi cosa essa significasse, e questo viniva a dire che gli òmini li considerava e come. Li avvertiva di un evento imminente. Poteva darsi che il pazzo avrebbe sparato a un omo il lunedì che veniva e questo pirchì metteva l’omo in cima alla piramide del regno animale. Doviva certamente essiri accussì: la prossima volta sarebbe toccato a un essere umano. L’omo infatti è, diversamente dagli altri armali, dotato di ragione. E questo lo rende superiore. O almeno accussì si continua a cridiri, a malgrado di tutte le prove contrarie che gli òmini stessi non hanno mai mancato di esibire nel corso della loro secolare storia.
La riunione principiò più tardo del previsto pirchì Fazio, sulla strata di ritorno da Fiacca, aviva incontrato trafico assà. Appena trasuto nella cammara, pruì al commissario due bossoli.
«Questi li rimetta nel cascione con gli altri.»
Montalbano parse strammato.
«Due bossoli? Sparò due colpi?»
«Nonsi, dottore, uno solo.»
«E allora perché Adragna te ne ha dati due?»
«Dottore, questi due bossoli sono di quelli che avevamo noi. Vede, ho pensato che se io domandavo in prestito a mio compare il bossolo e il pizzino, quello appizzava le orecchie e si cominciava giustamente a spiare perché noi ci interessiamo tanto all’ammazzatina di un elefante. Gli ho invece contato che ero a Fiacca a trovare un amico e avevo approfittato per fargli un saluto. L’ho fatto parlare come per caso della facenna del circo e lui mi ha fatto vedere il bossolo e il pizzino. Siccome ha dovuto nesciri per tanticchia dalla sua cammara, l’ho confrontato con quelli che mi ero portato appresso. Identici. Il pizzino stavolta dice: “Sto per terminare di contrarmi”.»
«Sì, lo sapevo, l’ho sentito alla televisione.»
«Io mi domando che minchia capiterà quando avrà finito di contrarsi» fece pinsoso Mimì.
Adragna ti ha detto se qualcuno ha visto o sentito qualcosa di strammo nella nottata?» spiò Montalbano.
«Niente. Le gabbie degli armali sono assistemate lontano dalle rulotte dove dormono gli inservienti e gli artisti. La domatrice ha detto che ha sentito dei cosi, quelli che fanno gli elefanti…»
«Barriti?»
«Sissi, ma siccome lo fanno spesso quando diventano nirbusi perché macari qualcuno sta passando nelle vicinanze, non ci ha dato molta importanza.»
«Nessuno ha sentito il colpo?»
«Nessuno, deve avere usato il silenziatore. E si deve essere portato appresso puro una torcia potente, perché Adragna mi ha detto che dalle parti delle gabbie c’era molto scuro.»
«Ma come diavolo ha fatto?»
«Dottore, bisogna premettere che questo tipo tira bene. Siccome non poteva andare a sparare con una carabina da caccia grossa che avrebbe fatto un botto tale da arrisbigliare l’intero paisi, si è arrampicato sulle sbarre della gabbia, arrivando praticamente all’altezza delle teste degli elefanti, e ha sparato alla vestia a mezzo metro di distanza.»
«Come hanno fatto a saperlo?»
«Adragna ha trovato il fango lasciato dalle suole. Quindi ha acceso la torcia, l’ha puntata sull’occhio dell’elefante più vicino e ha sparato.»
«Sparerà bene, ma ha macari molto culo» commentò Mimì.
E proseguì:
«A questo punto, gli manca solo la o di Dio.»
Montalbano li taliò preoccupato.
«La volete sapere una cosa? Credo che abbiamo di tempo fino a domenica sira per impedire un omicidio.»
Da tri ore l’omo leggeva senza mai staccare gli occhi dal libro, ne girava le pagine con delicatezza, con trimore.
Congiunto è Egli alla Potenza sua siccome la fiamma è congiunta ai colori suoi; le forze sue promanano dalla sua Unità siccome dalla pupilla scura fuoriesce la luce dello sguardo.
Emanate son l’una dall’altra come il profumo da un profumo e la luce da una luce.
Nell’emanato vi è tutta la Potenza dell’Emanatore, ma l’Emanatore da questo non subisce diminuzione alcuna.
A questo punto, l’omo non ce la fece più a leggere. Aviva l’occhi pieni di lagrime. Di cuntintizza. Anzi, di gioia. Una gioia sovrumana. Taliò il ralogio, erano le tri del matino. Si lasciò andare a un pianto convulso, sopraffatto dall’emozione. Trimava come per frevi. Si susì reggendosi malamente sulle gambe, andò alla finestra, la raprì. Tirava un vento gelido. L’omo si inchì d’aria i purmuna e quindi gridò. Un grido talmente lungo che sonò come un ululato. Subito doppo, si sentì le gambe troncate di netto. Non ce la fece a reggersi addritta, s’agginocchiò, il davanti della cammisa assuppato di lagrime.
Solo sette giorni mancavano all’Apparizione.
Montalbano taliò il ralogio, erano le tri del matino. Che senso aviva continuare a starsene corcato senza arriniscìri in alcun modo a pigliare sonno? Si susì, andò in cucina, si priparò il cafè.
Tri domande continuavano a trapaniarli il ciri- veddro:
Pirchì quello agiva sempre di lunedì, nelle primissime ore del matino, al principio del novo jorno?
Pirchì ci teneva tanto di fari sapìri all’urbi e all’orbo che in lui era in atto un movimento di contrazione? Che minchia si stava contraendo?
Che veniva a significare, per il pazzo, il verbo “contrarsi”? Aviva il senso di rattrappirsi, rimpiccolirsi, come diciva Mimì Augello, o aviva un senso convenzionale e spiegabile solo con quello che passava per la mente malata dello sconosciuto?
Montalbano sintiva che la giusta interpretazione di quel verbo sarebbe stata indispensabile per arrinèsciri a capire qual era l’intenzione ultima del pazzo, indovi voliva andare a parare.
C’era una risposta possibile? Non c’era.
L’indomani matina presto, ch’era martedì, s’appresentò in ufficio con gli occhi arrussicati per la mancanza di sonno e con un umore fituso già di suo, ma che viniva elevato al quatrato dalla jornata fridda e vintosa.
«Statemi a sentire» disse ad Augello e a Fazio. «Ci ho ragionato a lungo sopra questa storia. Praticamente tutta la notte. Il fanatico, perché ormai questo è certo, è inutile ammucciarcelo, è sicuramente uno che è nato e cresciuto a Vigàta.»
«Perché?» spiò Augello.
«Mimì, rifletti. Intanto, conosce benissimo chi sono i proprietari di certi armali e come fanno di cognome. Queste notizie o stanno scritte nei registri municipali o si sanno per conoscenza diretta.»
«Rifletti tu» ribatté piccato Mimì Augello. «Che ci vuole a sapere che nel ristorante c’era la vasca dei pesci? O che in un allevamento di polli ci sono polli?»
«Ah, sì? E tu lo sapevi che il signor Ottone aveva una capra e De Dominici uno scecco?»
Augello non arrispunnì.
«Posso continuare?» fece Montalbano. «Ripeto: è uno di Vigàta e non deve essere tanto picciotto d’età.»
«Perché?» spiò Mimì.
«Perche conosce pensionati, gente anziana…»
«Boh» fece ancora Mimì.
Montalbano non volle attaccare turilla, proseguì:
«Ed è pirsona istruita. Ha la grafia di chi è abituato a scrivere.»
«Un momento» intervenne Fazio, «tanto anziano non può essere. Uno che ha gli anni suoi difficile che si mette a scassinare catenacci, a girare campagne campagne di notte, ad acchianare sulle gabbie…»
«Intanto è un fanatico, su questo non abbiamo dubbio.»
«Sì, Salvo, ma la domanda di Fazio era…» intervenne Augello.
«L’ho capita benissimo, la domanda. E sto infatti rispondendo. Il fanatismo porta a fare cose impensabili, ti dà una forza che non sospettavi d’avere, un coraggio che manco te lo sognavi. E poi non è detto che agisca lui personalmente. Può mandare qualche altro fornito di pistola e biglietto. Un adepto.»
«Eh?!» fece Fazio.
«Adepto viene a dire seguace, non è una parola vastasa. Adesso facciamo così. Tu, Mimì, vai all’ufficio anagrafe e ti fai dare l’elenco di tutti quelli il cui cognome principia con la vocale o. Non saranno centomila.»
«Centomila no, ma tanti sì. Io, per esempio, conosco a Mario Oneto e a Stefano Orlando» ribatté Mimì.
«Io ne conosco tri» disse Fazio, «Onesti, Onofri, Orrico.»
«Senza contare» rilanciò Mimì «che Stefano Orlando ha dieci figli, cinque màscoli e cinque fìmmine. E che tri dei cinque màscoli sono maritati e hanno a loro volta dei figli.»
«Non me ne fotte niente di nonni, figli e nipoti, avete capito?» sbottò il commissario. «Voglio l’elenco completo per domani a matina, neonati compresi.»
«E dopo che te ne fai?»
Se entro domenica matina non abbiamo risolto la cosa, li raduniamo tutti in un posto e montiamo la guardia.»
«Raduniamoli al campo sportivo come faceva il generale Pinochet» disse ironico Augello.
«Mimì, sono veramente ammirato. Che sei uno stronzo non avevo dubbi, ma non avevo mai supposto che potevi raggiungere livelli tanto elevati. Complimenti vivissimi. Ad maiora. E ora levati dalle palle.»
Augello si susì e niscì.
«E io che faccio?» spiò Fazio.
«Ti metti a tambasiare paisi paisi. Vedi se la facenna dell’ammazzatina di questi armali è trapelata e, in caso, che ne pensa la gente. Ah, un’altra cosa: metti uno dei nostri appresso a Ottone, quello della capra. Ha la disgrazia del cognome che principia con la o. Non vorrei che il fanatico torna da lui e l’ammazza, macari prima di lunedì, così risparmia tempo e fatica di cercare.»
Tornò a Marinella che erano quasi le deci di sira. Non aviva nisciuna gana di mangiare, si sentiva la bocca dello stomaco inserrata. Prioccupato era, ma soprattutto scontento di sé. Certo, era arrinisciuto a scoprire il collegamento tra i fatti, era stato capace di prevedere (forse) la prossima mossa del fanatico, ma tutto questo non serviva a nenti se non ce la faceva a scoprire qual era l’idea maniacale, l’intendimento che aveva fatto nido nel ciriveddro bacato dello sconosciuto e che lo spingeva ad agire.
Non che lui fosse convinto che alla base di ogni delitto dovesse per forza esserci un movente preciso e razionale. Una volta, a questo proposito, aviva liggiuto un libretto di Max Aub, Delitti esemplari, che, passato il divertimento, gli era servito meglio di un trattato di psicologia. Però era altrittanto vero che più ne sai della pirsona che cerchi e più probabilità hai di trovarla.
Squillò il telefono.
«Allora, ce la fai a venire sabato?»
Con scuse varie e complesse, meritevoli di un istituendo premio Nobel per la farfantarìa, era arrinisciuto a rimandare il promesso viaggetto a Boccadasse di settimana in settimana, sentendo però che Livia si faciva sempre meno convinta. Forse la meglio era contarle tutta la verità. Tirò un respiro funnuto e si buttò in apnea tra le parole da dire.
«In tutta sincerità, Livia: non credo proprio di farcela.»
«Ma posso almeno sapere che ti sta capitando?»
«Livia, non lo sai che mestiere faccio? Te lo sei scordato? Non posso avere gli orari e i tempi di un impiegato. Ho per le mani un’indagine molto, molto complessa. C’è stata tutta una serie di ammazzatine…»
«Un serial killer?» spiò sbalordita Livia.
Montalbano esitò.
«Beh, lo si potrebbe, in un certo senso, definire così.»
«E chi ha ammazzato?»
«Beh, ha cominciato con un pesce, per la precisione un muletto.»
«Cosa?!»
«Sì, un cefalo, ma d’acqua dolce. Poi ha fatto fuori un pollo e quindi…»
«Stronzo!»
«Livia, senti… Pronto? Pronto?»
Aveva riattaccato. Possibile che non veniva mai creduto, né quando diceva la verità né quando non la diceva? Forse avrebbe dovuto mettere le parole in un ordine diverso, usarne altre…
Le parole. Cristo, le parole!
Aveva scelto quelle giuste parlando dell’ammazzatore d’armali, l’aviva definito un pazzo religioso, un fanatico, uno che si credeva Dio, o che perlomeno aviva rapporti diretti con lui, e non aviva saputo tirare le conseguenze delle sue stesse parole! Che imbecille che era stato! Quella era la strata che andava seguita senza perdiri altro tempo. Compose, nirbuso, un numero al telefono. Lo sbagliò per l’agitazione. Ce la fece al terzo tentativo.
«Nicolò? Montalbano sono.»
«Che vuoi? Sto andando in trasmissione.»
«Pochi secondi.»
«Non li ho. Se mi prepari un piatto di pasta, ti vengo a trovare a Marinella passata mezzanotte, dopo l’ultimo notiziario.»
Il giornalista Nicolò Zito si trovò davanti un piatto di spaghetti conditi con “oglio del carrettiere” e pecorino, per secondo dieci passuluna, ossia grosse olive nere, una fetta di caciocavallo e ti saluto e sono.
«Ti sei sprecato!» commentò.
«Nicolò, non ho pititto.»
«E dato che non hai pititto, pensi che non l’abbia macari io? Che hai? Mi fai venire la preoccupazione se proprio tu mi vieni a dire che non hai gana di mangiare. Avanti, parla.»
E Montalbano gli contò tutto. Via via che parlava, Zito si faciva sempre più attento.
«Questa storia» disse quando il commissario terminò di contare «non può che finire in due modi: o a farsa o a tragedia. Penso però che, al momento attuale, sia più probabile il secondo finale.»
«Macari io» fece, nivuro in faccia, il commissario.
«Perché mi hai chiamato?»
«Mi puoi essere d’aiuto.»
«Io?!»
«Sì. Ho assoluto bisogno che tu mi metta subito in contatto con Alcide Maraventano.»
L’omo che il commissario voleva incontrare era una pirsona d’incredibile erudizione, che qualche anno avanti gli aveva dato una mano d’aiuto nel caso che venne chiamato Il cane di terracotta. Abitava a Callotta, un paisuzzo vicino a Montelusa, forse era stato un parrino o forse no, certo era che la testa gli funzionava a corrente alternata. Indossava sempri una specie di tonaca che da nivura era col tempo addivintata virdastra come la muffa: essendo spaventosamente sicco, pariva uno scheletro nisciuto allura allura dalla tomba, ma misteriosamente vivente. La sua casa era un’enorme catapecchia cadente, priva di telefono e di luce elettrica, in compenso tanto stipata di libri che non c’era posto per assittarsi. Mentri parlava, usava ciucciare latte con un biberon da picciliddro.
A sentire quel nome, Zito fece una smorfia.
«Che c’è?»
«Mah, proprio aieri un mio amico mi ha contato che è andato a trovarlo, ma Alcide non gli ha voluto aprire, gli ha parlato attraverso la porta.»
«E perché?»
«Gli ha detto che è in fin di vita epperciò non ha tempo da perdere. Quel poco sciato che gli resta dice che gli è necessario per permettergli di respirare per i giorni che mancano alla fine.»
«È malato?»
A Montalbano i moribondi gli facevano scanto.
«Va’ a sapìri. Certo che gli anni suoi ce l’ha. Deve essere più che novantino.»
«Tu provaci lo stesso, fammi questo favore.»
Verso la mezza del jorno appresso, non avendo avuto notizie da Zito, addecise di telefonargli.
«Nicolò, Montalbano sono. Te la scordasti quella prighera che ti feci aieri a sira?»
Nicolò Zito parse muzzicato da una vespa.
«Me la scordai?! Una matina intera sto pirdendo! Non lo sai che Alcide non ha telefono e che bisogna mandare qualcuno a parlargli?»
«Embè?»
«Come, embè? Solo un quarto d’ora fa ho trovato a Gallotta un volontario. Aspetto risposta.»
La risposta arrivò doppo una mezzorata. Alcide Maraventano era disposto a ricevere Montalbano. Ma la visita doviva essere breve. E inoltri il commissario doviva andarci da solo. In caso contrario la porta di casa non sarebbe stata aperta.
L’abitazione di Alcide Maraventano era come se la ricordava, le persiane scardinate, l’intonaco caduto a pezzi, le finestri coi vetri rotti sostituiti da cartoni e assi di legno, il cancello di ferro mezzo sdirrupato.
Solo quello che una volta era l’ammasso informe del giardino del parrino (o forse no) era ora addivintato una specie di foresta equatoriale. Montalbano rimpianse di non avere portato con sé un machete. Si districò tra i rami e i rovi, si fece uno strappo nella giacchetta e santiando arrivò davanti alla porta che era chiusa. Tuppiò col pugno. Nisciuna risposta. Allura Montalbano rituppiò con due càvuci potenti.
«Chi è?» spiò una vocé che pariva viniri dall’oltritomba.
«Montalbano sono.»
Si sentì un curioso rumore come di ferro contro ferro.
«Spinga, entri e richiuda.»
Il chiavistello era azionato da un filo metallico che, tirato da qualche parte all’interno della casa, lo isava.
Trasì nello stesso cammarone dell’altra volta, accuposo di libri messi dovunque, a pile fino al soffitto, per terra, sui mobili, sulle seggie. Il parrino (o forse no) era assittato al suo solito posto darrè un tavolo traballante, in bocca tiniva un termometro gigantesco.
«Mi sto misurando la febbre» disse Alcide Maraventano.
«E che termometro è?» non potè tenersi dallo spiare il commissario strammato.
«È un termometro da mosto. Poi faccio le proporzioni» disse il parrino (o forse no) levandolo per un momento dalla bocca e rimettendolo subito a posto.
«Non si sente bene?» spiò ancora il commissario.
«Dice per il termometro? No, quello è un controllino che faccio di tanto in tanto.»
Arrispose sempre con il termometro in bocca e quindi gli venne fora una parlata da ’mbriaco.
«Mi fa piacere. Siccome avevo saputo che…»
«Che ero in fin di vita? Ho detto così a un cretino che ha capito male. Però ho novantaquattro anni passati, amico mio. E quindi non è poi tanto sbagliato dire che sono in fin di vita. Solo che ormai per fin di vita intendiamo tutti una sorta di stadio agonico. Roba da chiamare il prete per l’ultima, estrema confessione.
Che c’era da ribattere? Niente, ragionamento perfetto. Maraventano si levò finalmente il termometro, lo taliò, lo posò sul tavolo, scuotì la testa, pigliò uno dei tri biberon pieni che erano davanti a lui e principiò a ciucciare.
«Non credo che lei sia venuto a trovarmi per informarsi del mio stato di salute. Le posso essere utile in qualcosa?»
E Montalbano gli contò tutto di filato, dal pisci all’elefante. Gli parlò macari del suo scanto per la prossima mossa dell’omo che si credeva Dio o che pinsava d’essiri in stritti rapporti con lui.
Alcide Maraventano lo stette a sèntiri senza interrompere mai. Solamente alla fine spiò:
«Ha con sé i bigliettini?»
Il commissario naturalmente se li era portati appresso e glieli pruì. Maraventano fece tanticchia di largo sul tavolo, li dispose in fila, li liggì, li riliggì, e doppo taliò a Montalbano e si mise a ridacchiare.
“Che ci trova di tanto divertente?” si spiò strammato il commissario.
E dato che l’altro non si decideva a parlare, lo provocò.
«Difficile capirci qualcosa, eh?»
«Difficile?» fece Maraventano levandosi dalla bocca il biberon oramà vacante. «Ma è elementare, amico mio, come direbbe Sherlock Holmes al dottor Watson! Le è mai capitato di leggere uno dei Sifre ha-’iyyun?»
«M’è mancata l’occasione» fece imperturbabile Montalbano. «Che sono?»
«Sono i Libri della Contemplazione, probabilmente scritti attorno alla metà del Duecento.»
Il commissario allargò le braccia in un gesto sconsolato. Non solo non li aviva liggiuti, ma non ne aviva mai sintuto parlare.
«Ma certamente avrà letto qualche pagina di Mosè Cordovero» disse, concessivo, Maraventano.
E cu era? Vai a sapìri pirchì, quel nome e quel cognome gli sonarono veneziani.
«Un doge?» azzardò all’urbigna.
«Non dica sciocchezze» replicò, severo, Maraventano.
Montalbano principiò a sentirsi impacciato e sudatizzo. Era tornato di colpo a essere il mediocre studente ch’era sempre stato, dalle elementari all’università. Non raprì più bocca, calò la testa e si mise a disegnare circoli sul pruvolazzo del tavolo dol dito indice.
“Stavolta sono fottuto. Questo qui mi boccia” gli venne di pinsare.
«Via, via» fece conciliante Alcide Maraventano, «non mi dirà che il nome di Isacco Luria le è del tutto ignoto!»
Del tutto, professore, del tutto. E sulla punta della lingua gli assumò una risposta classica:
“Nel mio libro non c’era.”
«Sì» invece arriniscì a dire con la voce di un galletto al suo primo chicchirichì, «ma in verità ora come ora non…»
Alcide Maraventano lo taliò, sospirò, tistiò, principiò a susìrisi dalla seggia. Si susì per un tempo che al commissario parse interminabile, tanto l’omo era longo. Alla fine, doppo essersi snodato come un sirpente, quella specie di asta che era un corpo e che terminava con una crozza cimiante si mise in camìno.
«Vado a pigliare un libro di sopra e torno» disse.
Il commissario lo sentì acchianare sulla scala perché a ogni graduni emetteva un “ah” doloroso. Quasi s’affruntò d’aver dovuto sottoporre il poviro vecchio a quella faticata, ma Alcide Maraventano era l’unico a potergli spiegare qualichi cosa di un problema che pariva non aviri soluzione. Gli venne gana di addrumarsi una sigaretta, ma si scantò a farlo: con tutta quella carta in giro, sicca, gialluta, centenaria, a provocare un incendio bastava un nenti. Passarono una vintina di minuti. Per quanto appizzasse le orecchie, non sintiva nessuna rumorata viniri dal piano superiore. Forse il vecchio era andato a cercare il libro in una cammara che non era proprio di supra a quella dove lui si trovava.
Tutto ’nzèmmula ci fu un boato spavintoso, un’esplosione terrificante, la casa intera traballiò, qualche pezzo d’intonaco cadì dal soffitto. Una botta di tirrimoto? Una bombola del gas ch’era scoppiata? Montalbano, satato dalla seggia che a momenti sfondava il soffitto con una testata, vitti calare sulla porta che dava nella scala una specie di sipario bianco. Doviva essiri la polvere, il pruvolazzo dei calcinacci caduti al piano di supra. Forse la scala era pericolante. Ma il commissario si sentì in dovere di principiare ad acchianarla, cautamente, per andare in soccorso del parrino (o forse no). Il pruvolazzo denso gli trasì nei polmoni, cominciò a farlo tossire. L’occhi principiarono a lagrimigliargli. Fu allura che notò un certo movimento sul pianerottolo in cima alla scala.
«C’è qualcuno?» spiò mezzo assufficato.
«E chi ci deve essere? Io» fece la voce sirena e tranquilla di Alcide Maraventano.
Doppo, tra la nebbia, il parrino (o forse no) comparse con un librone sutta il braccio. Da verde muffa, la tonaca era addivintata bianco gesso per il pruvolazzo. Alcide Maraventano pariva lo scheletro di un papa che scinniva una scala.
«Ma che fu?»
«Niente. è caduta una scaffalatura che a sua volta ha fatto cadere tre o quattro pile di libri.»
«E tutto questo pruvolazzo?»
«Non lo sa che i libri fanno polvere?»
Tornò ad assittarsi sulla sua seggia, tirò qualche ciucciata pirchì la gola gli si era siccata, scatarrò, raprì il librone, principiò a sfogliarlo.
«Questa» disse «è l’illustrazione che Hayyim Vital fa del pensiero del suo maestro Luria.»
«Grazie per la precisazione» disse Montalbano. «Ma vorrei sapere di cosa stiamo parlando.»
Maraventano lo taliò stupito.
«Non ha ancora capito? Stiamo parlando della Qabbalah e delle sue interpretazioni.»
La Cabbala! Ne aveva inteso parlare, certo, ma sempre come qualcosa di misterioso, di segreto, di esoterico.
«Ah, ecco» fece Maraventano fermandosi su una pagina del librone «senta qui. “Quando l’En sof concepì di creare i mondi e produrre l’emanazione, per fare uscire alla luce la perfezione delle sue azioni si concentrò nel punto di mezzo, posto al centro esatto della sua luce. La luce si concentrò e si ritrasse tutta attorno a quel punto centrale…” Ora le è chiaro?»
«No» disse Montalbano ammammaloccuto.
Certo, il significato delle parole lo capiva, ma non gli arrinisciva la connessione tra una parola e l’altra.
«Mi rifaccio a Cordovero» spiegò Maraventano, «il quale afferma che l’En sof, l’entità suprema, affinché gli uomini possano, almeno in parte, comprenderne la grandezza, è costretta a contrarsi.»
«Comincio a capire» disse finalmenti il commissario.
«E quando avrà finito di contrarsi, apparirà agli uomini in tutta la sua luce, in tutta la sua potenza.»
«Madunnuzza santa!» balbettò Montalbano.
Aveva tutto ’nzèmmula intuito indovi quel pazzo che si credeva Dio voleva andare a parare.
«Quest’imbecille non ha capito niente della Qabbalah» disse conclusivo Maraventano.
«Quest’imbecille» aggiunse Montalbano «non sta pinsando di ammazzare un solo omo, ma sta preparando una strage.»
Maraventano lo taliò.
«Sì» fece, «ritengo molto plausibile la sua ipotesi.»
Montalbano si sentì la gola arsa, fu tentato di pigliare un biberon e di tirare due ciucciate.
«Perché dice che quello non ha capito niente della Cabbala?»
Maraventano sorrise.
«Le faccio un solo esempio. Il punto di maggiore concentrazione della luce, il punto centrale, è il luogo della creazione, non della distruzione, sempre secondo Luria e Vital. Quello, invece, si è fatto persuaso del contrario. Bisogna che lei lo fermi. Con qualunque mezzo.»
«Mi sa spiegare perché agisce sempre nelle prime ore di ogni lunedì?»
«Posso azzardare un’ipotesi. Perché il lunedì è il principio della luce, il giorno nel quale si crede che il Creatore abbia iniziato la sua opera.»
«Senta» incalzò Montalbano capendo che ogni secondo d’informazione in più addivintava tutto guadagno, «lei conosce qualcuno che a Vigàta o nei dintorni si sia occupato di queste cose? Ci pensi bene. Non devono essere tante le persone che si sono dedicate, o si dedicano, a studi così difficili e complessi.»
Alcide Maraventano circò nel pozzo senza fondo della sua memoria e qualichi cosa, alla fine, attrovò.
«C’era uno, ma tantissimi anni fa. Qualche volta veniva a discutere con me. Si chiamava Saverio Ostellino, era più grande di me di qualche anno. è morto da tanto tempo. Abitava a Vigàta. Mi ricordo di essere andato al suo funerale, è sepolto lì.»
«Nel camposanto di Vigàta?» si stupì Montalbano.
«E perché no?» fece Alcide Maraventano. «Si occupava della Qabbalah non per fede, ma perché era uno studioso.»
«Aveva figli?»
«Di sé non mi parlò mai.»
Detto questo, il vecchio s’appoggiò con la schina alla spalliera del seggiolone, reclinò la testa narrè e arristò accussì. Montalbano aspittò tanticchia e doppo, appizzando le orecchie, sintì un leggerissimo runfuliare. Maraventano si era addrummisciuto. O faciva finta? Ad ogni modo, quel sonno vero o finto stava a significare una sola cosa, che la visita era finita.
Il commissario si susì e niscì dalla cammara in punta di pedi.
Mimì Augello gli sbatti sulla scrivania, con un’ariata sdignosa, una decina di fogli scritti fitti fitti.
«Questo è l’elenco di tutti quelli il cui cognome principia per o. Per tua conoscenza, si tratta di quattrocentodue persone, tra màscoli, fìmmine, picciotti, picciotteddre, vecchi, picciliddri e neonati.»
«Stanno tutti qua?»
«Sì, sono tutti in quest’elenco.»
«Mimì, non ti mettere a fare Catarella.»
«Che significa?»
«In questo momento, stanno tutti qua a Vigàta? Sono presenti? O qualcuno di loro è fora di casa?»
«E che ne saccio io?»
«Lo devi sapere. Quando decideremo di raggrupparli, voglio essere veramente sicuro che ci siano tutti. Voglio sapere chi è fora paisi per affari, studio, malatia e cose accussì. Devo macari sapere se qualcuno ha in mente di partire entro lunedì prossimo o se c’è qualcuno che invece torna, sempre entro lunedì. Chiaro?»
«Chiarissimo. Ma com’è faccio?»
«Mettiti d’accordo con Fazio, impiegate tutti gli uomini che vi servono. Andate case case e fate una specie di censimento.»
«E se si mettono a fare domande?»
«Gli rispondi con qualche minchiata. Non manca a te, Mimì, d’inventare minchiate.»
Appena Mimì fu nisciuto, pigliò in mano l’elenco. Come aviva detto Maraventano che si chiamava lo studioso della Cabbala? Ah, sì: Saverio Ostellino. Sull’elenco ne risultavano tri: Francesco, Tiziano e, appunto, Saverio. Certamente un nipote. Che forse non aviva nenti a che fare con tutta la facenna. Il suo cognome, principiando per o, lo includeva tra le probabili vittime e quindi lo escludeva dalla possibilità che fosse lui il pazzo fanatico. Ma era tutto da controllare.
Passò una mala nottata, in pratica ore e ore ad arramazzarsi nel letto. Troppe le domande, i dubbi, le incertezze che gli trapaniavano il ciriveddro.
Doviva avvertire il questore di quello che stava succedendo? Era suo dovere, sicuro. E se l’altro non gli avesse creduto, poteva fare lo stesso di testa sua? Che il pazzo pensava di fare una strage ne era certo come se quello glielo avesse comunicato di pirsona pirsonalmente, per dirla con Catarella.
E di prepotenza ogni tanto si facevano largo alcune parole di Alcide Maraventano: “… perché il lunedì è il principio della luce, il giorno nel quale si crede che il Creatore abbia iniziato la sua opera”. Queste parole lo squietavano, ma non arrinisciva a capiri pirchì.
In qualche parte della casa doveva esserci una Bibbia che una volta si era fatto prestare e che non aveva mai restituito. Ci mise tempo, ma la trovò. Tornò a corcarsi e principiò a leggere. “Avendo Iddio ritenuta finita, al settimo giorno, l’opera che aveva compiuto, il giorno settimo cessò da ogni opera da lui fatta…”. In altri parole, "il settimo si riposò". E con ciò? Che importanza aveva quella frase nell’indagine che stava facendo? Non sapiva pirchì o pircome, ma sintiva, a pelle, che qualche cosa significava, quel giorno di riposo, e di molto importante.
L’omo caminava a passo lento, la testa vascia come a taliare indovi metteva i pedi data la scarsa luce che facivano i lampioni alcuni dei quali erano macari astutati. Non passava un cane, tutti erano andati a dormiri, almeno accusì cridivano, mentri inveci erano andati a fare la prova generale del sonno eterno nel quale, da lì a qualche giorno, sarebbero precipitati per opera so’. Tutti, vecchi che già sintivano allato il sciato della morti e picciliddri appena nasciuti che ancora non avivano rapruti l’occhi, anziani e picciotti, màscoli e fìmmine. All’idea della vicinanza di quel giorno, del Giorno, un brivido violento gli partì dall’inguine, acchianò come una scossa elettrica lungo la spina dorsale, gli arrivò al ciriveddro dandogli una specie di ’mbriacatura improvvisa, tanto violenta che le ùmmire della casa principiarono a firrigliargli torno torno. Inserrò gli occhi, ansimando e gemendo di piaciri. Dovette starsene qualche minuto fermo, doppo la ’mbriacatura passò e fu nuovamente in grado di ripigliare la passiata. Si mise a cantare senza voce, dintra di sé: “Dies irae, dies illa…”.
La matina appresso, sul tardo, arrivò Mimì Augello dicendo che l’elenco si era ridotto di trentacinque persone.
«Se vuoi ti faccio la specifica. Quattro sono emigrati in Belgio, sei in Germania, tri stanno studiando a Palermo…»
«Sei sicuro che non rientrano prima di lunedì?»
«Sicurissimo.»
Poi, dopo una pausa:
«M’hanno assubissato di domande.»
«E tu?»
«Ho detto che si trattava di una legge, nova nova, dell’Unione europea. Un censimento sugli spostamenti interni ed esterni degli abitanti di alcune città campione.»
«E ci hanno creduto?»
«Alcuni sì e altri no.»
«E quelli no che ti hanno detto?»
«Niente. Probabilmente santiavano dintra di loro.»
«Ma allora perché hanno risposto?»
«Perché rappresentiamo la legge, Salvo.»
«Il che viene a significare che, in nome della legge, noi abbiamo il potere di fare qualisisiasi minchiata?»
«E te ne stai accorgendo ora?»
Montalbano preferì non continuare sull’argomento.
«Quindi ora voi sapete dove abitano. Mimì, ti devi mettere a un’opera fina, ma camurriosa. Fai un segno di croce, sullo stradario di Vigàta, per indicare dove stanno di casa questi che hanno il cognome che principia con la o. Quindi traccia un percorso ideale, il più breve, perché al momento opportuno noi possiamo avvertire tutti nel minor tempo possibile.»
«D’accordo.»
«Se non arrinisciamo a individuare e a fermare il pazzo prima, bisognerà pigliare tutte queste persone, macari la domenica sera subito dopo mangiato, e trasferirle al cinema Mezzano. Ho già parlato col proprietario, il locale ha cinquecento posti.»
Mimì si fece pinsoso.
«Che hai? Capisco che sarà complicato pirsuadiri questa gente a nesciri di casa, macari hanno qualche vecchio difficile da trasportare…»
«Il problema è un altro» disse Mimì.
Di subito, Montalbano si sentì arraggiare. Odiava quella frase. La sentiva pronunziare sempre più spisso in qualisisiasi riunione e chi la diceva aviva la ’ntinzioni, più o meno ammucciata, di sviare il discorso che si stava facendo. Si tenne, non fece catùnio pirchì la facenna che stavano trattando era troppo importante.
«E qual è quest’altro problema?»
«Una volta che siamo riusciti ad avere tutta questa gente dentro al cinema, che gli facciamo fare? Tu ti rendi conto? Ci saranno picciliddri che piangono, altri che giocano facendo battarìa, vecchi che vogliono riposare, òmini che litigano…»
«Questo non è un problema. Gli facciamo proiettare una bella pellicola. Una di quelle che possono vedere tutti. E tu, che hai una voce passabile, gli puoi macari cantare qualche canzonetta.»
Pigliò in mano l’elenco di quelli che erano fora Vigàta, lo taliò. I tri Ostellino, Francesco, Tiziano e Saverio non vi comparivano. Lo pruì ad Augello.
Mimì glielo strappò dalla mano e niscì dalla cammara senza manco salutarlo.
L’indomani a matino s’appresentò in commissariato che era ancora presto, e presto assà.
«Ah dottori dottori, ancora nisciuno c’è, fattasi cizzioni di Fazio» disse Catarella appena lo vitti.
«Digli di venire da me.»
«Dottori, il suddetto dormi nella cammara del dottori Augello» l’avvertì Catarella.
Fazio infatti era calato in un sonno profunno, la testa appuiata sulle braccia conserte a loro volta appuiate sulla scrivania.
«Fazio!»
«Eh?» fece quello isando la testa ma tenendo ancora l’occhi chiusi.
«Perché, dato che ci sei, non ti porti il letto da casa?»
Fazio satò addritta, vrigognoso.
«Mi perdoni, dottore, ma è che stanotte ho dovuto dare il cambio a Gallo e allora…»
«Perché tu? Non lo potevi dire a Galluzzo? A proposito, sono due giorni che non lo vedo, il signor Gallo!»
Fazio lo taliò strammato.
«Ma come, dottore, nisciuno le disse nenti?»
«No. Che mi dovevano dire?»
«Che passannaieri morì la matri di Gallo.»
«E che minchia! Potevate degnarvi di farmelo sapere! Quando ci sono i funerali?»
Fazio taliò il ralogio.
«Fra tre ore.»
«Corri subito dal fioraio, voglio una corona. Digli che lo pago quello che vuole, ma la voglio.»
Tri ore appresso ascutò la Missa funebre, seguì il corteo fino al camposanto. Stava per andarsene, doppo avere abbracciato Gallo, quando gli venne di fari una pinsata. S’avvicinò a un custode.
«Saprebbe dirmi dov’è sepolto Saverio Ostellino?»
«Nella tomba so’» fece il custode il quale, seguendo la tradizione letteraria, era macari un filosofo spiritoso.
Il commissario, che non aviva gana di babbiare, lo taliò malamente. A quella taliata, tutta la filosofia del custode scomparse.
«Lei piglia questo vialetto e se lo fa fino in fondo. Poi gira subito a mano manca e si viene a trovare davanti alla Chiesa che c’è al centro del cimitero. Darrè la Chiesa, quasi attaccata, ci sta la tomba che cerca.»
La tomba non era una tomba qualisisiasi, ma una vera e propria cappella gentilizia, una costruzione piuttosto imponente. In alto c’era un ampio fregio, una specie di cartiglio, sul quale c’era scritto a caratteri di bronzo dorato “Famiglia Ostellino”. Era ben tenuta. Infilò la testa tra le sbarre di ferro battuto del cancello che faceva da porta, ma i vetri spessi e colorati in grigio che c’erano darrè gli impedirono la vista dell’interno. Rivolse una breve preghiera mentale al cabbalista Saverio Ostellino perché dall’aldilà gli desse una mano d’aiuto e niscì dal camposanto.
Andò alla trattoria San Calogero ma, con grande costernazione del proprietario, non fu capace di mangiari nenti di nenti. Si sentiva la vucca dello stomaco stritta e persino il sciàuro del pisci gli dava fastidio.
Si fece una lunga passiata al molo, ma era allascato e stanco. Stanco e umiliato per la sua impotenza, la sua incapacità di fermare il piano dell’omo che si credeva Dio. Capiva lucidamente di essere costretto ad andare a rimorchio appresso alla follia dello sconosciuto. Non arrinisciva a farsi venire in testa qualichi cosa che gli poteva permettere di mettersi, se non un passo avanti, almeno a paro del suo avversario. Poteva solo giocare in difesa. E per lui questa era una novità che lo pigliava assolutamente spriparato.
Il peggio era che non arrinisciva a cangiare in raggia il senso di frustrazione che provava. La raggia, per lui, era un motore potente.
Si era appena assittato che la porta sbattì con violenza contro il muro. Apparse, naturalmente, Catarella.
«Mi scusasse, dottori, mi scappò.»
«Che c’è?»
«C’è uno chi voli parlari con lei di pirsona pirsonalmente. Dice accussì che lui devi avere la pripiorità soluta! Dice che è cosa urgentissimamenti urgenti!»
«Ti ha detto come si chiama?»
«Sissi. Algida.»
«Come il gelato?»
«Priciso come il gilato, dottori.»
«Te l’ha detto il cognome?»
«Sissi, dottori. Parapettàno.»
Alcide Maraventano! Se telefonava, la cosa doveva essere grossa assà e veramente urgentissima.
«Glielo passo, dottori?»
«No, vengo da te.»
Si scantava che Catarella, coi suoi complicati maneggi al centralino, finiva col far cadere la linea. Agguantò la cornetta con le mano già sudatizze per la tenzione.
«Montalbano sono. Da dove telefona, signor Maraventano?»
«Da casa mia.»
«Ha il telefono?!»
«Manco per sogno. è venuto a trovarmi un amico che ha uno di quei cosi, come si chiamano…»
«Cellulari?»
«Sì, e ne ho profittato. Le voglio dire che ho riflettuto a lungo su tutto quello che lei mi ha raccontato e sono pervenuto a una conclusione.»
Montalbano sentì all’altro capo un rumore strammo che non tardò a identificare. Maraventano si stava facenno una ciucciata. Addivintò nirbuso, quello se la stava pigliando commoda.
«Vuol dirmi la sua conclusione, per favore?»
«È questa, carissimo: il prossimo evento, quale esso sia, non può assolutamente accadere, come gli altri, nelle primissime ore di lunedì perché…»
«… perché il ciclo deve terminare per forza sabato» gli venne di concludere a Montalbano.
In un fiat, era arrinisciuto a capire quello che non aviva capito quanno aveva liggiuto la Bibbia. Il lunedì, giorno che segnava il principio della creazione, non poteva essere lo stesso della fine!
«Bravo!» fece Alcide Maraventano. «Vedo che ha perfettamente capito. Si ricordi: di qualsiasi cosa si tratti, accadrà sicuramente entro la mezzanotte di sabato, perché la domenica il nostro imbecille dovrà riposare. Assieme a molte altre persone, temo. E attento: la fine della contrazione, nella confusione mentale di quest’individuo, coinciderà necessariamente con il tornare a essere luce accecante, inguardabile. Mi sono spiegato?»
Si era spiegato benissimo. Montalbano, sentendosi acchianare una specie di frevi, non lo ringraziò, non lo salutò, rattaccò semplicemente e si mise a fare voci senza manco rendersene conto.
«Che giorno è, ah? Che giorno è?»
Aveva un calendario enorme, offerto dal panificio Foderaro & Vadalà, proprio davanti al naso e non arrinisciva a vederlo.
«Il primo del mesi» spiccicò Catarella, contagiato dal panico che trapelava dalla voce del commissario.
E quindi il giorno appresso era il 2 novembre, il giorno dedicato ai morti. Non si stavano sbagliando, lui e Maraventano. Ne ebbe chiara, immediata, assoluta certezza. Come diceva la preghiera che aveva sentito in chiesa durante il funerale? Ecco, era il “Credo”:
… di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti…
E il 2 novembre, al camposanto, quel pazzo li avrebbe avuti tutti sottomano, i vivi e i morti! E l’ultima cosa che i vivi avrebbero visto sarebbe stato il manifestarsi della luce assoluta.
“Come capitò a quelli di Hiroshima” gli venne di pinsari.
E di colpo l’agitazione scomposta gli passò, rimase una tensione razionale. Aviva finalmenti intravisto il modo di pigliare l’iniziativa, spiazzando l’avversario. Non era più a rimorchio. Toccava a lui fare la mossa giusta.
«Mandami subito Augello e Fazio» disse a Catarella tornandosene nella sua cammara.
«Che fu?» fece Mimì trasendo di corsa seguito dall’altro. «Catarella si è messo a fare voci che tu…»
Vitti a Montalbano giarno come un morto e si scantò, ammutolì.
«Statemi a sentire bene. Contrordine. Qualsiasi cosa deve capitare, capiterà domani, sabato, e non lunedì.»
«Come l’hai saputo?» spiò Augello.
«Non me l’ha detto nessuno. Ci avevo già pensato, a questa possibilità, e qualcuno proprio ora me l’ha confermata. Fazio, ricordati che appena finiamo qua, mandi Gallo ad avvertire Mezzano che il suo cinema deve restare a nostra completa disposizione dalle ventuno alle ventiquattro di oggi.»
I due si taliarono strammati.
«Di oggi?!» spiò Augello. «Ma se tu stesso hai detto che la storia dovrebbe concludersi sabato!»
«Mimì, è l’unico modo che abbiamo di tagliargli la strada. Una volta tanto, se la mia supposizione è giusta, lo precediamo. Ma è cosa troppo longa spiegarvi il mio ragionamento. Meno tempo perdiamo e meglio è, credetemi. E tempo ce ne resta picca assà. Precipitatevi con gli altri ad avvertire le famiglie. Dite di presentarsi alle nove precise. Hanno cinque ore per prepararsi. Se c’è qualche malato ce lo facciano sapere, mandiamo a pigliarlo con un’ambulanza. Mimì, tu ti metti alla porta del cinema con l’elenco e spunti i nomi di quelli che entrano. Se qualcuno non si è presentato, avverti Fazio che provvederà a farlo ricercare e prelevare. D’accordo?»
«D’accordo» fecero i due in coro.
«Ripeto: voglio avere la certezza assoluta che alle nove e mezza di stasira Tutte le persone interessate sono dintra a quel locale.»
«Che gli contiamo stavolta?» spiò Fazio.
«La verità.»
«E cioè?»
«Che se non fanno quello che gli diciamo, corrono un pericolo mortale. Vedrai, si precipiteranno.»
«Mi permetti un’osservazione?» spiò Mimì.
«Certo.»
«Questa storia dell’anticipo a sabato è il risultato di un tuo ragionamento. è così?»
«Sì.»
«Ora metti caso che il tuo ragionamento sia sbagliato. Ne consegue che il pazzo farà quello che ha in testa di fare il lunedì che viene, come i lunedì passati» continuò Augello. «In questo caso, come facciamo a persuadere la gente a tornare al cinema lunedì?»
«Gli diciamo che abbiamo cangiato pellicola» disse Montalbano. «E che c’è macari l’avanspettacolo.»
Il tenente dei carrabinera Cesare Romitelli ascutò in perfetto silenzio la storia che gli contò Montalbano e subito appresso si dedicò a una sistematica quanto inutile opera di messa in ordine di tutto quello che aviva sulla scrivania. Doppo, isò l’occhi e taliò il commissario.
«Lei mi mette in una situazione imbarazzante» disse spostando una cartella dal lato mancino al lato di dritta.
«Perché?» spiò Montalbano.
«Commissario, io credo alla storia che mi ha raccontato. Veramente. E sono pronto a collaborare con lei. Ma devo informare i miei superiori e lei questo non lo vuole, come non vuole informare i suoi. è così?»
«Sì.»
«Ma noi siamo militari, commissario.»
«Capisco» disse Montalbano.
Stettero muti per tanticchia.
«La cosa sarebbe assolutamente diversa» ripigliò Romitelli «se una mia pattuglia, passando nei pressi del cinema Mezzano, nota, per caso, un assembramento. Allora ha il dovere d’intervenire, anche chiedendo rinforzi, per mantenere l’ordine pubblico. Mi sono spiegato?»
«Si è spiegato benissimo» disse Montalbano susendosi e stringendo la mano al tenente.
Niscì dalla caserma dei carrabinera sollevato. Aviva macari ottenuto, dal sindaco, l’invio di una decina di guardie municipali. Da solo, con I so’ uomini, non ce l’avrebbe fatta a contenere le centinara di curiosi che avrebbero scasato appena la notizia si veniva a sapere.
La trasuta al cinema delle famiglie convocate avvenne tra due ali di folla rumoreggiante a malappena trattenuta da carrabinera e vigili urbani. Tutta la faccenna, va a sapìri pirchì, aviva pigliato un tono allegro, di sfottò reciproco tra quelli che trasivano e quelli che li taliavano trasiri.
Ma, tra i convocati, ci furono macari proteste e murmurii, soprattutto da parte dei più anziani. Un picciotto, capelli lunghi, orecchino, barba, si piazzò davanti al commissario e gli fece il saluto fascista. Fazio gli mollò un poderoso càvucio in culo e quello scomparse tra la folla.
Mentri la gente trasiva, il cinema si andava trasformando in qualichi cosa di mezzo tra il nido d’infanzia e l’ospizio dei vecchi.
Finalmente il commissario poté acchianare sul palco seguito da Mimì Augello. Sapiva di non essiri assolutamente capace di parlari in pubblico, era rosso in faccia e si sentiva la vucca tutta allappusa come quanno si mangia il limone.
«Il commissario Montalbano sono. Scusatemi per il disturbo, ma l’ho fatto nel vostro stesso coso, come si dice…»
«Interesse» gli suggerì Augello.
«… interesse. C’è uno che… ci sta una situazione che… insomma, passo la parola al mio vice dottor Augello.»
Scinnì dalla scaletta assuppato di sudore. Mimì fu rapido ed efficace, spiegò quello che doviva spiegari, rassicurò i presenti che niente potiva loro accadere all’interno del cinema, presidiato dintra e fora. Annunziò che sarebbe stato fatto l’apello per maggiore sicurezza. Acchianò Fazio con l’elenco in mano e gli si mise allato.
Si sentirono risatine, commenti, la tensione era di molto calata. L’appello era arrivato quasi alla fine quanno ci fu un intoppo.
«Ostellino Francesco.»
«Presente.»
«Ostellino Saverio.»
Nisciuno arrispose.
«Ostellino Saverio?» ripeté Fazio.
Manco stavolta venne risposta.
«Mi chiamo Ostellino Tiziano» fece allora un sittantino susendosi. «Francesco che ha appena risposto e Saverio sono miei figli.»
Intanto macari Francesco Ostellino si era susuto e si taliava torno torno alla cerca del fratello.
«Non lo vedo» disse.
«Era con me» ripigliò il padre. «Siamo arrivati tutti e tri davanti al cinema, eravamo appena trasuti quanno mi disse che faceva un salto fora per accattare le sigarette.»
Un brivido violento, peggio della fevri tirzana, scosse il commissario dalla testa ai piedi. No, l’assenza di Saverio Ostellino non era un caso: ebbe la certezza d’essere arrinisciuto a far fare il primo passo falso all’avversario.
Scattò come una saitta verso il sittantino.
«Suo figlio Saverio vive da solo o con lei?»
«Da solo nella casa che…»
«Ce l’ha per caso le chiavi?»
«Sì.»
«Me le dia e macari l’indirizzo» gli intimò.
E mentri quello obbediva senza sciatari, continuò rivolto a Mimì e a Fazio ch’erano sul palco:
«Voi due venite con me. Gallo continui l’appello.»
Niscirono di corsa dal cinema, for a adesso non ci stavano più curiosi o sfacinnati. A pochi passi c’era l’insegna di un sale e tabacchi. Lo spaccio aviva la saracinesca abbassata a metà. Si calarono e trasirono.
«Ora è chiuso!» vociò il proprietario a vederseli comparire davanti tutti e tri all’improviso.
«Polizia! Lei conosce un tale che si chiama Saverio Ostellino?»
«Sì, qualche volta se le accatta qua le sigarette.»
«L’ha visto un’oretta, un’oretta e mezza fa?»
«Non lo vedo da aieri.»
«Ci sono altri tabaccai qua vicino?»
«Sissi, ce n’è un altro nel vicolo appresso.»
Nella prescia, Mimì Augello non calcolò bene l’altizza della saracinesca e ci desi una gran craniata. Si esibì in una litania di santioni. Arrivarono all’altra tabaccheria che il proprietario stava inserrando una vetrinetta piena di pipe che c’era allato alla porta.
«Lei conosce Saverio Ostellino?» gli gridò Fazio alle spalle.
Il tabaccaio fece letteralmente un salto in aria e si voltò scantato.
«Ma che minchia di modo è?»
Fazio non aviva tempo di discutere di galateo. Lo pigliò per i risvolti della giacchetta e l’impiccicò contro la vetrinetta.
«Polizia. Lo conosci a Saverio Ostellino, sì o no?»
«No» fece atterrito il tabaccaio.
«Quanti clienti sono entrati nell’ultima ora e mezza?»
«Qua… quattru.»
«Ti ricordi cosa hanno accattato?»
«Aspittassi. Una fìmmina un pacchetto di cirina, il ragiuneri Anfuso dù fogli di carta bollata, una picciotta una busta e un francobollo e me’ cuscino Filippu si jocò una schedina.»
Dunque, sino a prova contraria, Saverio Ostellino non era nisciuto dal cinema per andarsi ad accatare le sigarette, come aviva detto al patri.
«Dobbiamo agguantarlo prima che possiamo» fece Montalbano.
Si misero a curriri verso il cinema, indovi il commissario aviva lasciato la so’ machina. Fazio si sentiva il cori stritto: mai, avanti, aviva visto il suo capo accussì prioccupato.
A malgrado che il villino degli Ostellino era all’estrema periferia del paisi che già pariva campagna, ci arrivarono in un vidiri e svidiri, prima d’allura il commissario non aviva provato a curriri tanto e tutto si potiva dire di lui eccetto che era uno che sapiva tiniri il volante in mano. Un cane randagio se la scansò per un pilo, l’autista di una Cinquecento, che veniva in senso inverso, vitti la morte con l’occhi.
Montalbano fermò proprio davanti alla porta del villino. Scinnirono e lo taliarono dall’esterno. Nisciuna luce trapelava dalle pirsiane, la casa era allo scuro completo. Poteva darsi che Saverio Ostellino sinni stava appostato darrè a una finestra ad aspittarli col revorbaro in mano e potiva darsi che no. L’unica era provare. Il commissario pruì le chiavi a Fazio e questi raprì la porta. Montalbano trasì per primo e addrumò le luci.
Si trovarono dintra a una gran cammara di ricevere, bene arredata con mobili ottocenteschi, di gusto tanticchia funereo.
«Saverio!» chiamò Montalbano.
Nisciuna risposta. Per il sì o per il no, Augello e Fazio quasi in contemporanea scocciarono le pistole. Taliarono accuratamente al pianoterra che era fatto dal grannissimo salone, e po’ da una cucina, una piccola cammara-studio, un bagno. Nenti, non solo non c’era anima criata, ma le cammare, per quanto pulitissime, davano l’impressione di non essere state abitate da tempo.
Acchianarono quatelosamente al piano di sopra: tri cammare da dormiri, tri bagni. Raprirono gli armuar, si calarono a taliare sutta ai letti. Nisciuno.
Una solamenti delle tri cammare di letto, dal grande disordine che c’era, si vidiva che era normalmente usata. L’istisso per uno dei tri bagni. Restava l’ultimo piano ch’era composto da un unico grannissimo cammarone, uno studio con al centro un tavolo. Migliaia di libri dovunque, nelle scaffalature, ’n terra, a mucchi, a pile. Di subito, al commissario parse una replica della cammara di Alcide Maraventano. Gli bastò una taliata per capire che si trovava davanti a una biblioteca specializzata: libri esoterici, di magia, di filosofia, di storia delle religioni e via di questo passo. La cosa curiosa era che non parivano libri accattati di recente, il più novo doviva risalire a una quarantina d’anni avanti.
Ad ogni modo, non c’era più motivo di dubitare: l’ammazzatore d’armali, l’omo che si cridiva Dio, finalmente aveva nome e cognome. Montalbano si sintì per mità soddisfatto e per l’altra mità, se possibile, ancora più scantato. Era arrinisciuto sì a fargli fare la mossa sbagliata, ma la partita non era finita. Anzi, era ancora da principiare.
«È lui» disse Montalbano. «E meno male che non è restato nel cinema, avrebbe avuto a disposizione tutte le o che voleva.»
In quel momento Fazio, che rovistava nei cascioni della scrivania, fece una scoperta.
«Ha lasciato qua la pistola. Questa è una 7,65.»
Per tutta risposta, Montalbano si diede una gran manata sulla fronti.
«Che stronzo!» sclamò.
Mimì e Fazio si voltarono a taliarlo con l’occhi sbarracati.
«Dici a me?» spiò Augello.
«Dice a me?» spiò Fazio.
Il commissario non chiarì che l’aviva detto a se stesso.
«Chiudete ’sta casa e venite con me, presto!»
Obbedirono non osando spiare il pirchì. Senza che ci fosse stato accordo preventivo, stavolta al volante ci si mise Augello. Ne avivano viste troppe durante il viaggio d’andata e il commissario non protestò.
«Dove andiamo?»
«Al camposanto.»
Augello, che stava pigliando una curva praticamente su due ruote, a quella risposta sbandò tanticchia.
«Mimì, non hai capito: al camposanto ci dobbiamo arrivare vivi.»
«Posso sapìri che ci andiamo a fare?» spiò Fazio mettendo nella voci tutto il rispetto possibile.
«Dovete sapere che il giorno che sono venuto al funerale della madre di Galluzzo…»
S’interruppe.
«Beh?» fece Mimì.
Ma Montalbano stava seguendo un suo pinsero.
«Fazio, tu lo conosci a questo Saverio Ostellino?»
Di molti abitanti di Vigàta Fazio sapeva vita, morte e miracoli. Aviva quello che Montalbano chiamava il complesso dell’anagrafe.
«Ha quarantadue anni. Ha insegnato al liceo di Montelusa. Una vita metodica. Ma tri anni fa la sua esistenza cangiò.»
«Pirchì?»
«Restò vidovo. In un colpo solo perse la mogliere e la figlia che andava alla prima elementare. Fu un incidente d’auto. Guidava la mogliere, lui non c’era. Da allora è andato a vivere da solo in una casa che gli aveva lasciato so’ nonno. Questa dove siamo appena stati, credo. Ha smesso di travagliare, non gli spercia di fare più nenti. Non nesci quasi mai.»
Il cancello del camposanto era chiuso. Tuppiarono alla porta della casa del custode ch’era allato.
«Aprite. Polizia!»
Il custode che s’appresentò santianno era quello che Montalbano già accanosceva.
«Ci apra.»
«Benvenuti» fece l’omo raprendo il cancello e tirandosi di lato.
«Venga con noi» fece Montalbano che non aveva gana d’attaccare turilla. E seguitò:
«Saverio Ostellino s’è visto in questi ultimi tempi?»
«Sissi. Praticamente, da quando gli sono morte la mogliere e la figlia, viene tutti i giorni. è il primo a trasire e l’ultimo a niscire. Mah! Povirazzo, non ci sta più con la testa.»
«E che fa?»
«Si inserra dintra la tomba di famiglia e prega. Almeno accussì ha detto a mia e ai miei aiutanti. Porta sempre una valigetta di media grannizza. Dintra ci ha spiegato che ci sono i libri di preghiere.»
«Però quando lui sta dintra alla tomba, voi non lo sapete quello che fa realmente.»
«Nonsi, commissario, ci sono i vitra colorati. Ma che vuole che fa ’sto poviro ’nfilici? Prega. Una volta mi parlò. Mi spiegò che aviva attrovato, seconno lui, il modo di far risuscitare la mogliere e la picciliddra. Pazzu completu. Che ci possiamo fare? Disgrazie granni, sono.»
Erano arrivati davanti alla cappella degli Ostellino.
«Ha una chiave?»
«Nonsi, ma ci voli picca e nenti per raprire. Se me lo permettono e si fanno di lato un mumentu…»
Per nello scuro del camposanto, Montalbano e Fazio si taliarono ammaravigliati: il custode stava addimostrannosi scassinatore valentissimo. Ma in quel momento avivano altri pinseri per la testa.
Alla luce, l’interno della tomba si rivelò pulitissimo e in perfetto ordine. C’erano sciuri freschi davanti ai loculi della mogliere e della figlia di Saverio Ostellino. Forse il povirazzo ci veniva col simplice scopo di prigari e basta. Ma in quel momento il commissario s’addunò che ’n terra, allato all’altare, c’era una specie di rettangolo scuro. S’avvicinò: era una botola aperta, la spessa lastra che serviva da chiusura stava appoggiata al muro. Si calò a taliare, ma c’era troppo scuro.
«E da qui dove si va?»
«Nella purpània» rispose il custode «dove si mettono i vecchi tabbuti o i morti freschi in attesa di collocazione. Però mi fa miraviglia.»
«Perché?»
«Non me l’aspittavo da lui: per raprire la purpània ci voli l’autorizzazione. E il signor Ostellino non ce l’ha domandata. E po’ non si lassa aperta.»
«C’è la luce, sotto?»
Senza rispondergli, il custode girò un interruttore vicino all’entrata.
«L’ha fatta mettere il signor Ostellino una para d’anni fa.»
Scinnero in fila, in testa il commissario. La purpània era granni quanto la tomba di sopra. Non era intonacata. Tri vecchi tabbuti erano assistimati al centro. Erano stati spostati per lasciare libere le pareti. Infatti tutte e quattro le pareti, fino ad altizza d’omo, erano letteralmente rivestite da candelotti di dinamite, sistemati a gruppi in un ordine perfetto. Le micce dei candelotti erano legate tra loro e congiunte a una miccia più grossa e più lunga di tutte. Abbastava addrumare questa per far saltare tutto.
«Minchia!» disse quasi senza voce Augello.
«Ecco che si portava nella valigetta! Quali libri di preghiere!» fece il custode, asciucandosi la fronti con una mano.
«Siamo arrivati appena a tempo. Domani, giorno dei morti, nel momento in cui il camposanto era più affollato, avrebbe dato fuoco alla miccia. Usciamo.»
Risalirono in silenzio, ognuno perso darrè un suo pinsero. Fora della tomba, Montalbano disse a Fazio:
«Chiamami Gallo al telefonino.»
«Pronto? Montalbano sono. Come vanno le cose lì?»
«Tutto relativamente tranquillo, dottore.»
«Senti, manda qua, al camposanto, Imbrò o chi vuoi tu. Il custode gli spiegherà a quale tomba deve montare la guardia senza cataminarsi di un passo.»
«Lo mando subito, dottore. Ah, le volevo dire una cosa: guardi che quel tizio, Saverio Ostellino, è tornato, è assittato in platea. Ha domandato scusa, ha detto che prima di chiudersi nel cinema aveva dovuto sbrigare un affare urgente.»
Montalbano aggelò.
Appena li vitti scìnniri dalla macchina che era arrivata con la velocità di una pallottola, Gallo si fece loro incontro.
«Dov’è? Dov’è?» spiò Montalbano col sciato grosso come se fosse stato lui a farsi la curruta e non l’auto.
Gallo lo taliò imparpagliato, era all’oscuro di tutto.
«Si è assittato all’ultima fila. C’è solo lui, gli altri posti della fila sono vacanti. Ma che succede?»
«Stammi a sentire e rispondimi dopo averci pinsato. Ti è parso, che so, agitato, strammo?»
«Beh, tanticchia sì. Però tutti sono agitati, là dintra.»
«Si è portato appresso qualcosa?»
«Sissi, un borsone grosso come a quello che usano le fìmmine per fare la spisa.»
«Madunnuzza santa!» si lasciò sfuggire Mimì.
«Ma che succede?» arrispiò Gallo apprioccupandosi sempri di più a vidiri la prioccupazioni degli altri.
«Voi restate qua nell’atrio» disse il commissario. «Io vado dintra a dare un’occhiata.»
Tutto s’aspettava, trasendo, tranne che il signor Mezzano aveva avuto l’alzata d’ingegno di mettersi a proiettare cartoni animati che il pubblico commentava ridendo. Qualche anziano durmiva.
Montalbano vitti subito a Saverio Ostellino: stava solo, la testa calata, assorto nei pazzi pinseri che gli firriavano testa testa. Gli si avvicinò a lento, Ostellino manco se ne addunò, restò nell’istissa posizione. Montalbano taliò attentamente per terra allato all’omo, ma non vitti quello che cercava. Allora si calò come per allacciarsi una scarpa. Ne fu sicuro, il borsone non c’era.
Niscì dalla sala.
«Ha ammucciato il borsone da qualche parte prima di andare ad assittarsi. Bisogna trovarlo.»
Cercarono dovunque nell’atrio, tra le tende, darrè i vasi di fiori, nel bancone del botteghino. Nenti. Il commissario taliò il ralogio: mezzanotte e un minuto.
Era già il giorno dei morti. Non gli restava più tempo da spardare, doviva agire subito. Capace che Saverio Ostellino aviva in sacchetta un comando a distanza che poteva fare esplodere quello che c’era nel borsone, dovunque l’avesse ammucciato.
«Dobbiamo arrestarlo» disse. «Ma bisogna andarci con cautela. Tu, Fazio, entri in sala e ti metti nel corridoio darrè a lui. Controlla che non abbia qualcosa in mano. Se ce l’ha, dagli un colpo in testa che lo metta fora combattimento. Se non ce l’ha, agguantalo e fai in modo che non riesca a mettere le mano in sacchetta. Chiaro?»
«Chiarissimo» disse Fazio.
«Appresso a te entra Mimì che ti darà una mano d’aiuto. Subito dopo entro io. Bisogna che l’arresto avvenga con il minore scarmazzo possibile. Se qualcuno se ne adduna e si mette a fare voci, è possibile che succeda panico. La cosa peggiore che ci possa capitare. E ora, forza!»
Fazio trasì, cinco secondi appresso Augello lo seguì. Quanno macari il commissario trasì nella sala, si fermò di botto. Saverio Ostellino non era più al suo posto e Fazio e Augello lo taliavano imparpagliati.
A un cenno di Montalbano, Fazio percorse rapidamente il corridoio centrale, taliando a dritta e a mancina.
«Non c’è» disse tornando allato al commissario.
Ma Montalbano un’idea se l’era fatta e sapeva che aveva ancora, sì e no, qualche minuto di tempo.
«Tu» disse a bassa voce, affannato, a Mimì «fai sospendere la proiezione, ringrazi tutti per avere collaborato e li rimandi a casa più presto che puoi. Gli dici che il pericolo è passato. Che non facciano casino, voglio il cinema sgombro in cinque minuti.»
Mimì partì di corsa.
«Tu vieni con me» fece il commissario a Fazio.
Si avviò, risoluto, verso una porta, coperta da una tenda spessa, supra la quali c’era una scrittura al neon: gabinetti. Trasirono prima nella cammara riservata alle fìmmine, le porte dei quattro bagni erano aperte, dintra non c’era nisciuno. Nella cammara degli omini, la porta di un bagno era chiusa dall’interno.
Montalbano taliò Fazio e si capirono: sicuramenti Saverio Ostellino stava darrè quella porta. Nel silenzio, arrivò distintamente il suo sciatare affannoso, una specie di rantolo.
Il commissario sentì in bocca il sapore del sangue, doviva essersi muzzicato la lingua. Le mascelle gli facivano mali, tanto teneva i denti serrati.
A gesti, Montalbano spiegò il suo piano. Avrebbe contato con le dita fino a tri, quindi Fazio avrebbe dovuto sfondare la porta con una spallata. Fazio fece ’nzinga con la testa che aviva capito e pruì al commissario la sua pistola. Montalbano la rifiutò e cominciò a contare.
La spallata di Fazio fu tanto violenta che la porta si scardinò e il commissario fu pronto a tirarsela verso l’esterno. Il quatro che gli s’apprisintò fu peggio di un incubo.
Saverio Ostellino teneva in mano, addrumata, una fiaccola a pitrolio. Ai suoi piedi, una trintina di candelotti di dinamite. Il borsone, vacante, era in un angolo. Ostellino non si cataminava, era immobile, l’occhi sgriddrati che forse manco vidivano i due omini che gli stavano davanti.
Fu allora che Fazio, completamente pigliato dai turchi, vitti il suo superiore inchinarsi profondamente, le mano sul petto.
«Vostra immensità, vi supplico di perdonare il mio ardire e di ascoltarmi. Degnate di volgere il vostro sguardo su di me!»
L’occhi di Saverio Ostellino persero la fissità, si posarono sul commissario, faticosamente lo misero a fuoco.
Montalbano avanzò lentissimo di due passi, la testa vascia, si calò su un ginocchio.
«Immensità, lasciate che sia il vostro umile servo a compiere l’opera! Concedetemi la grazia d’accendere la fiamma!»
Macari Fazio cadì agginucchiuni, le braccia allargate in un gesto di devota supplica.
Ostellino li contemplò. E doppo, con un movimento che pareva al rallentatore, mentri la sua faccia si apriva a un sorriso felice, allungò il vrazzo e pruì la fiaccola a Montalbano.
Fazio scattò, agguantò l’omo per le braccia. Allora la faccia di Saverio Ostellino si stravolse.
«Mi avete ingannato! Mi avate ingannato!»
Non si dibatteva per liberarsi dalla presa. Grosse lagrime principiarono a rigargli il volto.
«Potevo resuscitarle, capite? Potevo riaverle con me! Ancora con me! Nella mia luce! Per l’eternità!»
E Montalbano capì. Il senso di quelle parole disperate lo scosse, lo turbò. Gettò la fiaccola dintra a un lavabo, niscì, tornò nella sala che oramà era vacante.
Assittato, restò a taliare lo schermo bianco. Si sentiva assufficare da una pisante, densa cappa di sconfortata malinconia.
Doppo un certo tempo, Fazio venne ad assittarglisi nella poltrona allato.
«Il dottor Augello lo sta accompagnando in una clinica di Montelusa. Ho parlato col padre e col fratello.»
«Che ti hanno detto?»
«Manco ci credono a quello che è capitato. Non sapevano che Saverio nisciva di notte, sapevano solo che stava a leggere tutta la jornata i libri di suo nonno. Che libri erano?»
«I libri di un cabbalista.»
«Di uno che smorfiava i numeri al lotto?» si stupì Fazio.
«No, un’altra cosa. E leggi oggi, leggi domani, finì col nesciri completamente fora di testa, testa che aveva già avuto una bella botta con la morte di mogliere e figlia. Finché un giorno si fece pirsuaso che, se arrinisciva a divintari Dio, poteva far risuscitare le pirso- ne che amava.»
«Sì, ma quella facenna della contrazione?»
«Beh, vedi, Dio è tanto grande che, per immaginarlo, noi lo dobbiamo rimpiccolire e allora…»
«Nonsi, dottore, si fermasse qua. Mi viene il malo di testa. Ha ordini da darmi?»
«Sì. Stanotte stessa deve essere sgombrata la tomba degli Ostellino. Non me fido a lasciare l’esplosivo lì con tutta la gente che ci sarà al camposanto. Domani a matino accatta due mazzetti di fiori e mettili…»
«Ho capito. Sarà fatto» disse Fazio.
Tornato a Marinella, non ebbe gana di lavarsi e di cangiarsi. Aviva pigliato la sua decisione. C’era un aereo che partiva alle sette e nel quale s’attrovava sempri posto. Aviva bisogno di Livia, per le dieci al massimo sarebbe stato a Boccadasse.
Ma ora non aviva pititto, non aviva sonno. Andò ad assittarsi nella verandina. La nottata era tiepida, non c’era una nuvola. Si mise a taliare un punto del cielo che lui sapeva.
Proprio in quel punto, da lì a qualche ora, il principio della luce del giorno avrebbe cominciato a farsi largo in mezzo allo scuro.