PARTE SECONDA LA VIGILIA DI OGNISSANTI

Ben poco

merita il nostro tempo

più del comprendere

il talento della Sostanza.

Un’ape, un’ape viva,

contro il vetro della finestra, mentre tenta di uscire, spacciata,

non può comprendere.

Stan Rice

poesia senza titolo da

«Pig’s Progress» (1976)

Daniel

Un lungo atrio curvo; la folla era come un liquido che sciabordava contro le pareti incolori. Adolescenti in costumi da Halloween entravano dalla porta. Si formavano le code per acquistare parrucche gialle, mantelli di raso nero, «Zanne a cinquanta cent!», programmi in carta patinata. Volti pallidi e bianchi dovunque guardasse. Occhi e bocche dipinti. E qua e là gruppi di uomini e di donne scrupolosamente travestiti con abiti autentici dello scorso secolo, con trucco e pettinature perfetti.

Una donna abbigliata di velluto lanciò nell’aria una gran pioggia di boccioli di rosa. Il sangue dipinto le scorreva sulle guance cineree. Risate.

Sentiva l’odore del cerone e della birra, ormai aliena ai suoi sensi, disgustosa. I cuori che battevano tutto intorno a lui creavano un tuono sordo e delizioso contro i timpani delicati dei suoi orecchi.

Dovette ridere rumorosamente, perché sentì la stretta brusca delle dita di Armand sul braccio. «Daniel!»

«Scusami, capo», mormorò. Nessuno gli badava, comunque: tutti i mortali presenti erano travestiti; e chi erano Armand e Daniel se non due pallidi giovani anonimi tra la folla, con i maglioni e i jeans neri, i capelli seminascosti sotto i berretti di lana blu da marinaio, gli occhi dietro le lenti scure?

«E allora? Non posso ridere, soprattutto quando tutto è così divertente?»

Armand era distratto, e stava di nuovo in ascolto. Daniel non riusciva a capire che doveva aver paura. Aveva ottenuto ciò che voleva, adesso. Non siete più miei fratelli e mie sorelle!

Armand gliel’aveva detto. «Ce ne vuole per educarti.» Era durante la caccia, la seduzione, l’uccisione, il flusso del sangue nel suo cuore avido. Ma era diventato naturale nell’essere innaturale, dopo la goffa angoscia della prima uccisione, che l’aveva portato dal rimorso tremante all’estasi in pochi secondi. Boccate di vita. S’era svegliato con la sete.

E mezz’ora prima avevano preso due piccole, squisite vagabonde fra le rovine di una scuola abbandonata vicino al parco, dove i ragazzi vivevano nelle stanze con le finestre chiuse dalle assi, e avevano sacchi a pelo e stracci e scatole di latta per cuocere il cibo che rubavano in Haight-Ashbury. Questa volta non c’erano state proteste. No, solo la sete e il senso crescente della perfezione e dell’inevitabilità, il ricordo sovrannaturale del sapore impeccabile. Presto. Eppure c’era stata una tale arte con Armand, senza la precipitazione della notte precedente, quando il tempo era stato il fattore cruciale.

Armand s’era fermato in silenzio davanti alla costruzione e l’aveva scrutata in attesa di «quelli che volevano morire». A lui piaceva così. Li chiamava in silenzio e quelli uscivano. E la morte era serena. Aveva cercato d’insegnare quel trucco a Louis molto tempo prima, aveva detto; ma Louis l’aveva giudicato disgustoso.

E infatti i cherubini erano apparsi dalla porta laterale, come ipnotizzati dalla musica del Pifferaio Magico. «Sì, siete venuti, sapevamo che sareste venuti…» Voci spente che li salutavano mentre entravano in un salotto formato da coperte militari tese sulle corde. Morire in quel sudiciume, nello sciabolare dei fari delle macchine attraverso le falle nel compensato.

Braccia sporche e calde intorno al collo di Daniel, puzzo di hashish nei capelli. Lo sopportava appena, la danza, i fianchi che si strusciavano contro dì lui… e poi aveva affondato le zanne nella carne. «Tu mi ami, lo sai», aveva detto lei. E Daniel aveva risposto con la coscienza serena. Sarebbe sempre stato così bello? Le aveva stretto il mento con una mano, le aveva spinto la testa all’indietro e poi la morte gli era scesa nella gola come un pugno, era scesa nelle viscere e il calore si era diffuso, inondando l’inguine e il cervello.

L’aveva lasciata cadere. Troppo e troppo poco. Per un momento aveva artigliato la parete pensando che fosse di carne e di sangue, e che quindi potesse essere sua. Poi era stato uno choc, scoprire che non aveva più fame. Era sazio e completo, e la notte attendeva come una cosa di luce pura; e l’altra era morta, raggomitolata come una bambina addormentata sul pavimento lurido, e Armand splendeva nel buio e osservava.

La cosa più difficile era stato sbarazzarsi dei corpi. La notte precedente era stato fatto lontano dalla sua vista, mentre piangeva. La fortuna del principiante. Questa volta Armand aveva detto: «Niente tracce significa niente tracce». Erano andati insieme a seppellirle sotto il pavimento nella vecchia camera della caldaia e avevano rimesso scrupolosamente a posto le pietre. Era un gran lavoro, anche con la loro forza. Era ripugnante toccare il cadavere. Solo per un secondo gli era passato nella mente l’interrogativo: chi erano? Due esseri caduti in una fossa. Non c’era più un presente, un destino. E la ragazza della notte precedente? Qualcuno la stava cercando? S’era messo a piangere. Se n’era accorto e aveva toccato le lacrime che gli scorrevano dagli occhi.

«Cosa credi che sia?» aveva chiesto Armand mentre si faceva aiutare a sistemare le pietre del pavimento. «Un romanzo dell’orrore? Non puoi mangiare se non sei in grado di coprire ciò che hai fatto.»

La vecchia scuola era piena di umani che non s’erano accorti di nulla quando avevano rubato gli abiti che indossavano adesso, le uniformi dei giovani, ed erano usciti da una porta sfondata, in un vicolo. Non sono più i miei fratelli e le mie sorelle. I boschi sono sempre stati popolati da questi teneri esseri dagli occhi di cerbiatto, e dai cuori che battono per la freccia, la pallottola, la lancia. E ora, finalmente, mi rallegro della mia identità segreta: sono sempre stato il cacciatore.

«Va bene, come sono adesso?» aveva chiesto ad Armand. «Sei felice?» Haight Street, le sette e trentacinque. File di macchine, drogati che urlavano all’angolo. Perché non andavano al concerto? Le porte erano già aperte. Non reggeva più l’attesa.

Ma la casa della congrega era vicina, aveva spiegato Armand, una grande casa fatiscente a un isolato dal parco, e alcuni di loro erano ancora là a tramare la rovina di Lestat. Armand voleva passarci vicino, solo per un momento, per sapere cosa succedeva.

«Cerchi qualcuno?» aveva chiesto Daniel. «Rispondimi, sei soddisfatto di me o no?»

Che cosa aveva visto sul volto di Armand? Un lampo improvviso di gaiezza, di desiderio? Armand l’aveva trascinato lungo i marciapiedi sporchi, davanti ai bar, i caffè, i negozi pieni di vecchi abiti puzzolenti, i club con le lettere dorate sulle vetrate bisunte e i ventilatori che smuovevano i fumi con le pale di legno dorato, mentre le felci in vaso morivano d’una morte lenta nel caldo e nella semioscurità. In mezzo ai bambini, «O la borsa o la vita!», dai costumi di taffetà e di lustrini.

Armand s’era fermato, era stato circondato subito da faccette coperte dalle maschere acquistate nei grandi magazzini, fantasmi e streghe di plastica; un’incantevole luce calda gli aveva colmato gli occhi scuri. Con entrambe le mani aveva gettato i dollari d’argento nei sacchetti protesi, quindi aveva preso Daniel per il braccio e l’aveva condotto oltre.

«Mi piace come sei diventato», aveva sussurrato con un sorriso irresistibile. «Sei il mio primogenito», aveva detto. C’era un singulto nella sua gola, e s’era guardato improvvisamente intorno come se si trovasse con le spalle al muro. «Sii paziente. Ho paura per entrambi, ricordi?»

Oh, giungeremo insieme alle stelle! Nulla potrà fermarci. Tutti gli spettri che si aggirano per queste strade sono mortali!

Poi la casa della congrega era esplosa.

Aveva sentito lo scoppio prima di vederlo… e un pennacchio ondeggiante di fiamme e di fumo, accompagnato da un suono stridulo che prima non avrebbe mai percepito; urla sovrannaturali come carta d’argento che si aggriccia nel calore. Un accorrere di umani dai capelli spettinati, curiosi di vedere l’incendio.

Armand aveva spinto Daniel lontano dalla strada, all’interno di un bar. Luce biliosa, sudore e puzzo di tabacco; mortali, ignari dell’incendio vicino, che leggevano le riviste per uomini. Armand lo aveva spinto in fondo al piccolo corridoio. C’era una vecchia che davanti a un frigorifero sistemava un cartone di latte e alcune scatole di cibo per gatti. Non c’erano vie d’uscita.

Ma com’era possibile nascondersi dalla cosa che stava passando, dal suono assordante che gli umani non riuscivano neppure a udire? S’era portato le mani alle orecchie; ma era un gesto sciocco, inutile. Là fuori, nei vicoli, c’era la morte. Cose come lui fuggivano tra i rifiuti nei cortili, e bruciavano. Lo vedeva in lampi crepitanti. Poi più nulla. Un silenzio echeggiante. Il clangore delle campane e lo stridore dei pneumatici del mondo mortale.

Eppure era ancora troppo affascinato per avere paura. Ogni secondo era eterno, il ghiaccio sullo sportello del frigorifero era bellissimo. La vecchia con il latte in mano, gli occhi simili a due gemme di cobalto.

Il volto di Armand era diventato inespressivo sotto la maschera degli occhiali scuri, le mani s’erano infilate nelle tasche dei pantaloni. Il campanello della porta aveva tintinnato quando un giovane era entrato, aveva comprato una bottiglia di birra tedesca ed era uscito di nuovo.

«È finita, vero?»

«Per ora», aveva risposto Armand.

Non aveva più parlato fino a quando erano saliti sul tassi.

«Sapeva che eravamo lì. Ci ha sentiti.»

«E allora perché non…?»

«Non lo so. So soltanto che sapeva che eravamo lì. Lo sapeva prima che trovassimo un rifugio.»


E adesso avanzavano a spintoni nell’atrio; e gli piaceva, mentre la folla li portava sempre più vicini alle porte interne. Non poteva neppure alzare le braccia perché la ressa era troppo fitta; eppure i giovani, maschi e femmine, si facevano largo a gomitate, lo investivano con choc deliziosi; rise di nuovo quando vide i poster con Lestat a grandezza naturale affissi alle pareti.

Sentì le dita di Armand contro la schiena; sentì un cambiamento sottile compiersi in tutto il corpo di Armand. Una donna dai capelli rossi, più avanti, s’era voltata e stava girata verso di loro mentre procedeva verso la porta aperta.

Un’ondata di choc scosse Daniel. «Armand, i capelli rossi.» Era così simile alle gemelle del sogno! Sembrava che gli occhi verdi fossero fissi nei suoi mentre mormorava: «Armand, le gemelle!»

Poi il volto della donna svanì, quando tornò a voltarsi e sparì all’interno della sala.

«No», mormorò Armand. Scosse lievemente la testa. Era in preda a un furore silenzioso, Daniel lo sentiva. Aveva lo sguardo vitreo che aveva sempre quand’era offeso profondamente. «Talamasca», mormorò, con una smorfia inconsueta.

«Talamasca.» All’improvviso, quella parola parve bellissima a Daniel. Talamasca. La scompose dal latino e ne comprese le parti. E affiorò dalla banca della sua memoria: maschera animale. Un’antica parola che significava strega o sciamano.

«Ma che cosa significa esattamente?» chiese.

«Significa che Lestat è un pazzo», disse Armand, con un guizzo di dolore profondo negli occhi. «Ma ormai non fa nessuna differenza.»

Khayman

Khayman osservava dall’arcata mentre la macchina del vampiro Lestat entrava nel parcheggio. Khayman era quasi invisibile, anche grazie al giubbotto e ai pantaloni scuri che aveva rubato al manichino d’un negozio. Non aveva bisogno degli occhiali d’argento che gli coprivano gli occhi. La carnagione splendente non aveva importanza. Dovunque guardasse vedeva maschere e cerone, porporine e veli e costumi coperti di lustrini.

Si avvicinò a Lestat come se nuotasse in mezzo ai corpi frementi dei giovani che assaltavano la macchina. Finalmente scorse prima i capelli biondi, poi gli occhi di ghiaccio e poi vide il sorriso quando gettò baci ai suoi adoratori. Il diavolo ha un immenso fascino. Guidava lui stesso la macchina: faceva rombare il motore e spingeva con il paraurti i piccoli, teneri umani, mentre flirtava, ammiccava, seduceva come se non ci fosse un intimo legame tra lui e il piede premuto sull’acceleratore.

Euforia. Trionfo. Era ciò che Lestat conosceva e provava in quel momento. E anche il suo compagno reticente, il bruno Louis, che era seduto in macchina accanto a lui e guardava con timidezza i giovani urlanti come se fossero uccelli del paradiso, non capiva cosa accadeva in realtà.

Nessuno dei due sapeva che la regina si era destata. Nessuno dei due conosceva i sogni delle gemelle. La loro ignoranza era sorprendente. E le loro menti giovani erano così facili da scrutare. Apparentemente il vampiro Lestat, che si era nascosto molto bene fino a quella notte, adesso era pronto a battersi con tutti. Ostentava i pensieri e le intenzioni come una medaglia al valore.

«Dateci la prova!» Era ciò che diceva a voce alta ai suoi fans, anche se non l’udivano. «Uccideteci. Siamo malefici. Siamo malvagi. Ora va benissimo applaudire e cantare con noi. Ma quando capirete, be’, allora comincerete a fare sul serio. E ricorderete che non vi ho mai mentito.»

Per un istante i suoi occhi e gli occhi di Khayman s’incontrarono. Io voglio essere buono! Morirei per questo! Ma non c’era il riconoscimento di chi riceveva il messaggio.

Louis, l’osservatore paziente, era lì per amore. Si erano ritrovati appena la notte precedente, e la loro era stata una riunione straordinaria. Louis sarebbe andato dove lo guidava Lestat. Louis sarebbe perito se Lestat fosse perito. Ma le loro paure e le speranze per quella notte erano dolorosamente umane.

Non intuivano neppure che la collera della regina era prossima, che entro un’ora avrebbe bruciato la congrega di San Francisco. O che l’infame taverna dei vampiri in Castro Street stava bruciando in quel momento, mentre la regina inseguiva coloro che ne fuggivano.

Ma neppure i tanti bevitori di sangue sparsi in quella folla conoscevano la semplice realtà. Erano troppo giovani per captare i moniti dei vecchi, per udire le urla di coloro che perivano. I sogni delle gemelle li avevano confusi. Guardavano minacciosamente Lestat, dominati dall’odio o dal fervore religioso. Volevano annientarlo o fare di lui un dio. Non indovinavano il pericolo che li attendeva.

Ma le gemelle? Qual era il significato dei sogni?

Khayman guardò la macchina che avanzava, si apriva a forza un varco verso il retro dell’auditorium. Alzò lo sguardo verso le stelle, i minuscoli punti di luce dietro la nebbia che aleggiava sulla città. Aveva la sensazione di percepire la vicinanza della sua vecchia sovrana.

Si girò di nuovo verso l’auditorium e si fece largo cautamente in mezzo alla calca. Sarebbe stato un disastro dimenticare la sua forza in una simile folla. Avrebbe sfracellato persone e spezzato le loro ossa senza neppure accorgersene.

Diede un’ultima occhiata al cielo ed entrò, disorientando facilmente la maschera quando passò oltre il cancelletto girevole e si avviò verso la sala.

L’auditorium era quasi pieno. Si guardò intorno pensosamente, assaporando quel momento come assaporava ogni cosa. La sala in sé non era nulla, un guscio per contenere luci e suoni… assolutamente moderna e irreparabilmente brutta.

Ma i mortali, com’erano graziosi, splendenti di salute, con le tasche piene d’oro, corpi solidi nei quali nessun organo era roso dai vermi dell’infermità e nessun osso s’era mai spezzato.

In realtà, il benessere asettico dell’intera città sbalordiva Khayman. In Europa, certo, aveva visto ricchezze quali non avrebbe mai potuto immaginare, ma nulla eguagliava la superfìcie impeccabile di quel luogo piccolo e sovrappopolato, inclusi i contadini di San Francisco, le cui casette di stucco erano piene di lussi d’ogni genere. Lì i vialetti erano occupati da belle automobili. I poveri prelevavano il denaro con magiche tesserine di plastica dalle macchine delle banche. Non c’erano baraccopoli. La città aveva grandi torri e alberghi favolosi; una quantità di ville maestose; eppure, cinta com’era dal mare e dai monti e dalle acque lucenti della Baia, non sembrava una capitale ma piuttosto un luogo di villeggiatura, un rifugio dalla sofferenza e dalle brutture del mondo.

Non c’era da sorprendersi che Lestat avesse scelto quel posto per lanciare la sfida. Nel complesso, quei ragazzini viziati erano buoni. La privazione non li aveva mai feriti o indeboliti. Potevano rivelarsi combattenti ideali per il male vero. Cioè, quando avrebbero compreso che il simbolo e la realtà erano identici. Svegliatevi e fiutate il sangue, o giovani.

Ma ci sarebbe stato il tempo, ormai?

Il grande piano di Lestat, quale che fosse, poteva fallire. Perché sicuramente anche la regina aveva un suo piano, e Lestat non ne sapeva nulla.

Khayman si avviò nella sala, verso l’ultima fila di sedili di legno, dov’era stato già prima. Sedette nello stesso posto, scostando i due libri «di vampiri» che stavano ancora sul pavimento, ignorati da tutti.

Aveva divorato quei testi. Il testamento di Louis: «Ecco il vuoto». E la storia di Lestat: «E questo e questo e questo non significa nulla». Gli avevano chiarito molte cose. E ciò che aveva intuito delle intenzioni di Lestat aveva trovato una conferma completa. Ma del mistero delle gemelle, ovviamente, il libro non diceva nulla.

In quanto al vero intento della regina, ah, continuava a sconcertarlo.

Aveva ucciso centinaia di bevitori di sangue in tutto il mondo, ma aveva lasciato illesi altri.

Marius era ancora vivo. Distruggendo il suo sacrario l’aveva punito ma non ucciso, anche se sarebbe stato semplice. Lui chiamava i più vecchi dalla sua prigione di ghiaccio, li metteva in guardia, invocava aiuto. E Khayman sentiva che due immortali si muovevano per rispondere all’appello anche se una, la creatura di Marius, non poteva neppure udirlo. Quella era Pandora. Era solitaria e forte. L’altro, che si chiamava Santino, non aveva il suo potere, ma poteva udire la voce di Marius.

Senza dubbio la regina avrebbe potuto annientarli, se avesse voluto. Eppure continuavano a muoversi, chiaramente visibili, chiaramente udibili e tuttavia indisturbati.

In che modo la regina compiva simili scelte? Sicuramente anche nella sala c’erano alcuni che aveva risparmiato per un suo scopo…

Daniel

Avevano raggiunto la porta; e adesso dovevano spingersi per gli ultimi metri giù per una stretta rampa, nel gigantesco ovale aperto della platea.

La folla si disperdeva come bilie che rotolano in ogni direzione. Daniel si diresse verso il centro, con le dita agganciate alla cintura di Armand per non perderlo, mentre il suo sguardo vagava nel teatro a ferro di cavallo, con le file dei posti che salivano fino al soffitto. Dovunque c’erano mortali che sciamavano sui gradini di cemento o si sporgevano dalle ringhiere di ferro, o mulinavano intorno a lui.

All’improvviso vi fu un movimento, e un suono simile allo stridore sordo di una macchina gigantesca. Ma poi, nel momento della visione deliberatamente distorta, vide gli altri. Vide la semplice, irrefutabile differenza fra i vivi e i morti. Esseri come lui in ogni direzione, nascosti nella foresta dei mortali, e tuttavia splendenti come gli occhi di un gufo in una notte di luna. Né il cerone né gli occhiali scuri, né i capelli informi né i manti con cappuccio avrebbero mai potuto celarli gli uni agli altri. E non era soltanto il fulgore ultraterreno dei volti e delle mani. Era la grazia lenta e agile dei movimenti, come se fossero più spirito che carne.

Ah, miei fratelli e sorelle, finalmente!

Ma sentiva l’odio intorno a sé. Un odio disonesto! Amavano Lestat e nel contempo lo condannavano. Amavano l’atto di odiare e di punire. All’improvviso, incontrò lo sguardo di una creatura massiccia dall’untuoso pelame nero che snudava le zanne in un lampo minaccioso e rivelava il piano con sorprendente completezza. Lontano dagli occhi indiscreti dei mortali, avrebbero fatto a pezzi Lestat, gli avrebbero tagliato la testa, e poi avrebbero arso i resti su un rogo in riva al mare. La fine del mostro e della sua leggenda. Sei con noi o contro di noi?

Daniel rise. «Non l’ucciderete mai», disse. Tuttavia restò a bocca aperta quando vide la falce affilata che l’essere teneva contro il petto. Poi la bestia si voltò e sparì. Daniel alzò lo sguardo nella luce fumosa. Ora sono uno di loro. Conosco tutti i loro segreti! Si sentiva in preda alle vertigini, sull’orlo della follia.

La mano di Armand gli strinse la spalla. Erano arrivati al centro della platea. La folla diventava più numerosa a ogni secondo. Ragazze carine in abiti di seta nera cercavano di farsi largo fra i rudi motociclisti inguauiati in logora pelle nera. Piume morbide gli sfioravano la guancia; vide un diavolo rosso dalle corna gigantesche; un teschio ossuto incorniciato da riccioli dorati trattenuti da pettini di madreperla. Nella semioscurità bluastra si alzavano grida. I motociclisti ululavano come lupi; qualcuno urlò «Lestat» con voce assordante, e altri ripresero subito l’invocazione.

Armand aveva di nuovo l’espressione smarrita, l’espressione della concentrazione profonda, come se ciò che vedeva non avesse significato.

«Forse trenta», sussurrò all’orecchio di Daniel. «Non di più. E uno o due sono così vecchi che potrebbero annientarci tutti in un istante.»

«Dove? Dimmi dove sono!»

«Ascolta», disse Armand. «E vedrai tu stesso. È impossibile nascondersi a loro.»

Khayman

La figlia di Maharet. Jessica. Il pensiero colpì Khayman inaspettatamente. Proteggi la figlia di Maharet. Vattene da qui.

Si scosse. Aveva ascoltato di nuovo Marius; Marius che cercava di arrivare all’orecchio non sintonizzato del vampiro Lestat, mentre Lestat si pavoneggiava dietro il palcoscenico di fronte a uno specchio rotto. Cosa poteva significare? La figlia di Maharet, Jessica, quando i pensieri si riferivano senza dubbio a una donna mortale?

E ritornò la comunicazione inaspettata di una mente forte e svelata: Abbi cura di Jesse. Ferma la Madre… Ma in realtà non erano parole: non era altro che una visione splendente dell’anima di un altro, un traboccare scintillante.

Lo sguardo di Khayman passò lentamente sulle gallerie di fronte, sulla pktea affollata. Lontano, in un angolo remoto della città, vagava qualcuno molto vecchio che temeva la regina e tuttavia desiderava vederne il volto. Era venuto lì per morire, ma per conoscere il volto di lei nell’ultimo istante.

Khayman chiuse gli occhi.

Poi l’udì di nuovo, all’improvviso. Jessica, mia Jessica. E dietro l’invocazione trepida, la sapienza di Maharet! La visione di Maharet, circonfusa d’amore, e antica e bianca quanto era lui stesso. Fu un momento di sofferenza atroce. Si abbandonò sul sedile di legno e piegò leggermente la testa. Poi guardò di nuovo le travi d’acciaio, i grovigli sgraziati di cavi neri e di riflettori cilindrici arrugginiti. Dove sei?

Là, lontano contro la parete di fronte, vide la figura che emanava quei pensieri. Ah, era il più vecchio che avesse visto finora. Un gigantesco bevitore di sangue, un nordico antico e astuto, vestito di rozzi indumenti di pelle scamosciata, con i capelli color paglia, la fronte massiccia e gli occhi piccoli e profondamente incassati, che gli davano un’espressione cupa e pensosa.

L’essere seguiva una piccola donna mortale che si faceva largo tra la folla della platea. Jesse, la figlia mortale di Maharet.

Stravolto, incredulo, Khayman si concentrò sulla donna. Sentì le lacrime salirgli agli occhi quando vide la somiglianzà sbalorditiva. I lunghi capelli rossi di Maharet, folti e ricci, e la stessa figura alta e snella, gli stessi occhi verdi curiosi e intelligenti che scrutavano la scena mentre la donna si lasciava trasportare dalla folla che le premeva intorno.

Il profilo di Maharet. La carnagione di Maharet, così pallida e quasi luminosa in vita, così simile al rivestimento interno d’una conchiglia marina.

In un ricordo vivido, scorse la pelle di Maharet attraverso l’intreccio delle sue dita scure. Quando le aveva girato il viso da una parte durante lo stupro, aveva toccato con le dita le pieghe delicate della pelle sopra gli occhi. Solo un anno dopo le avevano strappato gli occhi, e lui era presente, e aveva ricordato quel momento, quel contatto. Era avvenuto prima che lui raccogliesse gli occhi e…

Rabbrividì. Sentì una fitta di dolore nei polmoni. La memoria non l’avrebbe abbandonato. Non sarebbe sfuggito a quel momento, il buffone felice che non ricordava nulla.

La figlia di Maharet, sì. Ma come? Attraverso quante generazioni le caratteristiche erano sopravvissute fino a rifiorire in quella femmina che cercava di farsi largo verso il palcoscenico in fondo all’auditorium?

Non era impossibile, naturalmente. Se ne rendeva conto. Circa trecento antenati stavano tra quella donna del ventesimo secolo e il lontano pomeriggio in cui aveva messo al collo il medaglione del re ed era sceso dal podio per commettere lo stupro reale. Forse anche meno. Una modesta frazione di quella folla, per metterlo più chiaramente in prospettiva.

Ma era sorprendente il fatto che Maharet conoscesse i suoi discendenti. E Maharet conosceva quella donna. La mente del bevitore di sangue rivelò subito la verità.

Scrutò il nordico. Maharet, viva. Maharet, custode della sua famiglia mortale. Maharet, incarnazione della forza e della volontà senza limiti. Maharet che non aveva dato a quel servitore biondo alcuna spiegazione dei sogni delle gemelle, e invece l’aveva mandato a compiere il suo comando: salvare Jessica.

Ah, ma è viva, pensò Khayman. È viva, e se è viva allora vivono entrambe, le sorelle dai capelli rossi!

Studiò l’essere ancora più attentamente, sondando a profondità ancora maggiore. Ma al momento percepiva soltanto la protezione ardente. Salvare Jesse, non solo dal pericolo rappresentato dalla Madre, ma da quel luogo, dove gli occhi di Jesse avrebbero visto ciò che nessuno avrebbe mai potuto spiegare.

E come odiava la Madre, quell’essere alto e biondo dal portamento del guerriero e del sacerdote. L’odiava perché la Madre aveva spezzato la serenità di un’esistenza eterna e malinconica, perché il suo amore dolce e triste per quella donna, Jessica, esacerbava l’allarme che provava per sé. Anche lui conosceva la vastità della distruzione, sapeva che ogni bevitore di sangue, da un capo di quel continente all’altro, era stato annientato, eccettuati pochi che si trovavano quasi tutti sotto quel tetto e non immaginavano il fato che li attendeva. Sapeva anche dei sogni delle gemelle, ma non li comprendeva. Dopotutto non aveva mai conosciuto due sorelle dai capelli rossi: solo una bellezza fulva dominava la sua vita.

Ancora una volta Khayman scorse il viso di Maharet, l’immagine vagabonda degli stanchi occhi umani che scrutavano da una maschera di porcellana: Mael, non chiedermi altro e fai ciò che ti dico.

Silenzio. Il bevitore di sangue si accorse all’improvviso d’essere osservato. Con uno scatto della testa girò lo sguardo nella sala, cercando di individuare l’intruso.

Era stato il nome, come accade spesso. L’essere si era sentito riconosciuto. E Khayman aveva identificato subito il nome, l’aveva collegato al Mael del racconto di Lestat. Senza dubbio era lo stesso essere… era il druido che aveva attirato Marius nel bosco sacro dove il dio del sangue l’aveva fatto diventare uno dei suoi e l’aveva mandato in Egitto in cerca della Madre e del Padre.

Sì, era lo stesso Mael. E l’essere si sentiva riconosciuto, e detestava quell’idea.

Dopo lo spasimo iniziale di rabbia, i pensieri e le emozioni svanirono. Una manifestazione di forza piuttosto sensazionale, Khayman doveva ammetterlo. Si rilassò. Ma l’essere non poteva trovarlo. Aveva individuato tra la folla due dozzine di altre facce bianche, ma non lui.

Intanto l’intrepida Jessica era arrivata a destinazione. Era passata fra i forzuti motociclisti che reclamavano lo spazio davanti al palcoscenico, e s’era aggrappata al bordo della piattaforma di legno.

Un lampo del braccialetto d’argento nella luce. E quella doveva essere stata una pugnalata per lo scudo mentale di Mael, perché in un istante fluido il suo amore e i suoi pensieri ridiventarono interamente visibili.

Morirà se non diventa più saggio, pensò Khayman. Era stato istruito da Maharet, senza dubbio, e forse nutrito del suo sangue potente; tuttavia aveva il cuore indisciplinato e il temperamento incontrollabile.

Poi, qualche passo più indietro di Jesse, nel turbine del chiasso e dei colori, Khayman scorse un’altra figura affascinante, molto più giovane e tuttavia potente quasi quanto il druido Mael.

Khayman cercò il nome, ma la mente dell’essere era vuota, e non lasciava sfuggire neppure un barlume di personalità. Era un ragazzo quando era morto, con i capelli fulvi e gli occhi un po’ troppo grandi per il viso. Ma poi fu facile strappare il nome a Daniel, il nuovo nato che gli stava accanto. Armand. E il novizio, Daniel, era morto da poco. Tutte le minuscole molecole del suo corpo danzavano della chimica invisibile del demonio.

Armand attrasse immediatamente Khayman. Senza dubbio era lo stesso Armand del quale avevano scritto Louis e Lestat, l’immortale dalla forma di giovinetto. E ciò significava che non aveva più di cinquecento anni, tuttavia si velava completamente. Sembrava astuto e freddo, ma senza bagliori: un atteggiamento che non aveva bisogno di spazio per rivelarsi. E ora, intuendo infallibilmente che era osservato, girò i grandi occhi scuri verso l’alto e li fissò sulla figura lontana di Khayman.

«Non intendo far male a te o al tuo giovane compagno», mormorò Khayman in modo che le sue labbra potessero modellare e controllare i pensieri. «Non sono amico della Madre.»

Armand udì ma non rispose. Mascherava completamente il terrore che doveva provare alla presenza di qualcuno tanto vecchio. Sembrava guardasse il muro dietro la testa di Khayman e la folla di giovani ridenti e schiamazzanti che scendevano dalla scalinata.

E inevitabilmente, l’affascinante essere vecchio di mezzo millennio fissò gli occhi su Mael mentre questi era assalito da un’altra ondata irresistibile di preoccupazione per la fragile Jessica.

Khayman comprendeva Armand. Sentiva di comprenderlo e di apprezzarlo. Quando i loro occhi s’incontrarono di nuovo, tutto ciò che era stato scritto su quell’essere nei due romanzi apparve bilanciato dalla sua innata semplicità. La solitudine che Khayman aveva sentito ad Atene era fortissima, adesso.

«Non sei diverso dalla mia anima semplice», mormorò Khayman. «Sei smarrito in tutto questo perché conosci troppo bene il terreno. E per quanto tu vada lontano, ritorni alle stesse montagne, alla stessa valle.»

Nessuna risposta. Naturalmente. Khayman scrollò le spalle e sorrise. Avrebbe dato tutto ciò che poteva e, senza secondi fini, lo faceva sapere ad Armand.

Adesso il problema era aiutare quei due perché avessero qualche speranza di dormire il sonno immortale fino a un altro tramonto. E la cosa più importante era il modo per raggiungere Maharet, cui era indefettibilmente devoto l’ardente e diffidente Mael.

Khayman disse ad Armand con un leggero movimento delle labbra: «Non sono amico della Madre, te l’ho detto. E resta con la folla dei mortali. Lei ti individuerà quando te ne separerai. È molto semplice.»

Il volto di Armand non cambiò. Accanto a lui il novizio Daniel era felice in mezzo alla folla che l’attorniava. Non aveva paura, non aveva piani né sogni. E perché no? Aveva quell’essere potentissimo che si prendeva cura di lui. Era molto più fortunato degli altri.

Khayman si alzò. Era la solitudine, più di ogni altra cosa. Voleva essere vicino a quei due, Armand o Mael. Era ciò che aveva desiderato ad Atene quando aveva incominciato a ricordare. Essere vicino a un altro come lui. Parlare, toccare… qualcosa.

Si avviò lungo la corsia più in alto che cingeva l’intera sala, a parte un tratto sul fondo, dietro il palcoscenico, dove stava il gigantesco schermo video.

Si mosse con lenta eleganza umana, attento a non schiacciare i mortali che gli premevano addosso. E voleva muoversi adagio perché doveva dare a Mael la possibilità di vederlo.

Sapeva istintivamente che se si fosse avvicinato in modo furtivo a quell’essere fiero e litigioso, l’insulto non gli sarebbe stato perdonato. Perciò procedette, e accelerò il passo solo quando vide che Mael s’era accorto che si stava avvicinando.

Mael non sapeva nascondere la paura come faceva Armand. Non aveva mai visto un bevitore di sangue antico come Khayman, eccettuata Maharet: e ora guardava un nemico potenziale. Khayman gli lanciò lo stesso saluto caloroso che aveva lanciato ad Armand, che nel frattempo stava a osservare, ma l’atteggiamento del vecchio guerriero non cambiò.

Ormai l’auditorium era pieno e chiuso. All’esterno i ragazzi urlavano e battevano sulle porte. Khayman sentiva il ronzio delle radio della polizia.

Il vampiro Lestat e i suoi spiavano la sala attraverso i fori del grande sipario.

Lestat abbracciò il suo compagno Louis, e si baciarono sulla bocca mentre i musicisti mortali li stringevano entrambi.

Khayman indugiò per percepire la passione della folla: l’aria ne era elettrizzata.

Jessica aveva appoggiato le braccia sul bordo del palcoscenico, e teneva il mento sul dorso delle mani. Gli uomini dietro di lei, esseri muscolosi vestiti di lucida pelle nera, la spingevano brutalmente con ebbra esuberanza, ma non riuscivano a spostarla.

Non avrebbe potuto farlo neppure Mael, se avesse tentato.

E qualcosa divenne chiaro per Khayman all’improvviso, mentre la guardava. Era una parola, Talamasca. La donna apparteneva all’ordine, era una di loro.

Non era possibile, pensò di nuovo, poi rise silenziosamente della propria ingenuità. Era una notte piena di grandi choc, no? Eppure sembrava incredibile che il Talamasca fosse sopravvissuto da quando l’aveva conosciuto secoli prima, quando aveva giocato con i suoi membri e li aveva tormentati, e poi aveva voltato loro le spalle, impietosito dalla loro combinazione fatale d’ingenuità e di ignoranza.

Ah, il ricordo era troppo orribile. Era meglio lasciare che le sue vite passate scivolassero nell’oblio. Vedeva le facce di quei vagabondi, i monaci laici del Talamasca, che l’avevano inseguito goffamente attraverso l’Europa, avevano annotato gli avvistamenti in grandi volumi rilegati in pelle, con le penne d’oca che graffiavano i fogli fino a notte alta. Il suo nome era stato Benjamin, in quel breve intervallo di coscienza, e Benjamin il Diavolo l’avevano chiamato nell’elegante scrittura latina quando inviavano ai loro superiori ad Amsterdam epistole di pergamena dai grossi sigilli di cera.

Per lui era stato un gioco rubare le lettere e aggiungervi le sue annotazioni, spaventarli, e uscire da sotto i loro letti, la notte, afferrarli per la gola e scuoterli. Era stato divertente… e che cosa non lo era? Quando il divertimento era finito, aveva quasi perduto di nuovo la memoria.

Ma li aveva amati: non erano esorcisti, né preti cacciatori di streghe, né incantatori che speravano di incatenare e dominare il suo potere. Una volta aveva addirittura pensato che quando fosse venuto il momento di dormire avrebbe scelto le cripte sotto la loro Casa Madre. Nonostante la loro curiosità impicciona, non l’avrebbero mai tradito.

E pensare che l’ordine era sopravvissuto con la tenacia della Chiesa di Roma, e che quella graziosa mortale dal braccialetto lucente, cara a Maharet e a Mael, apparteneva alla loro specie. Non era strano che si fosse fatta largo fino alla prima fila, come se fosse arrivata ai piedi dell’altare.

Khayman si avvicinò a Mael, ma si fermò a qualche passo di distanza mentre la folla passava incessante davanti a loro. Lo fece per rispetto all’apprensione di Mael e alla vergogna che provava perché aveva paura. Fu Mael ad avvicinarsi e a fermarsi a fianco di Khayman.

La folla irrequieta passava loro accanto come se fossero un muro. Mael si tese verso Khayman, il che era a suo modo un saluto, una manifestazione di fiducia. Girò gli occhi sulla sala dove non c’erano più posti vuoti. La platea era un mosaico di colori, di capelli lucidi, di pugni levati. Poi tese la mano e toccò Khayman come se non riuscisse a trattenersi. Con la punta delle dita toccò il dorso della mano sinistra di Khayman. E Khayman restò immobile per permettere quella piccola esplorazione.

Quante volte Khayman aveva visto quel gesto fra immortali: il più giovane accertava la consistenza e la durezza della carne del più anziano. Non c’era stato anche un santo cristiano che aveva messo la mano nelle piaghe di Cristo perché non gli era bastato vederle? Questa similitudine terrena fece sorridere Khayman. Erano come due cani feroci che si studiavano a vicenda.

Molto più in basso, Armand rimase impassibile e non staccò gli occhi da loro. Sicuramente vide l’occhiata sprezzante di Mael, ma non reagì.

Khayman si voltò, abbracciò Mael e gli sorrise. Mael, tuttavia, si spaventò e Khayman provò il peso della delusione. Si scostò educatamente e per un momento rimase dolorosamente confuso. Guardò Armand, il bell’Armand che sosteneva il suo sguardo con totale passività. Ma era venuto il momento di dire ciò che doveva dire.

«Devi rendere più forte il tuo scudo, amico mio», spiegò gentilmente a Mael. «Non permettere che il tuo amore per quella ragazza ti faccia scoprire. La ragazza sarà al sicuro dalla nostra sovrana solo se reprimi il pensiero delle sue origini e della sua protettrice. Quel nome è anatema per la regina. Lo è sempre stato.»

«E dov’è la regina?» chiese Mael. La paura lo riassaliva, insieme alla collera che gli era necessaria per combatterla.

«È vicina.»

«Sì, ma dove?»

«Non sono in grado di dirlo. Ha dato fuoco alla loro taverna. Dà la caccia ai pochi vagabondi che non sono venuti qui. Procede lentamente. E io l’ho saputo tramite le menti delle sue vittime.»

Khayman lo vide rabbrividire. Vide in lui cambiamenti sottili che tradivano una collera sempre crescente. Bene. La paura si consumava nel calore della rabbia. Ma quello era un essere fondamentalmente litigioso. La sua mente non stabiliva distinzioni sofisticate.

«E perché mi dai questo avvertimento», chiese Mael, «quando lei può udire ogni parola che ci scambiamo?»

«Non credo che lo possa», rispose con calma Khayman. «Io appartengo alla Prima Stirpe, amico. Udire gli altri bevitori di sangue come udiamo i mortali… è una maledizione che appartiene solo ai lontani cugini. Non potrei leggerle nella mente neppure se fosse qui; e la mia le è inaccessibile, puoi starne certo. Era così per tutta la nostra specie durante le prime generazioni.»

Il gigante biondo era chiaramente affascinato. Dunque Maharet non poteva udire la Madre? Questo Maharet non l’aveva ammesso.

«No», disse Khayman. «E la Madre può sapere di lei solo tramite i tuoi pensieri, perciò proteggili. Ora parlami con voce umana, perché questa città è una selva di tali voci.»

Mael rifletté aggrottando la fronte. Guardò Khayman come se intendesse assalirlo.

«E questo la sconfiggerà?»

«Ricorda», disse Khayman, «che l’eccesso è il contrario dell’essenzialità.» Tornò a guardare Armand. «Colei che ode una moltitudine di voci può non udire una simile voce. E colei che intende ascoltarne una in particolare deve escludere le altre. Sei abbastanza vecchio per conoscere il trucco.»

Mael non rispose a voce alta. Ma era chiaro che comprendeva. Il dono della telepatia era sempre stato una maledizione anche per lui, sia che ad assediarlo fossero le voci dei bevitori di sangue o degli umani.

Khayman annuì. Il dono della telepatia. Erano belle parole per descrivere la follia che s’era impadronita di lui tanti eoni prima, dopo gli anni d’ascolto, gli anni in cui era rimasto a giacere immobile, coperto di polvere nei recessi profondi d’una tomba egizia dimenticata, e aveva ascoltato il pianto del mondo, senza essere conscio di se stesso e delle proprie condizioni.

«È precisamente ciò che intendo, amico mio», disse. «E per duemila anni hai lottato contro le voci mentre è possibile che la nostra regina ne sia stata sommersa. Sembra che il vampiro Lestat abbia gridato più forte di questo chiasso; per così dire, ha schioccato le dita all’angolo del suo occhio e ha attirato la sua attenzione. Ma non sopravvalutare l’essere che è rimasto immobile per tanto tempo. Non è utile farlo.»

Quelle idee sorpresero Mael: ma ne comprendeva la logica. Armand, intanto, restava attento.

«Non può fare tutto», disse Khayman. «Lo sappia o no. Si è sempre protesa verso le stelle e poi se ne è ritratta come se ne avesse orrore.»

«Come?» disse Mael. Si avvicinò, emozionato. «Com’è veramente?» mormorò.

«Era piena di sogni e di grandi ideali. Era come Lestat.» Khayman scrollò le spalle. «Il biondo che vorrebbe essere buono e compiere il bene e attirare a sé i devoti bisognosi.»

Mael sorrise, freddamente, cinicamente.

«Ma in nome dell’inferno, cosa intende fare la regina?» chiese. «Dunque lui l’ha destata con le sue canzoni abominevoli. Perché lei ci annienta?»

«Uno scopo c’è, puoi esserne certo. Per la nostra regina deve esserci uno scopo. Non saprebbe fare la più piccola delle cose senza uno scopo grandioso. E devi sapere che in realtà non cambiamo con il passare del tempo; siamo come fiori che si schiudono; ci limitiamo a diventare più simili a noi stessi.» Khayman guardò di nuovo Armand. «In quanto al suo scopo, posso soltanto fare qualche ipotesi.»

«Sì, dimmi.»

«Il concerto avrà luogo perché lo vuole Lestat. E quando sarà finito, la regina sterminerà altri della nostra specie. Ma ne lascerà alcuni che serviranno al suo scopo, forse come testimoni.»

Khayman guardava Armand. Il viso privo d’espressione irradiava saggezza, mentre quello tormentato e stanco di Mael non la rivelava. E chi poteva dire quale dei due comprendeva di più? Mael proruppe in una breve risata amara.

«Testimoni?» disse Mael. «Non credo. La ritengo più rozza. Risparmia coloro che Lestat ama: è molto semplice.»

Khayman non aveva pensato a quella possibilità.

«Ah, sì, rifletti», disse Mael nello stesso inglese dalla pronuncia secca. «Louis, il compagno di Lestat. Non è vivo? E Gabrielle, la madre del demonio, è vicina e attende di incontrarsi con il figlio non appena sarà opportuno. E Armand, quello laggiù che stai guardando… sembra che Lestat voglia rivederlo e perciò è vivo; e il reietto che sta con lui, quello che ha pubblicato il libro maledetto e che gli altri farebbero a pezzi se immaginassero…»

«No, c’è qualcosa di più. Deve esserci», disse Khayman. «Vi sono alcuni di noi che la regina non può uccidere. E coloro che ora stanno andando da Marius… Lestat non sa nulla di loro, se non i nomi.»

Il volto di Mael cambiò leggermente, arrossì. I suoi occhi si socchiusero. Per Khayman era chiaro che Mael avrebbe voluto raggiungere Marius, se avesse potuto. Sarebbe andato quella notte stessa, se Maharet fosse venuta a proteggere Jessica. Ora cercava di bandire il nome di Maharet dai suoi pensieri. Aveva paura di lei.

«Ah, sì, tu cerchi di nascondere ciò che sai», disse Khayman. «Ed è quanto mi devi rivelare.»

«Ma non posso», disse Mael. Il muro s’era innalzato, impenetrabile. «A me non vengono date risposte ma soltanto ordini, amico mio. E la mia missione è sopravvivere a questa notte e portar via da qui, sana e salva, colei che mi è stata affidata.»

Khayman avrebbe voluto insistere, chiedere. Ma non lo fece. Aveva percepito un sottile cambiamento nell’atmosfera, un cambiamento così insignificante e tuttavia così puro che non poteva chiamarlo movimento o suono.

Lei stava per giungere. Si avvicinava all’auditorium. Khayman si sentì allontanare dal proprio corpo per ascoltare: sì, era lei. Tutti i suoni della notte si levavano per confonderlo, tuttavia lo captò: un suono sordo e irriducibile che lei non poteva velare, il suono del suo respiro, del battito del suo cuore, di una forza che si muoveva nello spazio a una velocità immane e innaturale, e causava un tumulto inevitabile tra il visibile e l’invisibile.

Mael lo sentì, e lo sentì anche Armand. Persino il giovane a fianco di Armand l’udì, anche se molti altri giovani non lo percepirono. Persino alcuni dei mortali più sensibili parevano avvertirlo ed erano turbati.

«Devo andare, amico», disse Khayman. «Ricorda il mio consiglio.» Per il momento era impossibile dire altro.

Lei era vicinissima. Senza dubbio scrutava e ascoltava.

Khayman provò il primo impulso irresistibile di vederla, di scrutare le menti delle anime infelici che, là fuori nella notte, potevano averla veduta.

«Addio, amico», disse. «Non è bene per me starti vicino.»

Mael lo guardò confuso, e più in basso Armand accostò a sé Daniel e si avviò verso il margine della folla.

All’improvviso il buio scese nell’auditorium e per una frazione di secondo Khayman pensò che fosse la magia della regina e che stesse per compiersi un giudizio vendicativo e grottesco.

Ma i giovani mortali intorno a lui conoscevano il rituale. Stava per incominciare il concerto. Si scatenò una tempesta di grida e di acclamazioni e di piedi battuti sul pavimento. Divenne un grande ruggito collettivo. Si sentiva tremare l’auditorium.

Apparvero fiamme minuscole, quando i mortali accesero i fiammiferi e gli accendini. E un’illuminazione sonnolenta rivelò di nuovo le migliaia e migliaia di forme in movimento. Le urla erano un coro che l’attorniava.

«Non sono un vigliacco», bisbigliò all’improvviso Mael, come se non potesse restare in silenzio. Afferrò il braccio di Khayman, quindi lo lasciò come se la consistenza lo ripugnasse.

«Lo so», disse Khayman.

«Aiutami. Aiuta Jessica.»

«Non pronunciare più il suo nome. Stalle lontano come ti ho detto. Sei di nuovo vinto, druido. Ricordi? È il momento di combattere con l’astuzia, non con la rabbia. Rimani con il gregge dei mortali. Ti aiuterò se e quando potrò.»

C’erano tante altre cose che desiderava dire! Rivelami dov’è Maharet! Ma ormai era troppo tardi. Si voltò e si avviò a passo svelto lungo la corsia sino a quando arrivò a un punto al di sopra di una lunga scala di cemento.

Sotto di lui, sul palcoscenico buio, apparvero i musicisti mortali, che correvano tra cavi e altoparlanti per prendere gli strumenti dal pavimento.

Il vampiro Lestat, avvolto nel mantello nero, oltrepassò il sipario e si portò nella parte anteriore del palcoscenico. Si fermò a meno di un metro da Jesse con il microfono in mano.

Il pubblico era in estasi. Applaudiva, fischiava, ululava: Khayman non aveva mai udito un simile frastuono. Rise involontariamente di quella stupida frenesia, della minuscola figura sorridente che se ne entusiasmava e rideva come rideva Khayman.

Poi in un grande lampo bianco la luce inondò il palcoscenico. Khayman guardava non già le minuscole figure che si pavoneggiavano, ma il gigantesco teleschermo che saliva dietro di loro fino al tetto. L’immagine vivente del vampiro Lestat, alta nove metri, sfolgorava davanti a Khayman. L’essere sorrise: alzò le braccia e scosse la criniera bionda, rovesciò all’indietro la testa e ululò.

La folla era in piedi, delirante; l’intero edifìcio rombava, ma era l’ululato che riempiva tutti gli orecchi. La voce potente del vampiro Lestat sovrastava ogni altro suono nell’auditorium.

Khayman chiuse gli occhi. Nel cuore del grido mostruoso del vampiro Lestat, si mise di nuovo in ascolto cercando il suono della Madre: ma non lo sentì più.

«Mia regina», mormorò, per quanto fosse inutile. Lei stava su un pendio erboso e ascoltava la musica del suo trovatore? Khayman sentì il vento lieve e umido, vide il cielo grigio privo di stelle, come i mortali sentivano e vedevano quelle cose. Le luci di San Francisco, le colline scintillanti e le torri, erano i fari della notte urbana e all’improvviso apparivano terribili come la luna e la deriva delle galassie.

Chiuse gli occhi. La rivide come nella strada di Atene, mentre guardava bruciare la taverna con dentro i suoi figli; il manto lacero le pendeva dalle spalle, e il cappuccio lasciava scoperti i capelli intrecciati. Ah, sembrava la Regina del Cielo, così come un tempo aveva amato essere chiamata. I suoi occhi erano fulgidi e vuoti nella luce elettrica, la bocca tenera, innocente. La dolcezza del viso l’aveva resa infinitamente bella.

La visione lo trasportò molto più indietro attraverso i secoli, a un momento spaventoso quando lui, uomo mortale, era venuto con il cuore in gola ad ascoltare la sua volontà. La regina, ormai maledetta e consacrata alla luna, con il demone che dentro di lei reclamava il sangue… la regina non tollerava di avere vicino neppure le lampade. Era agitata e camminava avanti e indietro sul pavimento di argilla. Intorno a lei le pareti erano popolate di silenziose sentinelle dipinte.

«Le gemelle», aveva detto, «le sorelle malefiche hanno pronunciato parole terribili e abominevoli.»

«Abbi pietà», l’aveva supplicata Khayman. «Non intendevano far del male. Ti giuro che hanno detto tutta la verità. Lasciale andare, lasciale di nuovo libere, mia sovrana. Non possono cambiare nulla.»

Ah, quanta compassione aveva provato per tutte… le gemelle e la sovrana.

«Ah, ma vedi, è necessario mettere alla prova le loro menzogne ributtanti», aveva detto la regina. «Devi venire più vicino, mio devoto maestro di palazzo, che mi hai sempre servito con tanta fedeltà…»

«Mia regina, mia amata regina, cosa vuoi da me?»

E con la stessa amabile espressione, lei aveva alzato le mani gelide per toccargli la gola, l’aveva stretto all’improvviso con una forza terrificante. Inorridito, Khayman aveva visto gli occhi diventare vitrei, la bocca aprirsi. Aveva visto le minuscole zanne quando lei s’era alzata in punta di piedi con la grazia bizzarra di un incubo. No. Non vorrai far questo a me! Mia regina, io sono Khayman!

Avrebbe dovuto perire ormai da molto tempo, com’era avvenuto in seguito a tanti bevitori di sangue. Sparito senza lasciar traccia, come le moltitudini senza nome dissolte nella terra di tutte le nazioni. Ma non era perito. E le gemelle erano ugualmente sopravvissute… o almeno era sopravvissuta una di loro.

Lei lo sapeva? Conosceva quei sogni terribili? Erano giunti a lei dalle menti di tutti gli altri che li avevano ricevuti? Oppure aveva vagato nella notte intorno al mondo, senza sogni e senza requie, impegnata in un unico compito, fin dalla sua resurrezione?

Vivono, mia regina, vivono in una se non in entrambe. Ricorda l’antica profezia! Se almeno lei avesse potuto udire la sua voce!

Aprì gli occhi. Era tornato al presente, alla cosa calcificata che era il suo corpo. E la musica lo saturava con un ritmo implacabile. Gli martellava negli orecchi. Le luci lampeggianti lo accecavano.

Voltò le spalle e appoggiò la mano al muro. Non era mai stato travolto in quel modo dal suono. Sentiva di perdere i sensi; ma la voce di Lestat lo richiamava.

Con gli occhi riparati dalle dita, Khayman guardò l’abbagliante riquadro bianco del palcoscenico. Guarda il diavolo che balla e canta con una gioia così evidente. Khayman si sentiva toccare il cuore, nonostante tutto.

La potente voce tenorile di Lestat non aveva bisogno dell’amplificazione elettronica. E persino gli immortali smarriti tra le loro prede cantavano con lui: la passione era contagiosa. Dovunque guardasse, Khayman li vedeva conquistati, mortali e immortali: i corpi si agitavano allo stesso ritmo delle figure sul palcoscenico. Le voci s’innalzavano, l’auditorium era scosso da un’ondata di movimento dopo l’altra.

La faccia gigantesca di Lestat si espandeva sul teleschermo mentre l’obiettivo si avvicinava. Gli occhi azzurri fissarono Khayman e ammiccarono.

«perché non mi uccidete? sapete cosa sono!»

La risata di Lestat s’innalzava più forte del grido vibrante delle chitarre.

«non riconoscete il male quando lo vedete?»

Ah, quella fede nel bene, nell’eroismo. Khayman la vedeva persino negli occhi dell’essere, un’ombra grigia di tragica necessità. Lestat rovesciò la testa e ruggì di nuovo; pestò i piedi e ululò, guardò le travi come se fossero il firmamento.

Khayman s’impose di muoversi. Doveva fuggire. Goffamente, si diresse alla porta come se fosse soffocato dal suono assordante. Persino il suo senso dell’equilibrio ne risentiva. La musica fragorosa lo seguì nel vano della scala; ma almeno era al riparo dalle luci lampeggianti. Si appoggiò al muro e cercò di schiarirsi la vista.

Odore di sangue. La fame di tutti i bevitori di sangue nella sala. E il palpito della musica nel legno e nell’intonaco.

Scese i gradini, senza sentire i propri passi sul cemento, e alla fine si lasciò cadere su un pianerottolo deserto. Si cinse le ginocchia con le braccia e chinò la testa.

La musica era come quella di un tempo, quando tutti i canti erano canti del corpo e i canti della mente non erano stati ancora inventati.

Khayman vide se stesso danzare; vide il re, il re mortale che aveva tanto amato, piroettare e spiccare balzi in aria; udì il rullo dei tamburi, il suono dei flauti. Il re gli metteva una birra nella mano. Il tavolo vacillava sotto il carico di selvaggina arrostita e di pagnotte. La regina stava sul trono d’oro, immacolata e serena, una donna mortale con un minuscolo cono di cera profumata nell’acconciatura, che si scioglieva lentamente nel calore e diffondeva la sua fragranza tra i capelli intrecciati.

Poi qualcuno gli aveva messo nella mano la bara, la bara minuscola che veniva fatta passare tra coloro che banchettavano. Il monito: Mangiate e bevete perché la morte ci attende tutti. La strinse nella mano: ora doveva passarla al re? All’improvviso sentì le labbra del re sul suo volto. «Danza, Khayman. Bevi. Domani marceremo al nord per sterminare i mangiatori di carne.»

Il re non guardò neppure la minuscola bara mentre la prendeva. La passò nella mano della regina e, senza guardarla, lei la diede a un altro.

Gli ultimi mangiatori di carne. Era parso tutto semplice, tutto giusto. Finché non aveva visto le gemelle inginocchiate davanti all’altare.

Il rullo dei tamburi soffocava la voce di Lestat. I mortali passavano accanto a Khayman, e notavano a malapena la sua presenza. Un bevitore di sangue lo sfiorò correndo senza badargli.

La voce di Lestat si levò di nuovo: cantava i Figli delle Tenebre, nascosti sotto il cimitero degli Innocenti, nella superstizione e nella paura.

Nella luce

Siamo venuti,

Miei fratelli e Sorelle!

uccideteci!

Miei Fratelli e Sorelle!

Khayman si alzò, torpidamente. Barcollava ma continuò a muoversi, scese fino a quando arrivò nell’atrio dove il fragore era attutito, e si fermò a riposare di fronte alle porte interne, in una corrente di aria pura.

Stava ritrovando la calma, lentamente, quando si accorse che due mortali s’erano fermati vicino a lui e lo fissavano mentre stava appoggiato al muro con le mani in tasca e la testa reclinata.

All’improvviso si vide come loro lo vedevano. Percepì la loro apprensione, mista a un senso insopprimibile di vittoria. Erano uomini che conoscevano la sua specie, e avevano vissuto per un momento come quello e tuttavia lo temevano e non l’avevano mai desiderato veramente.

Alzò lo sguardo. Stavano a circa sei metri da lui, accanto al chiosco affollato, come se potesse nasconderli. Erano veri gentiluomini inglesi. Anziani, colti, con i volti profondamente segnati e l’abbigliamento corretto. Erano del tutto fuori posto, là, con i bei cappotti grigi, i colletti inamidati, le cravatte di seta. Sembravano esploratori venuti da un altro mondo, in mezzo ai giovani sgargianti che si muovevano irrequieti e sguazzavano nel fracasso barbarico e nel vociare spezzato.

E lo guardavano con una reticenza naturale, come se fossero troppo educati per aver paura. Erano anziani del Talamasca e cercavano Jessica.

Ci conoscete? Sì, naturalmente. Non è nulla di male. Non ha nessuna importanza.

Le sue parole silenziose fecero indietreggiare d’un passo quello che si chiamava David Talbot. Il respiro divenne più frettoloso, un velo di sudore gli spuntò sulla fronte e sul labbro superiore. Eppure, che compostezza elegante. David Talbot socchiuse gli occhi come se non volesse farsi abbagliare da ciò che vedeva; come se scorgesse le minuscole molecole che danzavano nella luce.

Come sembrava breve all’improvviso la durata di una vita umana: di fronte a quell’uomo fragile, per il quale l’istruzione e la raffinatezza hanno aggravato tutti i rischi. È così semplice alterare la trama del suo pensiero, delle sue attese. Khayman doveva dir loro dov’era Jesse? Doveva intromettersi? Tutto sommato non sarebbe cambiato nulla.

Intuiva che avevano paura di andarsene e di restare, e che li aveva bloccati, come se li avesse ipnotizzati. In un certo senso era il rispetto che li tratteneva li a guardarlo. Sembrava che dovesse offrire qualcosa, se non altro per porre fine a quell’attenzione sgradevole.

Non andate da lei. Sareste pazzi se lo faceste. Adesso lei ha altri come me che la proteggono. È meglio che ve ne andiate, lo lo farei, al vostro posto.

E adesso, che figura avrebbe fatto tutto ciò negli archivi del Talamasca? Una notte avrebbe potuto scoprirlo. In quali luoghi moderni avevano trasferito i vecchi documenti e i loro tesori?

Benjamin, il Diavolo. Ecco chi sono. Non mi riconoscete? Sorrise tra sé. Abbassò la testa e fissò il pavimento. Non aveva mai saputo di possedere quella vanità. E all’improvviso non gli interessava più ciò che significava per loro quel momento.

Pensò ai tempi andati, in Francia, quando aveva giocato con loro. «Permetteteci di parlarvi!» l’avevano implorato. Eruditi polverosi dagli occhi sbiaditi, perpetuamente cerchiati di rosso, e dai lisi indumenti di velluto, così diversi da quei due gentiluomini, per i quali l’occulto era una questione di scienza, non di filosofia. La disperazione di quel tempo lo atterrì all’improvviso; la disperazione del presente era altrettanto spaventosa.

Andate via.

Senza alzare la testa, vide che David Talbot aveva annuito. Educatamente, si ritirò con il suo compagno. Si guardarono alle spalle, poi si affrettarono ad avviarsi lungo la curva del vestibolo e nella sala del concerto.

Khayman era di nuovo solo, con il ritmo della musica che giungeva dalla porta; era solo e si chiedeva perché era venuto lì, e che cosa voleva; desiderava poter dimenticare ancora, desiderava essere in un luogo bellissimo pieno di brezze tiepide e di mortali che non sapevano cos’era, e palpitanti lampadine elettriche sotto le nubi sbiadite, e i piatti, interminabili marciapiedi della città da percorrere fino al mattino.

Jesse

«Lasciami in pace, figlio di puttana!» Jesse sferrò un calcio all’uomo che le stava vicino, l’uomo che le aveva passato il braccio intorno alla vita e l’aveva scostata dal palcoscenico. «Bastardo!» Piegato in due per il dolore al piede, non era in grado di resistere al suo spintone improvviso. Cadde.

Per cinque volte l’avevano trascinata via dal palcoscenico. Si chinò e si fece largo tra il gruppetto che aveva preso il suo posto, scivolando contro gli indumenti di pelle nera come se fosse un pesce, e si afferrò al bordo di legno grezzo. Con una mano strinse la robusta stoffa sintetica che lo decorava e l’attorse come una fune.

Nelle luci lampeggianti, vide il vampiro Lestat spiccare un gran balzo in aria e ricadere senza un suono, mentre la voce saliva di nuovo senza bisogno del microfono per riempire l’auditorium; i suoi chitarristi danzavano intorno a lui come folletti.

Il sangue gli scorreva in rivoletti minuscoli sul volto bianco, come dalla corona di spine di Cristo, i lunghi capelli biondi ondeggiavano mentre girava su se stesso, si strappava la camicia sul petto, faceva cadere la cravatta nera. Gli occhi celesti e cristallini erano vitrei e iniettati di sangue mentre urlava i versi delle canzoni.

Jesse sentì che il suo cuore riprendeva a battere mentre guardava il movimento dei fianchi, i neri pantaloni attillati che rivelavano? la muscolatura possente delle cosce. Lestat spiccò un altro balzo, sollevandosi senza sforzo come se volesse ascendere fino al soffitto della sala.

Sì, lo vedi, e non c’è possibilità d’errore! Non ci sono altre spiegazioni!

Jesse si asciugò il naso. Aveva ricominciato a piangere. Ma toccalo, accidenti, devi toccarlo! Stordita, lo guardò finire la canzone e battere il piede alle ultime note risonanti, mentre i musicisti danzavano avanti e indietro e scrollavano i capelli, e le loro voci si smarrivano nella sua, mentre cercavano di reggere il ritmo.

Dio, come gli piaceva! Non fingeva affatto. Era immerso nell’adorazione, e la beveva come fosse sangue.

Poi, mentre si lanciava nell’inizio frenetico di un’altra canzone, si strappò il mantello di velluto nero, lo roteò nell’aria e lo fece volare in mezzo al pubblico. La folla ululò e ondeggiò. Jesse sentì un ginocchio contro la schiena, uno stivale che le scalfiva il calcagno: ma quella era la sua occasione mentre le guardie balzavano dal palcoscenico per fermare la mischia.

Premette entrambe le mani sul bordo di legno, spiccò un salto, si issò e si alzò in piedi. Corse verso la figura danzante che adesso, all’improvviso, la guardava.

«Sì, tu! Tu!» gridò Jesse. Con la coda dell’occhio scorse la guardia che si avvicinava. Si avventò con tutto il suo peso contro il vampiro Lestat. Chiuse gli occhi e gli cinse la vita con le braccia. Sentì il freddo choc del torace serico contro il viso e sentì il sangue sulle labbra!

«Oh, Dio, è reale!» mormorò. Il cuore stava per scoppiarle, ma resistette. Sì, la pelle di Mael, come quella, e la pelle di Maharet, come quella, e come quella di tutti gli altri. Sì, così! Reale, non umano. Sempre. Ed era fra le sue braccia: ora sapeva ed era troppo tardi perché potessero fermarla!

Alzò la mano sinistra, gli afferrò una ciocca di capelli; e quando aprì gli occhi vide che le sorrideva, vide la lucida pelle bianca senza pori, le zanne minuscole.

«Diavolo!» mormorò. Rideva come una pazza, piangeva e rideva.

«Ti amo, Jessica», mormorò lui, e le sorrise come se la provocasse, mentre i capelli biondi gli spiovevano sugli occhi.

Sbalordita, Jesse sentì il braccio che la cingeva. Poi Lestat la sollevò sul fianco e la fece girare in cerchio. I musicisti urlanti divennero una visione confusa; le luci erano strisce violente bianche e rosse. Jesse gemeva, ma continuava a guardarlo, a guardargli gli occhi, sì, era reale. Si aggrappò disperatamente perché sembrava che intendesse scagliarla nell’aria, sopra le teste degli spettatori. E poi, quando la posò e chinò la testa, con i capelli che gli spiovevano sulla guancia, Jesse sentì la bocca chiudersi sulla sua.

La musica martellante si affievolì com’e se fosse sprofondata nel mare. Lo sentiva respirare in lei, sospirare contro di lei, sentiva le dita lisce che le toccavano il collo. Gli premeva il seno contro il battito del cuore; e una voce le parlava, una voce pura, come un’altra voce aveva fatto molto tempo prima, una voce che la conosceva e comprendeva i suoi interrogativi e sapeva come dovevano trovare una risposta.

Il male, Jesse. Come tu hai sempre saputo.

Qualcuno la tirava indietro. Mani umane. La stavano separando da lui. Urlò.

Lestat la guardò, frastornato. Stava frugando in profondità nei propri sogni in cerca di qualcosa che ricordava solo vagamente. Il banchetto funebre; le gemelle dai capelli rossi inginocchiate ai lati dell’altare. Ma fu una frazione di secondo, non di più; poi svanì. Era sconcertato. Il sorriso balenò di nuovo, impersonale come una delle luci che l’accecavano di continuo. «Bella Jesse!» le disse, e alzò la mano come in un gesto d’addio. La stavano trascinando indietro, lontano da lui, fuori dal palcoscenico.

Jesse rideva mentre la posavano.

La camicetta bianca era macchiata di sangue. Le sue mani erano coperte di pallide striature di sangue salato. Sapeva di conoscerne il sapore. Rovesciò la testa all’indietro e rise; ed era così strano non poter udire, ma soltanto percepire il fremito che la scuoteva, e la certezza che stava piangendo e ridendo nello stesso tempo. La guardia le disse qualcosa, brusco e minaccioso. Ma non aveva più importanza.

La folla l’aveva ripresa. L’inghiottì turbinandole intorno e cacciandola dal centro. Una scarpa pesante le calpestò il piede destro. Inciampò, si voltò e si lasciò spingere verso la porta.

Non aveva più importanza. Sapeva. Sapeva tutto. Le girava la testa. Non sarebbe rimasta ritta se non fosse stato per le spalle che la urtavano. E non aveva mai provato un abbandono tanto meraviglioso. Non s’era mai sentita così libera.

La folle musica cacofonica continuava. Le facce apparivano e sparivano in un’onda di luce colorata. Sentiva l’odore della marijuana, della birra. Sete. Sì, qualcosa di fresco da bere. Qualcosa di fresco. Tanta sete. Alzò di nuovo la mano e leccò il sangue salato. Tremò e vibrò, come le accadeva spesso sulla soglia del sonno. Un tremore delizioso che preannunciava i sogni. Leccò di nuovo il sangue e chiuse gli occhi.

All’improvviso sentì d’essere in un luogo aperto. Nessuno la spingeva. Alzò la testa e vide che era arrivata alla porta, alla rampa che conduceva nell’atrio sottostante. La folla era dietro di lei, sopra di lei. Poteva riposare. Andava tutto bene.

Passò la mano sul muro untuoso, calpestò la distesa di bicchieri di carta, una parrucca caduta con i riccioli gialli. Reclinò la testa all’indietro e riposò, con la luce cruda dell’atrio che le batteva sugli occhi. Aveva sulla punta della lingua il sapore del sangue. Le sembrava d’essere sul punto di piangere di nuovo, ed era bellissimo. Per il momento non c’erano passato e presente, non c’erano necessità, e tutto il mondo era cambiato, dalle cose più semplici alle più grandi. Fluttuava al centro del più seducente stato di pace e di accettazione che avesse mai conosciuto. Oh, se avesse potuto dirlo a David, se avesse potuto spartire con altri quel grande, travolgente segreto…

Qualcosa la toccò. Qualcosa di ostile. Si voltò, riluttante, e scorse una figura massiccia al suo fianco. Che cos’era? Si sforzò di vederla chiaramente.

Arti ossuti, capelli neri pettinati all’indietro, tinta rossa sulla bocca contorta, ma la pelle, la stessa pelle. E le zanne. Non era umano. Uno di loro!

Talamasca?

Le giunse come un sibilo. La colpì al petto. Alzò istintivamente le braccia, le incrociò sul seno stringendosi le spalle.

Talamasca?

Era silenzioso, e tuttavia assordante, carico di rabbia.

Jesse cercò di indietreggiare ma la mano l’afferrò, le dita le affondarono nel collo. Cercò di urlare mentre si sentiva sollevare di peso.

E poi volò attraverso l’atrio e urlò e urlò fino a che battè la testa contro il muro.

Tenebra. Vide la sofferenza, un lampo giallo e poi bianco che dilagava nella spina dorsale e si diffondeva negli arti in un milione di ramificazioni. Il suo corpo s’intorpidì. Finì sul pavimento con un altro colpo doloroso al volto e alle palme delle mani, poi rotolò sul dorso.

Non vedeva nulla. Forse aveva gli occhi chiusi; ma la cosa strana era che, se erano chiusi, non riusciva ad aprirli. Sentiva le voci, la gente che gridava. Risuonò un fischio… o forse era il clangore d’una campana. C’era un rumore tonante, ma era la folla che applaudiva in sala. Intorno a lei, la gente discuteva.

Qualcuno, molto vicino, disse: «Non toccatela. Ha il collo spezzato!»

Spezzato? Si può vivere con il collo rotto?

Qualcuno le appoggiò la mano sulla fronte. Ma la sentiva solo come un formicolio, come se avesse freddo e camminasse nella neve e ogni vera sensazione l’avesse abbandonata. Non ci vedo.

«Ascolta, tesoro.» La voce di un giovane, una di quelle voci che si potevano sentire a Boston o a New Orleans o a New York. Un vigile del fuoco, un poliziotto, un soccorritore. «Pensiamo a tutto noi, tesoro. Sta arrivando l’ambulanza. Resta immobile, tesoro, non preoccuparti.»

Qualcuno le toccava il seno. No, le prendeva i documenti dalla tasca. Jessica Miriam Reeves. Sì.

Stava a fianco di Maharet e guardavano la mappa gigantesca con tante luci minuscole. E comprese. Jesse nata da Miriam, che era nata da Alice, che era nata da Carlotta, che era nata da Jane Marie, che era nata da Anne, che era nata da Janet Belle, che era nata da Elizabeth, che era nata da Louise, che era nata da Frances, che era nata da Frieda, che era nata da…

«Scusate, per favore, siamo suoi amici…»

David.

La sollevarono. Jesse sentì la propria voce urlare, ma non ne aveva avuto intenzione. Vedeva di nuovo la mappa e il grande albero genealogico pieno di nomi. Frieda nata da Dagmar, nata da…

«Piano, piano! Accidenti!»

L’aria cambiò; diventò fresca e umida. Jesse sentì la brezza sul volto; poi le sensazioni abbandonarono completamente le mani e i piedi. Sentiva le palpebre, ma non riusciva a muoverle.

Maharet le parlava. «… dalla Palestina in Mesopotamia, e poi lentamente attraverso l’Asia Minore e in Russia e quindi nell’Europa orientale. Capisci?»

Era un carro funebre o un’ambulanza, e sembrava troppo silenzioso per essere un’ambulanza: la sirena, per quanto incessante, era troppo lontana. Cos’era accaduto a David? Non avrebbe dovuto lasciarla andare a meno che fosse morta. Ma com’era possibile che David fosse lì? Le aveva detto che nulla al momento avrebbe potuto indurlo a venire. David non c’era. Doveva averlo immaginato. E la cosa strana era che non c’era neppure Miriam. «Santa Maria, madre di Dio… adesso e nell’ora della nostra morte…»

Ascoltò. Correvano attraverso la città. Sentì che svoltavano all’angolo; ma dov’era il suo corpo? Non lo sentiva. Il collo rotto. Sicuramente voleva dire che era morta.

Cos’era la luce che scorgeva attraverso la giungla? Un fiume? Sembrava troppo ampio per essere un fiume. Come attraversarlo? Ma non era Jesse che camminava nella giungla e lungo la riva. Era un’altra. Tuttavia vedeva le mani protese davanti a lei; per scostare le liane e le fronde afflosciate, come se fossero le sue mani. Quando abbassava lo sguardo vedeva i capelli rossi, le lunghe ciocche rosse e ricciute, piene di frammenti di foglie e di terriccio…

«Mi senti, tesoro? Avremo cura di te. I tuoi amici sono nella macchina che ci segue. Non preoccuparti.»

L’uomo diceva altre cose. Ma lei aveva perso il filo. Non poteva udirlo; sentiva soltanto il tono premuroso. Perché era così addolorato per lei? Non la conosceva neppure. Capiva che non era suo, il sangue sulla camicetta? Sulle mani? Colpevole. Lestat aveva cercato di dirle che era il male, ma per lei era stato così privo d’importanza, così impossibile da porre in relazione con il tutto. Non era che non si curasse del bene e del giusto; ma per il momento questo era più grande. Sapere. E lui aveva parlato come se fosse destinata a fare qualcosa, mentre non aveva avuto intenzione di far nulla.

Perciò, probabilmente, le andava bene morire. Se almeno Maharet avesse compreso. E pensare che David era con lei, sulla macchina che li seguiva. David conosceva in parte la storia, comunque, e dovevano avere un fascicolo intestato a lei: Reeves, Jessica. E sarebbe stato un altro documento. «Una dei nostri devoti membri, indubbiamente come risultato di… pericolosissimo… in nessuna circostanza deve tentare un avvistamento…»

La muovevano di nuovo. Di nuovo l’aria fresca, e odore di benzina e d’etere. Sapeva che oltre lo stordimento e la tenebra c’era una sofferenza terribile, ed era meglio restare immobile e non cercare di andare al di là. Era meglio lasciare che la portassero, che spingessero la barella a ruote lungo il corridoio.

Qualcuno piangeva. Una bambina.

«Mi senti, Jessica? Voglio farti sapere che sei all’ospedale e che stiamo facendo per te tutto il possibile. I tuoi amici sono fuori, David Talbot e Aaron Lightner. Abbiamo detto loro che devi restare immobile…»

Naturalmente, quando hai il collo rotto sei morta, oppure muori se ti muovi. Ecco. Anni prima, in un ospedale aveva visto una bambina con il collo rotto. Ora ricordava. La bambina era legata a un’enorme intelaiatura di alluminio. Ogni tanto un’infermiera muoveva l’intelaiatura per cambiare la posizione della bambina. Lo farete anche a me?

L’uomo aveva ripreso a parlare ma questa volta era più lontano. Jesse affrettò il passo per avvicinarsi e per sentire. E stava dicendo…

«… naturalmente possiamo fare tutto questo, possiamo fare le analisi, naturalmente, ma dovete capire quel che sto dicendo, non ci sono speranze. L’occipite è completamente schiacciato. Si può vedere il cervello. E la lesione cerebrale è enorme. Tra poche ore il cervello comincerà a gonfiarsi, ammesso che ci rimangano quelle ore…»

Bastardo, mi hai ucciso. Mi hai scagliato contro il muro. Se potessi muovere qualcosa… le palpebre, le labbra. Ma sono prigioniera qui dentro. Non ho più un corpo, eppure sono prigioniera qui dentro! Quand’ero piccola pensavo che la morte sarebbe stata così. Sei prigioniero dentro la tua testa, nella tomba, senza occhi per vedere e senza bocca per urlare. E sarebbero passati anni e anni.

Oppure vagavi nel regno del crepuscolo con i pallidi fantasmi, credendo di essere vivo mentre in realtà eri morto. Buon Dio, devo sapere quando sono morta! Devo sapere quando è cominciato!

Le sue labbra. C’era una sensazione vaghissima. Qualcosa di umido e caldo. Qualcosa che le schiudeva le labbra. Ma qui non c’è nessuno, vero? Erano nel corridoio e la stanza era vuota. L’avrebbe saputo, se ci fosse stato qualcuno. Eppure sentiva il sapore del liquido caldo che le fluiva nella bocca.

Che cos’è?

Che cosa mi dai?

Non voglio perdere i sensi.

Dormi, carissima.

Non voglio.

Voglio sentire quando muoio.

Voglio saperlo!

Ma il liquido le riempiva la bocca, e lei inghiottiva. I muscoli della gola erano vivi. Delizioso, quel sapore salato. Lo conosceva! Conosceva quella meravigliosa sensazione formicolante. Succhiò più forte. Sentì la pelle del viso riprendere vita, e l’aria fremere intorno a lei. Sentì la brezza alitare nella stanza. Un tepore magnifico le scorreva lungo la spina dorsale, si diffondeva nelle gambe e nelle braccia, seguiva lo stesso percorso che aveva preso la sofferenza, e gli arti ritrovavano la sensibilità. Dormi, carissima.

Sentiva un formicolio alla nuca, un formicolio che si diffondeva fra le radici dei capelli.

Aveva le ginocchia doloranti, ma le gambe non erano lese: avrebbe potuto camminare di nuovo. E sentiva il lenzuolo sotto la mano. Avrebbe voluto alzare il braccio ma era troppo presto, era troppo presto per muoversi. Poi la sollevavano, la trasportavano.

E adesso era meglio dormire. Perché se quella era la morte… ecco, andava bene così. Udiva appena le voci, gli uomini che discutevano, minacciavano. Ma non aveva importanza. Le sembrava che David la chiamasse. Ma cosa voleva David da lei? Voleva che morisse. Il dottore minacciava di chiamare la polizia. La polizia non poteva far nulla, ormai. Era quasi ridicolo. Scendevano le scale. La deliziosa aria fredda. Il rumore del traffico diventò più forte. Un autobus passò rombando. Quei suoni non le erano mai piaciuti, ma erano come il vento, altrettanto puri. Si sentiva cullare di nuovo, dolcemente. Sentì la macchina partire con uno scossone improvviso, e poi lo slancio fluido. C’era Miriam, e Miriam voleva che Jesse la guardasse, ma ora Jesse era troppo stanca. «Non voglio andare, mamma.»

«Ma Jesse, ti prego. Non è troppo tardi. Puoi ancora venire.»

Sembrava che David la chiamasse. «Jessica.»

Daniel

A un certo punto, Daniel comprese. I fratelli e le sorelle dai volti bianchi avrebbero girato gli uni intorno agli altri, si sarebbero osservati e minacciati durante l’intero concerto, ma nessuno avrebbe fatto qualcosa. La legge era troppo imperativa: non lasciate le prove di ciò che siamo… niente vittime e neppure una cellula dei nostri tessuti di vampiri.

Lestat doveva essere l’unico ucciso, ed era necessario farlo con circospezione. I mortali non dovevano vedere le falci a meno che fosse inevitabile. Bisognava catturare quel bastardo mentre cercava di andarsene, quello era il piano, e smembrarlo alla presenza dei soli iniziati. A meno che opponesse resistenza, perché in quel caso avrebbe dovuto morire di fronte ai suoi fan, e il corpo avrebbe dovuto essere distrutto completamente.

Daniel rideva e rideva. Immagina Lestat che permette una cosa simile!

Daniel rideva in faccia a tutti. Pallide come orchidee, quelle anime malvagie riempivano la sala con il loro coraggio fremente, la loro invidia e la loro avidità. C’era da pensare che odiassero Lestat per un’unica ragione, la sua fiammeggiante bellezza.

Daniel si era staccato finalmente da Armand. Perché no?

Nessuno poteva fargli del male, neppure la fulgida figura di pietra che aveva visto nell’ombra, così dura e antica da sembrare il Golem della leggenda. Era così strano, l’essere di pietra che guardava la donna mortale dal collo spezzato, la donna con i capelli rossi come le gemelle del sogno. E probabilmente era stato uno stupido mortale a spezzarle il collo. E il vampiro biondo vestito di pelle di daino che si faceva largo per arrivare sulla scena… anche lui era uno spettacolo impressionante, con le vene dure turgide sul collo e sul dorso delle mani, quando aveva raggiunto la vittima. Armand aveva osservato gli uomini che portavano via la donna dai capelli rossi, aveva osservato con un’espressione insolita sul viso, come se dovesse intervenire; o forse, più semplicemente, quella specie di Golem che assisteva inerte lo induceva a diffidare. Alla fine aveva spinto di nuovo Daniel tra la folla che cantava. Ma non c’era motivo di aver paura. Era un rifugio per loro, quel luogo, quella cattedrale di suoni e di luci.

E adesso Lestat era Cristo sulla croce della cattedrale. Come descrivere la sua autorità irrazionale e travolgente? Il suo volto sarebbe apparso crudele se non avesse avuto quell’espressione puerile di estasi e di esuberanza. Agitava il pugno in aria, gridava, implorava, ruggiva contro le potenze dell’aldilà mentre cantava la propria caduta… Lelio, l’attore boulevardier trasformato in una creatura della notte contro la sua volontà!

La voce tenorile pareva abbandonare completamente il suo corpo mentre narrava le sue sconfitte, le sue resurrezioni, la sete che aveva dentro e che nessuna quantità di sangue avrebbe mai potuto placare. «Non sono forse il diavolo che c’è in voi tutti?» gridava, e non si rivolgeva ai mostri notturni sparsi tra la folla, bensì ai mortali che l’adoravano.

Persino Daniel urlava e muggiva e saltava e gridava la sua approvazione, sebbene in fondo le parole non significassero nulla: era semplicemente la forza bruta della sfida di Lestat. Lestat malediceva il cielo in nome di tutti coloro che erano sempre stati reietti, di tutti coloro che avevano conosciuto la violenza e, in preda al rimorso e alla malvagità, s’erano scagliati contro i loro simili.

A Daniel, nei momenti supremi, era parso esistesse il presagio che avrebbe trovato l’immortalità alla vigilia di quella grande Messa. Il vampiro Lestat era Dio, o almeno la cosa più simile a Dio che avesse mai conosciuto. Il gigante sul teleschermo impartiva la sua benedizione a tutto ciò che Daniel aveva desiderato.

Com’era possibile che gli altri resistessero? Sicuramente l’ardore della vittima designata la rendeva ancora più invitante. Il messaggio finale alla base dei versi di Lestat era semplice: Lestat aveva il dono che era stato promesso a tutti loro; Lestat non si poteva uccidere. Divorava la sofferenza che gli veniva imposta e ne emergeva più fotte. Unirsi a lui significava vivere in eterno:

Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue. Eppure l’odio ribolliva tra i fratelli e le sorelle vampiri. Mentre il concerto stava per concludersi, Daniel lo sentì nettamente… un odore che ascendeva dalla folla, un sibilo che si espandeva sotto il frastuono della musica.

Uccidete il dio. Fatelo a pezzi. E che gli adoratori mortali facciano ciò che hanno sempre fatto, e piangano chi era destinato a morire. «Andate, la messa è finita.»

Le luci in sala si accesero. I fan assalirono il palcoscenico, strapparono il sipario di sargia nera per inseguire i musicisti in fuga.

Armand afferrò Daniel per il braccio. «Usciamo dalla porta laterale», disse. «La nostra unica speranza è raggiungerlo al più presto possibile.»

Khayman

Fu come aveva previsto. La regina colpì i primi di coloro che lo attaccavano. Lestat era uscito dalla porta sul retro con Louis al fianco, e stava correndo per raggiungere la Porsche nera quando gli assassini si scatenarono. Sembrava che un cerchio rudimentale cercasse di chiudersi intorno a lui; ma il primo, con la falce brandita, esplose in fiamme. La folla cedette al panico, i ragazzi terrorizzati fuggirono in tutte le direzioni. Un altro aggressore immortale fu avvolto dal fuoco. Poi un altro.

Khayman indietreggiò e strisciò rasente al muro mentre i goffi umani gli correvano accanto. Vide una bevitrice di sangue, alta ed elegante, che fendeva inosservata la folla, si metteva al volante della Porsche e chiamava Louis e Lestat perché la raggiungessero. Era Gabrielle, la madre del demonio. E naturalmente il fuoco letale non la toccava. Non c’era una particella di paura nei suoi freddi occhi azzurri mentre preparava la macchina con gesti rapidi e decisi.

Lestat, intanto, girava su se stesso in preda alla rabbia. Esasperato, privato della battaglia, alla fine salì in macchina solo perché gli altri lo costrinsero.

E mentre la Porsche si avventava fra i giovani in fuga, dovunque i bevitori di sangue bruciavano. In un orrido coro silenzioso si levarono le loro grida, le loro maledizioni convulse, i loro ultimi interrogativi.

Khayman si coprì la faccia. La Porsche aveva percorso quasi metà della distanza che la separava dal cancello prima che la folla la costringesse a fermarsi. Le sirene ululavano, le voci ruggivano comandi; molti giovani erano caduti con gli arti fratturati. I mortali gridavano di dolore e di angoscia.

Raggiungi Armand, pensò Khayman. Ma a che serviva? Li vedeva ardere, dovunque guardasse, in grandi pennacchi contorti di fiamma arancio e azzurra che si mutava improvvisamente e diventava bianca quando abbandonava gli indumenti carbonizzati che cadevano a terra. Come poteva mettersi tra il fuoco e Armand? Come poteva salvare il giovane Daniel?

Alzò gli occhi verso le colline lontane e vide una figura minuscola che splendeva contro il cielo scuro, ignorata da tutti coloro che urlavano e fuggivano e invocavano aiuto intorno a lui.

All’improvviso sentì il calore; sentì che lo toccava com’era avvenuto ad Atene. Lo sentì danzare intorno alla sua faccia, sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Guardò con fermezza la minuscola fonte lontana. E poi, per qualche ragione che forse non avrebbe mai potuto comprendere, decise di non respingere il fuoco e di scoprire piuttosto che cosa poteva fargli. Ogni fibra del suo essere gli ordinava: Rimandalo! Tuttavia rimase immobile, senza pensare, mentre il sudore gli grondava addosso. Il fuoco lo circondò, lo abbracciò e infine si allontanò lasciandolo solo, raggelato e ferito più di quanto avesse mai potuto immaginare. Mormorò sommessamente una preghiera: Che le gemelle ti distruggano.

Daniel

Il fuoco! Daniel sentì il lezzo untuoso nel momento in cui vide le fiamme erompere qua e là in mezzo alla moltitudine. Che protezione offriva la folla, ormai? I fuochi erano come minuscole esplosioni, e gruppi di adolescenti frenetici cercavano barcollando di allontanarsi e correvano in cerchio, insensatamente, scontrandosi tra loro.

Il suono. Daniel lo udì di nuovo. Passava sopra di loro. Armand lo tirò indietro, contro l’edificio. Era inutile. Non potevano raggiungere Lestat. E non avevano un riparo. Armand si trascinò dietro Daniel e rientrò nell’atrio. Due vampiri terrorizzati passarono correndo oltre l’entrata, poi esplosero in minuscole conflagrazioni.

Inorridito, Daniel vide gli scheletri risplendere mentre si fondevano nel fulgore giallo. Dietro di loro, nell’auditorium deserto, una figura in fuga fu avvolta dalle stesse fiamme orribili. Si contorse e stramazzò sul cemento, e il fumo salì dagli indumenti vuoti. Sul pavimento si formò una pozzanghera di grasso che si asciugò prima che Daniel distaccasse lo sguardo.

Corsero di nuovo fuori, fra i mortali in fuga, e questa volta si diressero verso i cancelli lontani, attraverso metri e metri di asfalto.

All’improvviso si mossero così rapidi che i piedi di Daniel si staccarono dal suolo. Il mondo non era altro che una chiazza di colore. Anche le grida pietose dei fan spaventati erano protratte, smorzate. Si fermarono ai cancelli proprio mentre la Porsche nera di Lestat sfrecciava fuori dal parcheggio, passava accanto a loro e si avventava sul viale. Dopo pochi secondi era scomparsa, come un proiettile sparato a sud, verso la superstrada.

Armand non cercò di seguirla. Sembrava che neppure la vedesse. Stava accanto al cancello e guardava indietro, al di sopra della folla, al di sopra del tetto curvo dell’auditorium, verso l’orizzonte lontano, il bizzarro suono telepatico era diventato assordante: inghiottiva ogni altro suono al mondo, inghiottiva ogni sensazione.

Daniel non seppe trattenersi dal portare le mani agli orecchi, non seppe impedire che le sue ginocchia si piegassero. Sentì Armand avvicinarsi. Ma non vedeva più nulla. Sapeva che se doveva accadere, sarebbe accaduto ora; tuttavia non aveva ancora paura, non poteva credere alla propria morte. Era paralizzato dallo stupore e dalla confusione.

Il suono si dileguò gradualmente. Stordito, si accorse che la vista si schiariva; vide avvicinarsi la grande sagoma rossa di un pesante automezzo, mentre i vigili del fuoco gli gridavano di scostarsi. L’ululato delle sirene giungeva come da un altro mondo, ed era un ago invisibile che gli trafìggeva le tempie.

Armand lo stava scostando premurosamente. La gente spaventata passava accanto a loro come spinta dal vento. Si sentì cadere: ma Armand lo sorresse. Uscirono dal recinto, nella ressa calda dei mortali, guizzando fra coloro che, attraverso la rete metallica, spiavano quel caos.

Fuggivano ancora a centinaia. Le sirene, aspre e stonate, sommergevano le loro grida. Uno dopo l’altro i camion dei vigili del fuoco arrivavano rombando e avanzavano in mezzo ai mortali che si disperdevano. Ma erano rumori esili e distanti, soffocati dal suono sovrannaturale che via via recedeva. Armand si aggrappò alla rete, a occhi chiusi, la fronte contro il metallo. La recinzione fremeva, come se, al pari loro, udisse quanto avveniva.

Il suono svanì.

Scese un silenzio gelido. Il silenzio dello choc, del vuoto. Sebbene il pandemonio continuasse, non li toccava.

Erano soli. L’immagine dei mortali lentamente, in lontananza, si sgranava. E l’aria portava di nuovo le grida sovrannaturali, come carta d’argento in fiamme. Altri morti, ma dove?

Attraversò il viale a fianco di Armand. Senza fretta. S’incamminarono in una buia strada laterale, fra case di stucco sbiadite, modesti negozi e insegne al neon traballanti, calpestando i marciapiedi screpolati.

Continuarono a camminare. Intorno a loro la notte divenne fredda e silenziosa. Il suono delle sirene era remoto, quasi luttuoso.

Quando raggiunsero un grande boulevard sgargiante apparve un filobus massiccio, inondato di luce verdastra. Sembrava uno spettro che procedeva verso di loro, nel vuoto e nel silenzio. Pochi passeggeri mortali guardavano desolati dai finestrini sporchi. L’autista guidava come un sonnambulo.

Armand alzò stancamente gli occhi, come se volesse semplicemente guardarlo passare. E con grande stupore di Daniel, il filobus si fermò davanti a loro.

Salirono insieme, ignorando la cassetta per il denaro, e si lasciarono cadere seduti, fianco a fianco, sulla lunga panca. L’autista non distolse lo sguardo dal parabrezza buio. Armand si appoggiò al finestrino e fissò il pavimento di gomma nera. Era spettinato e aveva la guancia macchiata di fuliggine. Il labbro inferiore sporgeva leggermente. Assorto nei suoi pensieri, sembrava del tutto dimentico di sé.

Daniel guardò i mortali: la donna dalla faccia grinzosa e dalle labbra sottili che lo fissava irosamente; l’ubriaco senza collo che russava con il mento appoggiato al petto, e l’adolescente con i capelli lisci e le piaghe agli angoli della bocca, che teneva in grembo un bimbetto grasso con la pelle simile a bubblegum. C’era qualcosa di orrendamente anormale in ognuno di loro. E c’era il morto sul sedile in fondo, con gli occhi socchiusi e la saliva semiasciugata sul mento. Nessuno si accorgeva che era morto? L’urina puzzava, asciugandosi sotto di lui.

Anche le mani di Daniel parevano morte, livide. Il guidatore sembrava un cadavere con un unico braccio vivo mentre girava il volante. Era un’allucinazione? O era il filobus per l’inferno?

No, era soltanto un filobus come un milione d’altri che aveva preso in vita, un veicolo sul quale i reietti percorrevano le vie della città nelle ore notturne. Sorrise, scioccamente. Stava per mettersi a ridere al pensiero del morto là dietro e della gente che viaggiava come se niente fosse, e della luce che dava a tutti quell’aspetto incredibile. Ma poi ritornò un senso di paura.

Il silenzio lo snervava. Il lento ondeggiare nel filobus lo snervava, e lo snervava la parata di case luride al di là dei finestrini; e la vista della faccia apatica e dello sguardo vacuo di Armand era insopportabile.

«Lei tornerà a cercarci?» chiese. Non poteva più resistere.

«Sapeva che eravamo là», disse Armand, con gli occhi opachi e la voce bassa. «È passata oltre.»

Khayman

S’era ritirato sull’alto pendio erboso, oltre il quale stava il freddo Pacifico.

Il tutto si fondeva in un unico panorama: la morte in lontananza, perduta tra le luci, i lamenti esili delle anime sovrannaturali intessuti con le voci più brunite e più ricche della città umana.

I diavoli avevano inseguito Lestat, avevano spinto fuoristrada la Porsche, ma Lestat era uscito illeso dal rottame, smanioso di battersi: ma il fuoco aveva colpito ancora per disperdere o bruciare quelli che lo circondavano.

Rimasto finalmente solo con Louis e Gabrielle, aveva acconsentito a ritirarsi senza sapere con certezza chi o che cosa l’aveva protetto.

E all’insaputa dei tre, la regina continuava ad annientare i loro nemici.

Il suo potere sorvolava i tetti, annientava coloro che erano fuggiti, coloro che avevano cercato di nascondersi, coloro che, in preda alla confusione e all’angoscia, avevano indugiato accanto ai compagni caduti.

La notte puzzava dei loro roghi, i roghi dei fantasmi gementi che non lasciavano nulla sull’asfalto vuoto se non gli indumenti rovinati. Laggiù, sotto le luci dei parcheggi abbandonati, i tutori della legge cercavano inutilmente i cadaveri, i vigili del fuoco cercavano invano qualcuno da aiutare. I giovani mortali piangevano disperati.

Si curavano quelli che avevano piccole ferite; coloro che in preda a choc davano in escandescenza venivano narcotizzati e portati via. Erano così efficienti, le organizzazioni di quell’epoca d’abbondanza. Getti d’acqua giganteschi ripulivano i parcheggi, spazzavano via gli stracci carbonizzati degli esseri distrutti dal fuoco.

E le creature minuscole, laggiù, discutevano e giuravano di aver assistito alle immolazioni. Ma non restava alcuna prova. La regina aveva annientato completamente le sue vittime.

E adesso si allontanava dall’auditorium per cercare nei recessi più profondi della città. La sua forza penetrava fino agli angoli più nascosti, entrava dalle finestre e dalle porte. Si scorgeva un piccolo guizzo di fiamme, come d’uno zolfanello acceso. Poi più nulla.

La notte divenne più silenziosa. Le taverne e i negozi chiudevano e le luci si spegnevano nell’addensarsi dell’oscurità. Il traffico diradava sulle superstrade.

La regina aveva raggiunto, nelle vie di North Beach, colui che aveva desiderato solo vederla in viso; l’aveva bruciato lentamente mentre si trascinava sul marciapiedi. Le ossa erano diventate cenere, il cervello una massa di braci ardenti. Colpì un altro su un alto tetto piatto, e l’essere precipitò come una stella cadente sulla città. Quando tutto finì, i suoi indumenti vuoti presero il volo come carta.

E Lestat si dirigeva a sud, verso il suo rifugio di Carmel Valley. Giubilante, ebbro d’amore per Louis e Gabrielle, parlava dei vecchi tempi e dei nuovi sogni, completamente dimentico del massacro finale.

«Maharet, dove sei?» sussurrò Khayman. La notte non rispose. Se Mael era vicino, se Mael aveva udito il richiamo, non ne diede segno. Povero, disperato Mael che era corso all’aperto dopo l’aggressione a Jessica. Mael, che forse era stato ucciso come gli altri. Mael, che era rimasto immobile a guardare mentre l’ambulanza portava Jessica lontano da lui.

Khayman non riusciva a trovarlo.

Setacciò le colline costellate di luci, le valli profonde dove il palpito delle anime era come un sussurro tonante. «Perché ho assistito a queste cose?» si chiese. «Perché i sogni mi hanno condotto qui?»

Continuò ad ascoltare il mondo dei mortali.

Le radio parlavano di culti diabolici, disordini, incendi, allucinazioni collettive. Accusavano i vandalismi e i giovani impazziti. Ma era una città grande, nonostante le dimensioni geografiche. La mente razionale aveva già incapsulato l’esperienza e l’aveva accantonata. Migliaia di abitanti non se ne accorgevano neppure. Altri correggevano meticolosamente nel ricordo le cose impossibili che avevano visto. Il vampiro Lestat era una rock star umana e niente di più, il suo concerto era stato la scena di un’isteria prevedibile anche se incontrollabile.

Forse faceva parte del disegno della regina, far naufragare in quel modo i sogni di Lestat: bruciare i suoi nemici e cancellarli dalla faccia della terra prima che la fragile trama delle convinzioni umane potesse venire danneggiata irreparabilmente. Se era così, alla fine avrebbe punito anche quella creatura?

A Khayman non giungevano risposte.

Il suo sguardo si mosse sul territorio addormentato. La nebbia era salita dall’oceano e si era posata in strati rosei sulle cime delle colline. La scena aveva una dolcezza fiabesca, nella prima ora dopo mezzanotte.

Chiamò a raccolta tutto il suo potere e cercò di abbandonare i confini del corpo per tentare di vedere quelli che la Madre poteva aver risparmiato e per avvicinarsi a loro.

«Armand», disse a voce alta. Poi le luci della città si affievolirono. Sentì il tepore e l’illuminazione di un altro luogo; e Armand gli stava davanti.

Armand e la sua creatura, Daniel, erano tornati sani e salvi alla casa dove avrebbero dormito indisturbati sotto il pavimento della cantina. Stordito, il giovane si muoveva a passo di danza nelle grandi stanze lussuose, con la mente colma delle canzoni e dei ritmi di Lestat. Armand guardava la notte; il suo viso di adolescente era impassibile come prima. Vedeva Khayman! Lo vedeva immobile sulla collina lontana, e tuttavia lo sentiva abbastanza vicino per toccarlo. Si studiarono silenziosamente, invisibilmente.

A Khayman la solitudine sembrava insopportabile; ma gli occhi di Armand non rivelavano nessuna emozione, nessun benvenuto, nessun senso di fiducia.

Khayman passò oltre, attinse a una forza ancora più grande, salì ancora più in alto nella sua ricerca, ormai così lontano dal suo corpo che per il momento non riusciva neppure a individuarlo. Si diresse verso nord, chiamando i nomi di Santino e di Pandora.

Li vide in una distesa devastata di neve e di ghiacci, due figure nere nel candore infinito… gli indumenti di Pandora erano lacerati dal vento, i suoi occhi erano colmi di lacrime di sangue mentre cercava i contorni indistinti del complesso di Marius. Era lieta di avere a fianco Santino, un esploratore inverosimile, splendidamente vestito di velluto nero. La lunga notte insonne in cui Pandora aveva compiuto il giro del mondo l’aveva lasciata dolorante, sul punto di crollare. Tutti gli esseri devono dormire; devono sognare. Se non si fosse sdraiata presto in un luogo buio, la sua mente non sarebbe più riuscita a combattere le voci, le immagini, la follia. Non voleva riprendere il volo, e Santino non era in grado di farlo, perciò adesso camminava al suo fianco.

Santino le stava accanto, sentiva solo la sua forza, e aveva il cuore stretto e ferito dalle grida lontane di coloro che erano stati annientati dalla regina. Sentì il contatto fuggevole dello sguardo di Khayman e si strinse il mantello intorno al viso. Pandora non si accorse di nulla.

Khayman si allontanò. Lo faceva soffrire vedere che si toccavano. Lo addolorava vederli insieme.

Nella casa sulle colline, Daniel tagliò la gola a un ratto che si divincolava e fece scorrere il sangue in un bicchiere di cristallo. «Il trucco di Lestat», disse studiandolo controluce. Armand era seduto in silenzio accanto al fuoco. Guardò la rossa gemma di sangue nel bicchiere quando Daniel gliel’accostò premurosamente alle labbra.

Khayman si allontanò nella notte e ascese ancora più in alto, lontano dalle luci della città come in una grande orbita.

Mael, rispondimi. Fammi sapere dove sei. Il raggio freddo e ardente della Madre aveva colpito anche lui? Oppure era così addolorato per Jesse che non prestava più attenzione a nulla e a nessuno? Povera Jesse, abbagliata dai miracoli, annientata da un novizio in un batter d’occhio, prima che qualcuno potesse impedirlo.

La figlia di Maharet, mia figlia.

Khayman aveva paura di ciò che poteva vedere, aveva paura di ciò che non osava tentar di cambiare. Ma forse il druido, adesso, era troppo forte per lui; il druido nascondeva se stesso e la sua pupilla agli occhi e alle menti di tutti. E se non era così, la regina aveva vinto e tutto era finito.

Jesse

C’era un gran silenzio. Era stesa su un letto duro e tuttavia soffice, e si sentiva inerte come una bambola di pezza. Poteva sollevare una mano, che però poi ricadeva, e continuava a non vedere altro che vaghe sagome spettrali… ma forse erano solo illusioni.

Per esempio le lampade intorno a lei, antiche lampade di coccio sagomate come pesci e piene d’olio. Irradiavano nella stanza un profumo soffocante. Era una camera ardente?

Ritornò la paura d’essere morta, prigioniera della carne e tuttavia distaccata da essa. Sentiva un suono strano: cos’era? Un paio di forbici che tagliava. Le accorciavano i capelli: la sensazione si diffuse nella pelle, arrivò fino alle viscere.

All’improvviso, un pelo le venne strappato dal viso; uno di quei peli fastidiosi e fuori posto che le donne odiano tanto. La preparavano per metterla nella bara? Chi, se no, avrebbe avuto tanta cura, e le avrebbe sollevato la mano per esaminare le unghie con attenzione?

Ma il dolore ritornò, una scossa elettrica che corse lungo la schiena. Urlò. Urlò nella stanza dove, appena poche ore prima, aveva dormito in quello stesso letto, con le catene che cigolavano.

Sentì qualcuno prorompere in un’esclamazione soffocata. Si sforzò di vedere, ma scorse soltanto le lampade. E una figura indistinta alla finestra. Miriam.

«Dove?» chiese lui. Era sbalordito e cercava la visione. Non era accaduto un’altra volta?

«Perché non posso aprire gli occhi?» chiese Jesse. Lui avrebbe potuto guardare in eterno senza vedere Miriam.

«Hai gli occhi aperti», disse lui. La voce era ruvida e tenera. «Non posso darti di più, se non ti do tutto. Non siamo guaritori: siamo uccisori. È tempo che tu mi dica che cosa vuoi. Non c’è nessuno che possa aiutarmi.»

Non so che cosa voglio. Ma so che non voglio morire! Non voglio smettere di vivere. Come siamo vigliacchi, pensò, e bugiardi. Una grande tristezza fatalista l’aveva accompagnata fino a quella notte, e tuttavia c’era sempre stata quella speranza segreta. Non soltanto vedere, ma sapere, far parte di…

Voleva spiegare, esprimersi scrupolosamente con parole udibili, ma il dolore ritornò. Un tizzone ardente le toccò la spina dorsale, e la fitta si irradiò nelle gambe. Poi l’insensibilità benedetta. La stanza che non poteva vedere divenne buia, le fiamme delle lampade antiche guizzarono. Fuori, la foresta bisbigliava. La foresta fremeva nell’oscurità. La stretta di Mael sul suo polso divenne di colpo debole: non perché l’avesse lasciata, ma perché lei non la sentiva più. «Jesse!»

Mael la scosse, e la sofferenza fu come una folgore che squarcia la tenebra. Urlò a denti stretti. Miriam, muta e con gli occhi vitrei, guardava dalla finestra. «Mael, devi farlo!» gridò.

Si sollevò a sedere sul letto, chiamando a raccolta tutte le sue forze. La sofferenza non aveva forma o limiti: l’urlo era soffocato dentro di lei. Ma poi aprì gli occhi, li aprì veramente. Nella luce nebulosa scorse l’espressione fredda e spietata di Miriam. Vide l’alta figura di Mael curva sul letto. Poi si girò verso la porta aperta. Stava arrivando Maharet.

Mael non lo sapeva: non se ne accorse fino a che non se ne avvide lei. A passi vellutati, Maharet salì le scale. La lunga gonna frusciava. Percorse il corridoio.

Oh, dopo tutti quegli anni, quei lunghi anni! Fra le lacrime, Jesse vide Maharet avanzare nella luce delle lampade; vide la sua faccia splendente, il fulgore ardente dei capelli. Maharet accennò a Mael di lasciarle.

Poi si avvicinò al letto. Alzò le mani con le palme aperte in un gesto d’invito; alzò le mani come per ricevere un neonato.

«Sì, devi farlo.»

«Allora, tesoro, di’ addio a Miriam.»


Anticamente esisteva un culto terribile nella città di Cartagine. La popolazione offriva in sacrificio i bambini al grande dio bronzeo Baal. I corpicini venivano deposti sulle traccia protese della statua e poi, per mezzo di una molla, le braccia si alzavano e i bambini cadevano nella fornace rombante che era il ventre del dio.

Dopo la distruzione di Cartagine, soltanto i romani avevano tramandato quella vecchia storia, e con il passare dei secoli i sapienti non l’avevano più creduta. Sembrava troppo terribile, l’immolazione dei bambini. Ma quando gli archeologi avevano incominciato a scavare, avevano trovato a profusione le ossa delle piccole vittime. Avevano dissepolto intere necropoli di minuscoli scheletri.

E il mondo aveva saputo che l’antica leggenda era vera: gli uomini e le donne di Cartagine avevano portato al dio i loro figli e s’erano prosternati mentre precipitavano urlando nel fuoco. Era la loro religione.

Ora, mentre Maharet la sollevava e le toccava la gola con le labbra, Jesse pensò all’antica leggenda. Le braccia di Maharet erano come le dure braccia metalliche di Baal, e in un istante Jesse conobbe un tormento inenarrabile.

Ma non era la propria morte che Jesse vedeva; erano le morti degli altri, le anime dei non-morti immolati che s’innalzavano per sfuggire al terrore e alla sofferenza fisica mentre le fiamme consumavano i loro corpi sovrannaturali. Udiva le loro urla, udiva i loro moniti, vedeva i volti mentre lasciavano la terra portando ancora la forma umana ma senza la sostanza; li sentiva passare dalla sofferenza all’ignoto, sentiva il loro canto che incominciava.

Quindi la visione impallidì e svanì, come una musica in parte udita e in parte ricordata. Era prossima alla morte: il suo corpo non esisteva più, e non c’era più la sofferenza, né il senso di permanenza o di angoscia.

Era nella radura, sotto il sole, e guardava la madre sull’altare. «Nella carne», disse Maharet, «nella carne ha inizio ogni saggezza. Guardati da ciò che non ha carne. Guardati dagli dèi, guardati dal diavolo.»

Poi venne il sangue. Sgorgava in ogni fibra del suo corpo. Adesso aveva di nuovo braccia e gambe mentre il sangue elettrizzava i suoi arti e la pelle formicolava per il calore; e la fame faceva contorcere il suo corpo mentre il sangue cercava di ancorare per sempre la sua anima alla sostanza.

Stavano una fra le braccia dell’altra, lei e Maharet, e la pelle dura di Maharet si riscaldò e si ammorbidi quando divennero una cosa sola, con i capelli frammisti, il viso di Jesse affondato nel collo di Maharet mentre azzannava la sorgente e ondate d’estasi dilagavano in lei.

All’improvviso Maharet si ritrasse e girò il viso di Jesse contro il cuscino. Le coprì gli occhi con la mano e Jesse sentì i denti acuminati lacerarle la pelle; sentì che tutto il suo essere veniva ripreso e ritolto. Come un vento sibilante, la sensazione di venire svuotata e divorata, di non essere nulla!

«Bevi ancora, tesoro.» Jesse aprì gli occhi, lentamente. Vide la gola bianca e i seni bianchi.

Tese le mani e strinse la gola e questa volta fu lei a lacerare la pelle. E quando il primo fiotto di sangue le toccò la lingua, attirò Maharet sotto di sé.

Maharet era docile, con il seno contro il suo seno, le labbra contro il suo viso mentre lei succhiava il sangue, lo succhiava sempre più avidamente.

Sei mia, totalmente e completamente mia.

Le immagini, le voci, le visioni, tutto era scomparso.

Dormirono, o quasi dormirono, strette l’una all’altra. Sembrava che il piacere lasciasse un suo splendore; sembrava che respirare fosse sentirlo di nuovo; toccare le lenzuola di seta o la pelle serica di Maharet era ricominciare.

Il vento profumato alitava nella stanza. Dalla foresta si levò un gran sospiro collettivo.

Niente più Miriam, niente più spiriti del reame del crepuscolo fra la vita e la morte. Aveva trovato il suo posto, il suo posto eterno.

Quando chiuse gli occhi vide la cosa nella giungla fermarsi a guardarla. La cosa dai capelli rossi la vide e vide Maharet fra le sue braccia; vide i capelli rossi, due donne dai capelli rossi. E la cosa deviò dal suo cammino e venne verso di loro.

Khayman

Il silenzio, la pace di Carmel Valley. Erano così felici in quella casa, i componenti della piccola congrega, Lestat, Louis, Gabrielle, così felici d’essere insieme. Lestat s’era sbarazzato degli indumenti macchiati ed era di nuovo risplendente nell’«abbigliamento da vampiro», con il mantello di velluto nero buttato con noncuranza su una spalla. E gli altri, com’erano animati. Gabrielle si scioglieva i capelli biondi con gesti distratti mentre parlava con disinvoltura appassionata. E Louis, l’umano, silenzioso eppure profondamente eccitato dalla presenza degli altri due, come se fosse affascinato dai loro gesti più semplici.

In qualunque altro momento Khayman si sarebbe commosso per tanta felicità. Avrebbe voluto toccare le loro mani, guardarli negli occhi, dir loro chi era e che cosa aveva visto: avrebbe voluto stare con loro.

Ma lei era vicina. E la notte non era finita.

Il cielo impallidiva e il lieve tepore del mattino si insinuava sui campi. Gli esseri cominciavano a muoversi nella luce crescente. Gli alberi ondeggiavano e le loro foglie si schiudevano a poco a poco.

Khayman stava sotto il melo a guardare il colore delle ombre che mutava; ascoltava il mattino. Lei era lì, indubbiamente.

Si nascondeva con la forza e con l’astuzia. Ma non poteva ingannare Khayman. Osservava e attendeva e ascoltava le risate e le conversazioni della piccola congrega.

Sulla soglia della casa, Lestat abbracciò la madre che si congedava da lui. Gabrielle uscì nel mattino grigio, con passo scattante nel polveroso abito color kaki, i folti capelli biondi pettinati all’indietro: era l’immagine della vagabonda spensierata. E accanto a lei c’era Louis dai capelli neri.

Khayman li guardò incamminarsi sull’erba. La femmina avanzò sul prato, verso il bosco dove intendeva dormire sottoterra, mentre il maschio entrava nell’oscurità fresca di una piccola costruzione. Aveva qualcosa di raffinato, mentre si infilava sotto l’assito, mentre si sdraiava come se fosse in una tomba… qualcosa nel modo in cui componeva le membra e subito precipitava nel buio assoluto.

E la donna: con sorprendente forza, si fece un nascondiglio profondo e segreto, e le foglie si riassettarono come se lei non ci fosse. La terra racchiudeva le sue braccia protese, la sua testa china. Sprofondò nel sogno delle gemelle, tra le immagini della giungla e del fiume che non avrebbe mai ricordato.

Così andava bene. Khayman non voleva vederli morire bruciati. Esausto, stava appoggiato al melo, e la fragranza verde e pungente dei frutti lo avvolgeva.

Perché lei era lì? E dove si nascondeva? Quando si protese, sentì il sommesso suono radiante della sua presenza, piuttosto simile a un motore del mondo moderno, che emanava il sussurro irresistibile d’un potere letale.

Finalmente Lestat uscì dalla casa e si avviò verso il covo che si era preparato sotto le acacie, sul fianco della collina. Discese passando per una botola, giù per una scala di terra, ed entrò in una camera umida.

Dunque era la pace, per tutti, la pace fino a quella sera, quando Khayman avrebbe recato le tristi notizie.

Il sole si avvicinò di più all’orizzonte. Apparvero i primi raggi deflessi, che offuscavano sempre la vista di Khayman. Si concentrò sui colori del frutteto che diventavano più intensi mentre il resto del mondo perdeva i contorni e le forme. Chiuse gli occhi per un momento, e si rese conto che doveva entrare nella casa e trovare un luogo fresco e buio dove era improbabile che i mortali venissero a disturbarlo.

E al tramonto del sole li avrebbe attesi, al risveglio. Avrebbe detto loro ciò che sapeva; avrebbe parlato degli altri. Con una fitta improvvisa di sofferenza pensò a Mael e a Jesse che non riusciva a trovare, come se la terra li avesse inghiottiti.

Pensò a Maharet e provò l’impulso di piangere. Ma si avviò verso la casa. Il sole era caldo sulle sue spalle, e aveva le membra appesantite. Domani sera, qualunque cosa accadesse, non sarebbe stato solo. Avrebbe avuto la compagnia di Lestat e dei suoi seguaci; e se l’avessero scacciato, sarebbe andato in cerca di Armand. Sarebbe andato a nord, da Marius.

Ma poi, per prima cosa udì il suono… un rombo foltissimo, crepitante. Si voltò e si schermò gli occhi per ripararli dal sole che sorgeva. Un grande zampillo di terra eruppe dal fondo della foresta. Le acacie ondeggiavano come squassate da un uragano, con i rami che si spezzavano, le radici strappate dal suolo, i tronchi che cadevano da ogni parte.

In un turbine scuro d’indumenti agitati dal vento, la regina ascese con una rapidità feroce. Il corpo inerte di Lestat giaceva fra le sue braccia mentre sfrecciava verso il cielo occidentale, lontano dal sole.

Khayman proruppe in un grido prima di potersi trattenere. Il grido echeggiò nel silenzio della valle. Dunque la regina aveva portato via il suo amante.

Oh, povero amante, oh, povero bel principe biondo…

Ma non c’era tempo per pensare e per agire e per conoscere i propri sentimenti. Khayman si girò verso il rifugio, la casa. Il sole aveva colpito le nubi e l’orizzonte era divenuto un inferno.


Daniel fremette nell’oscurità. Il sonno parve sollevarsi come una coperta che stava per schiacciarlo. Vide il lampo nell’occhio di Armand, sentì il suo sussurro: «Lei l’ha portato via».


Jesse gemette. Aleggiava priva di peso nell’oscurità perlacea. Vide le due figure che ascendevano come in una danza… la Madre e il Figlio. Come santi assurti in cielo sulla volta affrescata di una chiesa. Le sue labbra formarono due parole: «la Madre».


Nella tomba scavata dentro le profondità del ghiaccio, Pandora e Santino dormivano abbracciati. Pandora udì il suono. Udì il grido di Khayman. Vide Lestat con gli occhi chiusi e la testa rovesciata all’indietro che ascendeva nell’abbraccio di Akasha. Vide gli occhi neri di Akasha fissi sul volto del dormiente. Il cuore di Pandora si arrestò per il terrore.


Marius chiuse gli occhi. Non riusciva più a tenerli aperti. Lassù ululavano i lupi; il vento aggrediva il tetto d’acciaio del complesso. Attraverso la tormenta, i raggi fiochi del sole sembravano accendere i vortici di neve, e sentiva il tepore che penetrava attraverso gli strati di ghiaccio fino a intorpidirlo.

Vide la figura addormentata di Lestat fra le braccia di Akasha; la vide ascendere nel cielo. «Guardati da lei, Lestat», mormorò nell’ultimo istante di coscienza. «Pericolo.»


Khayman si sdraiò sul pavimento coperto dai tappeti e nascose il viso contro il braccio. E subito venne il sogno, il sogno vellutato d’una notte d’estate in un luogo incantevole, dove il cielo era immenso sopra le luci della città, ed erano tutti insieme, gli immortali di cui conosceva i nomi e che ora stringeva al cuore.

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