PARTE TERZA COM’ERA IN PRINCIPIO, COM’È ORA E COME SARÀ PER SEMPRE

Nascondimi

da me.

Colma queste

orbite con occhi

perché i miei non sono

miei. Nascondimi

completamente

perché non sono nulla

così morto nella vita

per tanto tempo.

Sii un’ala e

ripara il mio io

dal desiderio

di essere

un pesce preso all’amo.

Il verme

del vino

sembra dolce e

rende cieco

il mio io. E nascondi

anche il mio cuore

perché altrimenti

anche quello

finirò per divorare.

Stan Rice

«Cannibal»

Some Lamb (1975)

1. LESTAT: FRA LE BRACCIA DELLA DEA

Ho dei ricordi troppo offuscati e non so dire quando mi svegliai, quando ripresi i sensi.

Sapevo che io e lei eravamo stati insieme per lungo tempo, che m’ero nutrito del suo sangue con abbandono animale, che Enkil era stato annientato e che lei sola deteneva il potere primigenio; e mi mostrava e mi diceva cose che mi facevano piangere come un bambino.

Duecento anni prima, quando avevo bevuto da lei nel sacrario, il sangue era muto, stranamente e magnificamente muto. Adesso era un turbine assoluto di immagini che affollava vorticosamente il cervello, allo stesso modo di come dilaniava il corpo; apprendevo tutto ciò che era accaduto; ero presente mentre gli altri morivano a uno a uno in quel modo orribile.

E poi c’erano le voci, le voci che salivano e si abbassavano, in apparenza senza uno scopo, come un coro sussurrante in una caverna.

Sembrava che vi fosse un momento di lucidità in cui connettevo tutto… il concerto rock, la casa in Carmel Valley, il suo volto radioso davanti a me. E la certezza di essere con lei, ora, in quel luogo buio e nevoso. L’avevo destata. O più esattamente le avevo dato la ragione per destarsi, come aveva detto. La ragione per voltarsi a guardare il trono su cui era rimasta tanto a lungo e per allontanarsene con i primi passi incerti.

Sai cosa ha significato sollevare la mano e vederla muoversi nella luce? Sai cos’ha significato sentire il suono della mia voce echeggiare improvvisamente in quella camera marmorea?

Sicuramente avevamo danzato insieme nel bosco buio e coperto di neve, oppure c’eravamo soltanto abbracciati tante e tante volte?

Erano accadute cose terribili. Cose terribili, in tutto il mondo. L’esecuzione di coloro che non avrebbero mai dovuto nascere. Progenie malefica. Il massacro al concerto era stato solo la conclusione.

Eppure ero tra le sue braccia nella tenebra gelida, nell’odore familiare dell’inverno, e il suo sangue era di nuovo mio, e mi asserviva. Quando si staccava da me, soffrivo. Dovevo schiarire i miei pensieri, dovevo sapere se Marius era vivo o no, se Louis e Gabrielle e Armand erano stati risparmiati. Dovevo trovare di nuovo me stesso, in un certo senso.

Ma le voci, la marea crescente delle voci! Mortali, vicini e lontani. La distanza non faceva differenza. La misura era l’intensità. Era il mio udito potenziato un milione di volte, dai tempi in cui potevo soffermarmi in una via cittadina e ascoltare gli abitanti di un edificio buio, ognuno nella sua camera, mentre parlavano e pensavano e pregavano, per tutto il tempo che volevo.

Un silenzio improvviso, quando lei parlò.

«Gabrielle e Louis sono salvi. Te l’ho detto. Credi che farei del male a coloro che ami? Ora guardami negli occhi e ascolta soltanto ciò che dico. Ne ho risparmiati assai più di quanti sia necessario. E l’ho fatto per te non meno che per me, per potermi rispecchiare in occhi immortali e sentire la voce dei miei figli che mi parlano. Ma ho scelto coloro che ami, coloro che vorresti rivedere. Non potrei sottraiti questo conforto. Ma ora sei con me, e devi vedere e conoscere ciò che ti viene rivelato. Devi avere un coraggio degno del mio.»

Non sopportavo le visioni che mi comunicava… quella piccola, orrida Baby Jenks negli ultimi istanti; era stato un sogno disperato nel momento della sua morte, una catena di immagini che balenavano nel cervello morente? Non lo sopportavo. E Laurent, il mio vecchio compagno Laurent, che inceneriva tra le fiamme sul marciapiedi; e dall’altra parte del mondo Felix, che avevo egualmente conosciuto nel Teatro dei Vampiri e che ruggiva bruciando in un vicolo di Napoli e si buttava in mare. E gli altri, tanti altri in tutto il mondo; piangevo per loro; piangevo per tutto. Una sofferenza senza significato.

«Una vita come quella», dissi piangendo a proposito di Baby Jenks.

«Perciò ti ho mostrato tutto», rispose lei. «Perciò è finita. I Figli delle Tenebre non esistono più. Ora avremo soltanto gli angeli.»

«Ma gli altri?» chiesi. «Che ne è stato di Armand?» E le voci ricominciarono, il brusio sommesso che poteva ingigantire e diventare un rombo assordante.

«Vieni, mio principe», sussurrò lei. Di nuovo silenzio. Mi prese il viso tra le mani. Gli occhi neri divennero più grandi, il volto bianco quasi tenero. «Se devi vedere, ti mostrerò coloro che ancora vivono, coloro i cui nomi diventeranno leggenda come il tuo e il mio.»

Leggenda?

Girò leggermente la testa; sembrò un miracolo quando chiuse gli occhi perché la vita visibile l’abbandonò completamente. Una cosa morta e perfetta, con le ciglia nere squisitamente incurvate. Le guardai la gola; il celeste dell’arteria sotto la pelle, improvvisamente visibile come se volesse mostrarmela. Il desiderio che provavo era insopportabile. La dea, mia! La strinsi bruscamente con una forza che avrebbe fatto soffrire un mortale. La pelle gelida sembrava assolutamente impenetrabile; poi i miei denti la lacerarono e la fonte ardente rombò di nuovo in me.

Vennero le voci, ma si spensero al mio comando. E poi non vi fu altro che lo scorrere del sangue e il suo cuore che batteva lento contro il mio.

Tenebra. Una cantina di mattoni. Una bara di quercia, levigata e lustra. Serrature d’oro. Il momento magico: le serrature si aprirono, come se una chiave invisibile le avesse fatte scattare. Il coperchio si sollevò rivelando il rivestimento di raso. C’era un lieve sentore di profumo orientale. Vidi Armand sui cuscini di raso bianco, un serafino dai lunghi capelli fulvi; la testa reclinata, gli occhi vacui come se il risveglio fosse sempre sconcertante. Lo vidi alzarsi dalla bara con gesti lenti, eleganti; i nostri gesti, perché noi siamo i soli che si alzano abitualmente dalle bare. Lo vidi chiudere il coperchio. Si avviò sul pavimento di mattoni verso un’altra bara. L’aprì con reverenza, come se fosse uno scrigno contenente un raro tesoro. All’interno dormiva un giovane: era senza vita, ma sognava. Sognava una giungla dove camminava una donna dai capelli rossi, una donna che non vedevo chiaramente. E poi una scena bizzarra, qualcosa che avevo giù veduto, ma dove? Due donne inginocchiate accanto a un altare. O almeno, pensavo che fosse un altare…

Lei si tese. Si mosse come una statua della Vergine pronta a schiacciarmi. Svenni; credetti di sentirla pronunciare il mio nome. Ma il sangue giunse in un altro fiotto, e il mio corpo riprese a palpitare di piacere. Non c’era più la terra, non c’era più la forza di gravita.

Di nuovo la cantina. Un’ombra sul corpo del giovane. Un altro era entrato e aveva posato una mano sulla spalla di Armand. Armand lo conosceva. Si chiamava Mael. Venite.

Ma dove li sta conducendo?

La sera violacea nella foresta di sequoie. Gabrielle camminava con quel suo passo noncurante e inarrestabile, i suoi occhi erano come frammenti di vetro e non restituivano nulla a ciò che vedeva intorno a sé; accanto a lei c’era Louis che si sforzava di reggere la sua andatura. Louis appariva così civilizzato in quel luogo selvaggio, così disperatamente fuori posto. Aveva abbandonato il travestimento da vampiro della sera precedente; eppure sembrava ancor più un gentiluomo con quei vecchi indumenti logori, un gentiluomo in difficoltà. Con lei è fuori posto, e lei lo sa? Avrà cura di Louis? Ma entrambi hanno paura, paura per me!

Il cielo minuscolo, lassù, si stava trasformando in porcellana lucida; gli alberi sembravano attirare la luce lungo i tronchi massicci, fin quasi alle radici. Sentivo un ruscello scorrere nell’ombra. Poi lo vidi. Gabrielle avanzò nell’acqua con gli stivali. Ma dove vanno? E chi era il terzo con loro, colui che appariva solo quando Gabrielle si voltava a guardarlo? Mio Dio, che volto, e così placido. Antico, potente… e tuttavia lasciava che i due giovani lo precedessero. Tra gli alberi scorsi una radura, una casa. Su un’alta veranda di pietra c’era una donna dai capelli rossi: la donna che avevo visto nella giungla? Un volto che era una maschera antica e inespressiva, come il volto del maschio nella foresta che la guardava; un volto come il volto della mia regina.

Lascia che s’incontrino. Sospirai mentre il sangue scorreva in me. Tutto sarà più semplice. Ma chi erano quegli antichi, quegli esseri dai lineamenti purificati come i suoi?

La visione cambiò. Questa volta le voci erano una ghirlanda intorno a noi, e bisbigliavano e piangevano. Per un momento desiderai ascoltare, distaccare dal coro mostruoso un fuggevole canto mortale. Immaginai… voci che provenivano da ogni luogo, dalle montagne dell’India, dalle vie di Alessandria, da minuscoli villaggi vicini e lontani.

Ma stava giungendo un’altra visione.

Marius. Marius saliva da un abisso insanguinato di ghiaccio, e Pandora e Santino l’aiutavano. Erano riusciti a raggiungere il pavimento di un sotterraneo. Il sangue coagulato era una crosta che copriva metà del viso di Marius: appariva incollerito, amareggiato, con gli occhi vacui, i lunghi capelli biondi insanguinati. Salì zoppicando una scala di ferro a spirale, seguito da Pandora e Santino. Sembrava che salissero attraverso un tubo. Quando Pandora cercò di aiutarlo, la scostò con un gesto brusco.

Vento. Freddo e pungente. La casa di Marius era aperta agli elementi come se l’avesse schiantata un terremoto. I vetri erano spezzati in frammenti pericolosi; pesci tropicali rari e bellissimi erano congelati sul fondo sabbioso di un grande acquario distrutto. La neve copriva i mobili e si ammucchiava contro gli scaffali, le statue, le raccolte di dischi e di nastri. Gli uccelli erano morti nelle gabbie. Le piante verdi grondavano di ghiaccioli. Marius guardava i pesci morti nel margine di ghiaccio torbido in fondo alla vasca, guardava gli steli morti delle alghe sparsi fra le schegge di vetro.

Mentre lo guardavo, lo vidi risanare; i lividi parvero dileguarsi dal suo viso, che ritrovò la forma naturale. La gamba migliorava: ora poteva tenersi quasi eretto. Fissava furioso i minuscoli pesci azzurri e argentei. Alzava gli occhi verso il cielo, verso il vento bianco che cancellava completamente le stelle. E faceva cadere dalla faccia e dai capelli le scaglie di sangue raggrumato.

Il vento aveva sparpagliato migliaia di pagine… pagine di pergamena, di vecchia carta fragile. La neve turbinante scendeva leggera nel salotto in rovina. Marius prese l’attizzatoio di bronzo per usarlo come bastone e attraverso il muro sfondato guardò i lupi affamati che ululavano nel recinto. Non avevano avuto cibo da quando lui, il padrone, era rimasto sepolto. Ah, l’ululato dei lupi! Sentii Santino parlare a Marius e cercare di dirgli che dovevano andare perché erano attesi: una donna li attendeva nella foresta di sequoie, una donna antica come la Madre, e la riunione non poteva iniziare prima del loro arrivo. Un brivido d’allarme mi scosse. Cos’era quella riunione? Marius comprendeva, ma non dava risposta. Ascoltava i lupi. I lupi…

La neve e i lupi. Sognavo i lupi. Sentivo di tornare indietro con il pensiero, nei sogni e nei ricordi. Vedevo un branco di lupi che correva sulla neve appena caduta.

Vedevo me stesso, giovane, mentre lottavo contro il branco di lupi venuti nell’inverno a depredare il villaggio di mio padre, duecento anni prima. Vedevo me stesso mortale, così vicino alla morte da sentirne l’odore. Ma avevo abbattuto i lupi, a uno a uno. Ah, quel rozzo vigore giovanile, il puro lusso della vita spensierata e irresistibile! O almeno così sembrava. A quel tempo era stata una sofferenza, no? La valle ghiacciata, il mio cavallo e i miei cani uccisi. Ma ora potevo solo ricordare e vedere la neve che copriva le montagne, le mie montagne, la terra di mio padre.

Aprii gli occhi. Lei mi aveva lasciato, mi aveva costretto a indietreggiare d’un passo. Per la prima volta compresi dov’eravamo in realtà. Non in una notte astratta, ma in un luogo reale, un luogo che un tempo era stato mio.

«Sì», bisbigliò. «Guardati intorno.»

Riconoscevo il luogo dall’aria e dall’odore dell’inverno. La mia vista tornò a schiarirsi. Vidi i bastioni diroccati e la torre.

«È la casa di mio padre!» mormorai. «È il castello dove sono nato.»

Silenzio. La neve bianca sull’antico pavimento. Quella era stata la grande sala. Dio, vederla in rovina, sapere che era desolata da tanto tempo. Le vecchie pietre sembravano soffici come la terra; e lì c’era stata la tavola, la grande tavola fabbricata al tempo delle Crociate, e là c’era stato il focolare, e là la porta.

La neve non cadeva più. Alzai la testa e vidi le stelle. La torre aveva conservato la forma rotonda e svettava al di sopra del tetto sfondato, anche se tutto il resto era un guscio infranto. La casa di mio padre…

La regina si scostò da me, si mosse sul candore lucente del pavimento. Girò in cerchio, adagio, con la testa rovesciata all’indietro, come se danzasse.

Muoversi, toccare le cose solide, passare dal mondo dei sogni al mondo reale: prima aveva parlato di tutte quelle gioie. Guardarla mi faceva mancare il respiro. I suoi indumenti erano senza tempo: un manto di seta nera, una veste dalle pieghe morbide che ondeggiavano dolcemente intorno alla figura snella. Fin dagli albori della storia le donne si sono abbigliate così, e si vestono ancora così nelle sale da ballo di tutto il mondo. Volevo abbracciarla di nuovo; ma me lo vietò con un gesto. Che cosa aveva detto? Lo immagini? Quando ho scoperto che non poteva più trattenermi. Stavo davanti al trono e lui non si era mosso, non aveva reagito in alcun modo.

Si voltò, sorrise. La luce pallida del cielo investiva gli angoli incantevoli del suo volto, gli zigomi alti, la curva dolce del mento. Appariva viva, assolutamente viva.

Poi svanì.

«Akasha!»

«Vieni a me», disse.

Ma dov’era? Poi la vidi, lontana, in fondo alla sala. Una figura minuscola all’entrata della torre. Stentavo a distinguere i lineamenti del suo volto, tuttavia scorgevo dietro di lei il rettangolo nero della porta aperta.

Mi avviai per raggiungerla.

«No», mi disse. «È tempo che usi la forza che ti ho donato. Vieni!»

Non mi mossi. La mia mente era limpida, la mia vista era limpida. E sapevo cosa intendeva. Ma avevo paura. Ero sempre stato quello che scattava e balzava ed eseguiva trucchi. La velocità sovrannaturale che sconcertava i mortali, per me non era una novità. Ma lei mi chiedeva di fare qualcosa di nuovo. Dovevo lasciare il punto in cui stavo e localizzarmi all’improvviso accanto a lei, con una velocità che neppure io avrei potuto seguire. Era necessaria una resa, per tentare una cosa simile.

«Sì, una resa», disse lei gentilmente. «Vieni.»

Per un momento di tensione mi limitai a guardarla. La sua mano bianca splendeva sullo stipite della porta sfondata. Poi presi la decisione di essere al suo fianco. Fu come se mi toccasse un uragano, pieno di fragore e di forza cieca. E fui là! Mi sentii scuotere da un brivido. Il volto mi doleva un poco, ma che importanza aveva? La guardai negli occhi e sorrisi.

Era bella, così bella. La dea dai lunghi capelli intrecciati. La presi impulsivamente fra le braccia e la baciai. Baciai le labbra fredde.

Poi il senso del sacrilegio mi colpì. Era come la volta in cui l’avevo baciata nel sacrario. Volevo dire qualcosa per scusarmi, ma fissavo di nuovo la sua gola, assetato di sangue. Era un tormento pensare che potevo berlo e che tuttavia lei era ciò che era; avrebbe potuto annientarmi in un momento, solo desiderando di vedermi morire. Era ciò che aveva fatto agli altri. Il pericolo mi solleticava oscuramente. Le strinsi le dita intorno alle braccia, sentii la carne cedere leggermente. La baciai ancora, ancora. E sentii il sapore del sangue.

Si ritrasse e mi posò l’indice sulle labbra. Poi mi prese per mano e mi condusse oltre la soglia della torre. La luce delle stelle scendeva dal tetto sfondato, molto più in alto, attraverso uno squarcio nel pavimento della stanza.

«Vedi?» mi disse. «La stanza lassù c’è ancora. La scala non c’è più. E la stanza è irraggiungibile se non per te e per me, mio principe.»

Incominciò a salire lentamente. Salì senza staccare gli occhi da me, mentre la seta della veste ondeggiava lievemente. Restai a guardare sbalordito mentre ascendeva e ascendeva, con il mantello agitato dalla brezza. Passò attraverso l’apertura e si fermò.

Decine di metri! Non potevo farlo…

«Vieni a me, mio principe», disse. La voce sommessa echeggiava nel vuoto. «Fai come hai già fatto. Devi farlo rapidamente e, come dicono i mortali, non guardare giù.» Un sussurro ridente.

Forse sarei riuscito a salire per un quinto della distanza… un salto di un edificio a quattro piani, che per me era abbastanza facile, ma oltre quel limite… Vertigine. Impossibile. Disorientamento. Come eravamo giunti fin lì? Tutto turbinava. La vedevo, ma era come un sogno, e le voci mi disturbavano. Non volevo perdere quel momento. Volevo restare connesso al tempo in una serie di momenti collegati, e comprendere secondo i miei criteri.

«Lestat!» mormorò. «Vieni!» Era così tenero, il piccolo gesto che mi invitava ad affrettarmi.

Feci ciò che avevo già fatto: la guardai e decisi che dovevo essere istantaneamente al suo fianco.

Di nuovo l’uragano, l’aria che mi feriva. Alzai le braccia e lottai contro la resistenza. Mi parve di vedere lo squarcio nelle assi spezzate quando le attraversai. E poi mi ritrovai lassù, scosso, timoroso di precipitare.

Sembrava che stessi ridendo; ma forse stavo impazzendo un poco. Piangevo. «Ma come?» chiesi. «Devo sapere come ho fatto.»

«Conosci già la risposta», disse lei. «La cosa intangibile che ti anima ora ha assai più forza di prima. Ti ha mosso come ha sempre fatto. Che tu compia un passo o spicchi il volo, è semplicemente una questione di gradi.»

«Voglio ritentare», dissi.

Rise, sommessamente ma spontaneamente. «Guarda questa stanza», disse. «La ricordi?»

Annuii. «Quand’ero giovane venivo sempre quassù», dissi. Mi allontanai da lei. Vedevo i mucchi di mobili rovinati, le panche e gli sgabelli che un tempo avevano riempito il nostro castello, oggetti medievali così rozzi e robusti da risultare quasi indistruttibili, come gli alberi che cadono nella foresta e restano là per secoli, i ponti sui ruscelli, i tronchi coperti di muschio. Quei mobili non erano marciti. Rimanevano persino i vecchi scrigni e le armature. Oh, sì, le vecchie armature, spettri di glorie passate. E nella polvere vedevo fioche macchie di colore. Erano arazzi: ma quelli erano completamente distrutti.

Durante la rivoluzione, dovevano aver portato lì quella roba per metterla al sicuro. Poi la scala era crollata.

Andai a una delle feritoie e guardai il territorio circostante. Molto più in basso, sul fianco della montagna, c’erano le luci elettriche di una piccola città: erano sparse, ma c’erano. Una macchina scendeva la strada stretta. Ah, il mondo moderno così vicino e tuttavia così lontano. Il castello era il fantasma di se stesso.

«Perché mi hai portato qui?» chiesi. «È doloroso vedere tutto ciò, doloroso come tutto il resto.»

«Guarda le armature», disse Akasha. «Guarda cosa sta ai loro piedi. Ricordi le armi che prendesti quando andasti a uccidere i lupi?»

«Sì, le ricordo.»

«Guardale ancora. Io ti darò armi nuove, infinitamente più potenti, e con quelle ora ucciderai per me.»

«Uccidere?»

Guardai le armi. Erano arrugginite, rovinate; eccettuato il vecchio, magnifico spadone che era appartenuto a mio padre: gli era stato dato da suo padre che l’aveva avuto dal padre, e così via fino al tempo di san Luigi. Lo spadone del signore, che io, il settimo figlio, avevo usato quella lontana mattina quando m’ero avventurato come un principe medievale per uccidere i lupi.

«Ma chi ucciderò?» chiesi.

Si avvicinò. Il suo viso era immensamente dolce, traboccante d’innocenza. Le sopracciglia si accostarono: per un momento apparve una sottile ruga verticale. Poi la fronte si spianò.

«Vorrei che mi obbedissi senza fare domande», disse dolcemente. «Poi la comprensione verrà. Ma non è tua abitudine obbedire.»

«No», confessai. «Non sono mai stato capace di obbedire a lungo a qualcuno.»

«Così intrepido», disse sorridendo.

Aprì con grazia la mano destra. All’improvviso teneva la spada. Mi sembrava di aver sentito l’arma muoversi verso di lei, con un minimo cambiamento d’atmosfera, niente di più. Fissai il fodero gemmato e la grande impugnatura di bronzo che, naturalmente, era una croce. Era ancora appesa alla cintura, la cintura che avevo acquistato in un’estate lontana, una cintura di cuoio e di ferro intrecciato.

Era un’arma enorme, fatta per sferrare colpi mortali, e non soltanto fendenti e affondi. Ne ricordavo il peso, come mi indolenziva il braccio mentre l’avventavo contro i lupi che mi assalivano. Spesso, in battaglia, i cavalieri avevano brandito a due mani quelle armi.

Ma cosa sapevo di quelle battaglie? Non ero mai stato un cavaliere. Con quell’arma avevo trapassato un animale. Il mio unico momento di gloria mortale: e che cosa mi aveva procurato? L’ammirazione di un maledetto succhiatore di sangue che aveva deciso di scegliermi come erede.

La regina mise la spada nelle mie mani.

«Ora non è pesante, mio principe», disse. «Sei immortale. Veramente immortale. Hai in te il mio sangue. E userai per me le tue nuove armi come un tempo usasti questa spada.»

Un brivido violento mi scosse quando toccai la spada; era come se l’arma conservasse una memoria latente di ciò cui aveva assistito. Rividi i lupi. Vidi me stesso nella foresta gelata e annerita, pronto a uccidere.

E vidi me stesso un anno dopo a Parigi, morto e immortale. Un mostro, e a causa di quei lupi. «Uccisore dei lupi», mi aveva chiamato il vampiro. Mi aveva scelto in mezzo al gregge perché io avevo ucciso quei lupi maledetti! E avevo portato con tanto orgoglio la loro pelliccia per le vie invernali di Parigi.

Come potevo provare, adesso, una simile amarezza? Avrei preferito essere morto e sepolto nel cimitero del villaggio? Guardai di nuovo la collina coperta di neve. Non stava accadendo di nuovo la stessa cosa? Èro amato per ciò che ero stato in quei primi, spensierati anni mortali. Chiesi di nuovo. «Ma chi o che cosa dovrò uccidere?»

Non ebbi risposta.

Pensai di nuovo a Baby Jenks, quella piccola creatura patetica, e a tutti i bevitori di sangue che adesso erano morti. Avevo voluto una guerra con loro, una piccola guerra. Ed erano morti tutti. Tutti quelli che avevano risposto al grido di battaglia… morti. Vedevo bruciare la casa della congrega a Istanbul; vedevo colui che Akasha aveva sorpreso e bruciato lentamente, e che aveva lottato e l’aveva maledetta. Piangevo di nuovo.

«Sì, ti ho sottratto il tuo pubblico», disse la regina. «Ho bruciato l’arena dove cercavi di brillare. Ho rubato quella battaglia! Ma non capisci? Ti offro cose più splendide di quelle che hai cercato di ottenere. Ti offro il mondo, mio principe.»

«E come?»

«Arresta le lacrime che hai sparso per Baby Jenks e per te stesso. Pensa ai mortali per cui dovresti piangere. Immagina tutti coloro che hanno sofferto nel corso dei secoli… vittime della carestia, delle privazioni e delle violenze incessanti. Vittime di ingiustizie infinite e di battaglie interminabili. Come puoi piangere per una razza di mostri che, senza una guida e senza uno scopo, hanno compiuto la mossa del diavolo contro ogni mortale incontrato per caso?»

«Lo so. Capisco…»

«È davvero così? Oppure ti ritrai di fronte a queste cose per condurre i tuoi giochi simbolici? Simbolo del male nella tua musica rock. Non è nulla, mio principe, assolutamente nulla.»

«Perché non mi hai ucciso come gli altri?» chiesi, depresso e bellicoso. Strinsi nella destra l’impugnatura della spada e credetti di scorgervi ancora il sangue coagulato del lupo. Liberai la lama dal fodero di cuoio. Ah, sì, il sangue del lupo. «Non sono migliore di loro, vero?» chiesi. «Perché risparmiare alcuni di noi?»

La paura mi paralizzò. Una paura terribile per Gabrielle e Louis e Armand. Per Marius. E persino per Pandora e Mael. Paura per me stesso. Non esiste un essere che non si batta per la vita, anche quando non ha una giustificazione. Io volevo vivere, l’avevo sempre voluto.

«Vorrei che mi amassi», sussurrò teneramente la regina. La sua voce. In un certo senso era come la voce di Armand, una voce che parlava accarezzando, che ti attirava a sé. «Perciò ti dedico il mio tempo», continuò. Mi posò le mani sulle braccia e mi guardò negli occhi. «Voglio che tu capisca. Sei il mio strumento! E lo saranno anche gli altri, se sono saggi. Non capisci? C’è un disegno in tutto ciò: la tua venuta, il mio risveglio. Perché ora, finalmente, si potranno realizzare le speranze dei millenni. Guarda la piccola città, laggiù, e questo castello diroccato. Questa potrebbe essere Betlemme, mio principe, mio salvatore. E insieme realizzeremo tutti i sogni più durevoli del mondo.»

«Ma com’è possibile?» chiesi. Capiva quant’ero spaventato? Capiva che le sue parole mi spingevano dalla paura al terrore? Sì, indubbiamente.

«Ah, sei così forte, giovane principe», mi disse. «Ma eri destinato a me. Nulla può sconfìggerti. Hai paura e non hai paura. Ti ho visto soffrire per un secolo, ti ho visto diventare debole e discendere nella terra per dormire, e poi ti ho visto risorgere, a immagine della mia resurrezione.»

Chinò la testa come se ascoltasse un suono molto lontano. Le voci che si levavano. Anch’io le udivo, forse perché le udiva lei. Sentivo il clamore. Poi, infastidito, le scacciai.

«Così forte», disse la regina. «Non possono trascinarti tra loro, le voci: ma non ignorare questo potere, perché è importante come gli altri che possiedi. Ti pregano come hanno sempre pregato me.»

Comprendevo ciò che intendeva dire. Ma non volevo ascoltare le preghiere. Che potevo fare per loro? Cos’avevano a che fare le preghiere con ciò che ero?

«Per secoli è stato il mio unico conforto», continuò la regina. «Ascoltavo per ore, per settimane, per anni. Nei primi tempi mi sembrava che le voci avessero intessuto un sudario per fare di me una cosa morta e sepolta. Poi imparai ad ascoltare più attentamente. Imparai a selezionare una voce tra le tante, come se fosse un filo in un groviglio. Ascoltavo quell’unica voce, e per suo mezzo conoscevo il trionfo e la rovina di un’anima.»

La fissai in silenzio.

«Con il trascorrere degli anni acquisii un potere più grande: abbandonare invisibilmente il mio corpo e accostarmi al mortale che ascoltavo per essere vista dai suoi occhi. Mi muovevo nel sole e nelle tenebre; soffrivo, conoscevo la fame e il dolore. A volte entravo nei corpi degli immortali, come ho fatto con Baby Jenks. Spesso quell’immortale era Marius, l’egoista, vanitoso Marius che confonde l’avidità con il rispetto, ed è sempre abbagliato dalle creazioni decadenti di un modo di vivere egoista quanto lui. Oh, non soffrire così. L’amavo. L’amo anche ora: ha avuto cura di me. Il mio custode.» La voce divenne amara, solo per quell’istante. «Ma più spesso mi aggiravo fra i poveri e i sofferenti. Aspiravo alla crudezza della vera vita.»

S’interruppe; la sua vista si annebbiò, le sopracciglia si congiunsero e le lacrime le riempirono gli occhi. Conoscevo il potere di cui parlava, ma solo in parte. Desideravo confortarla, ma quando tesi le braccia per stringerla mi accennò di star fermo.

«Dimenticavo chi ero, dov’ero», continuò. «Ero quell’essere, l’essere del quale avevo scelto la voce. A volte per anni. Poi ritornava l’orrore, la consapevolezza di essere una cosa immobile e senza scopo, condannata a restare in eterno in un sacrario dorato! Immagini l’orrore di destarmi all’improvviso di fronte a questa rivelazione? Comprendere che tutto ciò che hai visto, tutto ciò che sei stato è soltanto un’illusione, l’osservazione della vita di un altro? Ritornavo a me stessa. Ridiventavo ciò che vedi davanti a te. L’idolo con un cuore e un cervello.»

Annuii. Secoli prima, quando l’avevo vista per la prima volta, avevo immaginato una sofferenza indicibile racchiusa dentro di lei. Avevo immaginato tormenti inesprimibili. E non avevo sbagliato.

«Sapevo che ti teneva là», dissi. Alludevo a Enkil. Enkil che ora non c’era più; era stato annientato. Un idolo caduto. Ricordavo il momento nel sacrario, quando avevo bevuto da lei, ed Enkil era venuto a riprenderla, e quasi mi aveva finito. Aveva saputo ciò che ella intendeva fare? O già allora aveva perduto completamente la ragione?

Per tutta risposta, la regina sorrise. I suoi occhi brillavano mentre guardava nel buio. La neve aveva ripreso a cadere e turbinava quasi magicamente, coglieva la luce delle stelle e della luna e sembrava diffonderla nel mondo.

«Era destino, ciò che è accaduto», rispose finalmente Akasha. «Era destino che passassi quegli anni diventando sempre più forte, così forte, alla fine, che nessuno… nessuno può essermi eguale.» S’interruppe. Per un momento la sua convinzione parve incrinarsi. Ma poi ritrovò la sicurezza. «Alla fine era soltanto uno strumento, il mio povero e amato re, il mio compagno di tormento. La sua ragione s’era smarrita, sì. E non l’ho veramente annientato. Ho assorbito ciò che restava di lui. E a volte anch’io ero stata svuotata e silenziosa e priva di volontà quanto lo era il re. Ma per lui non c’era ritorno. Aveva avuto le sue ultime visioni. Non serviva più a nulla. È morto della morte di un dio perché questo mi ha resa più forte. Ed era destino, mio principe. Era destino dall’inizio alla fine.»

«Ma come? E chi l’aveva stabilito?»

«Chi?» sorrise di nuovo. «Non capisci? Non devi cercare altrove la causa di qualcosa. Io sono il compimento, e da questo istante sarò la causa. Nulla e nessuno, ormai, potrà fermarmi.» Per un secondo il suo viso s’indurì. Poi di nuovo l’esitazione. «Le vecchie maledizioni non significano nulla. Nel silenzio ho raggiunto un tale potere che nessuna forza della natura potrebbe farmi del male. Neppure quelli della mia Prima Stirpe possono farmi del male, anche se complottano contro di me. Era destino che trascorressero quegli anni prima della tua venuta.»

«Come ho cambiato la realtà?»

Si avvicinò d’un passo. Mi cinse con un braccio e per un momento lo sentii morbido, non marmoreo com’era in realtà. Eravamo due esseri vicini, e lei mi appariva indescrivibilmente bella, così pura e ultraterrena. Provai di nuovo, fremendo, il desiderio di sangue. Il desiderio di piegarmi a baciarle la gola, di averla come avevo avuto migliaia di donne mortali: eppure era la dea dai poteri sconfinati. Sentivo il desiderio ingigantire.

Mi posò di nuovo l’indice sulle labbra, come per impormi di tacere.

«Ricordi quand’eri ragazzo, qui?» mi chiese. «Pensa a quando li imploravi di mandarti alla scuola del monastero. Ricordi le cose che t’insegnavano i frati? Le preghiere, gli inni, le ore nella biblioteca, le ore nella cappella quando pregavi in solitudine?»

«Certo, lo ricordo.» Sentii le lacrime che mi salivano di nuovo agli occhi. Vedevo tutto così nitidamente, la biblioteca del monastero e i frati che mi avevano istruito e credevano che avrei potuto diventare prete. Vedevo la piccola, fredda cella con il tavolaccio, vedevo il chiostro e il giardino velato d’ombre rosse; Dio, non volevo pensare a quei tempi. Ma certe cose non si possono mai dimenticare.

«Ricordi la mattina quando andasti nella cappella», continuò la regina, «e t’inginocchiasti sul pavimento di marmo, con le braccia incrociate, e dicesti a Dio che avresti fatto qualunque cosa, se ti avesse reso buono?»

«Sì, buono…» Era la mia voce, ora, a tingersi di amarezza.

«Dicesti che avresti sofferto il martirio, tormenti inenarrabili, per essere buono.»

«Sì, ricordo.» Vedevo i vecchi santi, udivo gli inni che mi avevano spezzato il cuore. Ricordavo la mattina in cui i miei fratelli erano venuti per ricondurmi a casa e li avevo supplicati in ginocchio perché mi permettessero di restare.

«E più tardi, quando avevi perduto l’innocenza, quando partisti per Parigi… volevi la stessa cosa. Quando ballavi e cantavi per le folle dei boulevard, volevi essere buono.»

«Lo ero», dissi esitando. «Era bene rendere felici gli spettatori, e per un po’ fu ciò che feci.»

«Sì, felici», mormorò lei.

«Non riuscii mai a spiegare al mio amico Nicolas, sai, che era così importante… credere nel concetto del bene, anche se eravamo noi stessi a inventarlo. Ma in realtà non lo inventiamo. Esiste, non è vero?»

«Oh, sì, esiste», disse la regina. «Perché siamo noi a farlo esistere.»

Quanta tristezza. Non riuscivo a parlare. Guardavo cadere la neve. Le strinsi la mano e sentii le sue labbra sulla guancia.

«Tu sei nato per me, mio principe», disse. «Sei stato messo alla prova e sei diventato perfetto. E in quei primi anni, quando entrasti nella camera di tua madre e la portasti con te nel mondo dei non-morti, era solo un presagio del fatto che mi avresti destata. Io sono la tua vera Madre, la Madre che non ti abbandonerà mai: e anch’io sono morta e risorta. Tutte le religioni del mondo, mio principe, cantano me e te.»

«Com’era possibile?» chiesi.

«Ah, ma lo sai. Lo sai!» Mi prese la spada ed esaminò la vecchia cintura, la passò sul palmo della mano destra. Poi la lasciò cadere nel mucchio arrugginito… l’ultima reliquia sulla terra della mia vita mortale. E fu come se un vento disperdesse tutto, lentamente, sul pavimento coperto di neve.

«Abbandona le vecchie illusioni», disse. «Le inibizioni. Non sono più utili di queste vecchie armi. Insieme, daremo realtà ai miti del mondo.»

Un brivido diaccio mi scosse, un brivido tenebroso d’incredulità e poi di confusione: ma la sua bellezza lo vinse.

«Volevi diventare un santo quando t’inginocchiasti nella cappella», mi disse. «Ora sarai un dio insieme a me.»

C’erano parole di protesta sulla punta della mia lingua: ero spaventato, una sensazione oscura mi vinceva. Le sue parole… cosa potevano significare?

Ma all’improvviso sentii che mi cingeva con un braccio. E ascendemmo dalla torre passando attraverso il tetto sfondato. Il vento era così forte da ferirmi le palpebre. Mi voltai verso Akasha. Le passai il braccio destro intorno alla cintura e nascosi il viso contro la sua spalla.

La sua voce mi mormorò di dormire. Sarebbero trascorse ore prima che il sole tramontasse sulla terra dove eravamo diretti, il luogo della prima lezione.

La lezione. Ricominciai a piangere stringendomi a lei, e piansi perché ero perduto e lei era la sola cosa cui potevo aggrapparmi. E avevo terrore di ciò che mi avrebbe chiesto.

2. MARIUS: L’INCONTRO

S’incontrarono di nuovo al margine della foresta di sequoie, con gli abiti a brandelli e gli occhi che bruciavano per il vento. Pandora era alla destra di Marius, Santino alla sua sinistra. E dalla casa nella radura, Mael venne verso di loro a lunghi passi sopra l’erba falciata.

Abbracciò Marius in silenzio.

«Vecchio amico», disse Marius. Ma la sua voce non aveva vitalità. Esausto, guardò le finestre illuminate e riconobbe la presenza di una grande dimora nascosta nelle viscere della montagna, dietro la struttura visibile dal tetto spiovente.

Cosa l’attendeva? Che cosa attendeva tutti? Se almeno avesse avuto lo spirito necessario, se avesse potuto ricatturare una minima parte della sua anima.

«Sono stanco», disse a Mael. «Il viaggio mi ha distrutto. Lasciatemi riposare ancora un momento. Poi verrò.»

Marius non disprezzava la facoltà di volare, come sapeva che la disprezzava Pandora; ma lo deprimeva. S’era sentito incapace di difendersene, quella notte: e adesso doveva sentire la terra sotto di lui, aspirare l’odore della foresta e scrutare la casa distante in un momento di quiete ininterrotta. I suoi capelli erano scompigliati dal vento e ancora incrostati di sangue raggrumato. La giacca e i pantaloni di semplice lana grigia che aveva recuperato tra le rovine della sua dimora non lo tenevano caldo. Si strinse nel pesante mantello nero, non perché la notte lo rendesse necessario, ma perché era ancora agghiacciato dal vento.

Mael non sembrava gradire quell’esitazione, ma l’accettò. Guardò sospettoso Pandora che non gli aveva mai ispirato fiducia, quindi fissò con aperta ostilità Santino, intento a spolverarsi l’abito e a pettinarsi i capelli neri ben tagliati. Per un secondo i loro occhi s’incontrarono. Quelli di Santino erano colmi di malizia; Mael distolse lo sguardo.

Marius rimase in ascolto, a riflettere. Sentiva il risanamento che finiva di compiersi nel suo corpo: lo sorprendeva un po’ essere di nuovo indenne. Come i mortali comprendono anno dopo anno di essere più vecchi e più deboli, gli immortali devono imparare a capire d’essere più forti di quanto immaginassero. In quel momento questa idea l’esasperava.

Era trascorsa appena un’ora da quando Pandora e Santino l’avevano aiutato a uscire dall’abisso di ghiaccio; e adesso era come se non fosse mai stato là, schiacciato e impotente, per dieci giorni e dieci notti, visitato continuamente dall’incubo delle gemelle. Tuttavia, nulla poteva più essere come un tempo.

Le gemelle. La donna dai capelli rossi era nella casa, e attendeva. Gliel’aveva detto Santino. Anche Mael lo sapeva. Ma chi era? E perché lui non voleva sapere la risposta? Perché quella era l’ora più buia che avesse mai conosciuto? Il suo corpo era completamente guarito, non c’era dubbio: ma che cosa avrebbe guarito la sua anima?

Armand era in quella strana casa di legno ai piedi della montagna? Di nuovo Armand, dopo tanto tempo? Santino gli aveva parlato anche di Armand, gli aveva detto che anche gli altri, Louis e Gabrielle, erano stati risparmiati.

Mael l’osservava. «Lui ti sta aspettando», disse. «Il tuo Amadeo.» Aveva un tono rispettoso, non cinico o impaziente.

E dal grande patrimonio di ricordi che Marius portava sempre con sé emerse un momento a lungo negletto, sorprendente nella sua purezza… Mael che entrava nel palazzo di Venezia negli anni felici del secolo decimoquinto, quando Marius e Armand avevano conosciuto una felicità così grande, e Mael aveva visto il ragazzo mortale all’opera con gli altri apprendisti su un affresco che solo di recente Marius aveva affidato alle loro mani poco esperte. Era strano, com’era vivido l’odore della tempera all’uovo, l’odore delle candele e l’altro, che nel ricordo non era sgradevole e che permeava tutta Venezia, della putredine, delle acque scure e marce dei canali. «E così vorresti creare lui?» aveva chiesto Mael con schietta semplicità. «Quando sarà tempo», aveva risposto Marius. «Quando sarà tempo.» Meno di un anno dopo aveva commesso l’errore. «Vieni fra le mie braccia, ragazzo. Non posso più vivere senza di te.»

Marius guardava la casa lontana. Il mio mondo trema e io penso a lui, il mio Amadeo, il mio Armand. I sentimenti che provava erano dolceamari come la musica, le melodie mescolate dei secoli recenti, le note tragiche di Brahms e Šostakovič che aveva finito per amare.

Ma non era il momento di allietarsi per quell’incontro. Non era il momento di sentirne il calore, di rallegrarsi e di dire ad Armand tutto ciò che desiderava dire.

L’amarezza era superficiale, in confronto al suo stato d’animo attuale. Avrei dovuto annientare la Madre e il Padre. Avrei dovuto annientare tutti noi.

«Gli dèi siano ringraziati perché non l’hai fatto», disse Mael.

«E perché?» chiese Marius. «Dimmi perché.»

Pandora rabbrividì e gli cinse la vita con un braccio. Perché ciò l’incolleriva tanto? Si voltò bruscamente verso di lei; avrebbe voluto percuoterla, respingerla. Ma ciò che vide lo bloccò. Pandora non lo stava guardando; e la sua espressione era così distante, così esausta che gli fece sentire ancora di più lo sfinimento. Avrebbe voluto piangere. Il benessere di Pandora era sempre stato fondamentale per la sua sopravvivenza. Non aveva bisogno di starle vicino, anzi era meglio se non le stava vicino: ma doveva sapere che lei era in qualche luogo e continuava a esistere, e che forse un giorno si sarebbero ritrovati. Ciò che ora vedeva in lei, ciò che aveva veduto già prima, lo colmava di tristi presentimenti. Se lui provava amarezza, Pandora era in preda alla disperazione.

«Venite», disse Santino. «Ci aspettano.» Il tono era di cortesia cerimoniosa.

«Lo so», rispose Marius.

«Ah, siamo davvero un bel trio», mormorò Pandora. Era sfinita, fragile, assetata di sonno e di sogni, eppure strinse più forte Marius in un gesto protettivo.

«Posso camminare senza aiuto, grazie», disse lui con un’irritazione che gli era inconsueta, soprattutto verso Pandora.

«E allora cammina», disse lei. E per un secondo Marius riprovò l’antico calore, persino una scintilla della gaiezza d’un tempo. Pandora lo sospinse leggermente, poi s’incamminò da sola in direzione della casa.

Acidi. I suoi pensieri erano acidi mentre la seguiva. Non poteva essere utile a quegli immortali. Tuttavia si avviò con Mael e Santino nella luce che filtrava dalle finestre. La foresta di sequoie recedette nell’ombra; non si muoveva neppure una foglia. Ma lì l’aria era buona e tiepida, carica di aromi puri, e non era pungente come al nord.

Armand. Avrebbe voluto piangere.

Poi vide la donna apparire sulla soglia. Una silfide dai lunghi capelli rossi che rifulgevano nella luce del corridoio.

Non si fermò: ma provò un guizzo di paura e di comprensione. Era certamente vecchia come Akasha. Le sopracciglia chiare parevano sbiadire nella radiosità del volto. La bocca non aveva più colore. E gli occhi… In realtà gli occhi non erano suoi. No, erano stati tolti a una vittima mortale e già la tradivano. Non vedeva molto bene. Ah, la sorella accecata dei sogni, ecco chi era. E adesso sentiva la sofferenza nei nervi delicati connessi agli occhi rubati.

Pandora si fermò ai piedi della scala. Marius passò oltre, salì sotto il portico. Si fermò davanti alla donna dai capelli rossi, meravigliandosi della sua altezza, poiché era alta come lui, e della splendida simmetria del volto simile a una maschera. Indossava una veste fluente di lana nera con il collo alto e le maniche ampie. La stoffa ricadeva da una cintura di corda nera intrecciata, stretta sotto i seni. Era una veste meravigliosa: faceva apparire il suo volto più radioso e distaccato, una maschera con una luce dietro, splendente in una cornice di capelli rossi.

Ma c’era ben altro di cui meravigliarsi, ben più di quei semplici attributi che poteva aver posseduto in una forma o nell’altra seimila anni prima. Il vigore della donna lo sbalordiva, le conferiva un’aria d’infinita flessibilità e di minaccia soverchiante. Era la vera immortale, quella che non aveva mai dormito, non aveva mai taciuto, non era mai stata liberata dalla follia? Era colei che s’era aggirata con la mente razionale e i passi misurati in tutti i millenni trascorsi dalla sua nascita?

Lei gli comunicò, per quanto poteva valere, che era esattamente così.

Marius poteva vedere la sua forza incommensurabile come se fosse una luce incandescente. Tuttavia poteva percepire un’informalità immediata, grazie alla spontanea ricettività d’una mente acuta.

Ma come leggere la sua espressione? Come sapere ciò che provava veramente?

Irradiava una femminilità profonda e morbida, non meno misteriosa di tutto il resto, una tenera vulnerabilità che Marius associava esclusivamente alle donne, anche se ogni tanto la trovava in un uomo molto giovane. Nei sogni, il suo viso gli aveva ispirato tenerezza; adesso era qualcosa d’invisibile, ma non per questo meno reale. In un altro momento lo avrebbe incantato; ora si limitò a prenderne nota, così come notava le unghie dorate e gli anelli gemmati.

«Per tutti questi anni hai saputo di me», le disse compitamente in latino. «Sapevi che custodivo la Madre e il Padre. Perché non sei venuta a cercarmi? Perché non mi hai detto chi eri?»

La donna rifletté per un lungo momento prima di rispondere, e girò gli occhi sugli altri che si stavano avvicinando.

Santino aveva terrore di lei quantunque la conoscesse molto bene. E anche Mael la temeva, benché, forse, un po’ meno. Anzi, sembrava che l’amasse e fosse legato a lei, le fosse asservito. In quanto a Pandora, era semplicemente apprensiva. Si avvicinò di più a Marius come per schierarsi con lui, indiscriminatamente.

«Sì, sapevo di te», disse all’improvviso la donna. Parlava inglese moderno, ma era la voce inconfondibile della gemella del sogno, la gemella cieca che aveva gridato il nome della sorella muta, Mekare, mentre entrambe venivano chiuse dalla folla irata nei sarcofagi di pietra.

Le nostre voci non cambiano mai, pensò Marius. La voce era giovane, piacevole. Quando riprese a parlare, aveva una morbidezza reticente.

«Avrei potuto distruggere il tuo sacrario, se fossi venuta», disse la donna. «Avrei potuto seppellire il re e la regina in fondo al mare. Avrei potuto addirittura annientarli e, così facendo, annientare tutti noi. E non volevo. Perciò non ho fatto nulla. Cosa avresti voluto che facessi? Non potevo sollevarti dal tuo onere. Non potevo aiutarti. Perciò non sono venuta.»

Era una risposta migliore di quanto Marius si aspettasse. Non era impossibile provare simpatia per quella creatura. D’altra parte era solo l’inizio. E la risposta… non era tutta la verità.

«No?» chiese la donna. Per un istante il viso rivelò una rete di rughe fìnissime, il riflesso di qualcosa che un tempo era stato umano. «Qual è la completa verità? Non ti dovevo nulla, men che meno la rivelazione della mia esistenza. È un’impertinenza da parte tua insinuare che avrei dovuto farmi riconoscere da te. Come te ne ho visti mille. So quando cominciate a esistere. So quando perite. Che cosa sei per me? Ora ci incontriamo perché è necessario. Siamo in pericolo. Tutte le cose viventi sono in pericolo. E forse quando tutto ciò sarà finito ci ameremo e ci rispetteremo. O forse no. Forse saremo tutti morti.»

«Forse», disse Marius a voce bassa. Non seppe nascondere un sorriso. La donna aveva ragione. E gli piaceva il suo modo di fare, la durezza con cui parlava.

Secondo la sua esperienza, tutti gli immortali erano segnati irrevocabilmente dall’epoca in cui erano nati. Ed era vero anche per quella creatura antica: le sue parole avevano una semplicità selvaggia, sebbene il timbro della voce fosse dolce.

«Non sono me stesso», le disse in tono esitante. «Non sono sopravvissuto a tutto questo come avrei dovuto. Il mio corpo è guarito… il solito miracolo.» Marius fece una smorfia. «Ma non comprendo la mia attuale visione delle cose. L’amarezza, la…» s’interruppe.

«La tenebra assoluta», disse lei.

«Sì, la vita non mi è mai parsa più insensata», soggiunse Marius. «Non per noi, intendo. Per tutte le cose viventi, per usare la tua frase. È uno scherzo, no? La coscienza è una specie di scherzo.»

«No», rispose la donna. «Non è così.»

«Non sono d’accordo. Vuoi trattarmi con condiscendenza? Vuoi dirmi quante migliaia di anni sei vissuta prima della mia nascita? Quante cose sai che io non so?» Marius pensò di nuovo alla sua prigionia, al ghiaccio che lo feriva, alla sofferenza che gli straziava le membra. Pensò alle voci immortali che gli avevano risposto, ai soccorritori che s’erano mossi per raggiungerlo e che a uno a uno erano stati colpiti dal fuoco di Akasha. Li aveva uditi morire, anche se non li aveva visti! E cos’aveva significato per lui il sonno? I sogni delle gemelle.

All’improvviso la donna gli prese gentilmente la mano destra fra le sue. Era come essere tenuto dalle fauci di una macchina: e sebbene Marius avesse dato la stessa impressione a molti giovani nel corso degli anni, non aveva mai conosciuto quella forza schiacciante.

«Marius, ora abbiamo bisogno di te», disse lei con calore. I suoi occhi scintillarono per un istante nella luce gialla che filtrava dalla porta dietro di lei e dalle finestre a destra e a sinistra.

«Per amor del cielo, perché?»

«Non scherzare», ribattè lei. «Vieni in casa. Dobbiamo parlare finché ne abbiamo il tempo.»

«Di che cosa?» insistette Marius. «Della causa che ha indotto la Madre a lasciarci vivere? Conosco la risposta a questa domanda. Mi fa ridere. Ovviamente non può uccidere te, e noi… noi siamo stati risparmiati perché è Lestat a volerlo. Te ne rendi conto, no? Ho avuto cura di lei per duemila anni, l’ho protetta, venerata, e adesso mi ha risparmiato solo perché ama un novizio di duecento anni chiamato Lestat.»

«Non esserne tanto sicuro!» esclamò Santino.

«No», disse la donna. «Non è l’unica ragione. Ma vi sono molte cose che dobbiamo considerare…»

«So che hai ragione», disse Marius. «Ma non ne ho lo spirito. Le mie illusioni sono finite, vedi, e non sapevo neppure che fossero illusioni. Credevo di aver raggiunto una grande saggezza. Era il mio principale motivo d’orgoglio. Stavo con le cose eterne. Poi, quando l’ho vista nel sacrario, ho compreso che s’erano avverati i miei sogni e le mie speranze! Era viva dentro quel corpo. Viva, mentre io facevo la parte dell’accolito, dello schiavo, dell’eterno guardiano della tomba!»

Ma perché tentare di spiegarlo? Il sorriso maligno, le parole beffarde che la Madre gli aveva rivolto, il ghiaccio che precipitava. E poi la tenebra gelida e le gemelle. Ah, sì, le gemelle. Era quello, il nucleo fondamentale: e all’improvviso pensò che i sogni avevano gettato su di lui un incantesimo. Avrebbe dovuto interrogarsi prima. Guardò la donna, e sembrò che all’improvviso i sogni la circondassero, la sottraessero al presente per riportarla a quei tempi crudeli. Vide la luce del sole, vide il cadavere della madre, vide le gemelle. Tanti interrogativi…

«Ma che hanno a che vedere i sogni con questa catastrofe?» chiese bruscamente. Era sempre stato indifeso contro i sogni interminabili.

La donna lo guardò per un lungo momento prima di rispondere. «Questo te lo dirò, per quanto ne so io. Ma devi calmarti. È come se avessi ritrovato la giovinezza… e dev’essere una maledizione.»

Marius rise. «Non sono mai stato giovane. Ma che cosa intendi dire?»

«Tu deliri e straparli. E non posso consolarti.»

«Lo faresti, se potessi?»

«Sì.»

Marius rise sommessamente.

Ma lei gli aprì le braccia con grazia. Il gesto lo sconvolse, non perché era straordinario, ma perché tante volte, nei sogni, l’aveva vista abbracciare così la sorella. «Il mio nome è Maharet», gli disse. «Chiamami così e scaccia la diffidenza. Entra nella mia casa.»

Si tese e gli toccò il viso con le mani mentre gli baciava la guancia. I capelli rossi gli toccarono la pelle e la sensazione lo confuse. Anche il profumo che saliva dal suo abito lo confondeva… la lieve fragranza orientale che gli ricordava l’incenso, e l’incenso lo faceva sempre pensare al sacrano.

«Maharet», le disse irosamente. «Se sono necessario, perché non sei venuta a cercarmi quand’ero nell’abisso di ghiaccio? Lei avrebbe potuto fermare te

«Marius, io sono venuta», disse la donna. «E ora sei qui con noi.» Lo lasciò e abbandonò con grazia le mani giunte. «Credi che non avessi nulla da fare durante quelle notti, mentre la nostra specie veniva annientata? Intorno a me e in tutto il mondo, lei uccideva coloro che avevo amato o conosciuto. Non potevo essere onnipresente per proteggere le vittime. Da ogni angolo della terra mi giungevano le grida. E io avevo la mia missione, la mia angoscia…» s’interruppe bruscamente.

Un lieve rossore umano la inondò; in un lampo riapparvero le rughe d’espressione del suo volto. Soffriva, fisicamente e mentalmente, e i suoi occhi erano annebbiati da lacrime di sangue. Era una cosa strana, la fragilità degli occhi nel corpo indistruttibile. E la sofferenza che emanava da lei e che Marius non poteva sopportare era come i sogni. Vedeva una quantità d’immagini, vivide e tuttavia differenti. E poi comprese…

«Non sei tu, quella che ci ha mandato i sogni», mormorò. «Non sei tu la fonte.» Maharet non rispose.

«Per gli dèi, dov’è tua sorella? Cosa significa tutto questo?» Vi fu un leggero trasalimento, come se l’avesse colpita al cuore. La donna cercò di velare la propria mente, ma Marius percepì il dolore insopprimibile. Lo fissava in silenzio, scrutava lentamente il volto e la figura, come per fargli sapere che aveva commesso una trasgressione imperdonabile.

Marius sentiva la paura che s’irradiava da Mael e da Santino; non osavano parlare. Pandora si accostò ancora di più e gli trasmise un monito mentre gli stringeva la mano.

Perché aveva parlato in modo tanto brutale e impaziente? La mia missione, la mia angoscia… Ah, maledizione!

La vide chiudere gli occhi e premere le dita sulle palpebre come per scacciare il dolore, ma senza riuscirvi.

«Maharet», disse con un sospiro sincero, «siamo in guerra e stiamo sul campo di battaglia a scambiarci parole dure. Io sono il peggior colpevole. Ma desidero soltanto comprendere.» Lei lo guardò, con la testa china, la mano protesa davanti al volto. Era uno sguardo ardente, quasi maligno. Tuttavia Marius si sorprese a guardare insensatamente la curva delicata delle dita, le unghie dorate e gli anelli con i rubini e gli smeraldi che balenavano come illuminati dalla luce elettrica.

Lo colpì un pensiero sperduto e terribile: se non avesse smesso d’essere così stupido non avrebbe più rivisto Armand. Lei avrebbe potuto scacciarlo o peggio… E prima che tutto finisse, voleva vedere Armand.

«Entra, Marius», disse Maharet con voce cortese, tollerante. «Vieni con te, e riunisciti alla tua creatura: poi ci troveremo con gli altri che hanno gli stessi interrogativi. E incominceremo.»

«Sì, la mia creatura…» mormorò Marius. Sentiva il desiderio di Armand come una musica, come il fraseggiare dei violini di Bartók in un luogo remoto e sicuro dove aveva a disposizione, per ascoltare, tutto il tempo del mondo. Eppure la odiava. Li odiava tutti. Odiava se stesso. L’altra gemella, dov’era l’altra gemella? Visioni di una giungla. Visioni di liane strappate, di virgulti che si spezzavano sotto i piedi. Si sforzò di ragionare, ma senza riuscirvi. L’odio l’avvelenava.

Molte volte aveva assistito a quella nera negazione della vita nei mortali. Aveva udito i più saggi tra loro dire: «La vita non vale la pena». E non aveva mai compreso; ebbene, adesso comprendeva.

Si accorse vagamente che la donna s’era rivolta agli altri, e invitava Pandora e Santino a entrare in casa.

Come in una trance, la vide voltarsi per precederli. I capelli le scendevano fino alla cintura in una grande massa di riccioli rossi. Provava l’impulso di toccarli per accertare se erano davvero morbidi come parevano. Era straordinario che si lasciasse distrarre da qualcosa di bello in quel momento, qualcosa d’impersonale che gli dava un senso di benessere, come se nulla fosse accaduto, come se nel mondo regnasse il bene. Rivedeva il sacrario intatto, il sacrario al centro del suo mondo. Ah, lo stupido cervello umano, pensò… come si afferra a ciò che capita. E pensare che Armand attendeva, così vicino…

La donna li precedette attraverso una serie di grandi stanze arredate sobriamente. Quel luogo aveva l’aria di una cittadella. Le travi del soffitto erano enormi; i camini, dove ardevano fuochi ruggenti, non erano altro che focolari di pietra aperti.

Era così simile ai vecchi luoghi di ritrovo dell’Europa medievale, quando le strade romane erano andate in rovina, la lingua latina era stata dimenticata e le vecchie tribù guerriere erano di nuovo insorte. Alla fine i celti avevano trionfato. Erano stati loro a conquistare l’Europa; i castelli feudali non erano altro che accampamenti celtici; e persino negli stati moderni sopravviveva la superstizione celtica, più della ragione romana.

Ma quel luogo ricordava tempi ancora più antichi. Uomini e donne erano vissuti in città costruite così, prima dell’invenzione della scrittura, in stanze di intonaco e di legno, fra oggetti intessuti o martellati a mano.

Gli piaceva; ah, di nuovo la mente idiota, pensò… come poteva piacergli qualcosa in un momento simile? Ma i luoghi costruiti dagli immortali lo affascinavano sempre. E quello era un posto da studiare lentamente, da imparare a conoscere in un lungo periodo di tempo.

Varcarono una porta d’acciaio e penetrarono nell’interno della montagna. L’odore della terra lo circondò. Tuttavia camminavano in corridoi nuovi di metallo, con le pareti di lamiera. Sentiva i generatori, i computer, tutti i sommessi ronzii elettronici che gli avevano dato un grande senso di sicurezza nella sua casa.

Salirono una scala di ferro che si avvolgeva su se stessa, via via che Maharet li guidava sempre più in alto. Le pareti rozze rivelavano le viscere della montagna, dalle venature profonde di argilla colorata e di roccia. Vi crescevano felci minuscole; ma da dove giungeva la luce? Un lucernario, lassù in alto. Una minuscola porta del cielo. Alzò lo sguardo con sollievo verso il barlume di chiarore azzurro.

Finalmente arrivarono su un ampio ballatoio ed entrarono in una stanzetta buia. C’era una porta, aperta su una camera assai più grande dove attendevano gli altri; ma per il momento Marius scorse soltanto il bagliore di un fuoco lontano che lo costrinse a distogliere lo sguardo.

Qualcuno lo attendeva in quella stanzetta, qualcuno di cui non era riuscito a percepire la presenza se non con i mezzi più ordinari. Era qualcuno che adesso gli stava alle spalle. E mentre Maharet entrava nel locale più grande e conduceva con sé Pandora, Santino e Mael, comprese ciò che stava per accadere. Per prepararsi trasse un respiro lento e chiuse gli occhi.

Come sembrava banale tutta la sua amarezza. Pensò all’essere la cui esistenza era stata per secoli sofferenza ininterrotta, la cui gioventù in tutte le sue esigenze era stata resa veramente eterna; l’essere che non aveva potuto salvare o perfezionare. Quante volte, nel corso degli anni, aveva sognato di ritrovarlo, senza mai averne il coraggio; e adesso dovevano rivedersi finalmente su quel campo di battaglia, in quel tempo di rovina.

«Amor mio», sussurrò. All’improvviso si sentì intimidito, come era avvenuto prima, quando s’era involato sopra le distese innevate, oltre il regno delle nubi indifferenti. Non aveva mai pronunciato parole più sentite e sincere. «Mio bellissimo Amadeo», disse.

Si tese e sentì il tocco della mano di Armand.

La carne innaturale era ancora morbida, morbida come se fosse umana, e fresca e delicata. Non seppe trattenersi. Pianse. Aprì gli occhi e vide la figura di adolescente che gli stava davanti. Oh, quell’espressione. Così arrendevole e piena di accettazione. Poi spalancò le braccia.

Secoli prima, in un palazzo veneziano, aveva cercato di catturare la qualità di quell’amore. Qual era stata la lezione? In tutto il mondo non esistono due anime che racchiudano lo stesso segreto, lo stesso dono di dedizione e di abbandono; in un ragazzo comune, un ragazzo ferito, aveva trovato un miscuglio di tristezza e di semplice grazia che gli avrebbe spezzato il cuore per sempre? Costui lo aveva compreso! Costui l’aveva amato come non l’aveva mai amato nessun altro.

Tra le lacrime non vide alcuna recriminazione per il grandioso esperimento sbagliato. Vide la faccia che aveva dipinto, ora leggermente oscurata da ciò che ingenuamente chiamiamo saggezza; e vide lo stesso amore sul quale aveva contato in modo così totale in quelle notti perdute.

Se vi fosse stato il tempo, il tempo di cercare la quiete della foresta, un luogo caldo e isolato fra le sequoie svettanti, per parlare insieme ore e ore, senza fretta, per notti e notti! Ma gli altri attendevano; perciò quei momenti erano tanto più preziosi e tanto più tristi.

Strinse a sé Armand. Gli baciò le labbra e i lunghi capelli scomposti. Gli passò avidamente una mano sulle spalle, guardò la mano bianca che teneva nella sua. Aveva cercato di conservare perennemente ogni dettaglio sulla tela: e sicuramente aveva conservato ogni dettaglio nella morte.

«Ci attendono, vero?» chiese. «Non ci concederanno più di qualche attimo.»

Armand annuì. Con voce così bassa che si udiva appena, disse: «È abbastanza. Ho sempre saputo che ci saremmo incontrati di nuovo». Oh, i ricordi evocati dal timbro della voce. Il palazzo con i soffitti a cassettoni, i letti con i drappi di velluto rosso. Quel ragazzo che saliva correndo la scalinata di marmo, con il viso avvampato dal vento invernale dell’Adriatico, gli occhi scuri ardenti come braci. «Persino nei momenti di maggior pericolo», continuò la voce, «sapevo che ci saremmo incontrati prima che fossi libero di morire.»

«Libero di morire?» ribattè Marius. «Siamo sempre liberi di morire, no? Ora dobbiamo avere il coraggio di farlo, se è davvero giusto.»

Armand parve riflettere per un momento. E l’espressione remota che apparve sul suo volto fece rinascere in Marius la tristezza. «Sì, è vero.»

«Ti amo», mormorò Marius all’improvviso, appassionatamente come un mortale. «Ti ho sempre amato. Vorrei poter credere in qualcosa di diverso dall’amore in questo momento, ma non posso.»

Un suono li interruppe. Maharet era apparsa sulla soglia.

Marius passò il braccio intorno alle spalle di Armand. Vi fu un ultimo attimo di silenzio e d’intesa fra loro. Poi seguirono la donna nell’immensa sala in cima alla montagna.


Era tutta di vetro, a parte il muro dietro di lui e il comignolo di ferro sospeso nel soffitto sopra al fuoco scoppiettante. Non c’era altra luce oltre alle fiamme, e tutto intorno le cime delle sequoie mostruose, e il cielo blando del Pacifico con le nubi vaporose e le minuscole stelle pavide.

Ma era comunque bellissimo, no? Anche se non era il cielo sopra la baia di Napoli, o sopra il fianco dell’Annapurna o un vascello alla deriva sul mare buio. Era bellissimo nella sua immensità: e pensare che pochi attimi prima era lassù, librato nella tenebra, visto solo dai compagni di viaggio e dalle stelle. La gioia tornò a lui come nell’attimo in cui aveva guardato i capelli rossi di Maharet. Non c’era sofferenza come quando pensava ad Armand al suo fianco: era soltanto gioia, impersonale e trascendente. Una ragione per restare vivo.

All’improvviso ricordò che l’amarezza e il rimpianto non erano sentimenti molto adatti a lui, che non aveva l’energia adeguata: e se doveva recuperare la dignità, doveva farlo in fretta.

Sentì una risatina, discreta e amichevole, forse un po’ ebbra, la risata di un novizio privo di buonsenso. Sorrise e lanciò un’occhiata a quell’essere, Daniel, il «ragazzo» anonimo dell’Intervista con il Vampiro. Ricordò di colpo che era il figlio di Armand, l’unico figlio che Armand avesse mai creato. Era avviato bene sulla Strada del Diavolo, quell’essere esuberante e inebriato, fortificato da tutto ciò che Armand aveva da donare.

Scrutò in fretta gli altri che s’erano radunati intorno al tavolo ovale.

Alla sua destra, un po’ lontana, c’era Gabrielle con i capelli biondi raccolti in una treccia e gli occhi colmi di angoscia; e accanto a lei Louis, passivo come sempre, fissava Marius con attenzione scientifica o venerazione, o forse l’una e l’altra; e poi c’era l’amata Pandora, con i capelli bruni e ondulati sciolti sulle spalle e ancora costellati dalle minuscole gocce di ghiaccio disciolto. Infine c’era Santino alla sua destra, di nuovo composto e con gli indumenti di velluto nero liberi dalla polvere.

Alla sua sinistra stava Khayman, un altro essere antico che aveva rivelato il proprio nome in silenzio e senza reticenze; un essere agghiacciante, con un viso ancora più levigato di quello di Maharet. Marius si accorse che era faticoso distogliere gli occhi da lui. I volti della Madre o del Padre non l’avevano mai così sorpreso, sebbene anche loro avessero gli stessi occhi neri, gli stessi capelli di giaietto. Era il sorriso, no? L’espressione aperta e affabile, fissa nonostante il tempo che si sforzava di cancellarla. L’essere sembrava un mistico o un santo, tuttavia era un assassino spietato. I recenti banchetti di sangue umano avevano ammorbidito un poco la sua pelle e conferito un lieve rossore alle guance.

Mael, irsuto come sempre, aveva preso posto alla sinistra di Khayman, e dopo di lui veniva un altro vecchio, Eric, che secondo il calcolo di Marius aveva più di tremila anni, ed era magro e ingannevolmente fragile d’aspetto: doveva aver avuto una trentina d’anni quando era morto. Gli occhi castani osservavano pensosamente Marius. Gli indumenti confezionati a mano erano squisite repliche dei capi che portavano attualmente gli uomini d’affari.

E cos’era l’altro essere che sedeva alla destra di Maharet, direttamente di fronte a Marius? Era davvero sconvolgente. In un primo istante pensò all’altra gemella, quando vide gli occhi verdi e i capelli di rame.

Ma senza dubbio quell’essere era stato vivo ancora ieri. E non riusciva a trovare una spiegazione per la sua forza, il suo pallore frigido; il modo penetrante con cui lo fissava, e lo schiacciante potere telepatico che emanava da lei, una cascata di immagini buie e finemente delineate che sembrava incapace di controllare. In quel momento vedeva con bizzarra esattezza il quadro che lui aveva dipinto secoli prima, in cui era ritratto il suo Amadeo circondato da angeli dalle ali nere mentre stava inginocchiato a pregare. Un brivido scosse Marius.

«Nella cripta del Talamasca?» mormorò. «Il mio quadro?» Rise, velenosamente. «Dunque è là!»

La creatura era impaurita; non aveva avuto intenzione di rivelare i propri pensieri. Si chiuse in se stessa; desiderava proteggere il Talamasca, ed era disperatamente confusa. Sembrò rimpicciolire e nel contempo raddoppiare il proprio potere. Un mostro. Un mostro dagli occhi verdi e dalle ossa delicate. Nata ieri, sì, esattamente come aveva immaginato; c’erano tessuti vivi in lei. E all’improvviso comprese la verità. Quella Jesse era stata creata da Maharet. Era un’autentica discendente umana della donna, e adesso era diventata la novizia della madre antica. La realtà lo sbalordiva e un poco lo spaventava. Il sangue che scorreva nelle vene della giovane aveva una potenza che per Marius era inimmaginabile. Era assolutamente priva di sete; e tuttavia non era neppure veramente morta.

Ma doveva interrompere quell’osservazione spietata e indiscreta. Dopotutto lo stavano aspettando. Tuttavia non poteva fare a meno di chiedersi dove erano, in nome di Dio, i suoi discendenti mortali, la progenie dei nipoti e delle nipoti che aveva tanto amato in vita. Per qualche secolo, sì, aveva seguito i loro progressi; ma alla fine non era più stato in grado di riconoscerli, come non poteva più riconoscere Roma. E aveva lasciato che tutto piombasse nell’oscurità, come Roma era caduta nella tenebra. Tuttavia c’erano ancora sulla terra, oggi, alcuni uomini che avevano nelle vene il sangue dell’antica famiglia.

Continuò a fissare la giovane dai capelli rossi. Come somigliava alla madre: alta e tuttavia fragile, bella eppure severa. C’è un grande segreto, qualcosa che è legato alla discendenza, alla famiglia… La donna indossava un abito scuro, piuttosto simile a quello dell’antenata; le mani erano immacolate, e non portava profumi né trucco.

Erano tutti magnifici, ognuno a suo modo. Santino, alto e massiccio, era elegante nel nero sacerdotale, con i lustri occhi scuri e la bocca sensuale. Persino Mael aveva una presenza selvaggia e imponente, mentre fissava la donna antica con un misto inequivocabile di amore e di odio. Il viso angelico di Armand era indescrivibile; e il giovane Daniel era una visione, con i capelli biondocenere e gli splendenti occhi viola.

L’immortalità veniva mai donata a chi era brutto? Oppure la magia tenebrosa ricavava la bellezza da ogni sacrificio gettato tra le fiamme? Ma sicuramente Gabrielle era stata incantevole anche in vita, con tutto il coraggio del figlio ma senza la sua impetuosità; e Louis, ah, Louis era stato scelto, naturalmente, per l’ossatura squisita del volto e la profondità degli occhi verdi. Era stato scelto per l’inveterato atteggiamento di seria concentrazione che rivelava in quel momento. Sembrava un essere umano sperduto fra gli altri, con il volto addolcito dal colore e dal sentimento, e il corpo curiosamente indifeso, gli occhi assorti e tristi. Persino Khayman aveva una perfezione innegabile nel volto e nella figura, per quanto fosse orrendo l’effetto complessivo.

In quanto a Pandora, quando la guardava la vedeva viva e mortale, vedeva la donna innocente che era venuta a lui tanti secoli prima nelle buie strade di Antiochia e l’aveva implorato di renderla immortale, non l’essere remoto e malinconico che, avvolto nelle semplici vesti bibliche, ora stava muto e guardava attraverso la parete di vetro la galassia semiscomparsa dietro l’addensarsi delle nuvole.

Persino Eric, sbiancato dai secoli e vagamente luminoso, conservava come Maharet un’aria di grande sentimento umano, resa ancora più avvincente da una grazia androgina.

Marius non aveva mai visto una simile assemblea, un’accolta di immortali di ogni età, da quelli appena nati ai più antichi, ognuno dotato di poteri e di debolezze incommensurabili, fino al giovane delirante che Armand aveva abilmente creato con tutta la virtù intatta del suo sangue vergine. Marius dubitava che fosse mai esistita in passato una simile «congrega».

E lui, come s’inseriva nel quadro, lui che era stato il più vecchio del suo universo meticolosamente controllato, in cui gli antichi erano divinità silenziose? I venti l’avevano mondato dalle incrostazioni di sangue che aderivano al viso e ai lunghi capelli. Il manto nero era bagnato dalle nevi. E mentre si accostava al tavolo, mentre attendeva con aria bellicosa che Maharet gli permettesse di sedere, pensò che sembrava un mostro esattamente come gli altri: i suoi occhi azzurri erano sicuramente raggelati dall’animosità che lo bruciava dentro.

«Prego», disse garbatamente Maharet. Indicò la sedia vuota, che evidentemente era un posto d’onore, in fondo al tavolo… se il posto dove stava lei era il capotavola.

La sedia era comoda, diversa dalla maggior parte dei mobili moderni. Lo schienale curvo sembrava adattarsi alla sua persona; e c’erano i braccioli per appoggiare le mani. Armand sedette nel posto vuoto alla sua destra.

Maharet sedette senza far rumore. Posò le mani intrecciate sul piano di legno. Chinò la testa come se raccogliesse i pensieri per incominciare.

«Siamo rimasti noi soli?» chiese Marius. «Oltre alla regina e al principino e…» S’interruppe.

Fra gli altri passò un’ondata di confusione silenziosa. La gemella muta, dov’era? Qual era il mistero?

«Sì», rispose sobriamente Maharet. «Oltre alla regina e al principino e a mia sorella. Sì, siamo i soli rimasti. O i soli rimasti che abbiano importanza.»

Fece una pausa, come per lasciare che le sue parole facessero effetto. Girò gentilmente lo sguardo sull’assemblea.

«Molto lontano», riprese, «possono esserci altri… vecchi che hanno preferito restare in disparte. E coloro cui lei dà ancora la caccia, e che sono spacciati. Ma noi siamo quelli rimasti in termini di destino o di decisione. O d’intento.»

«E mio figlio», disse Gabrielle. La sua voce era limpida, piena d’emozione e di sottile disprezzo per i presenti. «Nessuno di voi vuol dirmi che cos’ha fatto di lui la regina, e dov’è?» Girò lo sguardo dalla donna a Marius, intrepida e disperata. «Sicuramente avete il potere di conoscere dov’è mio figlio.»

La rassomiglianza con Lestat commosse Marius. Era da lei che Lestat, indubbiamente, aveva attinto la sua forza. Ma aveva una freddezza che Lestat non avrebbe mai compreso.

Gabrielle non lo credeva, ovviamente. Era animata da un rifiuto, un desiderio di andarsene, di restare sola. Niente avrebbe potuto costringere gli altri a staccarsi dal tavolo. Ma lei non sentiva lo stesso impegno, era chiaro.

«Permettetemi di spiegarlo», disse Maharet, «perché è della massima importanza. La Madre, naturalmente, è esperta nel proteggersi. Ma noi dei primi secoli non siamo mai riusciti a comunicare silenziosamente con la Madre e il Padre, e neppure tra noi. Siamo troppo vicini alla sorgente del potere che fa di noi ciò che siamo. Siamo ciechi e sordi l’uno alla mente dell’altro, così come tra voi lo sono maestro e novizio. Solo via via che il tempo passava e che venivano creati altri bevitori di sangue, questi acquisirono il potere di comunicare silenziosamente tra loro, così come noi abbiamo sempre fatto con i mortali.»

«Dunque Akasha non poteva trovarti», disse Marius. «Né te né Khayman… se non eravate con noi.»

«È così. Deve vederci attraverso le vostre menti, oppure non ci vede affatto. E anche noi dobbiamo vederla tramite le menti di altri. Eccettuato, naturalmente, un certo suono che udiamo ogni tanto all’avvicinarsi dei potenti, un suono legato a una grande energia, al respiro e al sangue.»

«Sì, il suono», mormorò Daniel. «Quel suono spaventoso, implacabile.»

«Ma non vi è un luogo dove noi possiamo nasconderei a lei?» chiese Eric. «Quelli che può vedere e udire?» Era la voce di un giovane, naturalmente, dall’accento pesante e indefinibile, e ogni parola era intonata in modo splendido.

«Sai che non esiste», rispose Maharet con esplicita pazienza. «Ma perdiamo tempo parlando di nasconderei. Voi siete qui perché lei non può uccidervi o ha deciso di non farlo. Così sia. Dobbiamo andare avanti.»

«Forse non ha ancora finito», disse Eric con una smorfia di disgusto. «Non ha ancora deciso chi dovrà morire e chi dovrà vivere!»

«Io credo che qui siate al sicuro», disse Khayman. «Ha avuto la possibilità di annientare tutti i presenti, non è così?»

Ma si trattava proprio di quello, pensò Marius. Non era chiaro se la Madre aveva avuto una possibilità con Eric, lui che apparentemente viaggiava in compagnia di Maharet. Eric teneva gli occhi fissi su di lei. Vi fu un rapido scambio silenzioso, ma non telepatico. Marius comprese che era stata Maharet a creare Eric; e nessuno dei due sapeva con certezza se ora Eric fosse troppo forte per la Madre. Maharet stava invitando alla calma.

«Ma Lestat… puoi leggere la sua mente, no?» chiese Gabrielle. «Non puoi scoprirli entrambi per suo mezzo?»

«Neppure io posso sempre coprire una distanza pura ed enorme», rispose Maharet. «Se fossero rimasti altri bevitori di sangue in grado di captare i pensieri di Lestat e di trasmetterli a me, naturalmente potrei trovarlo in un istante. Ma i bevitori di sangue sono stati annientati quasi tutti. E Lestat è sempre stato abile nel mascherare la propria presenza: gli viene naturalmente. Avviene sempre così con i più forti, autosufficienti e aggressivi. Dovunque sia in questo momento, ci esclude per istinto.»

«Lei lo ha preso», disse Khayman, tendendosi per posare la mano sulla mano di Gabrielle. «E quando sarà pronta, ci rivelerà tutto. E se nel frattempo deciderà di fare del male a Lestat, non c’è nulla che noi potremo fare.»

Per poco Marius non rise. Sembrava che per gli antichi l’affermazione delle verità assolute fosse un conforto: erano una bizzarra combinazione di vitalità e di passività. Era stato così agli albori della storia documentata? Quando qualcuno percepiva l’inevitabile, restava inerte e si rassegnava? Per lui era troppo difficile comprenderlo.

«La Madre non farà del male a Lestat», disse a Gabrielle, a tutti. «Lo ama. E in fondo è un amore comune. Non gli farà del male perché non vuol far male a se stessa. E conosce tutti i suoi trucchi, scommetto, come noi li conosciamo. Lestat non potrà provocarla anche se con ogni probabilità sarà abbastanza sciocco da tentarlo.»

Gabrielle annuì e sorrise vagamente. Era convinta che Lestat fosse capace di provocare chiunque, alla fine, se ne avesse avuto il tempo e l’occasione; ma non disse nulla.

Non era né consolata né rassegnata. Stava eretta sulla sedia e non li guardava, come se non esistessero più. Non provava senso di devozione per il gruppo; non provava nulla per nessuno, eccettuato Lestat.

«Sta bene, allora», disse freddamente. «Rispondi all’interrogativo cruciale. Se annienterò il mostro che ha preso mio figlio, moriremo tutti?»

«E come conti di annientarlo?» chiese sbalordito Daniel. Eric fece una smorfia.

Gabrielle lanciò a Daniel uno sguardo noncurante e ignorò Eric. Fissò Maharet. «Dunque, il vecchio mito è vero? Se io elimino quella carogna, elimino tutti noi?»

Qualcuno rise. Marius scosse la testa. Maharet accennò un sorriso e annuì.

«Sì. È stato tentato, anticamente. È stato tentato da molti pazzi che non lo credevano. Lo spirito che abita in lei ci anima tutti. Se annienti l’ospite, annienti il potere. I giovani muoiono per primi; i vecchi si consumano lentamente; forse i più antichi se ne vanno per ultimi. Ma lei è la Regina dei Dannati, e i dannati non possono vivere senza di lei. Enkil era soltanto il suo consorte, perciò non ha importanza il fatto che lei lo abbia ucciso e abbia bevuto il suo sangue fino all’ultima goccia.»

«La Regina dei Dannati», mormorò Marius. Maharet l’aveva detto con una strana inflessione, come se si ridestassero in lei ricòrdi terribili e spaventosi, non affievoliti dal tempo. Non erano affievoliti, come non lo erano i sogni. Percepiva di nuovo la severità di quegli esseri antichi per i quali forse il linguaggio e tutti i pensieri che governava non erano inutilmente complessi.

«Gabrielle», disse Khayman, pronunciando in modo squisito il nome, «noi non possiamo aiutare Lestat. Dobbiamo sfruttare questo tempo per fare un piano.» Si rivolse a Maharet. «I sogni, Maharet. Perché i sogni sono venuti a noi proprio adesso? È tutto ciò che desideriamo sapere.»

Vi fu un silenzio protratto. Tutti i presenti, in una forma o nell’altra, avevano conosciuto quei sogni. Avevano appena sfiorato Gabrielle e Louis, così lievemente, anzi, che prima di quella notte Gabrielle non vi aveva pensato; e Louis, spaventato da Lestat, li aveva scacciati dalla mente. Persino Pandora, che confessava di non averne conoscenza personale, aveva riferito a Marius l’avvertimento di Azim. Santino li aveva chiamati trance orride cui non poteva sottrarsi.

Marius sapeva che erano stati un incantesimo malefico per i giovani, Jesse e Daniel, crudeli quasi come lo erano stati per lui.

Tuttavia Maharet non rispose. La sofferenza nei suoi occhi era più intensa. Marius la sentiva come una vibrazione silenziosa, sentiva lo spasimo dei nervi.

Si tese leggermente in avanti e giunse le mani sul tavolo.

«Maharet», disse, «è tua sorella a inviare i sogni. Non è così?»

Nessuna risposta.

«Dov’è Mekare?» insistette Marius.

Di nuovo silenzio.

Sentiva la sofferenza in Maharet. E ancora una volta era addolorato per la brutalità del suo linguaggio. Ma se doveva esser utile, doveva spingere le cose verso una conclusione. Pensò di nuovo ad Akasha nel sacrario, anche se non sapeva perché. Pensò al sorriso sul suo volto. Pensò a Lestat… con un desiderio disperato di proteggerlo. Ma ormai Lestat era soltanto un simbolo. Un simbolo di se stesso. Di tutti loro.

Maharet lo guardò in modo stranissimo, come se per lei fosse un enigma. Poi guardò gli altri e parlò.

«Avete assistito alla nostra separazione», disse a voce bassa. «Tutti voi. L’avete visto nel sogno. Avete visto la folla circondare me e mia sorella; l’avete vista dividerci. Ci chiusero nei sarcofaghi di pietra. Mekare non poteva gridare perché le avevano tagliato la lingua, io non potevo vederla un’ultima volta perché mi avevano strappato gli occhi.

«Ma vedevo attraverso le menti di coloro che ci tormentavano. Sapevo che ci stavano portando alla riva del mare, Mekare a ovest, io a est.

«Per dieci notti andai alla deriva sulla zattera di tronchi e di pece, sepolta viva nella bara di pietra. E alla fine, quando la zattera affondò e l’acqua sollevò il coperchio di pietra, fui libera. Cieca e affamata, raggiunsi la riva a nuoto e rubai al primo povero mortale che incontrai gli occhi per vedere e il sangue per vivere.

«Ma Mekare? Era stata gettata nel grande oceano occidentale… le acque che arrivavano alla fine del mondo.

«Tuttavia a partire da quella notte la cercai; la cercai in Europa e in Asia, nelle giungle meridionali e nelle gelide terre del Nord. La cercai per secoli e secoli e finalmente attraversai l’oceano occidentale quando lo fecero i mortali, per proseguire la mia ricerca nel Nuovo Mondo.

«Non ritrovai mia sorella. Non trovai un mortale o un immortale che l’avesse vista o avesse udito il suo nome. Poi in questo secolo, negli anni dopo la seconda grande guerra, nelle giungle montane del Perù, la prova incontestabile della presenza di mia sorella fu scoperta da un archeologo solitario sulle pareti di una grotta… erano immagini create da mia sorella, figure schematiche e rozzi pigmenti che narravano la storia della nostra vita insieme e delle sofferenze a voi ben note.

«Ma quei disegni erano stati incisi nella pietra seimila anni or sono. È mia sorella mi era stata tolta seimila anni fa. Non fu mai scoperta altra prova della sua esistenza.

«Tuttavia non ho mai rinunciato alla speranza di ritrovare mia sorella. Ho sempre saputo, come può saperlo solo un gemello, che si aggira ancora su questa terra, e che non sono sola. «Ora, nelle ultime dieci notti, ho avuto per la prima volta la prova che mia sorella è ancora con me. La prova mi è giunta tramite i sogni.

«Sono i pensieri di Mekare, le immagini di Mekare, il suo rancore e la sua sofferenza.»

Silenzio. Tutti gli occhi erano fissi su di lei. Marius era ammutolito. Non osava parlare di nuovo. Ma era peggio di quanto avesse immaginato, e le implicazioni erano del tutto chiare.

L’origine dei sogni non era, quasi sicuramente, una superstite cosciente dei millenni; la visione era irradiata probabilmente da qualcuno che ormai non aveva più lucidità di un animale, nel quale la memoria è uno sprone all’azione che non comprende e non contesta. Questo poteva spiegare la nitidezza e la ripetitività.

E le visioni fuggevoli di qualcosa che si muoveva nelle giungle, ebbene, era Mekare.

«Sì», disse subito Maharet. «‘Nelle giungle. Cammina’», mormorò. «Le parole dell’archeologo morente, scribacchiate su un pezzo di carta perché le trovassi al mio arrivo. ‘Nelle giungle. Cammina.’ Ma dove?»

Fu Louis a spezzare il silenzio.

«Allora è possibile che i sogni non siano un messaggio voluto», disse con un leggero accento francese. «Forse sono soltanto le emanazioni di un’anima torturata.»

«No. Sono un messaggio», disse Khayman. «Sono un avvertimento. Sono rivolti a noi tutti e anche alla Madre.»

«Ma come puoi dirlo?» gli chiese Gabrielle. «Non sappiamo in quali condizioni sia ridotta ora la sua mente. Non sappiamo neppure se sia consapevole della nostra presenza qui.»

«Voi non conoscete tutta la storia», disse Khayman. «Ma io la conosco. Maharet ve la dirà.» Si voltò a guardare la donna.

«Io l’ho vista», disse Jesse con voce incerta, e guardò Maharet. «Ha attraversato un grande fiume. Sta venendo qui. L’ho vista! No, non è esatto. Ho visto la scena come se fossi lei.»

«Sì», rispose Marius. «Attraverso i suoi occhi.»

«Ho visto i suoi capelli rossi quando ho abbassato lo sguardo», disse Jesse. «Ho visto la giungla aprirsi dinanzi a lei a ogni passo.»

«I sogni devono essere una comunicazione», disse Mael con improvvisa impazienza. «Altrimenti, perché il messaggio sarebbe così forte? I nostri pensieri personali non sono tanto potenti. Lei alza la voce: vuol far sapere a qualcuno o a qualcosa ciò che sta pensando…»

«O forse è ossessionata e l’ossessione la spinge ad agire», rispose Marius. «E si avvia verso una certa meta.» S’interruppe per un momento. «Per riunirsi a te che sei sua sorella. Che altro potrebbe volere?»

«No», disse Khayman. «Non è questo il suo scopo.» Guardò di nuovo Maharet. «Deve mantenere una promessa fatta alla Madre: e questo è il significato del sogno.»

Per un momento Maharet lo studiò in silenzio: sembrava che quasi non sopportasse di parlare della sorella, e tuttavia si facesse forza in silenzio per la prova che si preparava.

«Noi eravamo presenti all’inizio», disse Khayman. «Noi fummo i primi figli della Madre. E in quei sogni c’è la storia degli eventi che hanno dato l’avvio a tutto.»

«Allora devi raccontare… tutto quanto», disse Marius, con tutta la gentilezza di cui era capace.

«Sì.» Maharet sospirò. «E lo farò.» Li guardò, uno dopo l’altro, e guardò di nuovo Jesse. «Devo raccontarvi tutta la storia», disse, «perché possiate comprendere ciò che forse non potremo scongiurare. Vedete, non è soltanto la storia del principio, ma forse anche quella della fine.» Sospirò come se la prospettiva fosse troppo opprimente. «Il nostro mondo non ha mai visto un simile sovvertimento», disse guardando Marius. «La musica di Lestat, il risveglio della Madre e tanti morti.»

Per un momento abbassò lo sguardo, come se si concentrasse. Poi guardò Khayman e Jesse, coloro che più amava.

«Non l’ho mai narrata prima d’ora», disse come se chiedesse indulgenza. «Per me ha la cruda purezza della mitologia… i tempi in cui ero viva e potevo ancora vedere il sole. Ma in questa mitologia sono radicate tutte le verità che conosco. E se torniamo al passato possiamo trovare il futuro e il modo di cambiarlo. Come minimo, possiamo cercare di capire.»

Scese il silenzio. Con pazienza rispettosa, tutti attesero che incominciasse.

«All’inizio», disse Maharet, «eravamo streghe, mia sorella e io. Parlavamo agli spiriti e gli spiriti ci amavano. Fino a che lei mandò i soldati nella nostra terra.»

3. LESTAT: LA REGINA DEL PARADISO

Mi lasciò. Subito incominciai a precipitare. Il vento era un rombo nei miei orecchi. Ma la cosa peggiore era l’impossibilità di vedere. La sentii dire: «Sali». Vi fu un momento d’impotenza squisita. Precipitavo verso la terra e niente poteva impedirlo. Poi alzai gli occhi doloranti, vidi le nubi che si chiudevano sopra di me, e ricordai la torre e la sensazione dell’ascesa. Presi la decisione. Sali! La caduta si arrestò.

Fu come se mi avesse afferrato una corrente d’aria. Salii per decine e decine di metri in un istante, poi le nubi furono sotto di me, un luce bianca che stentavo a guardare. Decisi di lasciarmi andare alla deriva. Perché dovevo avere una meta precisa, per il momento? Forse avrei potuto aprire completamente gli occhi e vedere nel vento, se non avessi avuto paura di soffrire.

Lei rideva, chissà dove… nella mia mente e sopra di me, non sapevo. Vieni, mio principe, sali più in alto.

Roteai su me stesso e sfrecciai di nuovo verso l’alto, fino a che la vidi venire verso di me, con gli indumenti che ondeggiavano e le trecce pesanti sollevate dolcemente dal vento.

Mi strinse e mi baciò. Cercai di stabilizzarmi aggrappandomi a lei, di guardare in basso e di vedere qualcosa attraverso gli squarci fra le nuvole. Montagne coperte di neve, abbaglianti nel chiaro di luna, con i grandi fianchi azzurrognoli che sparivano nelle profonde valli innevate.

«Ora sollevami», mi sussurrò all’orecchio la regina. «Portami a nord-ovest.»

«Non conosco la direzione.»

«Sì, la conosci. La conosce il tuo corpo. La conosce la tua mente. Non chiedere loro da che parte sta: di’ loro che è là che vuoi andare. Conosci i principi. Quando alzavi il fucile, guardavi il lupo che correva: non calcolavi la distanza o la velocità della pallottola… sparavi e il lupo cadeva.»

M’innalzai di nuovo con la stessa, incredibile leggerezza; poi mi accorsi che lei era divenuta un grande peso contro il mio braccio. I suoi occhi erano fissi su di me; faceva in modo che fossi io a portarla. Sorrisi. Risi a voce alta, credo. La sollevai e la baciai di nuovo, e continuai l’ascesa senza interruzioni. A nord-ovest. Cioè a destra, e ancora a destra e ancora più in alto. La mia mente lo sapeva; conosceva il percorso. Svoltai e poi svoltai di nuovo. Turbinavo e la stringevo a me, lieto di sentire il peso del suo corpo, la pressione del seno, mentre le sue labbra si chiudevano di nuovo, delicatamente, sulle mie.

Si accostò al mio orecchio. «Lo senti?» chiese.

Ascoltai. Il vento sembrava devastante; tuttavia veniva dalla terra un coro sordo, il salmodiare di voci umane; alcune intonate, altre no, voci che pregavano in una lingua asiatica. Le sentivo lontane e poi vicine. Era importante distinguere i due suoni. Prima c’era una lunga processione di devoti che salivano fra i valichi montani e lungo gli strapiombi, e cantavano per restare vivi mentre avanzavano nonostante la stanchezza e il freddo. E in un edificio risuonava un lungo coro estatico, un salmodiare ardente fra il clangore dei cembali e il rullo dei tamburi.

Accostai la testa alla testa di Akasha e guardai in basso: ma le nubi erano diventate una distesa compatta di candore. Tuttavia vedevo attraverso le menti dei devoti la visione fulgida di un cortile e di un tempio d’archi marmorei e di grandi sale dipinte. La processione si snodava verso quel tempio.

«Voglio vedere!» dissi. Lei non rispose ma non mi trattenne mentre discendevo e mi protendevo nell’aria come un uccello in volo. Continuai la discesa fino a che fummo in mezzo alle nubi. Lei era ridiventata leggera, come priva di sostanza.

E mentre abbandonavamo il mare di candore, vidi il tempio risplendere sotto di me, come un minuscolo modello d’argilla, e il terreno che s’increspava qua e là sotto le mura tortuose. Il lezzo dei cadaveri che bruciavano s’innalzava dai roghi accesi. E uomini e donne salivano verso il gruppo di tetti e di torri, seguendo sentieri pericolosi, a perdita d’occhio.

«Dimmi chi è là dentro, mio principe», disse la regina. «Dimmi chi è il dio di questo tempio.»

Guarda! Avvicinati! Era il vecchio trucco; ma all’improvviso incominciai a precipitare. Gettai un grido terribile. Lei mi trattenne.

«Prudenza, mio principe», disse.

Pensai che il mio cuore stesse per scoppiare.

«Non puoi uscire dal tuo corpo per guardare nel tempio e volare nello stesso istante. Guarda attraverso gli occhi dei mortali, come hai fatto prima.»

Io tremavo ancora e mi tenevo avvinghiato a lei.

«Ti lascerò cadere di nuovo, se non ti calmi», disse lei, gentilmente. «Di’ al tuo cuore di fare ciò che tu vuoi.»

Proruppi in un gran sospiro. All’improvviso il mio corpo sentì la sofferenza dell’aggressione del vento. E i miei occhi bruciavano di nuovo. Non vedevo nulla. Ma credevo di dominare quelle piccole sofferenze o meglio di ignorarle come se non esistessero. La strinsi con energia e incominciai la discesa, dicendomi di procedere lentamente; poi cercai di nuovo le menti dei mortali per vedere ciò che esse vedevano.

Muri dorati, archi a punta, ogni superficie splendente di decorazioni, volute d’incenso che si mescolavano all’odore del sangue fresco. Confusamente, vidi «il dio del tempio».

«Un vampiro», mormorai. «Un diavolo succhiatore di sangue. Li chiama a sé e li massacra a suo capriccio. Questo posto puzza di morte.»

«Perciò vi sarà ancora morte», sussurrò la regina, e mi baciò di nuovo, con tenerezza. «Su, rapidamente, così rapidamente che gli occhi mortali non possano vederci. Portaci giù nel cortile, accanto al rogo funebre.»

Avrei potuto giurare che avvenne prima ancora che l’avessi deciso; non avevo fatto altro che prendere in considerazione l’idea! Poi caddi contro un rozzo muro intonacato e sentii sotto i piedi la durezza delle pietre. Tremavo e mi girava la testa, e i miei visceri si torcevano per il dolore. Il mio corpo voleva continuare a sprofondare attraverso la roccia compatta.

Mi accasciai contro il muro e sentii il canto ancor prima di riuscire a vedere qualcosa. Sentii l’odore del fuoco, dei corpi che bruciavano; poi scorsi le fiamme.

«E stata una manovra molto goffa, mio principe», disse sommessamente la regina. «Per poco non abbiamo urtato il muro.»

«Non so come sia accaduto, esattamente.»

«Ah, ma questa è la chiave», disse lei. «La parola ‘esattamente’. Lo spirito che è in te obbedisce con prontezza e in modo completo. Rifletti: tu non smetti di vedere e di udire quando discendi; accade più rapidamente di quanto ti renda conto. Conosci la meccanica pura del gesto di schioccare le dita? No, non la conosci. Eppure puoi farlo. Può farlo anche un bambino mortale.»

Annuii. Certo, il principio era chiaro, come lo era stato per il bersaglio e l’arma da fuoco.

«È solo una questione di gradi», dissi.

«E di resa, resa intrepida.»

Annuii di nuovo. Per la verità, volevo buttarmi su un letto morbido e dormire. Battei le palpebre di fronte al fuoco ruggente, alla vista dei corpi che annerivano tra le fiamme. Uno non era morto: un braccio si alzava, le dita si contraevano. Adesso era morto. Povero diavolo. Così.

La mano fredda della regina mi toccò la guancia. Mi toccò le labbra, poi mi allisciò i capelli scomposti.

«Non hai mai avuto un maestro, vero?» chiese. «Magnus ti lasciò orfano la stessa notte in cui ti creò. Tuo padre e i tuoi fratelli erano sciocchi. In quanto a tua madre, odiava i suoi figli.»

«Sono sempre stato il maestro di me stesso», dissi in tono serio. «E devo confessare che sono sempre stato anche il mio allievo preferito.»

Una risata.

«Forse era una piccola cospirazione», dissi. «Fra maestro e discepolo. Ma come hai detto, non c’è mai stato nessun altro.»

Mi sorrideva. Il fuoco si rispecchiava guizzando nei suoi occhi. Il volto era luminoso, d’una bellezza terribile.

«Arrenditi», mi disse. «E io t’insegnerò cose che non hai mai sognato. Non hai mai conosciuto la battaglia, la vera battaglia. Non hai mai conosciuto la purezza di una causa virtuosa.»

Non risposi. Mi sentivo stordito, non solo dal lungo volo attraverso l’aria, ma dalla carezza dolce delle sue parole e dal nero senza fondo dei suoi occhi. Gran parte della sua bellezza sembrava costituita dalla dolcezza dell’espressione, dalla serenità, dal modo in cui i suoi occhi restavano immutati anche quando il volto candido cambiava con un sorriso o una lieve smorfia. Sapevo che se l’avessi permesso, avrei provato terrore per ciò che stava accadendo. E anche lei doveva saperlo. Mi prese di nuovo fra le braccia. «Bevi, principe», sussurrò. «Prendi la forza di cui hai bisogno per fare ciò che io voglio.» Non so quanto tempo trascorse. Quando si staccò, mi sentii drogato per un istante: poi come sempre la chiarezza fu soverchiante. La musica monotona del tempio tuonava attraverso i muri.

«Azim! Azim! Azim!»

Mentre la regina mi trascinava con sé, mi parve che il mio corpo non esistesse più se non come una visione. Toccai il mio volto, le ossa sotto la pelle, per sentire quel qualcosa di solido che ero io; ma la pelle, la sensazione… era completamente nuova. Cosa restava di me?

I battenti lignei si aprirono davanti a noi come per magia. Entrammo in silenzio in un lungo corridoio dalle agili colonne di marmo bianco e dagli archi festonati: ma era soltanto la bordura esterna di un’immensa sala centrale. E la sala era piena di adoratori urlanti e frenetici che non percepivano la nostra presenza mentre continuavano a danzare e a cantare e a spiccare balzi nella speranza di scorgere il loro unico dio.

«Rimani al mio fianco, Lestat», disse la regina. La sua voce fendeva il chiasso, come se fossi stato toccato da un guanto di velluto.

La folla si aprì con violenza, spingendosi a destra e a sinistra. Subito le urla presero il posto del canto; la sala era nel caos, e c’era un varco aperto verso il centro. I cembali e i tamburi tacevano, e intorno a noi si alzavano gemiti e grida pietose.

Poi un grande sospiro di meraviglia si levò quando Akasha avanzò e gettò all’indietro il velo.

Al centro della sala stava il dio sanguinario, Azim, con il turbante di seta nera e le vesti gemmate. La sua faccia era sfigurata dal furore mentre guardava Akasha e me.

Le preghiere si levarono dalla folla che ci attorniava. Una voce stridula attaccò un inno alla «Madre eterna».

«Silenzio!» comandò Azim. Non conoscevo quella lingua, ma comprendevo la parola.

Sentivo nella sua voce il suono del sangue umano, lo vedevo scorrere nelle sue vene. In verità non avevo mai visto un vampiro o bevitore di sangue gonfio come quello; era sicuramente antico come Marius, ma la sua pelle aveva un cupo riflesso dorato. Un velo sottile di sudore sanguigno la copriva completamente, copriva persino il dorso delle grosse mani molli.

«Tu osi venire nel mio tempio!» disse. Ancora una volta il linguaggio mi sfuggiva, ma il significato aveva una chiarezza telepatica.

«Ora morirai!» disse Akasha, con voce ancora più sommessa. «Tu che hai ingannato questi innocenti disperati, tu che ti sei nutrito delle loro vite e del loro sangue come una sanguisuga.»

I devoti gridarono, invocando misericordia. Ancora una volta Azim ordinò loro di tacere.

«Che diritto hai di condannare il mio culto», gridò puntando l’indice, «tu che sei rimasta in silenzio sul trono fin dall’inizio dei tempi?»

«Il tempo non ha avuto inizio con te», rispose Akasha. «Ero già vecchia quando tu nascesti. E ora mi sono destata per regnare com’era scritto. E tu morirai: la tua morte sarà una lezione per la tua gente. Sei il mio primo grande martire. Ora morirai!»

Azim tentò di avventarsi verso di lei e io tentai di mettermi in mezzo: ma avvenne tutto troppo rapidamente perché fosse possibile vedere. Akasha l’afferrò, invisibilmente, lo spinse indietro facendolo scivolare sul pavimento di marmo, e Azim barcollò, quasi cadde, e poi cercò di raddrizzarsi roteando gli occhi.

Un grido profondo, gorgogliante, si levò da lui. Bruciava. I suoi indumenti bruciavano; poi il fumo si levò da lui, grigio e ondeggiante nell’oscurità, mentre i fedeli terrorizzati prorompevano in urla e gemiti. Azim si contorceva, consumato dal calore; e all’improvviso, piegato in due, si sollevò, la fissò e si avventò con le braccia protese.

Sembrava che stesse per raggiungerla prima che Akasha pensasse a reagire. Ancora una volta cercai di pararmi davanti a lei; con un colpo secco della mano destra mi buttò in mezzo allo sciame umano. Tutto intorno a me c’erano corpi seminudi, che si sforzavano di allontanarsi da me mentre cercavo di riprendere l’equilibrio.

Mi voltai di scatto e vidi Azim a tre passi da lei; ringhiava e cercava di raggiungerla vincendo una forza invisibile e insormontabile.

«Muori, maledetto!» gridò Akasha. Mi tappai gli orecchi con le mani. «Sprofonda nell’abisso della perdizione. Ora lo creo per te.»

La testa di Azim esplose. Fumo e fiamme eruttarono dal cranio fratturato. Gli occhi divennero neri. In un lampo s’incendiò completamente; tuttavia crollò in un atteggiamento umano, con il pugno levato contro di lei, le gambe che si piegavano come se cercassero di riportarlo in piedi. Quindi la sua forma scomparve completamente in una grande vampata arancione.

Il panico discese sulla folla, com’era discesa sui giovani davanti alla sala del concerto quando erano esplose le fiamme e io e Gabrielle e Louis eravamo fuggiti.

Sembrava tuttavia che l’isteria avesse raggiunto una vetta più pericolosa. I corpi urtavano contro le snelle colonne di marmo. Uomini e donne venivano calpestati mentre altri li travolgevano per correre alle porte.

Akasha girò su se stessa, e i suoi indumenti ondeggiarono in un turbine di seta bianca e nera, e dovunque i corpi umani, come afferrati da mani invisibili, furono gettati sul pavimento e sopraffatti dalla confusione. Le donne guardavano le vittime, gemevano e si strappavano i capelli.

Impiegai un momento per comprendere cosa stava accadendo. Akasha uccideva gli uomini. Non era il fuoco. Era un attacco invisibile agli organi vitali. Il sangue usciva dagli orecchi e dagli occhi mentre spiravano. Infuriate, molte donne corsero verso di lei ma incontrarono la stessa sorte. Gli uomini che l’attaccavano venivano sconfitti immediatamente.

Poi udii la voce nella mia niente.

Uccidili, Lestat. Massacra i maschi, fino all’ultimo.

Ero paralizzato. Le stavo accanto perché nessuno le si avvicinasse. Ma non avevano nessuna possibilità. Era qualcosa che trascendeva l’incubo, trascendeva gli stupidi orrori di cui ero stato partecipe durante tutta la mia vita maledetta.

All’improvviso lei mi fu di fronte e mi afferrò le braccia. La voce gelida e sommessa era diventata un suono rombante nel mio cervello.

Mio principe, amor mio. Tu farai questo per me. Massacra i maschi, in modo che la leggenda della loro punizione superi la leggenda del tempio. Sono i servitori del dio sanguinario. Le donne sono impotenti. Punisci i maschi in mio nome.

«Oh, Dio, aiutami! Non chiedermelo», mormorai. «Sono così pateticamente umani.»

La folla sembrava aver perso ogni spirito. Quelli che erano fuggiti nel cortile posteriore erano in trappola. I morti e i dolenti giacevano dovunque intorno a noi, mentre dalla moltitudine ignorante assiepata all’ingresso si levavano le suppliche più pietose.

«Lasciali andare, Akasha, ti prego», dissi. Avevo mai implorato così in tutta la mia vita? Che cosa ci avevano fatto quei poveri esseri?

Mi attirò più vicino. Ora non potevo vedere più nulla se non i suoi occhi neri.

«Amor mio, è una guerra divina. Non è solo l’orrendo predare della vita umana che tu hai compiuto per notti e notti, senza un piano e senza una ragione se non sopravvivere. Ora ucciderai in mio nome e per la mia causa, e io ti darò la libertà più grande che mai sia stata data all’uomo; ti dico che è giusto uccidere il tuo fratello mortale. Usa il potere che ti ho donato. Scegli le vittime a una a una, usa la tua forza invisibile oppure la forza delle tue mani.»

Mi girava la testa. Avevo davvero il potere di far stramazzare morti gli uomini? Girai lo sguardo nella sala fumosa dove l’incenso ascendeva ancora dai turiboli e i corpi stramazzavano uno sull’altro, uomini e donne abbracciati nel terrore, e altri si trascinavano negli angoli come se sperassero di mettersi al sicuro.

«Non vi è più vita per loro», disse Akasha. «Fa’ ciò che comando.»

Mi pareva di scorgere una visione, perché sicuramente non veniva dal mio cuore o dalla mia mente. Vidi una figura emaciata levarsi davanti a me; strinsi i denti mentre la fissavo, concentrando tutta la mia cattiveria come se fosse un laser. Poi vidi la vittima sollevarsi da terra e piombare all’indietro mentre il sangue le usciva dalla bocca. L’uomo cadde senza vita sul pavimento. Era stato come uno spasimo, e tuttavia agevole come gridare, come lanciare la propria voce, invisibile ma potente, attraverso un ampio spazio.

Sì, uccidili. Colpisci gli organi delicati, lacerali, fai scorrere il sangue. Sai che l’hai sempre desiderato. Uccidere come se non fosse nulla, annientare senza scrupoli né rimorsi!

Era vero, così vero; ma era anche proibito, proibito come non è proibito null’altro sulla terra…

Amor mio, è comune come la fame, comune come il tempo. Ora hai il mio potere e il mio comando. Tu e io vi porremo fine con ciò che faremo ora.

Un giovane corse verso di me come un pazzo, con le mani protese per afferrarmi la gola. Uccidilo. Mi maledisse mentre lo scagliavo indietro con la forza invisibile e sentivo lo spasimo nel profondo della gola e del ventre; e poi un’improvvisa pressione sulle tempie… sentii quella forza che lo toccava, la sentii riversarsi da me; la sentivo sicuramente come se avessi insinuato le dita nel cranio e stringessi il cervello. Vederlo sarebbe stato troppo crudo; non c’era bisogno di vedere. Mi bastava scorgere il sangue che gli fiottava dalla bocca e dagli orecchi e scorreva sul petto nudo.

Ah, Akasha aveva ragione: quanto avevo desiderato farlo! Quanto l’avevo sognato nei miei primi anni di mortale! La beatitudine di uccidere, ucciderli sotto tutti i loro nomi che erano un solo nome, nemico… coloro che meritavano d’essere uccisi, coloro che erano nati per essere uccisi, uccidere con piena forza, con il mio corpo trasformato in muscoli compatti, i denti stretti, l’odio e la forza invisibile divenuti una cosa sola.

Fuggivano in tutte le direzioni, ma questo serviva solo a infiammarmi ancora di più. Li respingevo, e il potere li scagliava contro i muri. Miravo al cuore con quella lingua invisibile, e udivo il cuore scoppiare. Giravo su me stesso, mirando con precisione ma fulmineamente a questo e a quello e poi a un altro ancora mentre fuggiva oltre la soglia, un altro che si precipitava nel corridoio, e uno che strappava una lampada dalle catene e la lanciava stupidamente contro di me.

Li inseguivo nelle stanze interne del tempio con facilità esaltante, tra i mucchi d’oro e d’argento, li scagliavo riversi con lunghe dita invisibili, poi stringevo quelle dita invisibili sulle loro arterie fino a che il sangue sgorgava attraverso la pelle scoppiata.

Le donne s’erano radunate e piangevano; altre fuggivano. Sentivo le ossa spezzarsi mentre camminavo sui corpi. E poi mi accorsi che anche lei uccideva; agivamo insieme e la grande sala era ormai piena di mutilati e di morti. Un cupo odore di sangue permeava ogni cosa; il vento freddo non bastava a disperderlo, e l’aria echeggiava di grida sommesse e disperate.

Un uomo gigantesco corse verso di me con gli occhi stralunati, cercò di fermarmi con una grande spada ricurva. Gli strappai l’arma e gli tranciai il collo. La lama penetrò nell’osso e si spezzò, e la testa e la spada spezzata caddero ai miei piedi.

Scostai il corpo con un calcio. Andai in cortile e guardai coloro che, in preda al terrore, indietreggiavano davanti a me. Non avevo più razionalità o coscienza. Era un gioco folle inseguirli, bloccarli in un angolo, spingere da parte le donne dietro cui si nascondevano, o che si sforzavano pateticamente di ripararli, e mirare con la forza al punto giusto, scagliarla contro quel punto vulnerabile fino a che restavamo immobili.

La porta d’entrata! Lei mi chiamava. Gli uomini nel cortile erano morti. Le donne si strappavano i capelli e singhiozzavano. Attraversai il tempio in rovina, passando fra le dolenti e i morti. Alla porta, i pellegrini erano inginocchiati nella neve, ignari di ciò che era accaduto all’interno, e levavano le voci imploranti.

Ammettimi, ammettimi alla vista e alla sete del nostro signore.

Quando videro Akasha, le grida divennero più alte. Si stendevano per toccarle le vesti mentre le serrature si spezzavano e i battenti si aprivano. Il vento ululava dal valico. La campana della torre emetteva un suono fievole e cavernoso.

Li scagliai a terra, lacerando cervelli e cuori e arterie. Vedevo le braccia magre protese sulla neve. Persino il vento puzzava di sangue. La voce di Akasha risuonava più forte delle urla orrende, e domandava alle donne di indietreggiare per salvarsi.

Ormai uccidevo così rapidamente che neppure lo vedevo. I maschi. I maschi dovevano morire. Avevo fretta di compiere la missione: ogni maschio che si muoveva o gemeva doveva morire.

Discesi come un angelo il sentiero tortuoso, armato d’una spada invisibile. E alla fine, lungo il percorso fino alla base dello strapiombo, caddero in ginocchio e attesero la morte, accettandola con spaventosa passività.

All’improvviso sentii che Akasha mi stringeva, sebbene non fosse vicina a me. Sentii la sua voce nella mia mente.

Ben fatto, mio principe.

Non potevo fermarmi. La forza invisibile era una delle mie membra. Non potevo richiamarla in me stesso. Era come se fossi sul punto di respirare, e se non avessi respirato sarei morto. Ma lei mi teneva immobile: una grande calma discendeva in me, come se una droga mi dilagasse nelle vene. Finalmente rimasi immobile, e la forza si concentrò dentro di me, divenne parte di me… nulla di più.

Mi voltai lentamente. Guardai le vette nevose, il perfetto cielo nero, la lunga fila di corpi scuri che giacevano sul sentiero fino alla porta del tempio. Le donne si aggrappavano l’una all’altra e singhiozzavano incredule o emettevano gemiti soffocati e terribili. Sentivo l’odore della morte come non mi era mai accaduto. Abbassai lo sguardo sul sangue e sui frammenti di carne che sporcavano i miei indumenti. Ma le mie mani! Le mie mani erano così bianche e pulite. Dio, non sono stato io! No. Non sono stato io. Le mie mani sono pulite!

Oh, ma ero stato io. E che cosa sono, se ho potuto fare ciò? Mi è piaciuto, mi è piaciuto irragionevolmente, mi è piaciuto come è sempre piaciuto agli uomini, nell’assoluta libertà morale della guerra…

Sembrava che fosse disceso il silenzio.

Se le donne gridavano ancora, non le sentivo. E non sentivo neppure il vento. Mi muovevo anche se non sapevo perché. Ero caduto in ginocchio e protendevo le mani verso l’ultimo uomo che avevo ucciso e che giaceva sulla neve come un fascio di rami spezzati. Posai le dita nel sangue sulla sua bocca, me lo spalmai sulle mani e le premetti sulla faccia.

In duecento anni non avevo mai ucciso senza assaporare il sangue e senza assorbirlo in me insieme alla vita. Ed era mostruoso. Ma in quei pochi momenti terribili erano morti assai più di quanti avessi mandato alla tomba prematuramente. E l’avevo fatto con la disinvoltura del pensiero e del respiro. Oh, questo non potrà mai essere espiato, non potrà mai essere giustificato!

Rimasi a fissare la neve tra le dita insanguinate; piangevo e tuttavia odiavo quel pianto. Quindi mi accorsi, gradualmente, che tra le donne s’era operato un cambiamento. Qualcosa avveniva attorno a me. Sembrava che l’aria fredda si fosse riscaldata, che il vento avesse lasciato indisturbato il pendio scosceso.

Poi il cambiamento parve entrare in me, placare la mia angoscia e rallentare i battiti del mio cuore.

I pianti erano cessati. Ora le donne scendevano a due o a tre il sentiero come se fossero in trance, e scavalcavano i morti. Sembrava che suonasse una musica dolce, e che la terra avesse fatto sbocciare fiori primaverili d’ogni colore e d’ogni specie, e l’aria fosse satura di profumi.

Eppure tutto ciò non accadeva veramente, no? In una foschia di colori smorzati, le donne mi passavano accanto, avvolte in stracci e sete e mantelli scuri. Tremavo. Dovevo riflettere chiaramente! Non dovevo lasciarmi disorientare. Il potere e i cadaveri non erano un sogno e non potevo, non potevo assolutamente cedere a quel senso irresistibile di benessere e di pace.

«Akasha!» sussurrai.

Poi alzai gli occhi, non perché lo volevo ma perché dovevo farlo, e la vidi su un promontorio lontano. E le donne, giovani e vecchie, muovevano verso di lei: alcune erano così indebolite dal freddo e dalla fame che le altre dovevano sostenerle.

Su ogni cosa era disceso il silenzio.

Incominciò a parlare senza parole a coloro che erano radunate davanti a lei. Sembrava che parlasse nella loro lingua, o che si esprimesse in un modo che trascendeva il linguaggio specifico… non lo sapevo.

Stordito, la vidi tendere le braccia. I capelli neri si sparsero sulle spalle candide, le pieghe della veste si mossero appena nel vento silenzioso. Pensai che in tutta la mia vita non avevo mai visto nulla di così bello: e non era soltanto la somma degli attributi fisici, era la pura serenità, l’essenza che percepivo con l’anima. Mentre parlava, un’euforia meravigliosa s’impadronì di me.

Non abbiate paura, diceva. Il regno sanguinario del vostro dio è finito e ora potete ritornare alla verità.

Inni sommessi si levarono dalle gole delle adoratrici. Alcune piegavano la fronte a terra davanti a lei. E sembrava che questo le facesse piacere o, almeno, che le sembrasse ammissibile.

Ora dovete tornare ai vostri villaggi, disse Akasha. Dovete dire a quanti lo conoscevano che il dio sanguinario è morto. La Regina del Paradiso l’ha annientato. La regina annienterà tutti i maschi che credono ancora in lui. La Regina del Paradiso porterà un nuovo regno di pace sulla terra. Vi sarà la morte per i maschi che vi hanno oppresso, ma dovrete attendere il mio segno.

Tacque e gli inni s’innalzarono di nuovo. La Regina del Paradiso, la Dea, la Buona Madre… la vecchia litania cantata in mille lingue e in tutto il mondo ora trovava una nuova forma.

Rabbrividii. Volutamente. Dovevo penetrare quell’incantesimo. Era un trucco del potere, come lo era stato uccidere… qualcosa di definibile e di misurabile. Tuttavia ero come drogato dalla vista di lei e dagli inni. Dall’abbraccio morbido della sensazione… tutto va bene, tutto è come deve essere, siamo tutti al sicuro.

Dai recessi assolati della mia memoria di mortale riemerse un giorno, un giorno come molti che l’avevano preceduto, quando nel mese di maggio avevamo incoronato la Vergine tra i fiori profumati e avevamo cantato inni squisiti. Ah, la meraviglia di quel momento, quando la corona di gigli candidi era stata sollevata verso la testa velata della Vergine. La sera ero tornato a casa cantando quegli inni. In un vecchio libro di preghiere avevo trovato l’immagine della Vergine, e mi aveva colmato di un incanto e di un fervore religioso come quello che provavo ora.

E da qualcosa di ancora più profondo, dove il sole non era mai penetrato, venne la rivelazione: se credevo in lei e in ciò che stava dicendo, allora la cosa indicibile, il massacro che avevo commesso contro i mortali fragili e indifesi avrebbe trovato redenzione.

Ora ucciderai in mio nome per la mia causa, e io ti darò la libertà più grande mai data all’uomo: io ti dico che è giusto uccidere tuo fratello.

«Andate», disse Akasha a voce alta. «Lasciate per sempre questo tempio. Lasciate i morti alla neve e ai venti. Ditelo alla gente. Sta giungendo una nuova era in cui i maschi che glorificano la morte e le uccisioni avranno la giusta ricompensa, e l’era della pace sarà vostra. Io tornerò a voi. Vi mostrerò la via. Attendete la mia venuta. E io vi dirò ciò che dovete fare. Per ora, credete in me e in ciò che avete visto qui. E dite agli altri che devono credere. Lasciate che gli uomini vengano a vedere cosa li aspetta. Attendete un mio segno.»

Si mossero all’unisono per obbedire al suo comando; scesero il sentiero di montagna verso i fedeli lontani che erano sfuggiti al massacro. Le loro grida si levarono esili ed estatiche nel vuoto nevoso.

Il vento soffiava a raffiche nella valle; in alto sul colle, la campana del tempio fece udire un altro tocco sordo. Il vento agitava gli indumenti succinti dei morti. La neve aveva incominciato a cadere sempre più fitta, e copriva le gambe e le braccia brune e le facce, le facce dagli occhi sbarrati.

La sensazione di benessere s’era dissipata, e tutti gli aspetti più crudi del momento erano di nuovo chiari e ineluttabili. Le donne, l’apparizione… I cadaveri nella neve! Manifestazioni innegabili di un potere devastatore e soverchiante.

Poi un suono fioco ruppe il silenzio: oggetti che andavano in pezzi lassù nel tempio, oggetti che cadevano e si frantumavano.

Mi voltai a guardarla. Stava immobile sul piccolo promontorio, con il manto sciolto sulle spalle, la carnagione bianca come la neve che cadeva. I suoi occhi erano fissi sul tempio. E mentre i suoni continuavano, compresi ciò che accadeva là dentro.

Orci d’olio che si spezzavano, bracieri che cadevano. Il fruscio delle stoffe che esplodevano in fiamme. Finalmente il fumo s’innalzò, denso e nero, dalla torre campanaria e dal muro posteriore.

Il campanile tremò; un gran rumore echeggiò contro le vette lontane, quindi le pietre si staccarono e la torre crollò. Precipitò nella valle e la campana, con un ultimo tocco, scomparve nell’abisso bianco.

Il tempio era consumato dal fuoco.

Lo guardai, con gli occhi lacrimanti per il fumo che soffiava sul sentiero e portava con sé ceneri e fuliggine.

Ero vagamente consapevole di non avere freddo nonostante la neve. Non ero stanco per la fatica di uccidere. La mia pelle era più bianca che mai. E i miei polmoni aspiravano l’aria con tanta efficienza che non udivo il mio respiro; persino il mio cuore era più regolare. Soltanto la mia anima era ferita e dolorante.

Per la prima volta nella mia vita di mortale e d’immortale, ebbi paura di morire. Ebbi paura che lei potesse annientarmi, e con ragione, perché non avrei più potuto fare ciò che avevo appena fatto. Non potevo essere partecipe di quel disegno. E pregavo che non fosse possibile indurmi a farlo, e di trovare la forza per rifiutare.

Sentii le sue mani sulle spalle. «Voltati e guardami, Lestat», disse. Obbedii. Era la bellezza più seducente che io avessi mai veduto.

Sono tua, amor mio. Tu sei il mio unico vero compagno, il mio strumento più splendido. Lo sai, non è vero?

Di nuovo un brivido. In nome di Dio, Lestat, dove sei? Ti asterrai dal dire ciò che pensi?

«Akasha, aiutami», mormorai. «Dimmi: perché hai voluto che uccidessi? Cosa intendevi quando hai detto che i maschi saranno puniti, e che verrà un regno di pace sulla terra?» Come suonavano stupide le mie parole. La guardavo negli occhi e potevo credere che fosse la dea. Era come se traesse da me la mia convinzione, quasi fosse sangue.

Tremavo di paura. Tremavo. Compresi per la prima volta cosa significava quella parola. Cercai di dire di più ma riuscii soltanto a balbettare. E finalmente proruppi:

«In nome di quale morale verrà fatto tutto questo?»

«In nome della mia morale!» rispose. Il suo sorriso era bello come prima. «Io sono la ragione, la giustificazione, il diritto per cui viene fatto!» La voce era fredda e collerica, ma l’espressione dolce e vacua non era cambiata. «Ora ascoltami, amore», disse. «Ti amo. Mi hai destata dal lungo sonno e mi hai restituita al mio grande scopo: mi dà gioia guardarti, vedere la luce dei tuoi occhi azzurri, ascoltare il suono della tua voce. Mi ferirebbe incredibilmente vederti morire. Ma le stelle mi sono testimoni: tu mi aiuterai nella mia missione. O non sarai nulla di più dello strumento dell’inizio, come Giuda lo fu per Cristo. E io ti annienterò come Cristo annientò Giuda quando non sarai più utile!»

La rabbia mi vinse. Non seppi trattenermi. La transizione dalla paura alla collera fu rapidissima. Mi sentivo bollire.

«Ma come osi parlare così?» chiesi. «Come osi inviare per il mondo quelle anime ignoranti con simili folli menzogne?»

Mi fissò in silenzio; mi parve che stesse per colpirmi. Il suo viso ridivenne quello d’una statua e io pensai: Ecco, è venuto il momento, morirò come ho visto morire Azim. Non posso salvare Gabrielle o Louis. Non posso salvare Armand. Non opporrò resistenza perché è inutile. Non mi muoverò quando accadrà. Discenderò nel profondo di me stesso, forse, per sfuggire alla sofferenza. Troverò un’ultima illusione come Baby Jenks, e la terrò stretta a me fino a che non sarò più Lestat.

Lei non si mosse. Sul colle i fuochi si spegnevano. La neve cadeva più fitta e Akasha era divenuta come uno spettro sotto i fiocchi silenziosi, candida com’era candida la neve.

«Non hai davvero paura di nulla, vero?» mi chiese.

«Ho paura di te», dissi.

«Oh, no, non credo.»

Annuii. «Ho paura. E ti dirò che cosa sono. Un essere nocivo sulla faccia della terra, nulla di più. Un odioso uccisore d’esseri umani. Ma io so che cosa sono! Non fingo d’essere ciò che non sono affatto! Tu hai detto a quella folla ignorante d’essere la Regina del Paradiso! Come intendi riscattare quelle parole, e che conseguenze avranno in quelle menti stupide e ingenue?»

«Quanta arroganza», disse Akasha a voce bassa. «Quanta arroganza incredibile. Eppure ti amo. Amo il tuo coraggio e la tua avventatezza che da sempre è la qualità che ti riscatta. Amo persino la tua stupidità. Non capisci? Ora non esistono promesse che io non possa mantenere! Ricreerò i miti! Io sono la Regina del Paradiso. E il paradiso regnerà finalmente sulla terra. Io sono tutto ciò che dico di essere!»

«Oh, Dio, Dio!» mormorai.

«Non pronunciare queste parole inconsistenti. Non hanno mai avuto significato per nessuno. Sei alla presenza dell’unica dea che potrai mai conoscere. E sei l’unico dio che questa gente conoscerà! Bene, ora devi pensare come un dio, mio bellissimo. Devi cercare qualcosa al di là delle tue piccole ambizioni egoistiche. Non ti rendi conto di ciò che è accaduto?»

Scossi la testa. «Non so nulla. Sto perdendo la ragione.»

Rise. Ributtò all’indietro la testa e rise. «Noi siamo ciò che loro sognano, Lestat. Non possiamo deluderli. Se lo facessimo, tradiremmo la verità implicita nella terra sotto i nostri piedi.»

Si scostò. Salì sull’altura di roccia coperta di neve. Guardava la valle, il sentiero che tagliava il dirupo, i pellegrini che ritornavano indietro via via che le donne in fuga davano loro l’annuncio.

Udivo le grida echeggiare contro la parete di pietra della montagna. Udivo gli uomini che morivano laggiù mentre Akasha, invisibile, li colpiva con quella forza, quella grande forza seducente. E le donne balbettavano e parlavano di miracoli e visioni. Poi si levò il vento e parve inghiottire ogni cosa, il gran vento indifferente. Per un attimo vidi il suo volto splendido; venne verso di me. E pensai: questa è ancora la morte, è la morte che si avvicina, il bosco e i lupi, e non c’è un posto dove nascondermi. Poi i miei occhi si chiusero.


Quando mi svegliai ero in una casetta. Non sapevo come vi fossi arrivato, non sapevo quanto tempo fosse trascorso dal massacro fra i monti. Ero annegato tra le voci, e ogni tanto mi era giunto un sogno, un sogno terribile e tuttavia familiare. In quel sogno avevo visto due donne dai capelli rossi. Erano inginocchiate accanto a un altare dove giaceva un corpo, nell’attesa di compiere un rito, un rito cruciale. E mi ero sforzato disperatamente di comprendere il contenuto del sogno, perché mi sembrava che da quello dipendesse tutto: non dovevo più dimenticarlo.

Ma adesso tutto sbiadiva. Le voci, le immagini sgradite; il presente ebbe la meglio.

Il luogo dove giacevo era buio e sporco e pieno di odori immondi. Nelle piccole abitazioni intorno i mortali vivevano nella miseria, i bambini piangevano per la fame tra gli odori dei fuochi e del grasso rancido.

C’era guerra in quel luogo, una vera guerra. Non la strage della montagna, ma la guerra antiquata del secolo ventesimo. La captavo a squarci viscidi dalle menti degli afflitti… un’esistenza interminabile di massacri e di minacce, autobus incendiati, gente imprigionata all’interno che batteva contro i finestrini chiusi, camion che esplodevano, donne e bambini che fuggivano mentre le mitragliatrici sparavano.

Ero sul pavimento, come se qualcuno mi avesse lasciato cadere. E Akasha stava sulla soglia, avvolta nel mantello fino agli occhi, e scrutava nell’oscurità.

Quando mi alzai e la raggiunsi, vidi un viottolo fangoso pieno di pozzanghere e altre casupole, alcune con i tetti di lamiera, altre con i tetti formati da strati di giornali. Contro le pareti sudicie gli uomini dormivano avviluppati dalla testa ai piedi, come nei sudari. Ma non erano morti; e i ratti che cercavano di evitare lo sapevano. I ratti rosicchiavano i mantelli, e gli uomini trasalivano e sussultavano nel sonno.

Faceva caldo, e il caldo rafforzava i fetori… urina, feci, vomito di bambini morenti. Sentivo persino l’odore della fame dei bambini mentre gridavano. Sentivo l’odore delle fogne e dei cessi.

Non era un villaggio: era un luogo di tuguri e baracche e di disperazione. C’erano cadaveri fra gli abituri. Le malattie dilagavano; e i vecchi e gli infermi stavano silenziosi nel buio e non sognavano nulla, o forse sognavano la morte che era il nulla, mentre i bambini piangevano.

Dal fondo del viottolo stava arrivando un bimbo barcollante dal ventre gonfio, e urlava mentre si strofinava un occhio con un pugno.

Sembrava che non ci vedesse nell’oscurità. Andava piangendo da una porta all’altra, e la sua pelle bruna e liscia era lucida nel palpito smorzato dei fuochi.

«Dove siamo?» chiesi.

Sbalordita, la vidi voltarsi e sollevare la mano per accarezzarmi teneramente i capelli e il viso. Il sollievo mi pervase. Ma la sofferenza che regnava in quel luogo era troppo grande. Dunque non mi aveva annientato: mi aveva portato all’inferno. A che scopo? Intorno a me sentivo l’infelicità, la disperazione. Che cosa poteva cambiare le sofferenze di quella gente?

«Mio povero guerriero», disse. I suoi occhi erano colmi di lacrime di sangue. «Non sai dove siamo?»

Non risposi.

Akasha parlò lentamente, al mio orecchio. «Devo recitare la poesia dei nomi?» chiese. «Calcutta, se vuoi, o l’Etiopia, oppure le vie di Bombay; questi sventurati potrebbero essere i contadini dello Sri Lanka o del Pakistan, del Nicaragua o del Salvador. Non ha importanza che cos’è; ha importanza quanto è… tutto intorno alle oasi dello splendido Occidente esiste tutto questo, e costituisce i tre quarti del mondo! Apri gli orecchi, amor mio: ascolta le loro preghiere, ascolta il silenzio di coloro che hanno imparato a pregare per chiedere il nulla. Perché il nulla è sempre stata la loro sorte, quale che fosse il nome della loro tribù, della nazione e della città.»

Uscimmo insieme nella via di fango, tra mucchi di letame, pozzanghere fetide, cani famelici e ratti che sfrecciavano davanti a noi. Giungemmo alle rovine di un antico palazzo. I rettili strisciavano sulle pietre. L’oscurità brulicava di moscerini. I derelitti dormivano in una lunga fila accanto a un fosso fetido. Più oltre, nella palude, cadaveri che marcivano, gonfi e dimenticati.

Lontano, sull’autostrada, passavano i camion e il loto rombo era come un tuono nel caldo soffocante. La miseria di quel luogo era come un gas che mi avvelenava. Era il limitare del giardino selvaggio del mondo, dove la speranza non poteva fiorire. Era una fogna.

«Ma cosa possiamo fare?» sussurrai. «Perché siamo venuti qui?» Ancora una volta ero distratto dalla sua bellezza, dall’aria di compassione che all’improvviso la pervadeva e mi faceva venir voglia di piangere.

«Possiamo riscattare il mondo, come ti ho detto. Possiamo rendere reali i miti; e verrà un tempo in cui sarà un mito, il fatto che gli umani abbiano conosciuto una simile degradazione. A questo provvederemo noi, amor mio.»

«Ma sicuramente spetta a loro risolverlo. Non è soltanto un loro obbligo, ma anche un loro diritto. Come possiamo aiutarli? In che modo la nostra interferenza potrebbe non portare alla catastrofe?»

«Faremo in modo che non avvenga», disse con calma Akasha. «Ah, ma non cominci neppure a comprendere. Non ti rendi conto della forza che ora possediamo. Nulla può fermarci. Ma ora devi osservare. Non sei pronto, e non voglio più spingerti. Quando ucciderai di nuovo per me dovrai avere una fede perfetta e una perfetta convinzione. Stai certo che ti amo e so che un cuore non può essere educato nello spazio di una notte. Ma impara da ciò che vedi e ascolti.»

Tornò di nuovo per la strada. Per un momento fu soltanto una figura fragile che si muoveva nell’ombra. All’improvviso sentii gli esseri destarsi nei minuscoli tuguri intorno a noi, e vidi le donne e i bambini che uscivano. Intorno a me, gli esseri addormentati incominciavano a muoversi. Mi ritrassi nell’oscurità.

Tremavo. Volevo fare qualcosa, implorarla di avere pazienza.

Ma scese di nuovo quel senso di pace, di felicità perfetta: ritornai a ritroso nel tempo in quella piccola chiesa della mia infanzia mentre incominciavano gli inni. Vidi tra le lacrime l’altare splendente, vidi l’icona della Vergine, un fulgido quadrato d’oro sopra i fiori. Sentii l’Ave Maria ripetuta come incantesimo. Sotto gli archi di Notre Dame a Parigi sentii i preti intonare «Salve Regina».

La sua voce mi giunse, chiara e ineluttabile come prima, come s.e fosse entro la mia mente. Senza dubbio i mortali l’udivano con la stessa potenza irresistibile. Il comando era senza parole; e l’essenza era incontestabile… stava per incominciare un nuovo ordine, un mondo nuovo nel quale i maltrattati e gli offesi avrebbero finalmente trovato giustizia. Le donne e i bambini venivano esortati a insorgere e a massacrare tutti i maschi del villaggio. Tranne uno su cento, i maschi dovevano essere uccisi, e anche tutti i neonati maschi, eccettuato uno su cento, dovevano essere massacrati immediatamente. La pace sulla terra sarebbe venuta quando ciò fosse stato compiuto dovunque; non vi sarebbero state altre guerre e vi sarebbero stati cibo e abbondanza per tutti.

Non riuscivo a muovermi e a esprimere il mio terrore. In preda al panico, udivo le grida frenetiche delle donne. Intorno a me i derelitti addormentati si alzarono, ma furono ricacciati contro i muri, e morirono come avevo visto morire tanti uomini nel tempio di Azim.

La via echeggiava di grida. In lampi nebulosi vedevo la gente che correva, vedevo gli uomini precipitarsi fuori dalle case e stramazzare nel fango. Sulla strada lontana i camion prendevano fuoco, e le gomme stridevano mentre i guidatori perdevano il controllo. Il metallo veniva scagliato contro il metallo. I serbatoi di benzina scoppiavano; la notte era piena di luci magnifiche. Correndo di casa in casa, le donne circondavano gli uomini e li percuotevano con tutte le armi che riuscivano a trovare. Quel villaggio di baracche aveva mai conosciuto una vitalità simile a quella che ora trovava in nome della morte?

E lei, la Regina del Paradiso, s’era innalzata sopra i tetti di lamiera, una figura delicata che bruciava contro lo sfondo delle nubi come una fiamma candida.

Chiusi gli occhi e mi girai verso la parete, afferrandomi con le dita alla roccia sgretolata. Pensare che io e lei eravamo altrettanto solidi. Tuttavia non eravamo di pietra. No, mai! E quello non era il nostro posto. Non avevamo il diritto…

Ma mentre piangevo, sentivo di nuovo il morbido abbraccio dell’incantesimo, la dolce sensazione sonnolenta d’essere circondato dai fiori, da una musica lenta con il suo ritmo inevitabile e avvincente. Sentivo l’aria tiepida che penetrava nei miei polmoni, sentivo sotto i piedi le vecchie lastre di pietra.

Le dolci colline verdi si estendevano davanti a me in una perfezione allucinatoria… un mondo senza guerre e senza privazioni, dove le donne si aggiravano libere e senza paura, le donne che persino se provocate si sarebbero rifiutate di abbandonarsi alla comune violenza annidata nel cuore d’ogni uomo.

Contro la mia volontà indugiavo in quel nuovo mondo, ignorando il tonfo dei corpi che cadevano a terra, le maledizioni e le grida di coloro che venivano uccisi.

In grandi lampi onirici, vedevo trasformarsi intere città; vedevo strade senza più la paura dei predatori e dei distruttori insensati, strade dove gli esseri si muovevano senza urgenza e senza disperazione, case che non erano più fortezze, giardini che non avevano più bisogno di mura di cinta.

«Oh, Marius, aiutami», mormorai mentre il sole splendeva sui viali alberati e sui campi verdi. «Ti prego, ti prego, aiutami.»

Poi un’altra visione mi sconvolse e disperse l’incantesimo. Vidi di nuovo i campi, ma il sole non c’era. Era un luogo reale, chissà dove, e io lo guardavo con gli occhi di qualcuno o di qualcosa che camminava in linea retta, a lunghi passi d’una velocità incredibile. Ma chi era? Qual era la destinazione dell’essere? Era una visione proiettata, era potente e non era possibile ignorarla. Perché?

Scomparve con la stessa subitaneità con cui era venuta.

Ero di nuovo sotto il porticato del palazzo cadente, fra i morti sparsi qua e là; guardavo attraverso l’arco le figure che fuggivano, udivo le grida acute di vittoria e di giubilo.

Vieni, mio guerriero, dove possano vederti. Vieni a me.

Akasha mi stava davanti con le braccia tese. Dio, cosa credevano di vedere? Per un momento non mi mossi; quindi mi avviai verso di lei, stordito e docile. Sentivo gli sguardi delle donne, i loro occhi adoranti. Si gettarono in ginocchio quando io e Akasha ci accostammo. Sentii le sue mani stringermi troppo forte, sentii il mio cuore martellare. Akasha, è una menzogna, una menzogna terribile. E il male seminato qui fiorirà per un secolo.

All’improvviso il mondo s’inclinò. Non stavamo più al suolo. Lei mi teneva fra le braccia e ascendevamo sopra i tetti di lamiera, e le donne s’inchinavano e agitavano le braccia e toccavano il fango con la fronte.

«Ecco il miracolo, ecco la Madre, ecco la Madre e il suo Angelo…»

In un istante il villaggio divenne come una manciata sparsa di tetti argentei sotto di noi: tutta l’infelicità era trasformata alchemicamente in immagini, e noi volavamo di nuovo nel vento.

Mi voltai, cercando invano di riconoscere quel luogo… le paludi buie, le luci della città vicina, il nastro sottile della strada dove bruciavano ancora i camion rovesciati. Ma aveva ragione lei: in realtà non aveva importanza.

Qualunque cosa stesse per accadere era incominciato, e io non sapevo che cosa avrebbe potuto arrestarla.

4. LA STORIA DELLE GEMELLE [parte prima]

Tutti gli occhi erano fissi su Maharet mentre taceva. Poi riprese a parlare. Le sue parole sembravano affiorare spontaneamente, sebbene venissero lentamente e fossero pronunciate con cautela. Non sembrava triste, piuttosto ansiosa di riesaminare ciò che intendeva descrivere.

«Ora, quando dico che io e mia sorella eravamo streghe, intendo questo: avevamo ereditato da nostra madre, come lei l’aveva ereditato dalla sua, il potere di comunicare con gli spiriti, di costringerli al nostro volere, in tanti modi minimi e significativi. Potevamo percepire la presenza degli spiriti, che generalmente sono invisibili agli occhi umani: e gli spiriti erano attratti verso di noi.

«Coloro che avevano come noi questi poteri erano grandemente riveriti dal nostro popolo, e a loro ci si rivolgeva per chiedere consigli, miracoli e visioni del futuro, e a volte per placare gli spiriti dei morti.

«Sto dicendo che eravamo considerate come rappresentanti del bene e avevamo un posto nell’ordine delle cose.

«Le streghe sono sempre esistite, a quanto ne so. E ci sono anche oggi, sebbene non comprendano più quali siano i loro poteri e non sappiano come usarli. Poi vi sono quelli conosciuti come chiaroveggenti o medium o incanalatori. Oppure come investigatori psichici. È sempre la stessa cosa. Sono coloro che, per ragioni forse incomprensibili, attraggono gli spiriti, i quali li trovano irresistibili: e per venire notati da queste persone, sono pronti a ricorrere a ogni mezzo.

«In quanto agli spiriti, so che vi incuriosiscono la loro natura e le loro proprietà, e che non credete alla versione contenuta nel libro di Lestat circa il modo in cui furono creati la Madre e il Padre. Non sono certa che vi credesse neppure Marius, quando gli fu narrata quella vecchia storia, e quando la trasmise a Lestat.»

Marius annuì. Aveva già molte domande da fare. Maharet, tuttavia, gli accennò di pazientare. «Aspetta, ti prego», disse.

«Vi dirò tutto ciò che sapevamo degli spiriti allora, che corrisponde a quanto ne sappiamo tuttora. Naturalmente è chiaro che altri possono usare un nome diverso per queste entità. Altri possono definirli con la poesia della scienza, diversamente da me.

«Gli spiriti ci parlavano solo telepaticamente; come ho detto, erano invisibili: ma la loro presenza si poteva percepire. Avevano personalità distinte, e nel corso di molte generazioni la nostra famiglia di streghe aveva dato loro vari nomi.

«Come avevano sempre fatto gli incantatori, li dividevamo in buoni e malvagi; ma nulla indica che essi possiedano il senso di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Gli spiriti malvagi sono quelli apertamente ostili agli esseri umani e portati a compiere atti maliziosi, come scagliare pietre, far soffiare il vento e altre cose del genere. Quelli che invasano gli umani sono spesso spiriti ‘maligni’; e quelli che infestano le case e vengono chiamati poltergeist appartengono alla stessa categoria.

«Gli spiriti buoni sapevano amare, e in genere volevano anche essere amati. Raramente compivano di loro iniziativa qualche azione maliziosa. Rispondevano alle domande sul futuro, ci dicevano cosa avveniva in luoghi remoti e per le streghe potenti come me e mia sorella, che amavano veramente, erano disposti a compiere il prodigio più grande e impegnativo: far piovere.

«Ma da ciò che dico potete comprendere che le etichette come buono e malefico avevano una funzione particolare. Gli spiriti buoni erano utili; quelli malefici erano pericolosi ed esasperanti. Prestar attenzione agli spiriti maligni, invitarli a rimanere, significava cercare il disastro perché in ultima analisi era impossibile tenerli sotto controllo.

«C’erano inoltre le prove che quelli da noi chiamati spiriti maligni ci invidiavano perché eravamo carnali e nel contempo spirituali, perché avevamo i piaceri e i poteri del mondo fisico pur possedendo menti spirituali. È probabile che questo miscuglio di carne e spirito negli esseri umani incuriosisca tutti gli spiriti; ma irrita quelli malvagi, che vorrebbero conoscere i piaceri sensuali ma non possono. Gli spiriti buoni, invece, non manifestano questa insoddisfazione.

«Ora, in quanto alla provenienza degli spiriti… ci dicevano che erano sempre stati gli uomini. Si vantavano di aver veduto gli esseri umani trasformarsi da animali in ciò che erano. Non sapevamo cosa intendessero con queste parole; pensavamo che scherzassero o mentissero. Ma oggi lo studio dell’evoluzione umana dimostra che gli spiriti avevano assistito a questo sviluppo. Per quanto riguarda le domande relative alla loro natura, come erano stati creati e da chi… ebbene, non trovavano mai risposta. Non credo che comprendessero ciò che chiedevamo. Sembrava che si offendessero per le domande, o ne avessero un po’ paura, o le ritenessero ironiche.

«Penso che un giorno la natura scientifica degli spiriti verrà riconosciuta. Immagino che siano esseri di materia e d’energia in un equilibrio sofisticato come tutto il resto del nostro universo, e che non siano più magici dell’elettricità o delle onde radio, dei quark o degli atomi o delle voci al telefono… tutte cose che sembravano sovrannaturali appena duecento anni fa. Anzi, l’attuale aspetto poetico della scienza moderna mi ha aiutata a comprenderli meglio di qualunque altro strumento filosofìco. Tuttavia mi attengo istintivamente al mio linguaggio d’un tempo.

«Mekare affermava che ogni tanto riusciva a vederli, che avevano nuclei minuscoli di materia fisica e grandi corpi d’energia turbinante che paragonava a tempeste di fulmini e di vento. Diceva che nel mare c’erano creature dall’organizzazione altrettanto strana, e insetti che somigliavano agli spiriti. Era sempre notte quando vedeva i loro corpi fisici, e non erano mai visibili per più d’un secondo, di solito quando gli spiriti erano in collera.

«Avevano dimensioni enormi, diceva; ma lo dicevano anche loro. Ci dicevano che non potevamo immaginare quanto fossero grandi; tuttavia amavano esagerare ed era necessario usare certi criteri per estrarre dalle loro affermazioni ciò che aveva un senso.

«È indubbio che esercitino una grande forza sul mondo fisico. Altrimenti come potrebbero muovere gli oggetti come accade nelle infestazioni dei poltergeist? E come potrebbero radunare le nubi per far piovere? Tuttavia in realtà non realizzano molto, nonostante l’energia che impiegano. E questa, quasi sempre, era la chiave per controllarli. Non possono fare più di tanto: e una strega efficiente era quella che comprendeva questo fatto alla perfezione.

«Quale che sia la loro struttura materiale, queste entità non hanno bisogni biologici apparenti. Non invecchiano; non cambiano. E in questo consiste la chiave per comprendere il loro comportamento capriccioso e puerile. Non hanno bisogno di far nulla; vanno alla deriva, ignari del tempo, perché non hanno un motivo fisico per curarsene, e fanno tutto ciò che colpisce la loro fantasia. Ovviamente vedono il nòstro mondo; ne fanno parte… ma non so immaginare come appaia loro.

«Non so neppure perché le streghe li attirino e li interessino. Ma, è il punto cruciale: vedono la strega, vanno a lei, si manifestano, e si sentono molto lusingati quando vengono notati; eseguono i suoi voleri per ottenere maggiore attenzione… in certi casi, per essere amati.

«Quando questo rapporto progredisce, per amore della strega vengono indotti a concentrarsi su vari compiti. Li sfinisce ma li rende felici vedere che gli esseri umani rimangono così impressionati.

«Ma ora immaginate quanto sia piacevole per loro ascoltare le preghiere e tentare di esaudirle, aleggiare intorno agli altari e far udire il tuono dopo le offerte sacrificali. Quando un chiaroveggente chiama lo spirito di un antenato morto perché comunichi con i discendenti, si divertono a parlare fingendosi lo spirito evocato, anche se ovviamente non lo sono; e attingono telepaticamente informazioni dalle menti dei discendenti al fine di illuderli ancora di più.

«Voi conoscerete senza dubbio il modello del loro comportamento. Non è diverso, oggi, da quel che era ai nostri tempi. Ma è diverso l’atteggiamento degli umani nei confronti di ciò che fanno gli spiriti; e questa differenza è cruciale.

«Quando, di questi tempi, uno spirito infesta una casa e fa predizioni servendosi delle corde vocali di un bambino di cinque anni, nessuno vi presta molta fede se non coloro che vedono e sentono. Non diventano la base di una grande religione.

«Si direbbe che la specie umana sia divenuta immune a queste cose. Forse si è evoluta portandosi su un piano più elevato, dove le frenesie degli spiriti non la disorientano più. E sebbene le religioni permangano, quelle che misero radici in tempi più bui vanno perdendo molto rapidamente la loro influenza tra le persone istruite.

«Ma di questo parlerò più avanti. Ora lasciate che continui a definire le proprietà di una strega, dato che sono in relazione con me e mia sorella e con ciò che accadde.

«Nella mia famiglia era una dote ereditaria. Può darsi che sia di origine fisica, perché sembrava trasmettersi tramite le donne ed era invariabilmente abbinata agli attributi fisici degli occhi verdi e dei capelli rossi. Come tutti sapete, come avete appreso in un modo o nell’altro da quando siete entrati in questa casa, mia figlia Jesse era una strega. E nel Talamasca si serviva dei suoi poteri, molto spesso, per recare conforto a coloro che erano perseguitati da spiriti e fantasmi.

«Naturalmente anche i fantasmi sono spiriti. Ma sono indubbiamente gli spiriti di esseri umani vissuti sulla terra, mentre gli spiriti di cui ho parlato non lo sono. Tuttavia non si può mai essere troppo sicuri a questo proposito. Un fantasma vecchissimo e legato alla terra può dimenticare di essere stato vivo; forse gli spiriti più maligni sono fantasmi ed è perciò che sono tanto assetati di piaceri della carne e che quando invasano qualche sventurato essere umano vomitano oscenità. Per loro, la carne è sozzura e vorrebbero convincere uomini e donne che piaceri erotici e malizia sono ugualmente pericolosi e malvagi.

«Dato il modo in cui mentono gli spiriti se non vogliono dire qualcosa, è impossibile sapere perché fanno ciò che fanno. Forse la loro ossessione per l’erotismo è semplicemente attinta dalle menti degli uomini e delle donne che si sono sempre sentiti in colpa a questo riguardo.

«Per tornare al punto, erano quasi sempre le donne nella nostra famiglia a essere streghe. In altre famiglie, la facoltà si trasmette anche agli uomini; oppure può apparire in piena forza in un essere umano per ragioni che non sappiamo afferrare.

«Comunque la nostra era una vecchia, vecchissima famiglia di streghe. Contavamo streghe nel nostro passato per cinquanta generazioni, fino a quello che veniva chiamato il Tempo-prima-della-luna. Affermavamo cioè di essere vissute in quel periodo primordiale della storia terrestre quando la luna non era ancora comparsa nel cielo notturno.

«Le leggende del nostro popolo parlavano della comparsa della luna e delle alluvioni, delle tempeste e dei terremoti che l’avevano accompagnata. Non so se tutto ciò sia veramente accaduto. Inoltre, credevamo che le nostre stelle sacre fossero le Pleiadi, le Sette Sorelle, e che tutte le benedizioni giungessero da quella costellazione… ma non ho mai saputo il perché, o forse semplicemente non lo ricordo.

«Ora parlo di vecchi miti, credenze già antiche prima della mia nascita. E coloro che frequentano gli spiriti per ovvie ragioni diventano piuttosto scettici.

«Ancora oggi, tuttavia, la scienza non può negare né confermare le leggende del Tempo-prima-della-luna. La comparsa della luna e della conseguente attrazione gravitazionale è stata usata teoricamente per spiegare lo spostamento delle calotte polari e le recenti ere glaciali. Forse c’era una parte di verità nelle vecchie storie, verità che un giorno saranno chiarite.

«Comunque, la nostra era una stirpe antica. Nostra madre era stata una strega potente alla quale gli spiriti avevano rivelato numerosi segreti, poiché essi sanno leggere nella mente degli uomini. E aveva un grande effetto sugli spiriti irrequieti dei morti.

«Sembrava che il suo potere fosse raddoppiato in me e Mekare, come spesso avviene nelle gemelle. Ognuna di noi era due volte più potente di nostra madre. E la potenza che avevamo insieme era incalcolabile. Parlavamo agli spiriti quando eravamo ancora nella culla. Eravamo circondate da loro quando giocavamo. Come gemelle, avevamo un nostro linguaggio segreto che neppure nostra madre comprendeva. Ma gli spiriti lo conoscevano. Gli spiriti comprendevano qualunque cosa dicessimo loro; sapevano persino parlarci nel nostro linguaggio segreto.

«Sia chiaro: tutto ciò non lo dico per orgoglio. Sarebbe assurdo. Lo dico perché possiate capire ciò che eravamo l’una per l’altra e per la nostra gente prima che i soldati di Akasha ed Enkil entrassero nella nostra vita. Voglio che comprendiate perché accadde questo male terribile… la creazione dei bevitori di sangue!

«Eravamo una grande famiglia. Da tempo immemorabile vivevamo nelle grotte del monte Carmelo; il nostro popolo aveva sempre costruito i suoi accampamenti sul fondovalle ai piedi della montagna. Erano pastori di pecore e capre. Ogni tanto andavano a caccia e si dedicavano anche ad alcune colture da cui venivano ricavate sostanze allucinogene, da noi usate per provocare la trance nelle cerimonie religiose, e ciò che occorreva per produrre birra. Mietevano il grano selvatico che allora cresceva a profusione.

«Il nostro villaggio era formato da piccole case rotonde di mattoni con il tetto di paglia; ma ve n’erano altri che erano diventati piccole città, e altri ancora dove in tutte le case si entrava dal tetto.

«La nostra gente fabbricava vasi tipici che portava ai mercati di Gerico per scambiarli: e dai mercati riportavano lapislazzuli, avorio, incenso, specchi d’ossidiana e altre cose pregiate. Naturalmente conoscevamo l’esistenza di molte altre città grandi e belle come Gerico, città oggi completamente sepolte sottoterra e che forse non verranno mai ritrovate.

«Ma nel complesso eravamo un popolo molto semplice. Sapevamo cos’era la scrittura, o almeno eravamo a conoscenza di un tale concetto. Ma non pensavamo di servircene perché le parole avevano un grande potere e non avremmo saputo scrivere i nostri nomi, le maledizioni e le verità che conoscevamo. Se una persona conosceva il tuo nome, poteva chiamare gli spiriti per maledirti; poteva uscire dal proprio corpo in una trance e venire dove ti trovavi. Non sapevamo quali poteri mettevi nelle mani di coloro che riuscivano a scrivere il tuo nome sulla pietra o sul papiro. Persino per quelli che non avevano paura era a dir poco disgustoso.

«E nelle grandi città, la scrittura veniva usava soprattutto per i documenti finanziari, che naturalmente noi sapevamo tenere a memoria.

«In effetti, presso la nostra gente tutta la conoscenza era affidata alla memoria; i sacerdoti che sacrificavano al dio-toro, nel quale fra l’altro non credevamo, affidavano alla memoria le tradizioni e le credenze e le insegnavano ai giovani novizi. Naturalmente, la storia delle famiglie veniva tramandata a memoria.

«Tuttavia conoscevamo la pittura; le immagini dipinte coprivano le pareti dei sacrari del dio-toro, nel villaggio.

«E la mia famiglia, che da sempre viveva nelle grotte del monte Carmelo, le ornava di dipinti che solo noi potevamo vedere. Vi tenevamo una specie di archivio. Ma lo facevamo con prudenza. Per esempio, non dipinsi mai la mia immagine fin dopo la catastrofe, quando io e mia sorella diventammo ciò che siamo ora.

«Ma per parlare della nostra gente, eravamo pacifici. Pastori, artigiani, a volte mercanti… né più, né meno. Quando le armate di Gerico andavano in guerra, a volte i nostri giovani partivano con loro, ma solo perché lo volevano. Cercavano l’avventura e la gloria. Altri andavano nelle città per vedere i grandi mercati, la maestà delle corti o lo splendore dei templi. E alcuni si recavano nei porti del Mediterraneo per vedere le grandi navi mercantili. Ma per la maggior parte, nei nostri villaggi la vita continuava senza mutamenti. Gerico ci proteggeva, quasi con indifferenza, perché era la calamità che attirava la forza dei nemici.

«Mai, mai avevamo dato la caccia agli uomini per nutrirci della loro carne. Non era una nostra usanza. E non so dirvi quale abominio sarebbe stato tale cannibalismo, l’ingestione della carne dei nemici. Perché noi eravamo cannibali, e l’ingestione della carne aveva per il nostro popolo un significato speciale… noi mangiavamo i nostri morti.»

Maharet tacque per un momento, come se volesse rendere chiaro a tutti il significato di quelle parole.

Marius rivide l’immagine delle due donne inginocchiate davanti alla mensa funebre, sentì il silenzio meridiano e la solennità del momento. Cercò di liberare la mente e di vedere soltanto il viso di Maharet.

«Dovete capire», continuò la donna. «Credevamo che alla morte lo spirito abbandonasse il corpo; ma credevamo anche che i resti di tutte le cose viventi contengono una parte del potere dopo che la vita se n’è andata. Per esempio, gli oggetti personali di un uomo conservano una parte della sua vitalità, e la conservano di sicuro il corpo e le ossa. Naturalmente quando ingerivamo la carne dei nostri morti anche questo residuo veniva consumato.

«Ma la vera ragione per cui mangiavamo i nostri morti non era il rispetto. Per noi era il modo giusto di trattare i resti di coloro che amavamo. Prendevamo in noi i corpi di coloro che ci avevano dato la vita, e dai quali erano venuti i nostri corpi. Così si compiva un ciclo. E i sacri resti di coloro che amavamo erano salvati dall’orrore della putrefazione e dal venire divorati dalle bestie selvatiche o bruciati come combustibili o rifiuti.

«In questo, se riflettete bene, c’è una grande logica. Ma l’importante è capire che ciò faceva parte della nostra realtà come popolo. Il sacro dovere d’ogni figlio era quello di consumare i resti dei genitori; il sacro dovere della tribù era quello di consumare i morti.

«Nel nostro villaggio non moriva uomo, donna o bambino il cui corpo non venisse consumato dai parenti; nel nostro villaggio non c’era uomo, donna o bambino che non avesse consumato la carne dei morti.»

Maharet tacque di nuovo e girò lo sguardo sui presenti prima di continuare.

«Non era un’epoca di grandi guerre», disse. «Gerico era in pace da moltissimo tempo. E anche Ninive era in pace.

«Ma lontano, a sud-ovest nella valle del Nilo, quel popolo selvaggio faceva guerra come aveva sempre fatto ai popoli delle giungle meridionali, per catturare prigionieri da divorare. Infatti, non solo divoravano i loro morti con il dovuto rispetto come facevamo noi, ma mangiavano anche i corpi dei nemici e se ne gloriavano. Credevano che la forza del nemico passasse nel loro corpo quando lo divoravano. Inoltre, amavano il sapore della carne umana.

«Noi li disprezzavamo per la ragione che ho spiegato. Com’era possibile che qualcuno desiderasse la carne di un nemico? Ma forse la differenza principale tra noi e gli abitanti della valle del Nilo non stava nel fatto che mangiavano i nemici, ma nel fatto che erano bellicosi mentre noi eravamo pacifici. Non avevamo nemici.

«Ora, quando io e mia sorella compimmo i sedici anni, nella valle del Nilo vi fu un grande cambiamento: o almeno così ci fu detto.

«L’anziana regina morì senza una figlia che tramandasse il sangue reale. Presso molti popoli antichi il sangue reale veniva tramandato solo per linea femminile. Poiché nessun maschio può mai essere certo della paternità della creatura della moglie, era la regina o la principessa a detenere il diritto divino al trono. Perciò i faraoni egizi dei tempi più tardi sposavano spesso le sorelle per assicurarsi il diritto reale.

«E così sarebbe stato per il giovane re Enkil se avesse avuto una sorella, ma non l’aveva. Non aveva neppure una cugina o una zia da sposare. Ma era giovane, e ben deciso a regnare sulla sua terra. Finalmente scelse una sposa, non della sua gente, ma della città di Uruk, nella valle del Tigri e dell’Eufrate.

«La sposa era Akasha, una bellezza di sangue reale, adoratrice della grande dea Inanna; e poteva portare nel regno di Enkil la sapienza della sua terra. O almeno così si diceva nei mercati di Gerico e Ninive e nelle carovane che venivano a scambiare le merci con noi.

«Ora, gli abitanti della valle del Nilo erano già agricoltori, ma tendevano a trascurare i campi per fare le guerre, allo scopo di assicurarsi la carne umana. Ciò fece inorridire la bella Akasha, che subito si adoperò per distoglierli da questa usanza barbara.

«Probabilmente portò con sé anche la scrittura, poiché il popolo di Uruk la conosceva; ma questo non posso dirlo con certezza, dato che noi disprezzavamo la scrittura. Forse gli egizi avevano già incominciato da soli a scrivere.

«Non potete immaginare con quanta lentezza queste cose influiscano su una cultura. Le documentazioni delle tasse possono venire conservate per generazioni, prima che qualcuno affidi a una tavoletta d’argilla le parole di una poesia. Una tribù può coltivare pepe ed erbe per duecento anni prima che a qualcuno venga in mente di fare altrettanto con il grano o il mais. Come sapete, gli indios sudamericani avevano giocattoli con le ruote quando arrivarono gli europei, e avevano gioielli di metallo. Ma non usavano la ruota in nessun altro modo, e non usavano il metallo per le armi. Perciò furono sconfitti quasi subito dagli europei.

«Non conosco comunque la storia della conoscenza che Akasha portò con sé da Uruk. So che il nostro popolo sentì parlare del divieto di praticare il cannibalismo in tutta la valle del Nilo, e seppe che chi disobbediva veniva messo a morte. Le tribù che per generazioni erano andate a caccia di carne umana erano infuriate perché non si potevano più divertire; ma ancora più grande era lo sdegno di coloro che avevano sempre mangiato i loro morti. Una cosa era non andare a caccia: ma affidare i propri antenati alla terra era per loro un orrore come lo sarebbe stato per noi.

«Quindi, perché fosse obbedito l’ordine di Akasha, il re decretò che tutti i morti venissero trattati con unguenti e avvolti in bende. Non solo non si poteva divorare la carne della madre o del padre, ma il corpo doveva essere conservato in costosi drappi di lino, essere mostrato in modo che tutti lo vedessero, e quindi posto nella tomba con le dovute offerte e gli incantesimi dei sacerdoti.

«E questo doveva essere fatto al più presto possibile, per fare in modo che nessuno si impadronisse del corpo.

«E per meglio diffondere questa usanza, Akasha ed Enkil convinsero il popolo che gli spiriti dei morti sarebbero stati più felici nel regno in cui erano giunti se i loro corpi fossero stati conservati in quel modo. In altre parole, dicevano ai sudditi: ‘I vostri amati avi non sono trascurati, anzi sono ben conservati’.

«Quando venimmo a saperlo giudicammo tutto ciò molto divertente: avvolgere i morti e chiuderli in camere arredate, al di sopra o al di sotto delle sabbie del deserto! Ci sembrava divertente che gli spiriti dei defunti fossero aiutati dalla perfetta conservazione dei loro corpi sulla terra. Infatti, come sanno tutti coloro che comunicano con i morti, per loro è meglio dimenticare il corpo: solo quando abbandonano l’immagine terrena possono ascendere a un piano superiore.

«E adesso in Egitto, nelle tombe dei ricchi e dei pii, giacevano le mummie dalle carni imputridite.

«Se qualcuno ci avesse detto che l’usanza della mummificazione avrebbe messo radici in quella cultura, sarebbe stata praticata per quattromila anni e sarebbe diventata un grande mistero per tutto il mondo, al punto che nel ventesimo secolo i bambini sarebbero andati nei musei per vedere le mummie… ebbene, non l’avremmo creduto possibile.

«Per noi, tuttavia, non aveva molta importanza. Eravamo lontanissimi dalla valle del Nilo. Non riuscivamo neppure a immaginare come fosse quella gente. Sapevamo che la loro religione veniva dall’Africa, che adoravano il dio Osiride e il dio del sole Ra, e anche divinità animali. Ma per la verità non li comprendevamo. Non capivamo la loro terra con le inondazioni e i deserti. Quando tenevamo fra le mani gli splendidi oggetti prodotti da loro, conoscevamo un vago barlume della loro personalità: ma era per noi aliena. Li commiseravamo perché non potevano mangiare i loro morti.

«Quando chiedevamo di loro agli spiriti, questi sembravano trovare gli egizi molto divertenti. Dicevano che avevano ‘belle voci’, che sapevano dire ‘belle parole’ e che era piacevole visitare i loro templi e gli altari. Amavano la lingua egizia. Poi si disinteressavano del problema e divagavano come facevano spesso.

«Ciò che dicevano ci affascinava, ma non ci sorprendeva. Sapevamo che gli spiriti gradivano le nostre parole e i nostri canti e che in Egitto recitavano la parte degli dèi: lo facevano spesso.

«Con il passare degli anni venimmo a sapere che Enkil, per unificare il regno e piegare la ribellione dei cannibali, aveva radunato un grande esercito per intraprendere conquiste al nord e al sud. Aveva messo in mare molte navi. Era un vecchio sistema: mandare tutti a combattere un nemico perché smettessero di litigare in patria.

«Ma questo che aveva a che fare con noi? La nostra era una terra di serenità e di bellezza, d’alberi carichi di frutti e di campi di grano spontaneo che ognuno poteva mietere con la falce. La nostra era una terra d’erba verde e di brezze fresche. Non c’era nulla che qualcuno potesse aspirare a toglierci. O almeno così credevamo.

«Io e mia sorella continuavamo a vivere in pace sulle dolci pendici del monte Carmelo; spesso parlavamo con nostra madre o fra noi, in silenzio o con poche parole segrete che capivamo perfettamente; e apprendevamo da nostra madre tutto ciò che sapeva degli spiriti e del cuore degli uomini.

«Bevevamo le pozioni dei sogni che nostra madre preparava con le piante della montagna, e nei sogni e in trance tornavamo nel passato e parlavamo con le nostre antenate, le grandi streghe di cui conoscevamo i nomi. Richiamavamo sulla terra i loro spiriti abbastanza a lungo perché ci rivelassero altra conoscenza. Inoltre viaggiavamo fuori dai nostri corpi e volavamo in alto sopra la terra.

«Potrei impiegare ore ed ore narrandovi ciò che vedevamo in quelle trance. Una volta io e Mekare vagammo tenendoci per mano nelle vie di Ninive, e vedemmo meraviglie che non avevamo mai neppure immaginato. Ma sono cose che ormai non hanno importanza.

«Permettetemi solo di dire cosa significava per noi la compagnia degli spiriti, la dolce armonia in cui vivevamo con tutte le cose e con gli stessi spiriti. E in certi momenti l’amore degli spiriti era per noi palpabile, così come i mistici cristiani hanno descritto l’amore di Dio e dei suoi santi.

«Vivevamo felici insieme, io, mia sorella e nostra madre. Le grotte dei nostri antenati erano calde e asciutte. Avevamo tutto ciò che ci serviva: abiti splendidi e gioielli, deliziosi pettini d’avorio e sandali di cuoio portati come offerte dal popolo, perché nessuno ci pagava mai per ciò che facevamo.

«Ogni giorno la gente del villaggio veniva a consultarci; e noi rivolgevamo quegli interrogativi agli spiriti. Cercavamo di vedere il futuro, una cosa che ovviamente gli spiriti possono fare, dato che certe cose tendono a seguire un corso ineluttabile.

«Leggevamo nelle menti con le nostre facoltà telepatiche e davamo i consigli migliori. Ogni tanto ci portavano gli invasati, e noi scacciavamo il demonio, o lo spirito maligno. E quando una casa era infestata, vi andavamo e ordinavamo allo spirito malefico di allontanarsi.

«Davamo le pozioni dei sogni a chi le chiedeva: allora cadevano in trance, oppure si addormentavano e sognavano immagini vivide che poi ci chiedevano d’interpretare.

«Per questo non avevamo veramente bisogno degli spiriti, anche se a volte cercavamo il loro consiglio. Usavamo i nostri poteri di comprensione e di visione profonda, e spesso le informazioni a noi tramandate circa i significati delle varie immagini.

«Ma il nostro miracolo più grande, che non potevamo mai garantire e che richiedeva l’impiego di tutte le nostre forze, era quello di chiamare la pioggia.

«Compivamo il miracolo in due modi fondamentali: la ‘piccola pioggia’ che era soprattutto simbolica, una dimostrazione del potere utile delle anime dei nostri, oppure la ‘grande pioggia’, necessaria per le colture e molto difficile da realizzare.

«Per entrambe bisognava corteggiare gli spiriti, chiamarli per nome, chiedere che si radunassero, si concentrassero e usassero la loro forza al nostro comando. La piccola pioggia veniva spesso realizzata dai nostri spiriti familiari, quelli che amavano molto me e Mekare, avevano amato nostra madre e sua madre e tutte le nostre antenate, ed erano sempre disposti, per amore, anche ai compiti più difficili.

«Ma per la grande pioggia erano necessari molti spiriti, e dato che alcuni di loro sembravano detestarsi e disapprovare la cooperazione, era necessario ricorrere all’adulazione. Dovevamo cantare e danzare. Ci impegnavamo per ore mentre gli spiriti a poco a poco mostravano interesse, accorrevano, s’innamoravano dell’idea e finalmente si mettevano all’opera.

«Io e Mekare riuscimmo a realizzare la grande pioggia tre volte soltanto. Ma era bellissimo vedere le nubi raccogliersi sopra la valle, veder scendere i grandi scrosci d’acqua. Tutta la nostra gente correva fuori sotto l’acquazzone e la terra stessa sembrava schiudersi e ringraziare.

«Facevamo spesso, invece, la piccola pioggia; lo facevamo per gli altri, o per la nostra gioia.

«Ma fu la grande pioggia a diffondere la nostra fama. Eravamo sempre state conosciute come le streghe della montagna; ma ora la gente veniva a noi dalle città del lontano nord, da terre di cui non conoscevamo il nome.

«Gli uomini attendevano nel villaggio il loro turno per salire sulla montagna, bere la pozione e attendere che esaminassimo i loro sogni. E naturalmente il villaggio dava loro cibo e bevande e accettava in cambio un’offerta, e tutti ci guadagnavano. In ciò non eravamo diverse dagli psicologi di oggi: studiavamo le immagini e le interpretavamo, cercavamo una verità nel subconscio, e i miracoli della piccola e della grande pioggia servivano a rafforzare la fede degli altri nelle nostre capacità.

«Un giorno, mi pare mezzo anno prima che morisse nostra madre, ci pervenne un messaggio. Un latore l’aveva portato per ordine del re e della regina di Kemet, che era il nome dato dagli egizi alla loro terra. Era scritto su una tavoletta d’argilla, come usavano a Gerico e Ninive, e c’erano piccoli segni incisi, l’inizio di quella che più tardi gli uomini avrebbero chiamato scrittura cuneiforme.

«Naturalmente non eravamo in grado di leggere, e anzi ci sembrava una cosa spaventosa. Pensavamo che fosse una maledizione: non volevamo toccarla, ma occorreva farlo se volevamo scoprire ciò che dovevamo.

«Il messaggero disse che i suoi sovrani, Akasha ed Enkil, avevano saputo del nostro grande potere e sarebbero stati lieti se ci fossimo recate alla loro corte. Avevano inviato una scorta per accompagnarci a Kemet; e poi ci avrebbero rimandate a casa con ricchi doni.

«Tutte e tre diffidavamo del messaggero. Diceva la verità per quanto la conosceva: ma forse non era tutto.

«Perciò nostra madre prese nelle mani la tavoletta. Subito percepì qualcosa, qualcosa che le passò nelle dita e le diede una grande angoscia. All’inizio non volle dirci cosa aveva veduto; quindi ci prese in disparte e ci disse che il re e la regina di Kemet erano malvagi e sanguinari e disprezzavano la fede altrui; e un male terribile ci avrebbe colpite a causa di quell’uomo e di quella donna, qualunque cosa dicesse il messaggio.

«Poi anch’io e Mekare toccammo la tavoletta e sentimmo il presagio nefasto. Ma c’era un mistero, un intrigo tenebroso, e al male era frammisto un elemento di coraggio e di bene. Insomma, non era un semplice complotto per derubarci dei nostri poteri: c’erano anche curiosità e rispetto sinceri.

«Alla fine interpellammo gli spiriti, i due che io e Mekare amavamo più di tutti. Si avvicinarono e lessero la tavoletta: per loro era molto facile. Dissero che il messaggero non aveva mentito. Ma un pericolo terribile ci avrebbe colpite se ci fossimo recate dal re e dalla regina di Kemet.

«Chiedemmo il perché.

«‘Perché il re e la regina vi faranno molte domande’, dissero gli spiriti. ‘E se risponderete sinceramente, come siamo certi che farete, il re e la regina si adireranno con voi e vi annienteranno.’

«Naturalmente, non saremmo andate comunque in Egitto. Non volevamo lasciare la nostra montagna; e ora sapevamo che non dovevamo farlo. Dicemmo rispettosamente al messaggero che non potevamo lasciare il luogo della nostra nascita, che nessuna strega della nostra famiglia l’aveva mai abbandonato; e lo pregammo di riferire le nostre parole al re e alla regina.

«Quindi il messaggero ripartì, e la vita riprese il suo andamento normale.

«Diverse sere dopo, tuttavia, venne a noi uno spirito malefico che chiamavamo Amel. Enorme, potente e colmo di rancore, danzò nella radura davanti alla nostra grotta per fare in modo che io e Mekare lo notassimo, e ci disse che presto avremmo avuto bisogno del suo aiuto.

«Eravamo abituate da tempo alle blandizie degli spiriti maligni; s’infuriavano perché non volevamo parlare con loro come facevano invece altre streghe e stregoni. Ma sapevamo che erano entità infide e incontrollabili; non ci eravamo mai lasciate indurre a servirci di loro e pensavamo che non l’avremmo mai fatto.

«Amel, in particolare, era infuriato perché lo ‘trascuravamo’, e affermava ripetutamente di essere Amel il potente, Amel l’invincibile, e che quindi dovevamo mostrargli rispetto perché in futuro avremmo potuto avere un gran bisogno di lui; infatti avremmo avuto bisogno di lui più di quanto immaginassimo, perché ci attendevano grandi sventure.

«A questo punto nostra madre uscì dalla grotta e chiese allo spirito quali erano le sventure che prevedeva.

«Restammo sconvolte perché ci aveva sempre proibito di parlare con gli spiriti malefici, e quando lei lo faceva era per maledirli o scacciarli, oppure per confonderli con enigmi e domande-tranello in modo che desistessero dai loro tentativi.

«Amel il terribile, il malefico, l’onnipotente, come si vantava di essere, dichiarò soltanto che si prospettavano grandi sventure e che se fossimo state sagge gli avremmo tributato il rispetto dovuto. Quindi si vantò di tutto il male che aveva compiuto per i maghi di Ninive; poteva tormentare la gente e invasarla, e punzecchiarla come uno sciame di moscerini. Dichiarò che poteva trarre sangue dagli umani e che ne apprezzava il sapore; e l’avrebbe fatto anche per noi.

«Mia madre rise e gli chiese: ‘Come puoi fare una cosa simile? Sei uno spirito, non hai corpo, non puoi sentire i sapori’. Era quel genere di linguaggio che infuriava sempre gli spiriti perché, come ho detto, ci invidiavano il possesso di un corpo fisico.

«Ebbene quello spirito, per dare una dimostrazione della sua potenza, si avventò su nostra madre come una bufera; e subito gli spiriti buoni lo contrastarono e vi fu un terribile scontro sopra la radura: ma quando tutto finì e Amel fu messo in fuga dai nostri due spiriti custodi, vedemmo che sulla mano di nostra madre c’erano minuscole trafitture. Amel il malefico aveva preso sangue da lei, esattamente come aveva minacciato di fare… come se uno sciame di moscerini l’avesse tormentata.

«Mia madre osservò quelle ferite minuscole; gli spiriti buoni si sdegnarono nel vederla trattata in modo tanto irrispettoso, ma lei li invitò ad acquietarsi. Rifletté in silenzio e si chiese com’era possibile che lo spirito assaporasse il sangue.

«Allora Mekare ci spiegò che gli spiriti avevano, al centro dei loro grandi corpi invisibili, nuclei infinitesimali di materia, e forse era tramite quel nucleo che potevano assaporare il sangue. Immaginate, disse Mekare, lo stoppino di una lampada, una cosa minuscola con una fiamma. Lo stoppino intingeva dal liquido dove era immerso: e lo stesso avveniva con lo spirito, che sembrava tutto fiamma ma aveva un suo minuscolo stoppino.

«Nostra madre aveva un atteggiamento sprezzante; ma quella situazione non le piaceva. Disse ironicamente che il mondo era già abbastanza pieno di stranezze anche senza bisogno di spiriti malefici amanti del sangue. ‘Vattene, Amel’, disse, e lanciò maledizioni contro di lui, disse che era privo d’importanza e che non contava nulla, e che avrebbe fatto meglio a sparire. In altre parole, erano le stesse cose che diceva sempre per sbarazzarsi degli spiriti fastidiosi, le cose che i preti dicono ancora oggi in forma leggermente diversa quando cercano di esorcizzare i bambini indemoniati.

«Ma assai più delle smanie di Amel erano i suoi annunci di sventura che preoccupavano mia madre: aggravavano l’angoscia che aveva provato nel momento in cui aveva preso in mano la tavoletta egiziana. Tuttavia non chiese conforto o consiglio agli spiriti buoni. Forse sapeva che non era il caso. Ma questo non lo saprò mai. Comunque, nostra madre intuiva che stava per accadere qualcosa, e si sentiva impotente. Forse capiva che a volte, quando cerchiamo di prevenire il disastro, lo assecondiamo.

«Quale che fosse la verità, nei giorni seguenti si ammalò; divenne sempre più debole fino a che non riuscì più a parlare. «Continuò così per mesi, paralizzata e semiaddormentata. La vegliavamo giorno e notte e cantavamo per lei. Le portavamo fiori e cercavamo di leggere i suoi pensieri. Gli spiriti erano terribilmente agitati, perché l’amavano: facevano spirare il vento sulla montagna e strappavano le foglie dagli alberi.

«Tutto il villaggio era addolorato. Poi una mattina i pensieri di nostra madre presero di nuovo forma; ma erano frammenti. Vedevamo campi assolati e fiori e immagini di cose che aveva conosciuto nell’infanzia… poi solo colori brillanti e poco di più. «Sapevamo che nostra madre stava morendo, e anche gli spiriti lo sapevano. Facevamo del nostro meglio per calmarli, ma alcuni erano infuriati. Alla sua morte, il suo fantasma sarebbe asceso attraverso il reame degli spiriti e l’avrebbero perduta per sempre: per qualche tempo la sofferenza li avrebbe fatti impazzire.

«Ma alla fine avvenne com’era naturale e inevitabile; e noi uscimmo dalla grotta per annunciare agli abitanti del villaggio che nostra madre era salita a regni più elevati. Tutti gli alberi della montagna erano agitati dal vento sollevato dagli spiriti, e l’aria era piena di foglie verdi. Io e mia sorella piangemmo; per la prima volta nella mia vita credetti di udire gli spiriti, credetti di udire nel vento le loro grida e i loro lamenti.

«Subito gli abitanti del villaggio vennero per fare ciò che doveva essere fatto.

«Nostra madre fu deposta su una lastra di pietra, secondo l’usanza, perché tutti potessero venire a renderle omaggio. Venne vestita dell’abito bianco di lino egiziano che le era tanto piaciuto, con tutti i gioielli importati da Ninive e gli anelli e le collane d’osso che contenevano minuscoli frammenti delle nostre antenate, che presto sarebbero passati a noi.

«Dopo dieci ore, quando centinaia di persone del nostro villaggio e di quelli vicini erano sfilati davanti alla salma, la preparammo per il banchetto funebre. Il sacerdote avrebbe reso questo onore per ogni altro morto del villaggio. Ma noi eravamo streghe e nostra madre era una strega; e noi sole potevamo toccarla. Alla luce delle lampade a olio, in segreto, io e mia sorella togliemmo la veste a nostra madre e coprimmo completamente il corpo di fiori e foglie fresche. Le aprimmo il cranio e sollevammo con cura la calotta in modo che restasse intatta la fronte, quindi estraemmo il cervello e lo mettemmo su un piatto insieme agli occhi. Con un’incisione altrettanto accurata estraemmo il cuore e lo ponemmo su un altro piatto. Coprimmo entrambi i piatti con pesanti cupole di creta per proteggerli.

«Gli abitanti del villaggio vennero quindi a erigere un forno d’argilla intorno al corpo di nostra madre, sulla lastra di pietra e intomo ai piatti, e si accese il fuoco fra i sassi su cui poggiava la lastra, per incominciare la cerimonia.

«Continuò per tutta la notte. Gli spiriti si erano acquietati perché lo spettro di mia madre non c’era più. Non credo che il corpo avesse importanza per loro; ciò che stavamo facendo contava tuttavia per noi.

«Poiché eravamo streghe e nostra madre era una strega, noi sole avremmo consumato la sua carne. Spettava a noi secondo la consuetudine e il diritto: Gli abitanti del villaggio non avrebbero partecipato al banchetto come in altri casi, quando restavano due soli discendenti del defunto. Anche se occorreva molto tempo, avremmo consumato noi il corpo di nostra madre. I compaesani avrebbero vegliato in nostra compagnia.

«Quella notte, mentre i resti di mia madre venivano preparati nel forno, io e mia sorella deliberammo per quel che riguardava il cuore e il cervello. Naturalmente avremmo diviso quegli organi, e dovevamo decidere chi li avrebbe presi, perché avevamo convinzioni precise circa ciò che vi risiedeva.

«Per molti popoli di quel tempo l’importante era il cuore. Per gli egizi, ad esempio, il cuore era la sede della coscienza. Era così anche per la gente del nostro villaggio; ma noi streghe credevamo che il cervello fosse la sede dello spirito umano e cioè quella parte spirituale di ogni uomo e di ogni donna che era simile agli spiriti dell’aria. E la nostra convinzione che il cervello fosse importante derivava dal fatto che a esso erano collegati gli occhi, organi della vista. E come streghe, noi vedevamo: vedevamo nei cuori, vedevamo il futuro e il passato. ‘Veggente’ era la parola della nostra lingua che indicava ciò che eravamo: era il termine che significava ‘strega’.

«Ma in realtà i nostri erano discorsi cerimoniali: credevamo che lo spirito di nostra madre se ne fosse andato. Per rispetto nei suoi confronti, avremmo consumato quegli organi perché non imputridissero. Fu facile, quindi, pervenire a un accordo: Mekare avrebbe preso il cervello e gli occhi, io avrei preso il cuore.

«Mekare era la strega più potente, era nata per prima ed era quella che prendeva sempre l’iniziativa, che parlava immediatamente e si comportava come la sorella maggiore, come fa invariabilmente una di due gemelle. Mi sembrava giusto che fosse lei ad avere il cervello e gli occhi; e io che ero sempre stata più calma e più lenta, avrei preso l’organo associato con il sentimento profondo e l’amore… il cuore.

«Eravamo soddisfatte della divisione; e mentre il cielo si schiariva dormimmo per qualche ora, indebolite dalla fame e dal digiuno che doveva prepararci per il banchetto.

«Un po’ prima dell’alba gli spiriti ci destarono. Avevano chiamato di nuovo il vento. Uscii dalla grotta; il fuoco ardeva nel forno. Gli abitanti del villaggio che lo sorvegliavano s’erano addormentati. Dissi irosamente agli spiriti di acquietarsi. Ma uno di essi, quello che più amavo, rispose che sulla montagna s’erano radunati moltissimi stranieri, impressionati dal nostro potere e pericolosamente incuriositi.

«‘Quegli uomini vogliono qualcosa da te e da Mekare’, mi disse lo spirito. ‘E non hanno buone intenzioni.’

«Gli dissi che gli stranieri venivano spesso, ed era una cosa da nulla; perciò doveva stare tranquillo e lasciarci fare ciò che dovevamo. Ma poi andai a parlare con uno degli uomini del villaggio e chiesi che gli abitanti si tenessero pronti in caso di problemi, e che portassero con loro le armi quando si sarebbero radunati per l’inizio del banchetto.

«Non era una richiesta insolita. Molti uomini andavano sempre in giro armati. I pochi che erano stati soldati professionisti o che potevano permettersi di acquistare le spade, le portavano spesso; e chi aveva un coltello lo teneva alla cintura.

«Ma nel complesso non ero preoccupata; dopotutto, nel nostro villaggio venivano stranieri da luoghi molto lontani, ed era naturale che accorressero per un avvenimento eccezionale, la morte di una strega.

«Voi sapete, comunque, ciò che doveva accadere. L’avete visto in sogno. Avete visto gli abitanti del villaggio radunarsi intorno allo spiazzo mentre il sole saliva verso lo zenith. Forse avete visto togliere i mattoni dal forno, oppure soltanto il corpo di nostra madre, scuro e raggrinzito e tuttavia sereno come nel sonno, deposto sulla lastra di pietra. Avete visto i fiori avvizziti che la coprivano, avete visto il cuore, il cervello e gli occhi sui piatti.

«Ci avete viste inginocchiate ai lati del corpo di nostra madre, e avete sentito i musici che cominciavano a suonare.

«Ciò che non avete veduto, ma che ora sapete, è che per migliaia di anni la nostra gente s’era radunata per quei banchetti. Da migliaia di anni vivevamo nella valle e sulle pendici del monte dove l’erba cresceva alta e i frutti cadevano dagli alberi. Era la nostra terra, la nostra tradizione, il nostro momento.

«Il nostro momento sacro.

«E mentre io e Mekare stavamo inginocchiate una di fronte all’altra, abbigliate delle nostre vesti più belle e ornate dei gioielli di nostra madre oltre che dei nostri, vedevamo davanti a noi non i moniti degli spiriti, o l’angoscia di nostra madre quando aveva toccato la tavoletta del re e della regina di Kemet. Vedevamo le nostre vite, che speravamo lunghe e felici, da vivere in mezzo al nostro popolo.

«Non so per quanto tempo restammo inginocchiate a preparare le nostre anime. Ricordo che finalmente sollevammo all’unisono i piatti contenenti gli organi di nostra madre. I musici cominciarono a suonare. La melodia del flauto e del tamburo riempiva l’aria intorno a noi; sentivamo il respiro degli abitanti del villaggio e il canto degli uccelli.

«E poi il male discese su di noi, e venne così all’improvviso, con un calpestio di piedi e le stridule grida di guerra dei soldati egizi, che quasi non ci rendemmo conto di quel che accadeva. Ci gettammo sul corpo di nostra madre cercando di proteggere il sacro banchetto; ma subito ci strapparono via e noi vedemmo i piatti cadere nella polvere, la lastra rovesciarsi!

«Udii Mekare urlare come mai avevo udito urlare un essere umano. Ma anch’io urlavo nel vedere il corpo di mia madre gettato nella cenere.

«Le maledizioni mi riempivano gli orecchi: gli uomini che ci accusavano di essere mangiatrici di carne umana, ci chiamavano selvagge da passare a fil di spada.

«Nessuno, tuttavia, ci fece del male. Nonostante le nostre grida e la nostra resistenza ci legarono riducendoci all’impotenza, anche se tutti i nostri venivano massacrati davanti ai nostri occhi. I soldati calpestarono il corpo di nostra madre, il suo cuore, il suo cervello e i suoi occhi. Calpestarono le ceneri mentre le loro coorti massacravano gli uomini, le donne e i bambini del nostro villaggio.

«E poi, nel coro delle grida e dei gemiti delle centinaia di persone che morivano sul fianco della montagna, sentii Mekare chiamare i nostri spiriti alla vendetta, chiamarli perché punissero i soldati per ciò che avevano fatto.

«Ma cos’erano il vento e la pioggia per uomini simili? Gli alberi tremavano, sembrava che la terra stessa tremasse, le foglie riempivano l’aria come la notte precedente. Le pietre rotolavano dalla montagna, si levavano nubi di polvere. Ma non vi fu altro che un momento d’esitazione prima che re Enkil in persona si facesse avanti e dicesse ai suoi soldati che si trattava soltanto di trucchi e che i nostri demoni non potevano fare di più.

«L’ammonimento era fin troppo vero, e il massacro continuò. Io e mia sorella eravamo pronte a morire. Ma non ci uccisero. Non intendevano ucciderci. E mentre ci trascinavano via vedemmo il nostro villaggio che bruciava, vedemmo i campi di grano selvatico che bruciavano, vedemmo tutti gli uomini e le donne della tribù che giacevano morti, e comprendemmo che i loro corpi sarebbero rimasti abbandonati perché li consumassero le belve di terra e del cielo.»

Maharet s’interruppe. Aveva giunto le mani: si toccò la fronte con la punta delle dita, prima di proseguire. La sua voce era più bassa e roca, ma decisa quanto prima.

«Che cos’è una piccola nazione di villaggi? Che cos’è un popolo… o una sola vita?

«Sotto la terra sono sepolti mille popoli. E anche la nostra gente è ancora oggi lì sepolta.

«Tutto è stato devastato in un’ora. Un esercito aveva massacrato i pastori, le donne, i giovani indifesi. I villaggi erano distrutti, le capanne erano state abbattute e tutto ciò che poteva ardere era stato dato alle fiamme.

«Sentivo la presenza degli spiriti dei morti che aleggiavano sopra la montagna e sul villaggio situato ai piedi: una grande massa di spiriti, agitati e confusi dalla violenza subita che si aggrappava alla terra per il terrore e la sofferenza, mentre altri ascendevano dalla carne per non soffrire più.

«E che potevano fare gli spiriti?

«Seguirono il corteo fino all’Egitto; tormentavano gli uomini che ci tenevano legate e ci portavano in lettiga, due donne piangenti strette l’una all’altra nella paura e nell’angoscia.

«Ogni notte, quando i soldati si accampavano, gli spiriti mandavano il vento ad abbattere le tende e a disperderli. Tuttavia il re consigliava ai suoi di non avere paura. Diceva che gli dèi d’Egitto erano più potenti dei demoni e delle streghe. E dato che gli spiriti, effettivamente, facevano tutto ciò di cui erano capaci senza per questo peggiorare la situazione, i soldati obbedivano.

«Ogni notte il re ci faceva condurre alla sua presenza. Parlava la nostra lingua, che allora era molto comune nel mondo ed era usata nella valle del Tigri e dell’Eufrate e lungo i fianchi del monte Carmelo. ‘Voi siete grandi streghe’, diceva con voce gentile e sincera. ‘Per questo vi ho risparmiato la vita anche se siete cannibali come la vostra gente, e siete state colte sul fatto da me e dai miei uomini. Vi ho risparmiate perché voglio avere il beneficio della vostra sapienza. Vorrei imparare da voi, e lo vorrebbe anche la mia regina. Ditemi che cosa posso fare per alleviare le vostre sofferenze, e io lo farò. Ora siete sotto la mia protezione: sono il vostro re.’

«Noi gli stavamo davanti piangendo e rifiutando di incontrare il suo sguardo, e tacevamo, fino a che si stancava e ci mandava a dormire nella piccola lettiga, un rettangolo di legno dalle piccole finestre dove avevamo sempre dormito dopo la nostra cattura.

«Quando restavamo sole, io e mia sorella comunicavamo in silenzio, o per mezzo del nostro linguaggio segreto di gesti e di parole abbreviate che eravamo le uniche a comprendere. Ricordavamo ciò che gli spiriti avevano detto a nostra madre; ricordavamo che si era ammalata dopo l’invio del messaggio del re di Kemet e che non s’era più ripresa. Tuttavia non avevamo paura.

«Eravamo troppo addolorate per aver paura. Era come se fossimo già morte. Avevamo visto massacrare la nostra gente, avevamo visto profanare il corpo di nostra madre. Non sapevamo cosa fosse peggio. Eravamo insieme: forse la separazione sarebbe stata più atroce.

«Ma durante il viaggio verso l’Egitto, avemmo una piccola consolazione che più tardi non avremmo dimenticato. Khayman, il maestro di palazzo del re, ci guardava con compassione e faceva tutto il possibile, in segreto, per alleviare le nostre pene.»

Maharet s’interruppe di nuovo e guardò Khayman, che sedeva al tavolo con le mani giunte e gli occhi bassi. Sembrava sprofondato nel ricordo di ciò che Maharet stava descrivendo. Accettava quel tributo; ma pareva che non lo consolasse. Ma non disse nulla. Girò lo sguardo sugli altri, ricambiando le occhiate ferme di Armand e di Gabrielle; tuttavia continuò a tacere.

Poi Maharet proseguì.

«Khayman ci allentava i legami quand’era possibile; la sera ci permetteva di camminare un po’, ci portava cibo e bevande. Era bello che non ci parlasse mentre faceva queste cose; non chiedeva gratitudine. Lo faceva con cuore puro: non amava vedere soffrire.

«Mi pare che impiegammo dieci giorni per raggiungere la terra di Kemet. Forse di più, forse meno. A un certo momento gli spiriti si stancarono dei loro trucchi; e noi, depresse e scoraggiate, non li invocavamo. Ci chiudevamo nel silenzio e solo ogni tanto ci guardavamo negli occhi.

«Finalmente giungemmo in un regno quale non avevamo mai visto. Dal deserto ardente venimmo portate nella ricca terra nera che fiancheggiava il Nilo, la terra nera dalla quale deriva il nome Kemet: navigammo sul fiume a bordo di una zattera, con tutto l’esercito, ed entrammo in una grande città fatta di edifìci di mattoni dai tetti di paglia, con grandi templi e palazzi costruiti dello stesso materiale rosso, e tuttavia magnifici.

«Tutto ciò accadeva molto tempo prima dell’avvento dell’architettura in pietra che avrebbe reso famosi gli egizi… i templi dei faraoni pervenuti a noi.

«Ma c’era già un grande amore per il fasto e la decorazione, una tendenza al monumentale. Mattoni crudi, canne, stuoie, tutti questi materiali semplici erano stati usati per costruire alti muri imbiancati e coperti di splendidi disegni.

«Davanti al palazzo dove venimmo condotte come prigioniere reali c’erano grandi colonne formate con erbe della giungla, seccate, legate insieme e intonacate con il fango del fiume; in un cortile chiuso era stato creato un lago, pieno di fiori di loto e circondato da alberi in fiore.

«Non avevamo mai visto un popolo ricco come l’egizio; tutti portavano gioielli, avevano i capelli intrecciati e gli occhi dipinti. Quegli occhi ci inquietavano: infatti il trucco induriva i loro sguardi, dava un’illusione di profondità dove forse la profondità non esisteva. Istintivamente rifuggivamo da quell’artificio.

«Tutto ciò che vedevamo accresceva la nostra disperazione. Odiavamo quanto ci stava intorno. E anche se non comprendevamo la loro strana lingua, intuivamo che tutti ci odiavano e ci temevano. Sembrava che i nostri capelli rossi causassero una grande confusione; e ispirava timore anche il fatto che fossimo gemelle.

«Tra loro, infatti, c’era stata l’usanza di uccidere i neonati gemelli, e quelli con i capelli rossi venivano invariabilmente sacrificati agli dèi. Si riteneva che portasse fortuna.

«Tutto questo lo comprendevamo in lampi improvvisi di intuizione; intanto, imprigionate, attendevamo di conoscere la nostra sorte.

«Khayman continuava a essere la nostra unica consolazione. Il maestro di palazzo del re provvedeva alla nostra comodità. Ci portava stoffe pulite e frutta da mangiare e birra da bere. Ci portava pettini e abiti. E per la prima volta ci parlò. Ci disse che la regina era buona e dolce, e che non dovevamo avere paura.

«Sapevamo che diceva la verità, senza il minimo dubbio. Ma c’era qualcosa che non andava, com’era avvenuto mesi prima con le parole del messaggero del re. Le nostre sofferenze erano appena incominciate.

«Inoltre, temevamo che gli spiriti ci avessero abbandonate; forse non volevano venire in quella terra. Ma non li invocavamo… se li avessimo chiamati e non avessimo ottenuto risposta sarebbe stato insopportabile.

«Una sera la regina ci mandò a chiamare. Venimmo condotte alla presenza della corte.

«Lo spettacolo era impressionante, anche se ci ispirava disprezzo. Akasha ed Enkil sedevano sui troni. La regina era allora com’è adesso… una donna dalle spalle diritte, le membra solide e un viso quasi troppo squisito per esprimere intelligenza, un essere di grande grazia con una dolce voce da soprano. In quanto al re, ora lo vedevamo come un sovrano e non come un soldato. Aveva i capelli intrecciati, e portava il gonnellino e molti gioielli. I suoi occhi erano seri come sempre; ma in un momento apparve chiaro che era Akasha a governare il regno, e così era sempre stato. Akasha aveva il linguaggio… l’abilità verbale.

«Ci disse subito che il nostro popolo era stato debitamente punito per gli abomini commessi, e che anzi era stato trattato con misericordia, poiché i cannibali sono selvaggi e a stretto rigore avrebbero dovuto morire di morte lenta. E disse che anche noi eravamo state trattate con misericordia perché eravamo grandi streghe, e che gli egizi volevano imparare da noi e volevano sapere quale conoscenza dei regni invisibili potevamo rivelare.

«Subito, come se queste parole non contassero nulla, incominciò a far domande: chi erano i nostri demoni? Perché alcuni di essi erano buoni, se erano demoni? Non erano gli dèi? Come potevamo far cadere la pioggia?

«Eravamo troppo inorridite dalla sua insensibilità per rispondere. Eravamo ferite dalla volgarità spirituale dei suoi modi, e avevamo ricominciato a piangere. Ci abbracciammo, distogliendoci da lei.

«Ma qualcosa incominciava ad apparirci chiaro dal modo in cui parlava. La velocità delle parole, l’insolenzà, l’enfasi che attribuiva a questa e a quella sillaba… tutto ci rivelava che mentiva senza neppure accorgersene.

«Guardammo nella profondità della menzogna, chiudendo gli occhi, e vedemmo la verità che sicuramente lei avrebbe negato.

«Aveva fatto massacrare la nostra gente per portarci lì! Aveva mandato il suo re e i suoi soldati a combattere quella ‘guerra santa’ semplicemente perché avevamo rifiutato l’invito precedente, e voleva averci in suo potere. Avevamo destato la sua curiosità.

«Era ciò che nostra madre aveva veduto quando aveva preso fra le mani la tavoletta con il messaggio del re e della regina. Forse gli spiriti, a modo loro, l’avevano previsto. Noi comprendevamo solo ora tanta mostruosità.

«La nostra gente era morta perché avevamo attirato l’interesse della regina come attiravamo quello degli spiriti; eravamo state noi a causare tanta sciagura.

«Perché, ci chiedevamo, i soldati non s’erano limitati a portarci via dai nostri compaesani indifesi? Perché avevano causato la rovina del nostro popolo?

«Ma quello era l’orrore! Un velo di morale aveva coperto le finalità della regina, un velo attraverso il quale lei stessa non poteva vedere, esattamente come gli altri.

«Si era convinta che la nostra gente doveva morire, sì, che lo meritava per la sua barbarie, anche se non eravamo egizi e se la nostra terra era molto lontana dalla sua patria. Oh, era molto comodo che noi venissimo trattate con misericordia e condotte lì per soddisfare finalmente la sua curiosità. E naturalmente, a quel punto avremmo dovuto essere grate e disposte a rispondere alle sue domande.

«E a una profondità ancora più grande dell’inganno, vedevamo la mente che rendeva possibili tali contraddizioni.

«La regina non aveva una vera morale, un vero sistema etico che governasse le sue azioni. Era una di quegli umani che intuiscono che forse non vi è nulla e non esiste una ragione delle cose che possa essere conosciuta. Tuttavia non ne sopportava il pensiero. Perciò creava di continuo i suoi sistemi etici, e cercava disperatamente di credervi, e tutti rispondevano alle cose che faceva solo per motivi pratici. La sua guerra contro i cannibali, per esempio, era derivata soprattutto dalla sua insofferenza a tali usanze. A Uruk, la sua gente non mangiava carne umana, perciò non voleva che accadesse né lì né da altre parti; in realtà non c’era una giustificazione plausibile. In lei, infatti, c’era sempre un angolo tenebroso colmo di disperazione. E una grande forza che la spingeva a cercare un significato dove non esisteva.

«Dovete capire: non era superficialità ciò che vedevamo in quella donna. Era la convinzione giovanile di poter far risplendere la luce se avesse tentato, di poter plasmare il mondo come desiderava; e c’era anche una mancanza d’interesse per le sofferenze altrui. Sapeva che gli altri soffrivano, ma preferiva non pensarci.

«Alla fine, incapaci di sopportare tanta doppiezza, la studiammo perché ora dovevamo contendere con lei. Non aveva ancora venticinque anni, e aveva poteri assoluti in quella terra che aveva abbagliato con le usanze importate da Uruk. Era quasi troppo graziosa per essere veramente bella, perché quella grazia escludeva il senso di maestà e di mistero profondo; e la sua voce aveva ancora un suono infantile, un suono che evocava negli altri una tenerezza istintiva, e conferiva una lieve musicalità alle parole più semplici, un suono che per noi era esasperante.

«Continuò con le domande. Come compivamo i nostri miracoli? Come leggevamo nei cuori degli uomini? Da dove proveniva la nostra magia, e perché affermavamo di parlare con esseri invisibili? Potevamo parlare nello stesso modo ai suoi dèi? Potevamo approfondire la sua conoscenza o permetterle di comprendere meglio ciò che era divino? Era disposta a perdonarci d’essere delle selvagge, se fossimo state riconoscenti, se ci fossimo inginocchiate davanti ai suoi altari e avessimo deposto davanti a lei e ai suoi dèi ciò che sapevamo.

«Manifestava un’insistenza che avrebbe fatto ridere un saggio. Tuttavia Mekare si adirò grandemente. Lei, che aveva sempre preso l’iniziativa in tutto, parlò con franchezza.

«‘Finiscila con queste domande. Sono stupide’, dichiarò. ‘Non ci sono dèi in questo regno, perché gli dèi non esistono. I soli abitatori invisibili del mondo sono gli spiriti, e giocano con voi per mezzo dei sacerdoti e della religione come giocano con tutti gli altri. Ra, Osiride… sono nomi inventati con i quali lusingate e corteggiate gli spiriti; e quando serve ai loro scopi, vi inviano un piccolo segno affinchè vi precipitiate ad adularli ancora di più.’

«Il re e la regina la fissarono inorriditi. Mekare, tuttavia, continuò: ‘Gli spiriti sono reali, ma sono puerili e capricciosi. E sono pericolosi, anche. Provano per noi meraviglia e invidia perché siamo spirituali e nel contempo carnali; questo li attrae e li rende ansiosi di fare il nostro volere. Le streghe come noi hanno sempre saputo come usarli; ma per riuscirci occorrono una grande abilità e un grande potere, che noi possediamo e voi no. Siete sciocchi, e ciò che avete fatto per prenderci prigioniere è malvagio, è disonesto. Voi vivete nella menzogna, ma noi non vi mentiremo!’

«Quindi, piangente e sdegnata, Mekare accusò la regina davanti all’intera corte di aver massacrato la nostra gente, un popolo pacifico, per il semplice scopo di portarci lì. La nostra gente, disse, da mille anni non andava a caccia di carne umana; era stato un banchetto funebre a essere profanato per la nostra cattura, e questo sacrilegio era stato commesso perché la regina di Kemet avesse la possibilità di parlare con due streghe, di far loro domande, e le avesse in pugno per cercare di sfruttare il loro potere.

«Questo creò un grande scompiglio a corte. Nessuno aveva mai sentito una simile impudenza blasfema. Ma i vecchi nobili egizi, che ancora disapprovavano la messa al bando del cannibalismo sacro, erano inorriditi nel sentir parlare del banchetto funebre profanato. E altri, che temevano la punizione celeste per non aver divorato i resti dei genitori, erano ammutoliti dalla paura.

«Ma nel complesso c’era una grande confusione. Solo il re e la regina erano stranamente taciturni e stranamente affascinati.

«Akasha non rispose; era chiaro che qualcosa era arrivato a segno nel profondo della sua mente. Per un momento ebbe uno scatto di curiosità. Spiriti che si fingono dèi? Spiriti che invidiano la carne? Non pensava neppure all’accusa di aver sacrificato inutilmente il nostro popolo. Non le interessava. Era la questione spirituale che l’affascinava; e in quell’interesse lo spirito era distaccato dalla carne.

«Permettetemi di attirare la vostra attenzione su ciò che ho appena detto. Era la questione spirituale ad affascinarla… l’idea astratta, si può dire; e per lei l’idea astratta era tutto. Non penso che credesse davvero che gli spiriti fossero puerili e capricciosi. Comunque intendeva conoscerli; e intendeva conoscerli per nostro tramite. In quanto all’annientamento della nostra gente, non se ne curava!

«Intanto il sommo sacerdote del tempio di Ra reclamava la nostra esecuzione, e così pure il sommo sacerdote del tempio di Osiride. Eravamo malefiche, eravamo streghe, e chi aveva i capelli rossi doveva essere bruciato com’era sempre avvenuto nella terra di Kemet. Subito i presenti fecero loro eco. Sembrava che nel palazzo stesse per scoppiare una rivolta.

«Ma il re ordinò a tutti di tacere. Fummo ricondotte nelle nostre celle, sorvegliate da molte guardie.

«Infuriata, Mekare camminava avanti e indietro, mentre la supplicavo di non dire altro. Le rammentai ciò che avevano preannunciato gli spiriti: se fossimo andate in Egitto il re e la regina ci avrebbero fatto domande; e se avessimo risposto sinceramente, com’era prevedibile, i sovrani si sarebbero indignati con noi e saremmo state annientate.

«Ma era inutile che parlassi; Mekare non ascoltava. Camminava avanti e indietro e ogni tanto si batteva il pugno sul petto. Sentivo la sua angoscia.

«‘Dannata’, diceva. ‘Malefica.’ Poi taceva e continuava a camminare; poi improvvisamente si fermava e ripeteva queste parole.

«Sapevo che ricordava l’avvertimento di Amel, lo spirito maligno. È sapevo che Amel era vicino: lo udivo, lo sentivo.

«Sapevo che Mekare era tentata di chiamarlo, e pensavo che non doveva farlo. Che avrebbero significato per gli egizi i suoi sciocchi tormenti? Quanti mortali poteva affliggere con le sue punzecchiature? Non era niente di più delle bufere di vento e degli oggetti volanti che potevamo produrre. Ma Amel udì quei pensieri e cominciò a diventare irrequieto.

«Taci, demone’, disse Mekare. ‘Aspetta che abbia bisogno di te!’ Erano le prime parole che le sentivo rivolgere a uno spirito maligno, e mi fecero scorrere lungo la schiena un brivido d’orrore.

«Non ricordo quando ci addormentammo. Ricordo solo che dopo la mezzanotte fummo svegliate da Khayman.

«In un primo momento pensai che fosse uno scherzo di Amel, e mi destai agitata. Ma Khayman mi accennò di tacere. Era in uno stato terribile. Indossava una semplice veste da notte e non aveva i sandali. I suoi capelli erano scomposti. Sembrava che avesse pianto: gli occhi erano arrossati.

«Sedette accanto a me. ‘Ti prego: è vero ciò che hai detto degli spiriti?’ Non stetti a spiegargli che era stata Mekare a dirlo. La gente ci confondeva sempre o ci credeva un unico essere. Mi limitai a rispondere che era vero.

«Gli spiegai che sono sempre esistite queste entità invisibili, e che esse stesse ci avevano rivelato l’inesistenza di dèi e dee. Spesso s’erano vantati con noi degli scherzi che facevano in Sumer, a Gerico o Ninive nei grandi templi. Ogni tanto affermavano di essere questo o quel dio. Ma noi conoscevamo le loro personalità e quando li chiamavamo con i loro vecchi nomi abbandonavano subito il nuovo gioco.

«Non dissi, tuttavia, che avrei preferito che Mekare non avesse rivelato queste cose. A che scopo poteva servire, ormai?

«Khayman mi ascoltò, desolato, come se per tutta la vita avesse creduto alle menzogne e ora vedesse la verità. Era rimasto scosso quando aveva visto gli spiriti far levare il vento sulla nostra montagna e lanciare sui soldati una pioggia di foglie: lo spettacolo l’aveva agghiacciato. Ed è sempre questo che produce la fede, questo miscuglio di verità e di manifestazioni fisiche.

«Tuttavia intuivo che c’era un peso ancora più grande sulla sua coscienza… o, potrei dire, sulla sua ragione. ‘Il massacro della vostra gente… è stata una guerra santa e non un atto egoistico, come hai detto.’

«‘Oh, no’, gli dissi. ‘È stato un atto di semplice egoismo. Non posso dire altrimenti.’ Gli parlai della tavoletta inviata per mezzo del messaggero, di ciò che avevano detto gli spiriti, dei timori e della malattia di mia madre, e del fatto che avevo udito la verità nelle parole della regina, la verità che lei stessa non era capace di riconoscere.

«Ma molto prima che avessi finito, Khayman era di nuovo sconfitto. Sapeva, in base alle sue osservazioni, che quanto dicevo era vero. Aveva combattuto a fianco del re in molte campagne contro i popoli stranieri. Il fatto che un esercito combattesse per guadagno per lui non era nulla. Aveva visto massacri e città incendiate; aveva visto catturare centinaia di schiavi; aveva visto gli uomini tornare carichi di bottino. E sebbene non fosse un soldato, comprendeva queste cose.

«Ma nei nostri villaggi non c’era bottino degno di essere preso; non c’erano territori che il re potesse aspirare a conservare per sé. Sì, s’era combattuto per catturarci, lo sapeva. E anch’egli provava disgusto per la menzogna della guerra santa contro i cannibali. Era oppresso da una tristezza ancora più grande della sconfitta. Apparteneva a una vecchia famiglia; aveva mangiato la carne dei suoi antenati, e adesso si trovava a punire le stesse tradizioni tra coloro che conosceva e amava. Il pensiero della mummificazione dei morti gli ripugnava, ma ancora di più la cerimonia che l’accompagnava, per la profondità della superstizione in cui era caduta quella terra. Tante ricchezze dedicate ai morti, tanta attenzione per i corpi putrefatti, solo perché uomini e donne non si sentissero in colpa per aver abbandonato consuetudini più antiche.

«Quei pensieri lo sfinivano; non gli erano naturali. Alla fine, l’ossessionavano le morti cui aveva assistito, esecuzioni e massacri. Come la regina non poteva comprendere quelle cose, Khayman non poteva dimenticarle e stava perdendo energia, affondava in un pantano in cui poteva annegare.

«Finalmente si congedò da me. Ma promise che avrebbe fatto il possibile per ottenere la nostra liberazione. Non sapeva come fare, ma avrebbe tentato. Mi supplicò di non aver paura. In quel momento provavo un grande amore per lui. Aveva la stessa bellezza che ha ora; tuttavia aveva la pelle più scura, era più magro e i suoi capelli erano stirati e acconciati in trecce che gli scendevano sulle spalle. E aveva l’aria di chi comanda e di chi gode del caldo affetto del suo principe.

«L’indomani mattina la regina ci fece chiamare di nuovo. Stavolta fummo condotte nella sua camera; e con lei c’erano soltanto il re e Khayman.

«Era un luogo ancor più lussuoso della grande sala del palazzo; era pieno di cose splendide, con un divano fatto di leopardi scolpiti, e un letto dai drappi di seta, e specchi lucidi di perfezione quasi magica. E la regina, da quella tentatrice che era, appariva splendida, modellata dalla natura in modo da essere più incantevole dei tesori che l’attorniavano.

«Fece nuovamente le stesse domande.

«E noi, con le mani legate, fummo costrette ad ascoltare le stesse assurdità.

«Ancora una volta Mekare le parlò degli spiriti; spiegò che erano sempre esistiti e si vantavano di farsi beffe dei sacerdoti di altre terre; e avevano dichiarato che i canti degli egizi erano piacevoli. Per gli spiriti era tutto un gioco e niente di più.

«‘Ma questi spiriti! Sono dèi, a quanto dici!’ esclamò Akasha con fervore. ‘E parlate con loro? Voglio vedere! Dovete farlo subito per me."

«‘Non sono dèi’, le dissi. ‘È quanto stiamo cercando di dirti. E non aborriscono i cannibali come dici per i tuoi dèi. Non si curano di queste cose e non se ne sono mai curati.’ Mi sforzai di spiegare la differenza; gli spiriti non avevano un codice, erano moralmente inferiori a noi. Tuttavia sapevo che quella donna non poteva afferrare ciò che le dicevo.

«Percepivo la guerra dentro di lei, tra l’ancella della dea Inanna che desiderava credersi benedetta, e l’anima tenebrosa che non credeva in nulla. La sua anima era gelida; il suo fervore religioso non era altro che un fuoco da lei alimentato costantemente per cercare di riscaldarsi.

«‘Tutto ciò è menzogna!’ disse alla fine. ‘Siete donne malvagie!’ E così ordinò la nostra esecuzione. L’indomani ci avrebbero bruciate vive, tutte e due insieme, perché ognuna vedesse l’altra soffrire e morire. Perché mai s’era data tanta pena per cercarci?

«Subito il re l’interruppe. Le disse che aveva veduto il potere degli spiriti, come l’aveva veduto Khayman. Che cosa avrebbero potuto fare gli spiriti, se fossimo state trattate così? Non sarebbe stato meglio lasciarci libere?

«Ma lo sguardo della regina era duro e minaccioso. Le parole del re non contavano: le vite ci sarebbero state tolte. Cosa potevamo fare? Sembrava che fosse in collera con noi perché non eravamo riuscite a esporre le nostre verità in un modo che potesse usare o trovare piacevole. Ah, era un tormento aver a che fare con lei. Tuttavia la sua mente era comune; vi sono innumerevoli esseri umani che pensavano e sentivano come lei allora… e anche adesso, con ogni probabilità.

«Finalmente Mekare colse il momento. Fece ciò che io non osavo. Chiamò gli spiriti: li chiamò tutti, per nome, ma così in fretta che la regina non avrebbe mai ricordato le parole. Gridò che venissero a lei e obbedissero ai suoi comandi; e disse loro di dimostrare collera per quanto accadeva alle mortali Maharet e Mekare che professavano di amare.

«Era una cosa rischiosa. Ma se nulla fosse accaduto, se gli spiriti, come io temevo, ci avevano abbandonato, poteva sempre invocare Amel, perché era presente e in attesa. Era l’unica possibilità che ci restava.

«Subito incominciò a soffiare il vento nel cortile e nei corridoi del palazzo, strappò i tendaggi, sbattè le porte, frantumò i recipienti fragili. La regina era in uno stato di terrore. Poi i piccoli oggetti incominciarono a volare nell’aria. Gli spiriti presero gli ornamenti dal tavolo di toeletta della regina e glieli scagliarono; il re le stava accanto e cercava di ripararla e Khayman era irrigidito dalla paura.

«Ora, quello era il massimo del potere degli spiriti, e non avrebbero potuto continuare a lungo. Ma prima che la loro manifestazione cessasse, Khayman supplicò il re e la regina di revocare la condanna a morte. Acconsentirono subito.

«Mekare, intuendo che gli spiriti erano quasi esausti, con grande solennità ordinò di smettere. Scese il silenzio. Gli schiavi terrorizzati corsero qua e là per rimettere in ordine.

«La regina era allibita. Il re cercò di spiegarle che aveva già visto un simile spettacolo e che non gli era accaduto nulla di male; ma qualcosa di profondo era stato violato nel cuore della regina. Non aveva mai assistito alla minima manifestazione del sovrannaturale: era ammutolita e sgomenta. In quel luogo profondo e privo di fede dentro di lei c’era stata una scintilla di luce, di vera luce. E così vecchio e certo era il suo scetticismo segreto che quel piccolo miracolo era stato per lei una grande rivelazione: era come se avesse veduto la faccia dei suoi dèi.

«Poi mandò via il re e Khayman. Disse che voleva parlare con noi, da sole. Quindi ci implorò di comunicare con gli spiriti in modo che lei potesse udirlo. Aveva le lacrime agli occhi.

«Fu un momento straordinario, perché ora percepivo ciò che avevo percepito mesi prima quando avevo toccato la tavoletta d’argilla: un miscuglio di bene e di male che sembrava più pericoloso del male stesso.

«Naturalmente le dicemmo che non potevamo ottenere che gli spiriti parlassero in modo che lei potesse comprendere. Ma forse poteva trasmetterci qualche domanda cui gli spiriti avrebbero risposto. E fece così.

«Non erano diverse dalle domande che la gente ha sempre rivolto a maghi e streghe: dov’è la collana che persi da bambina? Cosa voleva dirmi mia madre la notte in cui morì, quando non poteva più parlare? Perché mia sorella detesta la mia compagnia? Mio figlio vivrà tanto da diventare adulto? Sarà forte e valoroso?

«Noi, che lottavamo per le nostre vite, rivolgevamo con pazienza queste domande agli spiriti, lusingandoli e adulandoli affinchè prestassero attenzione. E ottenemmo risposte che sbalordirono Akasha. Gli spiriti conoscevano il nome della sorella, conoscevano il nome di suo figlio. La regina sembrava sull’orlo della follia di fronte a quei trucchi così semplici.

«Poi apparve Amel, il maligno, evidentemente invidioso. E gettò davanti ad Akasha la collana di cui aveva parlato, una collana smarrita in Uruk. Fu il colpo finale. La regina era allibita. «Pianse, stringendo la collana. Quindi ci supplicò di rivolgere agli spiriti le domande davvero importanti, di cui doveva conoscere le risposte.

«Sì, dissero gli spiriti, gli dèi erano inventati dal popolo. No, i nomi usati nelle preghiere non avevano importanza. Gli spiriti amavano la musica e il ritmo del linguaggio… la forma delle parole, per così dire. Sì, c’erano spiriti maligni che si divertivano a far soffrire la gente, e perché no? E c’erano spiriti buoni. Avrebbero parlato ad Akasha, se noi avessimo lasciato il regno? Mai. Ora parlavano e lei non poteva udirli: cosa si aspettava che facessero? Ma sì, nel regno c’erano streghe che potevano udirli, e avrebbero detto a quelle streghe di presentarsi subito a corte, se era questo che la regina desiderava.

«Ma con il progredire di questa comunicazione, in Akasha si operò un cambiamento terribile.

«Passò dal giubilo al sospetto e quindi all’avvilimento, perché gli spiriti le ripetevano le stesse cose scoraggiami che noi le avevamo già detto.

«‘Cosa sapete della vita dopo la morte?’ chiese. E quando gli spiriti dissero che le anime dei morti vagavano sulla terra, confuse e sofferenti, oppure s’innalzavano e svanivano completamente, rimase molto delusa. I suoi occhi si offuscarono: stava perdendo ogni desiderio di saperne di più. Quando chiese qual era la sorte di coloro che avevano vissuto esistenze malvagie, in contrapposizione a coloro che avevano vissuto nel bene, gli spiriti non seppero come rispondere. Non capivano cosa intendesse.

«L’interrogatorio, tuttavia, continuò. Ci accorgemmo che gli spiriti si stavano stancando, e giocavano con lei; le risposte stavano diventando sempre più sciocche.

«‘Qual è il volere degli dèi?’ chiese la regina. ‘Che tu canti sempre’, risposero gli spiriti. ‘Ci piace.’

«All’improvviso Amel, il maligno, fierissimo dello scherzo con la collana, gettò davanti ad Akasha un altro gioiello. Ma lei indietreggiò inorridita.

«Subito comprendemmo quale fosse l’errore. La collana era appartenuta a sua madre, ed era sepolta con lei presso Uruk; e naturalmente Amel, essendo soltanto uno spirito, non capiva quanto fosse bizzarro e abominevole portare lì quell’oggetto. Non poteva capire. Aveva visto la collana nel pensiero di Akasha quando aveva parlato dell’altra. Perché non desiderava anche quella? Le collane non le piacevano?

«Mekare disse ad Amel che quell’intervento non era gradito: era un miracolo sbagliato. Gli ingiunse di attendere i suoi comandi, perché lei comprendeva la regina, e Amel invece non la capiva.

«Ma ormai era troppo tardi. Alla regina era accaduto qualcosa di irrevocabile. Aveva avuto due prove del potere degli spiriti, aveva ascoltato verità e assurdità, entrambe non comparabili alla bellezza della mitologia degli dèi in cui s’era sforzata di credere. Tuttavia gli spiriti stavano distruggendo la sua fragile fede. Come avrebbe potuto sottrarsi allo scetticismo tenebroso della sua anima se fossero continuate quelle dimostrazioni?

«Si chinò e raccolse la collana proveniente dalla tomba di sua madre.

«‘Com’è arrivata qui?’ chiese. Ma non ci teneva a saperlo, in realtà. Capiva che la risposta sarebbe stata ancora più sconvolgente di tutto ciò che aveva appreso dopo la nostra venuta, e aveva paura.

«Comunque, io spiegai: e ascoltò ogni parola.

«Gli spiriti leggono nelle nostre menti, sono enormi e potentissimi. Per noi è difficile immaginarne le dimensioni, e possono muoversi con la rapidità del pensiero. Quando Akasha aveva pensato alla seconda collana lo spirito l’aveva vista ed era andato a cercarla; dopotutto, la prima collana le aveva fatto piacere, quindi perché non portarne un’altra? Perciò l’aveva trovata nella tomba della madre della regina e l’aveva rimossa, forse attraverso un’apertura, perché sicuramente non poteva averla fatta passare attraverso la pietra. Sarebbe stato ridicolo.

«Ma mentre dicevo queste parole, intuii la verità. Con ogni probabilità la collana era stata sottratta al cadavere della madre di Akasha, o forse dal coniuge. Non era mai finita in una tomba: perciò Amel l’aveva trovata. O forse era stata rubata da un sacerdote. Almeno così pareva ad Akasha, che teneva in mano la collana. Detestava lo spirito che le aveva rivelato una cosa tanto terribile.

«Le sue illusioni erano ormai in rovina; tuttavia era rimasta con la sterile verità che aveva sempre conosciuto. Aveva fatto domande sul sovrannaturale, il che era assai poco saggio, e il sovrannaturale le aveva dato risposte che non poteva accettare e che tuttavia non poteva confutare.

«‘Dove sono le anime dei morti?’ mormorò continuando a fissare la collana.

«Risposi io, sommessamente, che gli spiriti non lo sanno.

«Orrore. Paura. Poi la sua mente si mise all’opera per fare ciò che aveva sempre fatto: trovare un sistema grandioso per spiegare quanto causava sofferenza, un modo per spiegare ciò che le stava davanti. La segreta nicchia tenebrosa dentro di lei ingigantiva e minacciava di consumarla. Non poteva permettere che accadesse; doveva continuare. Era la regina di Kemet.

«D’altra parte era adirata, e provava rabbia contro i genitori e i maestri e i sacerdoti e le sacerdotesse della sua infanzia, contro gli dèi che aveva adorato e contro tutti coloro che l’avevano confortata e le avevano detto che la vita era bella.

«Era disceso un momento di silenzio; la sua espressione cambiava. La paura e lo sbalordimento erano scomparsi e nel suo sguardo era apparso qualcosa di freddo e disincantato e malizioso.

«Quindi, tenendo in mano la collana della madre, si alzò e dichiarò che quanto avevamo detto era menzogna. Noi parlavamo ai demoni, demoni che cercavano di rovesciare lei e i suoi dèi, protettori del suo popolo. Più parlava e più si convinceva della verità di quanto diceva, più si lasciava dominare dall’eleganza delle sue convinzioni e cedeva alla loro logica. Alla fine pianse e ci accusò, negando la tenebra che aveva dentro di sé. Evocò le immagini dei suoi dèi, evocò il suo linguaggio sacro.

«Ma poi guardò di nuovo la collana; e lo spirito maligno Amel, furioso perché non s’era compiaciuta del dono ed era nuovamente in collera con noi, ci chiese di dirle che se ci avesse fatto del male le avrebbe scagliato addosso ogni oggetto, gioiello, coppa, specchio, pettine o altro che mai avesse chiesto, immaginato, desiderato o perduto.

«Avrei riso se non fossimo state in così grande pericolo; per lo spirito era una soluzione meravigliosa, ma ridicola da un punto di vista umano. Tuttavia non era ciò che si poteva desiderare.

«E Mekare riferì esattamente ad Akasha ciò che aveva detto Amel.

«‘Se ha potuto far apparire questa collana può seppellirti sotto quei ricordi di sofferenza’, disse Mekare. ‘E non so se qualche strega su questa terra potrebbe fermarlo, se mai dovesse incominciare.’

«‘Dov’è?’ urlò Akasha. ‘Fammi vedere il demonio al quale parli!’

«A questo punto Amel, in preda alla vanità e alla rabbia, concentrò tutta la sua potenza e si avventò contro Akasha urlando: ‘Io sono Amel, il maligno che trafigge!’ E suscitò intorno a lei la stessa bufera che aveva creato intorno a nostra madre, ma questa era dieci volte più violenta. Non avevo mai visto tanta furia. La stanza pareva tremare mentre lo spirito immenso si comprimeva e si insinuava in quel luogo minuscolo. Sentii scricchiolare i muri; e sul bel viso, sulle braccia della regina apparvero innumerevoli, minuscole ferite come tante gocce di sangue.

«Akasha urlò, disperata. Amel era in estasi: Amel sapeva compiere cose prodigiose. Io e Mekare eravamo atterrite.

«Mekare gli comandò di fermarsi. Lo coprì di lusinghe e di ringraziamenti, gli disse che era il più potente di tutti gli spiriti, ma che ora doveva obbedire per dimostrare che era intelligente quanto forte; e lei gli avrebbe permesso di colpire di nuovo, al momento più opportuno.

«Il re, intanto, s’era precipitato in aiuto di Akasha; Khayman era accorso con tutte le guardie. Ma quando le guardie alzarono le spade per colpirci, la regina ordinò di lasciarci stare. Io e Mekare la fissavamo, minacciandola in silenzio con il potere di quello spirito, poiché non ci restava altro. E Amel il maligno aleggiava sopra di noi, e riempiva l’aria del più strano fra i suoni, la grande risata cavernosa d’uno spkito che sembrava saturare il mondo intero.

«Quando fummo di nuovo nella nostra cella, non riuscimmo a pensare cosa potevamo fare o come potevamo usare il vantaggio che avevamo ricavato dall’intervento di Amel.

«In quanto ad Amel, non voleva lasciarci. Infuriava nella cella, faceva frusciare le stuoie e i nostri indumenti e agitava i nostri capelli. Era fastidioso; ma ciò che mi spaventava era udire ciò di cui si vantava. Gli piaceva bere il sangue, che lo rendeva più lento ma che aveva un ottimo sapore; e quando i popoli del mondo facevano sacrifìci cruenti sui loro altari, si divertiva a discendere per bere il sangue che, dopotutto, era a sua disposizione, no? E continuava a ridere.

«Gli altri spiriti erano inorriditi; io e Mekare lo sentivamo… a parte coloro che erano un po’ invidiosi e volevano sapere che sapore aveva il sangue e perché mai Amel lo gradisse tanto.

«E allora vennero allo scoperto… l’odio e l’invidia della carne presenti in tanti spiriti maligni, la sensazione che noi umani siamo un abominio perché abbiamo corpo e anima, e che non dovremmo esistere su questa terra. Amel delirava dei tempi in cui non vi erano altro che monti e oceani e foreste, senza esseri viventi come noi. Ci disse che possedere uno spirito racchiuso in un corpo umano era una maledizione.

«Ora, già altre volte avevo sentito queste proteste degli spiriti malefici, ma non vi avevo mai attribuito molta importanza. Per la prima volta incominciai a credervi mentre con gli occhi della mente rivedevo la mia gente massacrata. Pensai, come molti umani avevano fatto prima di me e avrebbero fatto in seguito, che era una maledizione avere un concetto d’immortalità senza che questa fosse accompagnata dal corpo.

«Oppure, come hai detto tu questa notte, Marius, la vita sembrava non valere la pena di essere vissuta; sembrava uno scherzo. In quel momento il mio mondo era tenebra, tenebra e sofferenza. Non aveva più importanza tutto ciò che ero; nulla di ciò che vedevo poteva spingermi a desiderare d’essere viva.

«Mekare, invece, riprese a parlare con Amel; gli disse che preferiva essere ciò che era, anziché come lui, eternamente alla deriva senza nulla d’importante da fare. Questo provocò di nuovo la rabbia di Amel: le avrebbe mostrato cosa poteva fare!

«‘Quando io ti comando, Amel!’ disse mia sorella. ‘Conta su di me per scegliere il momento. Allora tutti gli uomini sapranno cosa sei in grado di fare’. E lo spirito vanitoso e puerile fu contento, e si protese di nuovo verso il cielo buio.

«Fummo tenute prigioniere per tre notti e tre giorni. Le guardie non ci avvicinavano, e neppure gli schiavi. Saremmo morte di fame se Khayman, il maestro di palazzo, non ci avesse portato personalmente il cibo.

«Poi ci riferì ciò che ci avevano già detto gli spiriti. Era scoppiata una grande controversia. I sacerdoti chiedevano che venissimo condannate a morte; ma la regina a questo punto aveva paura di ucciderci. Temeva che le scatenassimo contro gli spiriti e che non sarebbe riuscita a scacciarli. Il re era affascinato dall’accaduto e pensava che fosse possibile apprendere da noi molte altre cose; lo incuriosivano i poteri dei nostri spiriti e i modi in cui potevano essere usati. Ma la regina era spaventata; aveva già visto abbastanza.

«Finalmente venimmo condotte davanti alla corte, nel grande atrio scoperto del palazzo.

«Era mezzogiorno e il re e la regina fecero le consuete offerte a Ra, il dio sole; noi dovemmo assistere. Quella solennità non significava nulla per noi; temevamo che fossero le ultime ore della nostra vita. Io sognavo la nostra montagna, le nostre grotte, i figli che avremmo potuto avere, figli e figlie splendidi, alcuni dei quali avrebbero ereditato i nostri poteri. Sognavo la vita die ci era stata tolta, l’annientamento della nostra gente che fra poco sarebbe stato completo. Ero grata perché potevo vedere il cielo azzurro sopra di me e perché ero ancora con Mekare.

«Finalmente il re parlò. Era oppresso dalla tristezza e dalla stanchezza. Sebbene fosse giovane, in quel momento aveva l’anima di un vecchio. Noi possedevamo un grande dono, disse, ma ne avevamo abusato e non poteva essere utile a nessun altro. Ci accusò di mentire, di adorare i demoni e di praticare la magia nera. Avrebbe voluto farci bruciare per compiacere il popolo, disse; ma lui e la regina avevano pietà di noi. La regina, in particolare, gli aveva chiesto d’essere misericordioso.

«Era una menzogna; ma bastò guardarla in viso per comprendere che Akasha ne era convinta. E naturalmente il re lo credeva. Ma che importanza aveva? Che cos’era quella misericordia? ci chiedemmo mentre cercavamo di scrutare nelle loro anime.

«Poi la regina ci disse con parole gentili che la nostra grande magia le aveva portato le due collane che più desiderava al mondo, e che solo per questo ci avrebbe lasciate vivere. Insomma, la menzogna che intesseva era sempre più vasta e intricata e sempre più lontana dalla verità.

«Poi il re disse che ci avrebbe lasciate libere, ma prima avrebbe dimostrato alla corte che non avevamo alcun potere, e perciò i sacerdoti si sarebbero placati.

«E se in qualunque momento un demone maligno si fosse manifestato e avesse cercato di far male ai devoti di Ra o di Osiride, la grazia sarebbe stata revocata, e saremmo state messe a morte, perché sicuramente il potere dei nostri demoni sarebbe morto con noi. E avremmo perduto il diritto alla misericordia della regina, che già così non meritavamo.

«Naturalmente sapevamo cosa stava per accadere: lo vedevamo nei cuori del re e della regina. Era stato deciso un compromesso. Mentre il re si toglieva la catena d’oro con il medaglione e la metteva al collo di Khayman, capimmo che saremmo state violentate davanti alla corte, come prigioniere o schiave catturate in guerra. E se avessimo chiamato gli spiriti saremmo morte. Questa era la nostra posizione.

«‘Se non fosse per amore della mia regina’, disse Enkil, ‘prenderei il mio piacere con queste due donne, com’è mio diritto; lo farei di fronte a voi tutti per dimostrarvi che non hanno potere e non sono grandi streghe, ma semplici donne. E il mio maestro di palazzo, Khayman, il mio amato Khayman, avrà il privilegio di farlo al mio posto.’

«Tutta la corte attendeva in silenzio mentre Khayman ci guardava e si preparava a eseguire il comando del re. Lo fissammo, sfidandolo nella nostra impotenza… a non mettere le mani su di noi e a non violarci davanti a quegli occhi indifferenti.

«Sentivamo la sua sofferenza, sentivamo il pericolo che lo circondava, perché se avesse disobbedito sarebbe sicuramente morto. Tuttavia intendeva prenderci l’onore, profanarci e rovinarci; e noi che eravamo sempre vissute nella pace assoluta della nostra montagna non sapevamo nulla dell’atto che doveva compiersi.

«Mentre veniva verso di noi, pensavo che non potesse farlo, che un uomo non potesse provare tanta sofferenza e aguzzate nel contempo la passione per quel compito. Ma allora sapevo ben poco degli uomini; non sapevo che i piaceri della carne possono unirsi in loro all’odio e alla collera, e che possono far soffrire nel compiere l’atto che le donne compiono invece quasi sempre per amore.

«I nostri spiriti rumoreggiavano, indignati da ciò che stava per accadere; ma per salvarci la vita dicemmo loro di non far nulla. Strinsi in silenzio la mano di Mekare, le feci sapere che saremmo vissute, e saremmo state libere, e che dopotutto quella non era la morte, e avremmo abbandonato i miserabili abitanti del deserto alle loro menzogne e alle loro illusioni e alle loro stupide usanze, e saremmo tornate a casa.

«Poi Khayman si accinse a fare ciò che doveva. Ci slegò; per prima attirò a sé Mekare, la costrinse a stendersi sulle stuoie e le sollevò la veste, mentre io restavo immobile e incapace di fermarlo; quindi anch’io fui assoggettata allo stesso destino.

«Ma nella sua mente non eravamo le donne che Khayman violentava. Mentre la sua anima e il suo corpo tremavano, egli accendeva il fuoco della passione con fantasie di bellezze senza nome e di momenti ricordati vagamente, in modo che corpo e anima potessero essere una cosa sola.

«E noi, distogliendo gli occhi, chiudemmo l’anima a lui e ai vili egizi che ci avevano fatto quelle cose terribili; le nostre anime erano intatte nei nostri corpi, e tutto intorno a noi sentivo il pianto degli spiriti, un pianto triste e tremendo; e in lontananza il rombo sordo del tuono di Amel.

«Siete sciocche a tollerare tutto questo, streghe.

«Al calar della notte ci lasciarono al margine del deserto. I soldati ci consegnarono un po’ di viveri e di bevande. Quindi incominciammo il lungo viaggio verso nord. Eravamo più sdegnate che mai.

«E Amel venne a sfidarci e a inveire: perché non volevamo che ci vendicasse?

«‘Ci inseguirebbero e ci ucciderebbero!’ disse Mekare. ‘Ora vattene.’ Ma non servì a nulla; quindi cercò di indurre Amel a occuparsi di qualcosa d’importante. ‘Amel, vogliamo giungere vive a casa. Fai soffiare venti freschi e mostraci dove possiamo trovare l’acqua.’

«Ma gli spiriti maligni non fanno mai queste cose. Amel si disinteressò di noi e si allontanò; e noi continuammo a camminare nel vento del deserto, tenendoci abbracciate e cercando di non pensare alla strada che ci restava da percorrere.

«Durante quel lungo viaggio accaddero molte cose, troppe per narrarle.

«Ma gli spiriti buoni non ci avevano abbandonate; mandarono venti freschi e ci guidarono alle sorgenti dove potevamo trovare oltre all’acqua anche datteri per sfamarci; e fecero per noi la piccola pioggia; ma infine ci addentrammo troppo nel deserto perché fosse possibile ritrovare la strada. Stavamo morendo, e io sapevo di portare in grembo un figlio di Khayman, e volevo che vivesse.

«Allora gli spiriti ci guidarono ai beduini, che ci accolsero ed ebbero cura di noi.

«Stavo male e soffrivo: per giorni e giorni rimasi distesa a cantare per la mia creatura cercando di scacciare con i canti la nausea e i ricordi atroci. Mekare mi stava accanto, tenendomi fra le braccia.

«Passarono mesi prima che io fossi abbastanza forte per lasciare gli accampamenti dei beduini; volevo che mio figlio nascesse nella nostra terra. Dissi a Mekare che dovevamo proseguire il viaggio.

«Così, con il cibo e le bevande che ci avevano dato i beduini e con la guida degli spiriti, giungemmo nei campi verdi della Palestina, ai piedi della montagna, fra i pastori, così simili alla nostra tribù, che erano venuti a occupare i nostri vecchi pascoli.

«Ci riconobbero, poiché avevano conosciuto nostra madre e tutti i nostri parenti; ci chiamarono per nome e ci diedero ospitalità.

«E fummo di nuovo felici tra l’erba verde e gli alberi e i fiori che conoscevamo, e la mia creatura mi cresceva in grembo. Sarebbe vissuta; il deserto non l’avrebbe uccisa.

«Nella mia terra diedi alla luce mia figlia e la chiamai Miriam, il nome di mia madre. Aveva i capelli neri di Khayman, ma gli occhi erano verdi come i miei. E l’amore che provavo per lei e la gioia che mi dava erano il rimedio migliore che la mia anima potesse desiderare. Eravamo di nuovo in tre: Mekare, che aveva conosciuto con me i dolori del parto e aveva estratto Miriam dal mio corpo, la teneva spesso fra le braccia e cantava per lei. La bambina era nostra non meno che mia. E cercavamo di dimenticare gli orrori che avevamo visto in Egitto.

«Miriam cresceva bene. Finalmente io e Mekare decidemmo di salire sulla montagna in cerca delle grotte dove eravamo nate. Non sapevamo ancora come saremmo vissute o come avremmo fatto, tanto eravamo lontane dal nostro nuovo popolo. Ma con Miriam saremmo tornate al luogo dove eravamo state tanto felici; avremmo chiamato a noi gli spiriti e avremmo compiuto il miracolo della pioggia per benedire la mia figlioletta.

«Ma tutto ciò non doveva accadere.

«Prima che potessimo lasciare il popolo dei pastori, i soldati tornarono al comando del maestro di palazzo del re, Khayman; i soldati avevano distribuito oro lungo il percorso alle tribù che avevano visto le gemelle dai capelli rossi o ne avevano sentito parlare e sapevano dove potevano essere.

«Ancora una volta, a mezzogiorno, mentre il sole batteva sui campi erbosi, vedemmo i soldati egizi con le spade brandite. La gente si disperdeva in tutte le direzioni. Ma Mekare corse a inginocchiarsi davanti a Khayman e disse: ‘Non fare ancora del male alla nostra gente’.

«Poi Khayman venne con Mekare nel luogo dov’ero nascosta con mia figlia; gli mostrai la bimba che era anche sua, e lo supplicai di lasciarci in pace, in nome della misericordia e della giustizia.

«Tuttavia mi bastò guardarlo per capire che sarebbe stato mandato a morte se non ci avesse prese prigioniere. Il suo volto era magro e scavato e colmo di disperazione: non era il volto immortale, bianco e levigato, che oggi potete vedere.

«Il tempo nemico ha cancellato l’impronta naturale della sua sofferenza. Ma era evidente, in quel pomeriggio lontano.

«Ci parlò a voce bassa. ‘Un male terribile ha colpito il re e la regina di Kemet’, disse. ‘E sono stati i vostri spiriti a compierlo, gli spiriti che mi hanno tormentato giorno e notte per ciò che vi ho fatto, fino a che il re ha cercato di cacciarli dalla mia casa.’

«Mi tese le braccia per mostrarmi le minuscole cicatrici, dove lo spirito aveva assorbito il sangue. Altre cicatrici gli coprivano il viso e la gola.

«‘Oh, non sapete quale sia stata la mia sofferenza’, disse. ‘Nulla poteva proteggermi dagli spiriti. Non sapete quante volte ho maledetto voi e il re per ciò che mi ha obbligato a farvi.’

«‘Oh, ma non siamo state noi!’ disse Mekare. ‘Abbiamo mantenuto l’impegno. In cambio delle nostre vite, vi abbiamo lasciati in pace. È Amel il maligno che ha fatto questo! Oh, è uno spirito terribile! E pensare che ha perseguitato te, anziché il re e la regina, i veri colpevoli! Non possiamo fermarlo! Ti prego, Khayman, lasciaci andare.’

«‘Qualunque cosa stia facendo Amel’, dissi, ‘se ne stancherà, Khayman. Se il re e la regina sono forti, finirà per andarsene. Tu hai di fronte la madre di tua figlia, Khayman. Lasciaci in pace. Per il bene di questa creatura, di’ al re e alla regina che non sei riuscito a trovarci. Lasciaci andare, se temi la giustizia.’

«Ma Khayman si limitava a fissare la bimba come se non sapesse chi era. Era egizio: la bambina era egizia? Ci guardò. ‘Dunque non siete state voi a mandare lo spirito’, disse. ‘Vi credo, perché non capite ciò che lo spirito ha fatto, ovviamente. La sua persecuzione si è conclusa. È entrato nel re e nella regina di Kemet! È nei loro corpi! Ha mutato la sostanza stessa della loro carne!’

«Lo guardammo a lungo riflettendo sulle sue parole, e comprendemmo che non intendeva dire che il re e la regina erano invasati. Comprendemmo che aveva visto tali cose che non aveva potuto far altro che venire lui stesso a cercarci per riportarci in Egitto.

«Ma non credevo a ciò che andava dicendo. Com’era possibile che uno spirito diventasse carne?

«‘Voi non capite ciò che è accaduto nel nostro regno’, mormorò Khayman. ‘Dovete venire a vedere con i vostri occhi.’ Poi s’interruppe: c’erano molte altre cose che voleva dirci, e aveva paura. Disse, amaramente: ‘Dovete disfare ciò che è stato fatto, anche se non è opera vostra’.

«Ah, ma noi non potevamo. Quello era l’orrore. Lo sapevamo già allora, lo intuivamo. Ricordavamo nostra madre, ritta davanti alla grotta, con gli occhi fissi sulle minuscole ferite alla mano.

«Mekare rovesciò all’indietro la testa e chiamò Amel il maligno perché venisse a lei e obbedisse ai suoi comandi. Nella nostra lingua, la lingua di noi gemelle, urlò: ‘Esci dal re e dalla regina di Kemet e vieni a me. Inchinati alla mia volontà. Questo non l’hai fatto per mio comando’.

«Sembrò che tutti gli spiriti del mondo ascoltassero in silenzio. Era il grido di una strega potente, ma non vi fu risposta. E poi lo sentimmo… il ritrarsi di molti spiriti come se all’improvviso fosse stato rivelato qualcosa che trascendeva la loro conoscenza e la loro accettazione. Sembrava che gli spiriti si ritraessero da noi e quindi si riavvicinassero tristi e indecisi, che cercassero il nostro amore e tuttavia si sentissero respinti.

«‘Ma che significa?’ urlò Mekare. ‘Che significa?’ Si rivolse agli spiriti che le stavano vicini, i suoi eletti. Poi, nel silenzio, mentre i pastori attendevano spaventati, i soldati aspettavano di vedere cosa sarebbe accaduto e Khayman ci guardava con occhi stanchi, udimmo la risposta, incerta e colma di stupore.

«‘Ora Amel ha ciò che ha sempre voluto: Amel ha la carne. Ma Amel non è più.’

«Cosa poteva significare?

«Non riuscivamo a capire. Mekare chiese nuovamente agli spiriti di rispondere; ma pareva che la loro incertezza si stesse trasformando in paura.

«‘Ditemi cos’è accaduto!’ ordinò Mekare. ‘Rivelatemi ciò che sapete!’ Era un antico comando usato da innumerevoli streghe. ‘Datemi la conoscenza che possedete.’

«Ancora una volta gli spiriti risposero con incertezza.

«‘Amel è nella carne; e Amel non è più Amel; non può rispondere.’

«‘Dovete venire con me’, disse Khayman. ‘Dovete venire. Il re e la regina vogliono che veniate!’

«In silenzio, apparentemente impassibile, Khayman restò a guardare mentre baciavo la mia bambina e l’affidavo alle donne dei pastori che avrebbero avuto cura di lei. Quindi io e Mekare ci consegnammo a Khayman. Ma questa volta non piangemmo. Era come se avessimo già sparso tutte le nostre lacrime. Il breve anno di felicità dopo la nascita di Miriam era finito… e l’orrore che era venuto dall’Egitto stava di nuovo per inghiottirci.»


Maharet chiuse gli occhi per un momento; si toccò le palpebre con le dita, quindi guardò gli altri che attendevano, ognuno assorto nelle sue considerazioni, ognuno dispiaciuto per l’interruzione del racconto sebbene sapesse che era inevitabile.

I giovani erano stanchi e tirati; l’espressione rapita di Daniel non era molto cambiata. Louis era tormentato, e il bisogno di sangue lo faceva soffrire, sebbene non vi badasse. «Non posso dirvi altro, per ora», continuò Maharet. «È quasi mattina, e i giovani devono scendere sottoterra. Devo preparare loro la via.

«Domani notte ci ritroveremo qui e continueremo. Cioè, se la nostra regina lo permetterà. Ora non è vicina a noi: non odo il più lieve sussurro della sua presenza, non riesco a captare il più lieve lampo del suo volto negli occhi di un altro. Se sa che cosa stiamo facendo, lo tollera. O forse è lontana e indifferente, e noi dobbiamo attendere di conoscere il suo volere.

«Domani vi dirò cosa vedemmo quando giungemmo in Kemet. Fino ad allora, riposate al sicuro nelle viscere della montagna. Tutti voi. Ho nascosto i miei segreti agli occhi curiosi dei mortali per innumerevoli anni. Ricordate che neppure la regina può farci del male fino al calar della notte.»

Marius si alzò contemporaneamente a Maharet, andò alla finestra mentre gli altri lasciavano la stanza. Era come se la voce di Maharet continuasse a parlargli. E ciò che lo colpiva più profondamente era l’evocazione di Akasha e l’odio che Maharet provava per lei, perché anche Marius sentiva quell’odio, e sentiva più forte che mai che avrebbe dovuto porre fine all’incubo finché aveva avuto il potere di farlo.

Ma la donna dai capelli rossi non avrebbe desiderato che ciò accadesse. Nessuno di loro voleva finire per sempre, come non lo voleva lui e come non lo voleva nessun altro immortale che aveva conosciuto.

Eppure il racconto di Maharet sembrava confermare l’inutilità disperata di tutto. Che cosa s’era ridestato quando la regina s’era alzata dal trono? Chi era l’essere che aveva in suo potere Lestat? Non riusciva a immaginarlo.

Noi cambiamo ma non cambiamo, pensò. Diventiamo saggi ma, allo stesso tempo possiamo sbagliare. Siamo soltanto umani per tutto il tempo che riusciamo a resistere, e questo è il miracolo e la maledizione.

Rivide la faccia sorridente che aveva scorto mentre il ghiaccio incominciava a cedere. Era possibile che amasse ancora con la stessa intensità con cui odiava? Era possibile che nella sua grande umiliazione, la chiarezza lo avesse eluso completamente? In tutta sincerità, non lo sapeva.

All’improvviso si sentiva stanco e desiderava il sonno e il conforto, il piacere sensuale di giacere in un letto pulito, di stendersi, di affondare il volto in un cuscino e lasciare che le sue membra si componessero nella posizione più comoda e naturale.

Al di là della vetrata, una tenue luce azzurra riempiva il cielo a oriente; tuttavia le stelle conservavano il loro fulgore, per quanto fossero minuscole e distanti. I tronchi scuri delle sequoie erano diventati visibili, e un delizioso odore verde era entrato nella casa dalla foresta, come avviene sempre quando si sta avvicinando l’aurora.

Molto più in basso, dove il fianco del colle digradava e una radura di trifoglio scendeva verso il bosco, Marius vide Khayman che camminava tutto solo. Le sue mani sembravano splendere nell’oscurità bluastra; e quando si voltò per guardare in direzione di Marius, il suo viso apparve come una maschera bianchissima, priva d’occhi.

Marius aveva alzato istintivamente la mano in un gesto d’amicizia verso Khayman. E Khayman ricambiò il gesto e si addentrò in mezzo agli alberi.

Poi Marius si voltò e vide ciò che già sapeva. Soltanto Louis era rimasto con lui nella stanza. Era immobile e lo guardava come prima, come se vedesse un mito divenuto realtà.

Quindi formulò la domanda che l’ossessionava e che non riusciva ad accantonare nonostante la potenza dell’incantesimo di Maharet. «Sai se Lestat è ancora vivo o no, vero?» chiese. Il tono era umano, implorante, ma la voce era riservata.

Marius annuì. «E vivo. Ma non lo so nel modo che tu immagini. Non certo interrogando o ricevendo una risposta, o usando tutti i poteri che ci assillano. Lo so semplicemente perché lo so.»

Sorrise a Louis… C’era qualcosa nel modo di fare di quel giovane che rendeva felice Marius anche se non sapeva esattamente perché. Gli fece segno di avvicinarsi. S’incontrarono accanto al tavolo e uscirono insieme. Marius cinse con il braccio le spalle di Louis e scesero insieme la scala di ferro, nella terra umida. Marius camminava a passo pesante e lento, come avrebbe fatto un essere umano.

«E ne sei sicuro?» chiese rispettosamente Louis.

Marius si fermò. «Oh, sì, sicurissimo.» Si guardarono per un momento, e Marius sorrise di nuovo. Louis era molto dotato e nel contempo non lo era; si chiese se la luce umana sarebbe sparita dai suoi occhi, nell’eventualità che acquisisse un maggior potere e se, ad esempio, avesse avuto nelle vene un po’ del suo sangue.

D giovane era affamato e soffriva. E sembrava che gli piacessero la sofferenza e la fame.

«Lascia che ti dica qualcosa», disse garbatamente Marius. «Dal momento in cui vidi Lestat per la prima volta capii che nulla poteva ucciderlo. Credo sia così per alcuni di noi. Non possiamo morire.» Ma perché lo diceva? Lo credeva ancora, come l’aveva creduto prima dell’inizio di quelle traversie? Ripensò alla notte a San Francisco, quando aveva percorso i marciapiedi di Market Street con le mani nelle tasche, ignorato dai mortali.

«Perdonami», disse Louis, «ma tu mi ricordi ciò che dicevano di lui al Dracula’s Daughter, coloro che volevano unirsi a lui ieri notte.»

«Lo so», disse Marius. «Ma quelli sono sciocchi, e io ho ragione.» Rise sommessamente. Sì, lo credeva. Poi abbracciò di nuovo Louis, calorosamente. Un po’ di sangue e Louis avrebbe potuto essere più forte, ma avrebbe potuto perdere la tenerezza umana, la saggezza umana che nessuno poteva dare a un altro; il dono di conoscere le sofferenze altrui, che Louis aveva probabilmente fin dalla nascita.

Ma la notte era finita. Louis prese la mano di Marius, poi si voltò e si avviò lungo il corridoio dalle pareti di lamiera, verso Eric che l’attendeva per mostrargli la strada.

Marius risalì in casa.

Gli restava forse un’ora intera prima che il sole lo costringesse a dormire; e per quanto fosse stanco non era disposto a rinunciarvi. L’odore fresco e meraviglioso della foresta era irresistibile. E adesso poteva sentire gli uccelli, e il canto limpido di un ruscello profondo.

Entrò nella grande stanza della costruzione di adobe, dove il fuoco s’era consumato nel focolare centrale. Si trovò di fronte a una gigante trapunta che copriva quasi metà della parete.

A poco a poco si rese conto di ciò che aveva davanti: la montagna, la valle e le minuscole figure delle gemelle che stavano insieme nella radura verde sotto il sole rovente. Il ritmo lento delle parole di Maharet tornò a lui con il lieve baluginio di tutte le immagini espresse dalle sue parole. La radura inondata dal sole era così immediata… e sembrava così diversa dai sogni. I sogni non avevano mai avuto il potere di farlo sentire vicino a quelle donne! E ora le conosceva; conosceva quella casa.

Era un grande mistero, il miscuglio di sentimenti in cui la sofferenza toccava qualcosa d’innegabilmente positivo e buono. L’anima di Maharet l’attirava: ne amava la particolare complessità, e avrebbe desiderato poterglielo dire.

Poi si rese conto di aver dimenticato per un po’ d’essere amareggiato e sofferente. Forse la sua anima stava guarendo più in fretta di quanto avesse mai immaginato.

O forse era così solo perché aveva pensato ad altri… a Maharet, e prima ancora a Louis e a ciò che Louis aveva bisogno di credere. Diavolo, probabilmente Lestat era immortale. Anzi, lo colpiva crudamente il pensiero che Lestat avrebbe potuto sopravvivere a tutto questo anche se lui, Marius, non ci fosse riuscito.

Ma preferiva non pensare a quella supposizione. Dov’era Armand? Era già disceso sottoterra? Se almeno avesse potuto vedere Armand, adesso…

Si avviò di nuovo verso la porta della cantina ma qualcosa lo distrasse. Al di là d’una porta aperta vide due figure, molto simili alle due gemelle sulla trapunta. Ma erano Maharet e Jesse davanti alla finestra rivolta a est; osservavano immobili mentre la luce diventava più intensa nei boschi bui.

Un brivido violento lo scosse. Dovette aggrapparsi all’intelaiatura della porta per sorreggersi mentre una serie di immagini gli inondava la mente. Non era la giungla, ora: c’era un’autostrada in lontananza e si snodava verso nord attraverso una terra brulla e bruciata. E l’essere s’era fermato, sconvolto… da che cosa? Un’immagine di due donne dai capelli rossi? Udì i passi che riprendevano il cammino implacabile; vide i piedi incrostati di terriccio come se fossero i suoi, le mani egualmente incrostate di terra come se fossero le sue mani. E poi vide il cielo incendiarsi e si lasciò sfuggire un gemito.

Quando alzò di nuovo la testa, Armand lo sosteneva. E con i dolenti occhi umani Maharet l’implorava di dirle ciò che aveva appena visto. Lentamente la stanza prese vita intorno a lui, i mobili e le figure immortali che appartenevano a quel luogo e non appartenevano a nulla. Chiuse gli occhi e li riaprì.

«Ha raggiunto la nostra longitudine», disse. «Tuttavia è a molti chilometri più a est. Là il sole si è appena levato in tutto il suo fulgore.» Aveva sentito quel caldo letale! Ma lei era sprofondata sottoterra. Aveva sentito anche questo.

«Ma è molto più a sud», disse Jesse. Appariva fragile nell’oscurità traslucida e si stringeva le braccia con le dita lunghe e sottili.

«Non è tanto lontana», disse Armand. «E si muoveva molto velocemente.»

«Ma in quale direzione si muove?» chiese Maharet. «Viene verso di noi?»

Non attese la risposta. E sembrava che non potessero dargliela. Alzò la mano per coprirsi gli occhi come se ora la sofferenza fosse intollerabile; quindi attirò a sé Jesse e la baciò, e augurò il buon riposo agli altri.

Marius chiuse gli occhi; si sforzò di rivedere la figura che aveva visto poco prima. L’indumento, che cos’era? Ruvido, gettato addosso come un poncho da contadino, con un’apertura lacera per la testa. Era annodato alla cintura, sì, l’aveva sentito. Si sforzò di vedere di più, ma era impossibile. Ciò che aveva percepito era il potere, un potere illimitato e uno slancio inarrestabile, e quasi niente altro.

Quando riaprì gli occhi, il mattino sbocciava nella stanza intorno a lui. Armand gli era vicino e continuava a tenerlo abbracciato; tuttavia era solo e non sembrava turbato. I suoi occhi si mossero solo un poco mentre guardava la foresta, che ora sembrava premere contro la casa a ogni finestra, come se si fosse insinuata fino ai margini del portico.

Marius baciò la fronte di Armand. Quindi fece esattamente ciò che stava facendo Armand.

Guardò la stanza che si andava rischiarando; guardò la luce che inondava i vetri della finestra; guardò i colori bellissimi ravvivarsi nella rete immensa della gigantesca trapunta.

5. LESTAT: QUESTO È IL MIO CORPO QUESTO È IL MIO SANGUE

Mi svegliai e tutt’intorno c’era silenzio, l’aria era pulita e calda, e aveva l’odore del mare.

Ero completamente confuso, e non sapevo che ora fosse. Lo stordimento mi diceva che non avevo dormito molto e che non ero in un luogo chiuso e protetto.

Avevamo inseguito la notte tutt’intorno al mondo, forse, o semplicemente ci eravamo mossi a caso, dato che probabilmente Akasha non aveva bisogno di dormire.

Ma io ne avevo bisogno, era ovvio. Ma ero troppo curioso per non voler star sveglio. E francamente ero troppo infelice. E avevo sognato sangue umano.

Mi trovavo in una spaziosa camera da letto, con due terrazze a ovest e a nord. Sentivo l’odore e il rumore del mare; tuttavia l’aria era fragrante e piuttosto calma. A poco a poco, mi guardai intorno.

L’arredamento era antico e lussuoso, probabilmente italiano, delicato e tuttavia ornatissimo, e si abbinava ai lussi moderni dovunque girassi lo sguardo, il letto era dorato, a colonne, con tendaggi di velo, carico di cuscini di piuma e drappi di seta. Il vecchio pavimento era coperto da un folto tappeto candido.

C’era un tavolo da toeletta pieno di barattoli luccicanti e di oggetti d’argento, e un curioso, antiquato telefono bianco. Poltrone di velluto; un televisore gigantesco e scaffali con l’attrezzatura stereo, e dovunque tavolini con giornali, portacenere, bottiglie di vino.

Qualcuno era vissuto lì fino a un’ora prima; ma adesso erano tutti morti. C’erano molti morti sull’isola. Mentre giacevo immobile per un momento a osservare la bellezza che mi circondava, rividi nella mente il villaggio dov’eravamo stati prima. Rividi il sudiciume, i tetti di lamiera, il fango. E adesso ero in quel luogo incantevole, o almeno pareva tale.

Anche lì c’era la morte. L’avevamo portata noi.

Scesi dal letto, uscii sulla terrazza e guardai dalla balaustra la spiaggia bianca. Non si vedevano terre fino all’orizzonte, ma solo il mare. La trina di spuma delle onde scintillava sotto la luna. Ero nel vecchio palazzo, costruito con ogni probabilità quattro secoli prima, ornato di urne e cherubini e coperto d’intonaco macchiato: un luogo decisamente bello. Le luci elettriche brillavano attraverso le imposte verdi di altre stanze. Su una terrazza più bassa c’era una piccola piscina.

E più avanti, dove la spiaggia s’incurvava sulla sinistra, vidi un altro edifìcio elegante annidato sulle rupi. Anche lì era morta molta gente. Era un’isola greca e quello era il Mediterraneo.

Sentii le grida che venivano dall’entroterra, oltre la cresta della collina. Uomini che morivano. Mi appoggiai allo stipite e cercai di impedire al mio cuore di battere all’impazzata.

Un ricordo improvviso del massacro nel tempio di Azim mi colpì… ebbi la visione di me stesso che mi aggiravo in quella mandria umana e usavo la lama invisibile per trapassare la carne. Sete. O forse era soltanto bramosia? Rivedevo quelle membra straziate, i corpi contorti nell’ultima lotta, le facce sporche di sangue.

Non è opera mia, non avrei potuto… Ma ero stato io.

Ora sentivo l’odore dei fuochi, come le pire nel cortile di Azim dove venivano arsi i cadaveri. L’odore mi nauseava. Mi girai di nuovo verso il mare e aspirai a pieni polmoni. Se l’avessi permesso, mi sarebbero giunte le voci, le voci da quella e da altre isole, e dalla vicina terraferma. Sentivo il suono che attendeva in agguato. Dovevo respingerlo.

Poi sentii un rumore più immediato. C’erano numerose donne, nella vecchia casa, e si avvicinavano alla camera da letto. Mi voltai e vidi i battenti della porta che si aprivano. Le donne entrarono, vestite di camicette e gonne e fazzoletti, con grande semplicità.

Era una folla d’ogni età, che includeva giovani belle, grasse matrone e alcune creature fragili dalla pelle grinzosa e dai capelli nivei. Portavano vasi di fiori e li sistemavano dappertutto. Poi una di loro, snella e dal bel collo lungo, si fece avanti con grazia naturale e cominciò ad accendere le numerose lampade.

L’odore del loro sangue. Come poteva essere tanto forte e seducente, se non avevo sete?

All’improvviso vennero tutte insieme nel centro della stanza e mi fissarono come se fossero in preda a una trance. Io ero sulla terrazza e mi limitavo a guardarle… poi compresi che spettacolo offrivo ai loro occhi. Il mio costume strappato, gli stracci da vampiro… giacca nera, camicia bianca, mantello… tutto macchiato di sangue.

E la mia carnagione… quella era cambiata in modo notevole. Ero più pallido e più spaventoso, naturalmente. E i miei occhi dovevano essere più fulgidi; o forse mi lasciavo ingannare dalle loro reazioni ingenue. Quando avevano già visto uno di noi?

Comunque sembrava tutto un sogno, le donne taciturne dagli occhi neri e i volti scavati (persino quelle grasse avevano facce scarne) che s’erano radunate a fissarmi. Poi, a una a una, caddero in ginocchio. Sì, in ginocchio. Sospirai. Avevano l’espressione folle di chi si trova di fronte a un evento straordinario o hanno una visione, e l’ironia della cosa stava nel fatto che erano loro a sembrare visioni a me.

Con riluttanza lessi i loro pensieri.

Avevano visto la Madre Benedetta. Era così che la chiamavano. La Madonna, la Vergine. Era venuta ai loro villaggi e aveva comandato di uccidere i figli e i mariti; erano stati sterminati persino i neonati. E avevano obbedito, o erano semplicemente state spettatrici del massacro, e adesso erano dominate da un’ondata di fede e di gioia. Avevano assistito ai miracoli e la Madre Benedetta aveva parlato. Ed era l’antica Madre che aveva dimorato sempre nelle grotte dell’isola, prima di Cristo.

In suo nome avevano abbattuto le colonne dei templi in rovina, i templi che i turisti venivano a vedere, avevano bruciato l’unica chiesa dell’isola, ne avevano sfondato le finestre con pietre e bastoni, incendiato gli antichi affreschi. Le colonne di marmo, ridotte a pezzi, erano state gettate in mare.

In quanto a me, cos’ero per loro? Non soltanto un dio, non soltanto l’eletto della Madre Benedetta. No, qualcosa d’altro. Ero sconcertato e prigioniero dei loro occhi, disgustato dalle loro convinzioni e tuttavia affascinato e spaventato.

Non avevo paura di loro, ovviamente, ma di tutto ciò che stava accadendo, della sensazione deliziosa di quelle mortali che mi guardavano come tutti mi avevano guardato sul palcoscenico. Erano mortali che mi guardavano e sentivano il mio potere dopo tutti gli anni passati a nascondermi: mortali venute per adorare. Erano mortali come tutte le povere creature sparse sul sentiero della montagna. Ma quelli erano stati adoratori di Azim, no? Erano saliti lassù per morire.

Un incubo. Dovevo interromperlo: dovevo impedire a me stesso di accettarlo. Ecco, potrei incominciare a credere di essere veramente… Ma io so che cosa sono, no? E quelle povere donne ignoranti, per le quali i televisori e i telefoni sono miracoli, e lo stesso cambiamento è una forma di miracolo… E domani si sveglieranno e vedranno che cos’hanno fatto!

Ma un senso di pace discese su di noi… sulle donne e su di me. Il profumo dei fiori, l’incantesimo. In silenzio le donne ricevevano mentalmente le istruzioni.

Vi fu un movimento: due si alzarono ed entrarono nel bagno adiacente alla camera, uno di quei grandi bagni marmorei che piacciono tanto ai ricchi, italiani e greci. L’acqua calda prese a scorrere e il vapore uscì dalla porta aperta.

Altre donne erano andate a frugare negli armadi per prendere degli indumenti puliti. Era stato ricco, il proprietario di quel palazzo, il poveraccio che aveva lasciato una sigaretta nel portacenere e le ditate un po’ unte sul telefono bianco.

Due donne vennero verso di me. Volevano condurmi nel bagno. Non mi mossi. Sentii che mi toccavano… calde dita umane che mi toccavano; sentii lo choc e l’eccitazione che provavano al contatto sconcertante della mia pelle. Fu un brivido potente e delizioso. I loro occhi scuri e liquidi erano bellissimi. Mi tiravano con le mani calde: volevano che le seguissi.

Lasciai che mi guidassero. Marmi bianchi, rubinetti d’oro, uno splendore degno dell’antica Roma, con le bottiglie di saponi ed essenze sui ripiani. E l’acqua calda nella vasca, con i rubinetti che la riempivano di bollicine. Era molto invitante… o lo sarebbe stato in un altro momento.

Mi spogliarono. Una sensazione affascinante. Nessuno l’aveva mai fatto. Stavo nel flusso del vapore e guardavo quelle piccole mani scure, e sentivo i peli rizzarsi in tutto il corpo, vedevo l’adorazione negli occhi delle donne.

Attraverso il vapore guardai lo specchio, la parete di specchi, e mi vidi per la prima volta dall’inizio di quell’odissea sinistra. Per un momento il colpo fu insostenibile. Non posso essere io.

Ero molto più pallido di quanto avessi immaginato. Scostai gentilmente le donne e mi avvicinai allo specchio. La mia pelle aveva uno splendore madreperlaceo, gli occhi erano ancora più luminosi: raccoglievano tutti i colori dello spettro e li mescolavano con una luce gelida. Tuttavia non somigliavo a Marius. Non somigliavo ad Akasha. Il mio viso era ancora segnato dalle rughe!

In altre parole, ero stato sbiancato dal sangue di Akasha, ma non ero ancora levigato. Avevo conservato l’espressione umana. E la cosa più strana era che il contrasto rendeva più visibili le rughe. Persino le minuscole grinze sulle dita erano più nitide che mai.

Ma che consolazione era, quand’ero più che mai diverso da un essere umano? In un certo senso era peggio del primo momento di duecento anni prima quando, un’ora dopo la mia morte, m’ero visto nello specchio e avevo cercato di trovare la mia umanità in ciò che vedevo. Adesso avevo la stessa paura.

Studiai la mia immagine… il petto simile a marmo, bianchissimo. E l’organo, l’organo di cui non abbiamo bisogno, eretto come se fosse pronto per ciò che non avrebbe mai voluto o saputo fare, anch’esso marmoreo.

Stordito, guardai le donne avvicinarsi: le belle gole, i seni, le membra olivastre e bagnate. Le guardai mentre mi toccavano. Per loro ero bello.

L’odore del loro sangue era più forte in mezzo al vapore. Tuttavia non avevo sete. Akasha mi aveva saziato, ma il sangue mi tormentava un po’. Mi tormentava moltissimo.

Volevo il loro sangue… e non aveva nulla a che vedere con la sete. Lo volevo come un uomo può desiderare un vino d’annata anche se ha bevuto acqua: ma il desiderio era venti, trenta, cento volte più intenso. Era così potente che immaginavo di prenderle tutte, di azzannare una dopo l’altra le gole delicate e di abbandonare i loro corpi sul pavimento.

No, non deve succedere, pensai. E la pericolosità del desiderio mi ispirò la voglia di piangere. Che cosa mi è accaduto? Ma lo sapevo, naturalmente. Sapevo d’essere ormai così forte che neppure venti uomini sarebbero riusciti a bloccarmi. E che cosa avrei potuto fare…? Se avessi voluto, avrei potuto salire attraverso il soffitto e andarmene. Potevo fare cose che non avevo mai sognato. Probabilmente avevo il dono del fuoco; potevo bruciare le cose come poteva farlo Akasha e come Marius diceva di poter fare. Era solo questione di forza, nient’altro. E livelli vertiginosi di coscienza, di accettazione…

Le donne mi baciavano. Mi baciavano le spalle. Era una sensazione deliziosa, la pressione delicata delle labbra sulla pelle. Non potevo fare a meno di sorridere; e le abbracciavo e le baciavo, strusciavo il viso contro i colli caldi, sentivo contro il petto la pressione dei seni. Ero circondato da quelle creature, da quella carne umana succulenta.

Entrai nella vasca e lasciai che mi lavassero. L’acqua calda mi spruzzava deliziosamente e portava via la polvere, che in realtà non aderisce mai alla nostra pelle. Guardai il soffitto e lasciai che mi passassero l’acqua calda sui capelli.

Sì, era straordinariamente piacevole. Eppure non ero mai stato così solo. Sprofondavo in quelle sensazioni ipnotiche, andavo alla deriva perché in realtà non potevo fare niente altro.

Quando le donne ebbero finito, scelsi i profumi che volevo e dissi di portar via gli altri. Parlavo in francese ma sembrava che capissero. Poi mi vestirono con gli indumenti che avevo scelto tra quelli che mi avevano presentato. Il padrone di casa aveva avuto una predilezione per le camicie confezionate a mano, appena un po’ troppo grandi per me; e aveva apprezzato anche le scarpe, anche queste fatte a mano, che mi andavano piuttosto bene.

Scelsi un vestito di seta grigia, d’ottima tessitura e dal taglio moderno. E gioielli d’argento. L’orologio d’argento dell’uomo, e i gemelli con i minuscoli diamanti, e persino una spilla con diamante da fissare al bavero della giacca. Ma quegli indumenti mi davano una sensazione strana; era come se sentissi la superficie della mia pelle e non la sentissi. Poi venne il déjà vu. Duecento anni prima. I soliti interrogativi. Perché sta succedendo tutto questo? Come posso assumere il controllo della situazione?

Mi chiesi, per un momento, se era possibile non curarsi dell’accaduto, tenersi in posizione distaccata e vedere quelle donne come esseri alieni, come le cose di cui mi nutrivo? Ero stato strappato crudelmente al loro mondo! Dov’era la vecchia amarezza, la vecchia giustificazione per la crudeltà infinita? Perché non s’era sempre concentrata su quelle piccole cose? Anche se una vita non è piccola… oh, no, mai, nessuna vita! Quello era l’importante. Perché io, che potevo uccidere con tanto slancio, rifuggivo dalla prospettiva di vedere distrutte le loro tradizioni preziose?

Perché mi sentivo il cuore in gola? Perché piangevo tra me, come se stessi per morire?

Forse un altro demonio avrebbe apprezzato tutto ciò; un immortale contorto e privo di coscienza avrebbe potuto deridere le loro visioni e indossare i panni di un dio con la stessa facilità con cui io ero entrato nel bagno profumato.

Ma nulla avrebbe potuto darmi quella libertà, nulla. Il permesso di Akasha non significava nulla; il suo potere era solo di grado diverso da quello che avevamo tutti. E ciò che possediamo non ha mai semplificato la lotta; l’ha trasformata in angoscia, indipendentemente dal fatto che vincessimo o perdessimo.

Non poteva accadere che un secolo fosse soggiogato da un’unica volontà. Il disegno doveva essere sventato completamente; e se avessi mantenuto la calma, avrei trovato la chiave.

Tuttavia i mortali avevano inflitto ad altri mortali infiniti orrori, le orde barbariche avevano sfregiato altri continenti, distruggendo ogni cosa sul loro cammino. Akasha era umana nelle sue illusioni di conquista e di dominio? Non aveva importanza. Possedeva mezzi inumani per realizzare i suoi sogni!

Avrei ricominciato a piangere se non avessi smesso di cercare soluzioni; e le povere, tenere creature intorno a me sarebbero rimaste ancora più confuse.

Quando mi portai le mani al viso, non si allontanarono da me. Mi spazzolarono i capelli. Un brivido mi corse lungo la schiena. E il battito sommesso del sangue nelle loro vene divenne di colpo assordante.

Dissi che volevo restare solo. Non resistevo più alla tentazione. E avrei giurato che sapevano cosa volevo. Lo sapevano e si arrendevano. La carne scura e salata così vicina a me. La tentazione era troppo grande. Comunque obbedirono subito, un po’ spaventate. Lasciarono la stanza in silenzio e a ritroso, come se non fosse rispettoso uscire semplicemente.

Guardai l’orologio. Mi sembrava ridicola, l’idea di portare uno strumento che segnava il tempo. M’irritai. E l’orologio si ruppe. Il vetro andò in frantumi, i meccanismi volarono fuori dalla cassa sfondata. Il cinturino si spezzò e l’orologio cadde sul pavimento, le rotelline sparirono nel tappeto.

«Buon Dio!» mormorai. Ma perché no… se potevo lacerare un’arteria e un cuore! Ma l’importante era controllare quella facoltà, dirigerla, non lasciare che mi sfuggisse di mano in quel modo.

Alzai gli occhi e scelsi a caso un piccolo specchio dalla cornice d’argento che stava sulla toeletta. Pensai Rompiti, e lo specchio andò in frantumi. Nel silenzio udii i pezzi che cadevano contro la parete e il piano del mobile.

Bene, questo era utile, molto più utile della facoltà di uccidere la gente. Fissai il telefono, mi concentrai, lasciai che la forza si raccogliesse, quindi la smorzai consciamente e la diressi per spingere l’apparecchio sul vetro che copriva il marmo. Sì. Appunto. Le boccette caddero quando il telefono le urtò. Poi le fermai: ma non riuscii a raddrizzarle. Non potevo sollevarle. Oh, ma sì che potevo! Immaginai una mano che le rialzava. Certo, il potere non obbediva letteralmente all’immagine: ma l’usavo per organizzarlo. Raddrizzai tutte le boccette. Recuperai quella che era caduta e la rimisi al suo posto.

Tremavo leggermente. Sedetti sul letto per riflettere, ma ero troppo incuriosito per pensare. La cosa importante da capire era questa: si trattava di un fenomeno fisico, era energia? Forse non era altro che un’estensione dei poteri che avevo posseduto anche prima. Per esempio, già all’inizio, durante le prime settimane dopo che Magnus mi aveva creato, una volta ero riuscito a spostare attraverso la stanza un’altra persona, il mio amato Nicolas con il quale stavo discutendo, come se l’avessi colpito con un pugno invisibile. In quel momento ero furioso, e più tardi non ero stato capace di ripetere il gesto. Ma era lo stesso potere, lo stesso fenomeno verificabile e misurabile.

«Non sei un dio», dissi. Ma quell’accrescimento del potere, quella nuova dimensione, come dicono giustamente in questo secolo… Uhmmm…

Guardai il soffitto e decisi che volevo sollevarmi lentamente per toccarlo, passare le mani sul fregio di gesso intorno al cordone del lampadario. Provai un senso di disagio, e mi accorsi di galleggiare vicino al soffitto. E la mia mano, ah, sembrava che la mia mano attraversasse l’intonaco. Mi abbassai un poco e guardai la stanza.

Mio Dio! l’avevo fatto senza portare con me il mio corpo. Ero ancora seduto sul bordo del letto. Vedevo me stesso, la sommità della mia testa. Io, o meglio il mio corpo, era lì seduto, immobile e sognante… e mi guardava. E poi tornai nel mio corpo, grazie a Dio, e guardai il soffitto. Cercai di capke che cosa significava.

Bene, lo sapevo. Akasha mi aveva detto che il suo spirito poteva viaggiare fuori dal corpo. E i mortali avevano sempre potuto farlo, o almeno così dicevano. Fin dai tempi più antichi i mortali avevano descritto quei viaggi invisibili.

C’ero quasi riuscito quando avevo cercato di vedere l’interno del tempio di Azim: e lei mi aveva fermato perché quando lo avevo lasciato, il mio corpo aveva incominciato a precipitare. E molto tempo prima c’erano state un paio d’altre occasioni… Ma in generale non avevo mai creduto ai racconti dei mortali.

Ora sapevo di poter fare anche quello. Ma non volevo farlo a caso! Decisi di salire di nuovo al soffitto, ma stavolta con il mio corpo; e vi riuscii immediatamente. Salimmo insieme, premendo contro l’intonaco, e questa volta la mia mano non l’attraversò. Andava tutto bene.

Ridiscesi e decisi di tentare l’altro sistema. Ora soltanto con lo spirito. Ritornò la sensazione di malessere; vidi il mio corpo dall’alto, quindi ascesi attraverso il tetto del palazzo, volai sopra il mare. Tutto, però, sembrava inspiegabilmente diverso; non ero sicuro che fossero veramente il cielo e il mare; sembrava piuttosto una concezione nebulosa di entrambi; e non mi piaceva neppure un poco. No, grazie! Ora, a casa! Oppure dovevo portare con me il mio corpo? Tentai ma non accadde nulla, e la cosa non mi sorprese. Era una specie di allucinazione. In realtà non avevo abbandonato il mio corpo, e dovevo accettarlo.

E Baby Jenks? Le belle cose che aveva visto Baby Jenks quando era ascesa? Erano allucinazioni? Io non l’avrei mai saputo, vero?

Ero tornato.

Ero seduto comodamente sul bordo del letto. La stanza. Mi alzai e mi aggirai per qualche minuto guardando i fiori e il modo strano in cui i petali bianchi coglievano la luce delle lampade, la cupezza dei rossi e il chiarore dorato riflesso sulla superfìcie degli specchi e tutte le altre cose bellissime.

All’improvviso erano travolgenti, i dettagli puri che mi circondavano, la complessità straordinaria di una stanza.

Poi mi lasciai cadere sulla poltrona accanto al letto. Sprofondato nel velluto ascoltai il martellare del mio cuore. Essere invisibile, lasciare il mio corpo… lo detestavo! Non l’avrei fatto mai più!

Udii una risata, lieve e gentile. Mi resi conto che Akasha era lì dietro di me, forse accanto al tavolo da toeletta.

Provai uno slancio di gioia nel sentire la sua voce, la sua presenza. La forza di quelle sensazioni mi sorprendeva. Volevo vederla, ma non mi mossi.

«Il viaggio extracorporeo… è una facoltà che hai in comune con i mortali», disse lei. «Viaggiano sempre fuori dai loro corpi.»

«Lo so», dissi avvilito. «Per me, possono tenersi questa facoltà. Se posso volare con il mio corpo, è ciò che intendo fare.»

Rise di nuovo; una risata carezzevole che avevo già udito nei sogni.

«Anticamente», disse, «gli uomini andavano al tempio per farlo. Bevevano le pozioni preparate dai sacerdoti: e viaggiando nei cieli gli uomini affrontavano i grandi misteri della vita e della morte.»

«Lo so», ripetei. «Ho sempre pensato che fossero ubriachi o drogati… ‘fatti’, come si dice oggi.»

«Sei veramente brutale», rispose Akasha. «Le tue reazioni alle cose sono così rapide.»

«E ciò è brutale?» chiesi. Captai di nuovo l’odore dei fuochi che ardevano sull’isola. Nauseante. Buon Dio. E stiamo qui a parlare come se non succedesse nulla, come se non avessimo sovvertito il loro mondo con questi orrori…

«E volare con il tuo corpo non ti fa paura?» chiese Akasha.

«Tutto mi spaventa, lo sai», dissi. «Quando scoprirò i limiti? Posso stare qui seduto e uccidere mortali lontani chilometri e chilometri?»

«No», disse lei. «Scoprirai i limiti prima di quanto pensi. È come ogni altro mistero; in realtà non c’è nessun mistero.»

Risi. Per una frazione di secondo udii di nuovo le voci, la marea che saliva… poi svanì in un altro suono, le grida nel vento, le grida che venivano dai villaggi dell’isola. Avevano bruciato il piccolo museo con le antiche statue greche, le icone e i dipinti bizantini.

Tutto va in fumo. La vita va in fumo.

Dovevo vederla. Non potevo scorgerla negli specchi. Mi alzai. Era in piedi accanto al tavolo da toeletta. Aveva cambiato abito e pettinatura. Era ancora più incantevole e pura, e tuttavia al di fuori del tempo, come sempre. Aveva in mano uno specchietto e si guardava; ma sembrava che in realtà non guardasse qualcosa… ascoltava le voci e anch’io potevo udirle di nuovo.

Un brivido mi scosse: Akasha sembrava la stessa di un tempo, la statua gelida sul trono nel sacrario.

Poi sembrò destarsi; fissò di nuovo lo specchio, lo posò e mi guardò.

I capelli erano sciolti, le trecce erano sparite. Le onde nere scendevano sulle spalle, pesanti e lucide, e invitavano al bacio.

L’abito era simile a quello vecchio, come se le donne l’avessero confezionato per lei con la pesante seta magenta che aveva trovato, e conferiva un vago riflesso rosato alle guance e ai seni parzialmente coperti dai drappeggi che scendevano dalle spalle, trattenuti da piccole fibbie d’oro.

Le collane che portava erano tutti prodotti della gioielleria moderna; ma la profusione le faceva apparire arcaiche… perle e catene d’oro e opali e rubini.

Sulla lucentezza della pelle, gli ornamenti apparivano irreali: erano avvolti dallo splendore della sua persona, erano come la luce dei suoi occhi e delle sue labbra.

Era degna del palazzo più sontuoso dell’immaginazione, una creatura sensuale e divina. Io desideravo ancora il suo sangue, il sangue senza fragranza e senza morte; volevo avvicinarmi, alzare la mano e toccare la pelle che sembrava assolutamente impenetrabile ma che si sarebbe lacerata all’improvviso come una crosta fragilissima.

«Tutti gli uomini dell’isola sono morti, non è vero?» chiesi. Ero sconvolto.

«Tutti tranne dieci. Sull’isola ci sono settecento persone. Sette sono stati scelti per vivere.

«E gli altri tre?»

«Sono tuoi.»

La fissai. Miei? Il desiderio di sangue cambiò leggermente, incluse lei e il sangue umano, caldo e fragrante, il sangue che… Ma non ne provavo il bisogno fisico. Potevo chiamarla ancora sete, anche se in realtà era peggio.

«Non li vuoi?» disse Akasha con un sorriso ironico. «Il mio dio riluttante rifiuta il dovere? Sai, per tutti quegli anni, quando ti ascoltavo e molto prima che componessi canzoni per me, mi piaceva il fatto che prendessi solo i più duri, i giovani. Mi piaceva che andassi a caccia di ladri e assassini, che amassi inghiottire interamente il male che era dentro di loro. Dov’è ora il tuo coraggio? La tua impulsività? La tua disponibilità a buttarti?»

«Sono malvagi?» chiesi. «Le vittime che mi attendono…»

Socchiuse gli occhi per un momento. «È la vigliaccheria, finalmente?» chiese. «La grandiosità del piano ti fa paura? Sicuramente uccidere significa ben poco.»

«Oh, t’inganni», dissi. «L’uccisione significa sempre qualcosa. Ma sì, la grandiosità del piano mi atterrisce. Il caos, la perdita totale di ogni equilibrio morale, significa tutto. Ma non è vigliaccheria, vero?» Com’era calma la mia voce. Come sembravo sicuro di me. Non era la verità, ma lei lo sapeva.

«Lascia che ti liberi dal dovere di resistere», disse Akasha. «Non puoi fermarmi. Ti amo, come ti ho detto. Amo guardarti; mi riempie di felicità. Ma non puoi influenzarmi. È un’idea assurda.»

Ci guardammo in silenzio. Cercavo le parole per dirle quanto era incantevole, così simile agli antichi dipinti delle principesse egizie dalle chiome splendenti e dai nomi perduti per sempre. Cercavo di capire perché mi doleva il cuore quando la guardavo; tuttavia non mi interessava che fosse bella; mi interessava ciò che ci dicevamo.

«Perché hai scelto questa strada?» chiesi.

«Sai perché», rispose con un sorriso paziente. «E la strada migliore. È la visione limpida, dopo secoli trascorsi alla ricerca di una soluzione.»

«Ma non può essere la verità. Non posso crederlo.»

«Certo che può essere la verità. Pensi che per me sia solo un impulso? Io non prendo le decisioni come te, mio principe. La tua esuberanza giovanile mi è preziosa, ma queste piccole possibilità per me sono perdute da tempo. Tu pensi in termini di durata della vita, di piccoli successi e di piaceri umani. Io ho meditato per millenni i miei disegni per il mondo che ora mi appartiene. E tutto prova che devo procedere come ho fatto. Non posso trasformare questa terra in un giardino, non posso creare l’Eden dell’immaginazione umana… se non elimino quasi completamente i maschi.»

«Quindi intendi uccidere il quaranta per cento della popolazione della terra? Il novanta per cento di tutti i maschi?»

«Vuoi forse negare che questo porrà fine alla guerra, allo stupro, alla violenza?»

«Ma…»

«No: rispondi alla mia domanda. Neghi che porrà fine alla guerra, allo stupro, alla violenza?»

«Anche uccidere tutti porrebbe fine a queste cose!»

«Non giocare con me. Rispondi alla mia domanda.»

«Non è forse un gioco? Il prezzo è inaccettabile; è una follia, è un massacro, è contro natura.»

«Calmati. Nulla di ciò che dici è vero. Ciò che è naturale è ciò che è stato fatto. E non pensi che i popoli della terra non abbiano limitato in passato il numero delle femmine? Non pensi che le abbiano uccise a milioni perché volevano solo figli maschi da mandare in guerra? Oh, non puoi immaginare in quale misura ciò sia stato fatto.

«Ora preferiranno le femmine ai maschi e non ci saranno guerre. E gli altri crimini commessi dagli uomini contro le donne? Se vi fosse sulla terra una nazione che avesse commesso tali crimini contro un’altra, non sarebbe destinata allo sterminio? Eppure ogni notte e ogni giorno, su tutta la terra, questi crimini vengono perpetrati senza fine.»

«Sta bene, è vero. È indubbiamente vero. Ma la tua soluzione è migliore? È innominabile, lo sterminio dei maschi. Sicuramente, se vuoi regnare…» Ma persino questo mi apparve impensabile. Ricordai le parole che mi aveva detto Marius, all’epoca delle parrucche incipriate e delle scarpe di raso… la vecchia religione, il cristianesimo, stava morendo e forse non sarebbe sorta una religione nuova.

«Forse avverrà qualcosa di meraviglioso», aveva detto Marius. «Il mondo progredirà veramente, supererà tutti gli dèi e le dee, tutti i diavoli e gli angeli…»

Non era il destino di questo mondo? Il destino verso il quale si avviava senza il nostro intervento?

«Ah, sei un sognatore, mio bellissimo», disse duramente Akasha. «Come scegli le tue illusioni! Guarda i paesi orientali dove le tribù, ora arricchite dal petrolio estratto dalla sabbia, si uccidono a migliaia in nome di Allah, il loro dio! La religione non è morta su questa terra, e non morirà mai. Tu e Marius siete giocatori di scacchi; le vostre idee non sono altro che pezzi sulla scacchiera. Non sapete vedere al di là di quella scacchiera sulla quale li ponete come piace alle vostre animucce etiche.»

«Ti sbagli», dissi irritato. «Forse non sul nostro conto; noi non abbiamo importanza. Ma sbagli in ciò che hai incominciato. Stai sbagliando.»

«No, non sto sbagliando», disse Akasha. «E non c’è nessuno che possa fermarmi, maschio o femmina. E per la prima volta da quando l’uomo brandì la clava per abbattere il fratello, vedremo il mondo formato dalle donne, e vedremo ciò che le donne hanno da insegnare agli uomini. E solo quando gli uomini avranno imparato, verrà loro permesso nuovamente di aggirarsi liberi fra le donne!»

«Dev’esserci un altro sistema! Per gli dèi, io sono un essere debole e imperfetto, non migliore della maggior parte degli uomini che sono vissuti. Non posso dissertare sulla loro vita; non potrei difendere neppure la mia. Ma, Akasha, per amore di tutte le cose viventi, t’imploro di astenerti da questo, da questo massacro…»

«Tu mi parli di massacro? Parlami del valore di una vita umana, Lestat. Non è infinito? E quanti hai mandato nella tomba? Tutti noi abbiamo le mani sporche di sangue, così come abbiamo il sangue nelle vene.»

«Sì, esattamente. E non siamo onniscienti. Ti imploro di smettere, di considerare… Akasha, sicuramente Marius…»

«Marius!» Akasha rise sommessamente. «Che cosa ti ha insegnato Marius? Che cosa ti ha dato? Che cosa ti ha dato davvero?»

Non risposi. Non potevo. E la sua bellezza mi confondeva! Mi confondeva vedere la rotondità delle sue braccia, la minuscola fossetta sulla guancia.

«Amor mio», disse con un’espressione tenera come la voce, «richiama alla mente la visione del Giardino Selvaggio, dove i principi estetici sono gli unici principi durevoli… le leggi che governano l’evoluzione delle cose grandi e piccole, dei colori e delle forme in splendida profusione e della bellezza! La bellezza ovunque si guardi. Questa è la natura. E dovunque vi è la morte.

«E ciò che io creerò è l’Eden, l’Eden che tutti agognano, e sarà migliore della natura! Porterò le cose un passo più oltre; e la violenza amorale della natura sarà riscattata. Non capisci che gli uomini non fanno altro che sognare la pace? Ma le donne possono realizzare quel sogno. La mia visione è ingigantita nel cuore di ogni donna. Ma non può sopravvivere al calore della violenza maschile! E il calore è così terribile che neppure la terra può sopravvivere.»

«E se c’è qualcosa che tu non capisci?» obiettai. Cercavo disperatamente le parole. «Supponiamo che la dualità maschile-femminile sia indispensabile per l’animale umano. Supponiamo che le donne vogliano gli uomini, che insorgano contro di te e cerchino di proteggere gli uomini. Il mondo non è questa piccola isola brutale! Non tutte le donne sono contadine accecate dalle visioni!»

«Pensi che gli uomini siano ciò che le donne desiderano?» chiese Akasha. Si accostò e il suo volto cambiò impercettibilmente nel gioco della luce. «È questo che stai dicendo? Se è così, risparmieremo un maggior numero di uomini e li terremo dove potranno essere visti come le donne ti guardavano, e toccati come le donne ti toccavano. Li terremo dove le donne potranno averli quando vogliono, e ti assicuro che non saranno usati come le donne sono state usate dagli uomini.»

Sospirai. Era inutile discutere. Aveva assolutamente ragione e assolutamente torto.

«Sei ingiusto con te stesso», disse lei. «Conosco i tuoi argomenti. Li ho esaminati per secoli, come ho esaminato tanti interrogativi. Tu pensi che io faccia ciò che faccio con limiti umani. Non è vero. Per comprendermi, devi pensare in termini di facoltà non ancora immaginate. E comprenderai prima il mistero della scissione degli atomi o dei buchi neri nello spazio.»

«Deve esserci un modo, senza uccidere. Deve esserci un modo che trionfi sulla morte.»

«Questo, mio bellissimo, è davvero contro natura», disse lei. «Neppure io posso porre fine alla morte.» Tacque; sembrava assorta, profondamente angosciata dalle parole che aveva appena pronunciato. «La fine della morte», bisbigliò. Sembrava che una sofferenza personale si fosse insinuata nei suoi pensieri. La vidi chiudere gli occhi e portarsi le dita alle tempie.

Udiva di nuovo le voci, le lasciava venire. O forse era incapace di fermarle, per un momento. Pronunciò alcune parole in una lingua antica, e io non le compresi. Ero colpito dalla sua vulnerabilità improvvisa, dal fatto che le voci sembravano isolarla. I suoi occhi parvero scrutare la stanza, poi si fissarono su di me e si illuminarono.

Ero ammutolito, sopraffatto dalla tristezza. Com’erano state piccole le mie visioni del potere. Sconfiggere un pugno di nemici, essere visto e amato come un’immagine dai mortali; trovare un posto nel dramma delle cose che era infinitamente più grande di me, un dramma il cui studio poteva occupare per mille anni la mente di un essere. All’improvviso eravamo al di fuori del tempo, al di là della giustizia, capaci di far crollare interi sistemi di pensiero. Oppure era soltanto un’illusione? Quanti altri avevano cercato quel potere, in una forma o nell’altra?

«Non erano immortali, amor mio.» Il tono era quasi supplichevole.

«Ma è un caso che noi lo siamo», dissi. «Siamo cose che non avrebbero mai dovuto esistere.»

«Non dire così!»

«Non posso farne a meno.»

«Ormai non ha importanza. Non riesci a capire che anche la minima cosa ha il suo peso. Non posso indicarti una ragione sublime per ciò che faccio, perché le ragioni sono semplici e pratiche; il modo in cui abbiamo incominciato a esistere non conta. Conta il fatto che siamo sopravvissuti. Non capisci? Questa è la vera bellezza, la bellezza dalla quale nasceranno tutte le altre bellezze… il fatto che siamo sopravvissuti.»

Scossi la testa. Ero in preda al panico. Vedevo di nuovo il museo che le abitanti del villaggio, su quell’isola, avevano appena bruciato. Vedevo le statue annerite, a terra. Un senso agghiacciante di perdita mi avvolse.

«La storia non ha importanza», disse. «L’arte non ha importanza; queste cose implicano una continuità che in realtà non esiste. Assecondano il nostro bisogno di un modello, la nostra sete di significato, ma alla fine c’ingannano. Dobbiamo essere noi a creare il significato.»

Le voltai le spalle. Non volevo lasciarmi vincere dalla sua decisione o dalla sua bellezza, dal bagliore luminoso negli occhi neri. Sentii le sue mani sulle mie spalle, le sue labbra sul collo.

«Quando gli anni saranno passati», disse, «quando il mio giardino sarà fiorito per molte estati e avrà dormito molti inverni, quando lo stupro e la guerra non saranno altro che un ricordo, e le donne guarderanno i vecchi film e si stupiranno che simili cose potessero accadere; quando le usanze delle donne saranno state inculcate in ogni membro della popolazione con la stessa naturalezza con cui oggi viene inculcata l’aggressione, forse allora i maschi potranno ritornare. Il loro numero potrà aumentare lentamente. I figli saranno allevati in un’atmosfera in cui lo stupro è impensabile, la guerra inimmaginabile. E allora… allora potranno esserci gli uomini. Quando il mondo sarà pronto per loro.»

«È impossibile. Impossibile.»

«Perché dici così? Guarda la natura, come volevi fare pochi attimi fa. Vai nel giardino che circonda la villa; studia le api negli alveari e le formiche che lavorano come hanno sempre fatto. Sono femmine, mio principe, a milioni. Il maschio è solo un’aberrazione, esiste per una sola funzione. Hanno imparato molto tempo prima di me a limitare i maschi.

«E ora possiamo vivere in un’epoca dove i maschi sono completamente superflui. Dimmi, mio principe, qual è l’utilità primaria dei maschi, se non quella di proteggere le donne dagli altri uomini?»

«È per questo che mi vuoi qui!» dissi disperatamente. Mi girai di nuovo verso di lei. «Perché mi hai scelto come consorte? Per amore del cielo, perché non mi uccidi come gli altri uomini? Scegli un altro immortale, un essere antico che aspira a tale potere! Ce ne sarà pure uno. Io non voglio dominare il mondo! Non voglio dominare nulla! Non l’ho mai voluto.»

Il suo viso cambiò leggermente. Sembrava che vi fosse in lei una tristezza evanescente, e che per un istante rendesse i suoi occhi ancora più profondi. Le sue labbra fremettero come se volesse dire qualcosa e non potesse.

«Lestat, se tutto il mondo venisse distrutto, non distruggerei te», disse poi. «I tuoi limiti sono luminosi come le tue virtù, per ragioni che io stessa non comprendo. Ma forse è ancora più vero che io ti amo perché sei esattamente tutto ciò che non va negli esseri maschili. Aggressivo, pieno di odio e di avventatezza, e di scuse eloquenti per la violenza… sei l’essenza della mascolinità, e in questa purezza c’è una qualità affascinante. Ma soltanto perché ora può essere controllata.»

«Da te.»

«Sì, amor mio. Sono nata per questo. Per questo sono qui. Non importa se nessuno ratifica il mio scopo. Farò in modo che sia così. Ora il mondo arde del fuoco maschile; è una conflagrazione. Ma quando ciò verrà corretto, il tuo fuoco arderà ancora più luminoso… come una torcia.»

«Akasha, stai dimostrando che ho ragione! Non pensi che le anime delle donne agognino quel fuoco! Mio Dio, vorresti manomettere persino il cammino delle stelle?»

«Sì, l’anima l’agogna. Ma per vederlo nel fulgore di una torcia, come io ho detto, o nella fiamma di una candela; non come infuria ora in ogni foresta e in ogni montagna e in ogni valle. Non vi è al mondo una sola donna che abbia mai desiderato esserne bruciata! Vogliono la luce, mio bellissimo, la luce! E il calore. Ma non la distruzione. Come potrebbero? Sono soltanto donne. Non sono pazze.»

«Sta bene. Diciamo che tu realizzi il tuo scopo, che incominci questa rivoluzione e che travolga il mondo… e sia chiaro, non penso che avverrà! Ma se lo farai, non c’è nulla sotto il cielo che chieda un’espiazione per la morte di tanti milioni di esseri? Se non vi sono dèi e dee, non vi è alcun modo in cui dovranno pagare gli stessi umani, e io e te?»

«È la porta dell’innocenza, e come tale sarà ricordata. E la popolazione maschile non potrà mai raggiungere di nuovo simili proporzioni, perché chi vorrebbe di nuovo questi orrori?»

«Costringi gli uomini a obbedirti. Abbagliali come hai abbagliato le donne, come hai abbagliato me.»

«Ma, Lestat, è proprio questo il punto. Non obbedirebbero mai. Tu obbedirai? Preferirebbero morire, come lo preferiresti tu. Avrebbero un’altra ragione per ribellarsi, come se gliene mancassero. Si unirebbero in una resistenza magnifica. Immagina: combattere una dea! Già così dovremo vederlo fin troppo spesso. Non possono fare a meno di essere uomini. E io potrei regnare solo con la tirannia, le uccisioni incessanti. Verrebbe il caos. Così, invece, la grande catena della violenza verrà spezzata. Vi sarà un’era di pace assoluta e perfetta.»

Tacqui. Mi venivano in mente mille risposte, ma erano tutte bruciate in partenza. Lei conosceva fin troppo bene il suo scopo. E per la verità, aveva ragione in molte cose.

Ah, ma era una fantasia! Un mondo senza maschi. Che cosa avrebbe realizzato? Oh, no. Non accettavo l’idea neppure per un momento. Non… Tuttavia ritornò la visione, la visione che avevo scorto nel miserabile villaggio della giungla, la visione d’un mondo senza paura.

Immagina, cercare di spiegare com’erano stati gli uomini, di spiegare che vi era stato un tempo in cui uno poteva venire assassinato per le vie della città, cercare di spiegare cosa significava lo stupro ai maschi della specie… E vedevo i loro occhi che mi guardavano, gli occhi pieni d’incomprensione perché cercavano di approfondire, di compiere quel balzo. Sentivo le loro mani morbide che mi toccavano.

«Ma è una follia», sussurrai.

«Ah, tu ti opponi a me con tanta forza, mio principe…» sussurrò lei. Un lampo di collera, di sofferenza. S’era avvicinata. Se mi avesse baciato di nuovo, avrei pianto. Avevo creduto di sapere cos’era la bellezza nelle donne; ma lei aveva superato la mia capacità di descriverla.

«Mio principe», disse di nuovo in un bisbiglio sommesso. «La logica è elegante. Un mondo nel quale solo un pugno di maschi viene tenuto per la riproduzione sarà un mondo femminile. E quel mondo sarà l’unico che abbiamo mai conosciuto nella nostra miserabile storia, dove oggi gli uomini coltivano germi che uccideranno le popolazioni di interi continenti nella guerra chimica e progettano bombe che possono dirottare la terra dall’orbita intorno al sole.»

«E se le donne si divideranno secondo i principi del maschile e del femminile, come si dividono tanto spesso gli uomini quando non vi sono donne?»

«Sai che è un’obiezione sciocca. Queste distinzioni non sono che superficiali. Le donne sono donne! Puoi concepire una guerra fatta dalle donne? Rispondimi, sinceramente. Lo puoi? Puoi concepire bande vagabonde di donne votate solo alla distruzione? O allo stupro? Sono assurdità. Per le poche aberranti, la giustizia sarà immediata. Ma nel complesso avverrà qualcosa d’imprevisto. Non capisci? La possibilità della pace sulla terra è sempre esistita e vi sono sempre stati esseri che potevano realizzarla e conservarla: le donne. Se si eliminano gli uomini.»

Sedetti sul letto, costernato, come un mortale. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia. Buon Dio, buon Dio! Perché mi tornavano di continuo alla mente quelle parole? Dio non esisteva. Ero nella stessa stanza con Dio.

Akasha rise, trionfante.

«Sì, mio prezioso», disse. Mi toccò la mano, mi fece voltare e mi attirò a sé. «Ma dimmi, tutto questo non ti eccita neppure un poco?»

La fissai. «Che cosa intendi?»

«Tu, l’impulsivo. Tu che trasformasti quella bambina, Claudia, in una bevitrice di sangue per vedere cosa sarebbe accaduto!» C’era sarcasmo nel suo tono, ma era affettuoso. «Suvvia, non vuoi vedere cosa accadrà se tutti i maschi spariranno? Non sei un po’ curioso? Fruga nella tua anima e cerca la verità. È un’idea molto interessante, no?»

Non risposi. Poi scossi la testa. «No», dissi.

«Vigliacco», sussurrò Akasha.

Nessuno mi aveva mai chiamato così, nessuno.

«Vigliacco», ripetè. «Sei un piccolo essere dai piccoli sogni.»

«Forse non vi sarebbero guerre e stupri e violenze», dissi, «se tutti gli esseri fossero piccoli e avessero piccoli sogni, come dici tu.»

Akasha rise sommessamente, come per dire che mi perdonava.

«Potremmo discutere per sempre», mormorò. «Ma sapremo la verità molto presto. Il mondo sarà come io voglio che sia; e vedremo ciò che accade, come ho detto.»

Mi sedette accanto. Per un momento credetti di perdere la ragione. Mi passò le braccia nude intorno al collo. Sembrava che non fosse mai esistito un corpo di donna più morbido, e non vi fosse mai stato nulla di più piacevole del suo abbraccio. Eppure era così dura, così forte.

Le luci nella stanza si affievolirono. Fuori, tuttavia, il cielo sembrava ancora più vivido e blu.

«Akasha», mormorai. Guardavo le stelle. Volevo dire qualcosa, qualcosa di decisivo che spazzasse via tutti gli argomenti; ma il significato mi eludeva. Avevo molto sonno; sicuramente era opera sua. Era un incantesimo che stava operando; il saperlo, tuttavia, non mi liberava. Sentivo le sue labbra sulle mie labbra e sulla mia gola, sentivo il raso fresco della sua pelle.

«Sì, ora riposa, mio prezioso. E quando ti sveglierai, le vittime saranno in attesa.»

«Le vittime…» dissi in tono quasi sognante, mentre la tenevo fra le braccia.

«Ma ora devi dormire. Sei ancora giovane e fragile. Il mio sangue agisce in te, ti cambia, ti perfeziona.»

Sì, mi distruggeva, distruggeva il mio cuore e la mia volontà. Ero vagamente consapevole di muovermi, di adagiarmi sul letto. Mi abbandonai sui cuscini, e poi sentii accanto a me la seta dei suoi capelli, il tocco delle sue dita, le labbra sulle mie labbra. Sangue nel suo bacio; il rombo del sangue…

«Ascolta il mare», sussurrò lei. «Ascolta i fiori che si schiudono. Ora puoi udirli, lo sai. Puoi udire le minuscole creature marine, se ascolti. Puoi udire i delfini che cantano.»

Mi sentivo andare alla deriva. Ero sicuro tra le sue braccia; lei era potente, e tutti la temevano.

«Dimentica l’odore acre dei corpi che bruciano, sì, ascolta il mare che martella la spiaggia sotto di noi; ascolta il suono d’un petalo di rosa che si stacca e cade sul marmo.»

Il mondo sta andando all’inferno e io non posso evitarlo, sono fra le sue braccia e sto per addormentarmi.

«Non è accaduto un milione di volte, amor mio?» mormorò lei. «In un mondo pieno di sofferenze e di morte, non hai voltato le spalle come fanno ogni notte milioni di mortali?»

Tenebra. Visioni splendide. Un palazzo ancora più bello. Vittime. Servi. L’esistenza mitica dei pascià e degli imperatori.

«Sì, amor mio, tutto ciò che desideri. Tutto il mondo ai tuoi piedi. Costruirò per te un palazzo dopo l’altro: lo faranno coloro che ti adorano. E non è nulla. È la parte più semplice. E pensa alla caccia, mio principe. Fino a che le uccisioni non saranno completate, pensa alla caccia. Perché sicuramente fuggiranno e si nasconderanno a te, e tuttavia tu li troverai.»

Nella luce che si affievoliva, poco prima che venissero i sogni, potei vederla. Vedevo me stesso viaggiare nell’aria come gli eroi di un tempo, sopra il territòrio dove palpitavano i fuochi dei bivacchi.

Avrebbero viaggiato in branchi come i lupi, nelle città e nei boschi, e avrebbero osato mostrarsi soltanto di giorno; solo allora sarebbero stati al sicuro da noi. Al calar della notte noi saremmo venuti, e li avremmo rintracciati per mezzo dei loro pensieri e del loro sangue, e delle confessioni sussurrate dalle donne che li avevano visti e forse li avevano ospitati. Sarebbero fuggiti allo scoperto, sparando con le loro armi inutili. E poi ci saremmo avventati, li avremmo annientati a uno a uno, le nostre prede, salvo quelli che volevamo vivi per prendere il loro sangue lentamente, spietatamente.

E da quella guerra verrà la pace? Da quel gioco orrendo nascerà un giardino?

Cercai di aprire gli occhi. Akasha mi baciava le palpebre.

Il sogno.

Una pianura brulla e il suolo che si sgretolava. Qualcosa emergeva, scostando le zolle di terra arida. Questa cosa sono io. Questa cosa che cammina sulla pianura brulla mentre tramonta il sole. Il cielo è ancora pieno di luce. Abbasso lo sguardo sulla stoffa macchiata che mi copre, ma non sono io. Sono soltanto Lestat. E ho paura. Vorrei che Gabrielle fosse qui. E Louis. Forse Louis riuscirebbe a farle capire… Ah, Louis, quello di noi che ha sempre saputo.

Ed ecco di nuovo il sogno, le donne dai capelli rossi accanto all’altare con il corpo… il corpo della loro madre. Stanno per consumarlo. Sì, è il loro dovere, il loro sacro diritto… divorare il cervello e il cuore. Ma non sarà possibile perché accade sempre qualcosa di spaventoso. Sopraggiungono i soldati… Vorrei conoscere il significato del sogno.


Sangue.

Mi svegliai con un sussulto. Erano trascorse ore. La stanza era diventata fredda. Il cielo era meravigliosamente limpido al di là delle finestre aperte. Lei irraggiava tutta la luce che riempiva la stanza.

«Le donne attendono, e le vittime hanno paura.»

Le vittime. Mi girava la testa. Le vittime erano piene di sangue saporoso. Maschi che sarebbero morti comunque. Giovani maschi tutti miei.

«Sì. Ma vieni, poni fine alle loro sofferenze.»

Mi alzai, stordito. Akasha mi drappeggiò sulle spalle un lungo mantello, più semplice del suo indumento ma caldo e morbido. Mi accarezzò i capelli con entrambe le mani.

«Maschile… femminile. Non c’è mai stato altro?» mormorai. Il mio corpo voleva dormire ancora. Ma il sangue…

Akasha mi toccò le guance con le dita. Di nuovo le lacrime?

Uscimmo insieme, percorremmo un lungo ballatoio con la ringhiera di marmo; una scala scendeva e svoltava, fino a una sala immensa. Lampadari ovunque. Fioche lampadine elettriche creavano una penombra lussuosa.

Al centro erano radunate le donne, duecento o più. Erano immobili e ci guardavano con le mani giunte come in un gesto di preghiera.

Anche nel silenzio apparivano barbare fra i mobili europei, i legni italiani dorati e il vecchio camino con le volute di marmo. All’improvviso pensai alle parole di Akasha: «La storia non ha importanza, l’arte non ha importanza». La vertigine. Alle pareti spiccavano gli ariosi quadri del Settecento pieni di nubi splendenti e di angeli grassi, e cieli di un azzurro luminescente.

Le donne non guardavano quella ricchezza che non le aveva mai toccate e per loro non significava nulla; guardavano la visione sul ballatoio che ora si dissolveva in un turbine di suoni e di luce colorata e si materializzava ai piedi della scala.

Si levarono i sospiri, le mani si protesero come per riparare le teste chine da un’esplosione di luce sgradita. Poi tutti gli occhi si fissarono sulla Regina del Paradiso e sul suo consorte che stava sul tappeto rosso, un po’ al di sopra dell’assemblea… il consorte sconvolto che si mordicchiava il labbro e cercava di vedere chiaramente ciò che accadeva, la spaventosa mescolanza tra l’adorazione e il sacrificio cruento, mentre le vittime venivano condotte avanti.

Erano esemplari magnifici. Uomini mediterranei dai capelli bruni e dalla pelle scura, belli quanto le giovani donne. Uomini dalla struttura robusta e dalla muscolatura squisita che hanno ispirato per millenni gli artisti. Occhi neri come l’inchiostro e volti rasati; astuzia profonda, e profonda collera mentre guardavano le ostili creature sovrannaturali che avevano decretato la morte dei loro fratelli.

Li avevano legati con cinghie di cuoio, probabilmente le loro cinture e le cinture di dozzine d’altri; le donne avevano fatto un buon lavoro. Avevano legato anche le caviglie, in modo che potessero camminare, ma non scalciare o correre. Erano nudi fino alla cintola e uno solo tremava, di rabbia non meno che di paura. Incominciò a dibattersi. Gli altri due si voltarono, lo guardarono e cominciarono a divincolarsi anche loro.

Ma la massa delle donne li strinse e li obbligò a inginocchiarsi. Sentii il desiderio ingigantire a quella vista, alla vista delle cinture di cuoio che affondavano nella carne nuda delle braccia. Perché era così seducente? E le mani delle donne che li tenevano, le mani minacciose che altrimenti potevano essere così morbide e delicate. Non potevano battersi contro tante donne. Sospirando, desistettero dalla ribellione, sebbene quello che aveva incominciato a lottare mi guardasse con aria d’accusa.

Demoni, diavoli, creature dell’inferno, gli suggeriva la sua mente. Chi altri avrebbe potuto fare una cosa simile al suo mondo? Oh, era soltanto l’inizio della tenebra, la tenebra terribile!

Ma il desiderio era tanto forte. Tu stai per morire, e sarò io a ucciderti! Sembrò che udisse e comprendesse. Un odio selvaggio per le donne s’irradiò da lui, carico d’immagini di stupri e di rappresaglie che mi fecero sorridere. Tuttavia capivo. Capivo completamente. Era così facile provare disprezzo per loro, sdegnarsi perché avevano osato diventare il nemico, il nemico di un’antica battaglia, loro, le donne! Ed era tenebra, la rappresaglia immaginata, una tenebra indicibile.

Sentii le dita di Akasha sul mio braccio. La sensazione di beatitudine ritornò, e il delirio. Tentai di resistere, ma lo sentii intenso come prima. Tuttavia il desiderio non scompariva. Adesso era nella mia bocca. Ne sentivo il sapore.

Sì, passa nel momento, passa nella funzione pura, incomincia il sacrificio cruento.

Le donne s’inginocchiarono in massa, e gli uomini che erano già inginocchiati parvero diventare più calmi. I loro occhi diventarono vitrei mentre ci guardavano, e le loro labbra tremarono.

Fissai le spalle muscolose del primo, quello che si era ribellato. Come sempre in quei momenti immaginai di sentire la gola ruvida e mal rasata quando le mie labbra l’avrebbero toccata, e i miei denti sarebbero affondati nella pelle, non la pelle gelida della dea ma quella umana, calda e salata.

Sì, amor mio. Prendilo. È la vittima che meriti. Ora sei un dio. Prendilo. Sai quanti ti aspettano?

Sembrava che le donne sapessero cosa fare. Lo sollevarono mentre mi avvicinavo. Ci fu un’altra lotta, ma non fu niente più di una contrazione dei muscoli quando lo presi fra le braccia. La mia mano si chiuse troppo forte sulla sua testa. Non conoscevo la mia nuova forza e sentii le ossa spezzarsi mentre affondavo i denti. Ma la morte fu quasi istantanea, tanto grande fu la prima sorsata di sangue. Bruciavo di sete; e l’intera porzione, completa in un istante, non era stata sufficiente. No, non era stata sufficiente.

Subito presi la seconda vittima, cercando di procedere lentamente per poter precipitare nella tenebra come avevo fatto tante volte, con l’anima sola che mi parlava. Sì, mi rivelava i suoi segreti mentre il sangue mi fiottava nella bocca, e io lasciavo che la riempisse prima d’inghiottirlo. Sì, fratello. Mi dispiace, fratello. E poi, barcollando, calpestai il cadavere davanti a me e lo stritolai.

«Datemi l’ultimo.»

Non ci fu resistenza. Mi fissava in un silenzio assoluto, come se in lui fosse spuntata una luce, come se avesse trovato la salvezza nella teoria o nella fede. L’attirai a me, dolcemente… quella era la vera fonte che desideravo, la morte lenta e potente cui aspiravo, il cuore che pompava come se non volesse mai smettere, il sospiro che gli sfuggiva dalle labbra, i miei occhi ancora annebbiati mentre lo lasciavo andare, con le immagini svanite della sua breve vita ignorata, concentrate all’improvviso in un raro secondo ricco di significato.

Lo lasciai cadere. Ora il significato non c’era più.

C’era soltanto la luce davanti a me, e l’estasi delle donne finalmente redente dai miracoli.

Nella sala era sceso il silenzio: nulla si muoveva, e il suono del mare era un rombo lontano.

Poi la voce di Akasha: I peccati degli uomini ora sono stati espiati; e coloro che sono rimasti dovranno essere ben curati e amati. Ma non date mai la libertà a coloro che rimangono, coloro che vi hanno oppresse.

Poi, silenziosamente, senza parole distinte, venne l’insegnamento.

La brama avida cui avevano appena assistito, le morti che avevano visto compiersi per mia opera dovevano essere l’eterno memento della ferocia che viveva in tutti i maschi e che non doveva più essere tollerata. I maschi erano stati sacrificati alla incarnazione della loro violenza.

Insomma, le donne avevano assistito a un nuovo rituale trascendente, un nuovo sacrificio della Messa. L’avrebbero veduto ancora; e dovevano ricordarlo per sempre.

La testa mi girava per quel paradosso. E i miei propositi di poco tempo prima erano lì a tormentarmi. Avevo voluto che il mondo dei mortali sapesse di me. Avevo voluto essere l’immagine del male nel teatro del mondo e in questo modo compiere chissà come il bene.

E adesso ero veramente quell’immagine, ne ero l’incarnazione letterale che passava attraverso quelle anime semplici e giungeva al mito, come Akasha aveva promesso. E c’era una voce che mi sussurrava all’orecchio e martellava il vecchio adagio: «Stai attento a ciò che desideri perché il tuo desiderio potrebbe realizzarsi».

Sì, quello era il punto centrale. Tutto ciò che avevo desiderato si stava avverando. Nel sacrario l’avevo baciata, avevo agognato di destarla e avevo sognato il suo potere. Adesso eravamo insieme, lei e io, e intorno a noi si levavano gli inni. Osanna. Grida di gioia.

Le porte del palazzo si spalancarono.

E noi prendemmo congedo; ascendemmo nello splendore e nella magia, varcammo le porte, sorvolammo il tetto della vecchia villa e avanzammo sopra le acque scintillanti, nella calma distesa di stelle.

Non avevo più paura di cadere. Non avevo più paura di una cosa tanto insignificante. Perché la mia anima, per quanto fosse meschina com’era sempre stata, conosceva paure che non avevo mai immaginato.

6. LA STORIA DELLE GEMELLE [parte seconda]

Sognava di uccidere. Era in una grande città buia come Londra o Roma, e l’attraversava in fretta, in una missione di morte, per abbattere la prima dolce vittima umana che doveva essere sua. E poco prima di aprire gli occhi, aveva compiuto la transizione dalle cose in cui aveva creduto per tutta la vita a quel semplice atto amorale… uccidere. Aveva fatto ciò che fa il rettile quando solleva nella bocca coriacea il topolino che squittisce e che schiaccerà lentamente senza neppure udire quel canto sommesso e straziante.

Era sveglia nel buio e la casa era viva sopra di lei. I vecchi dicevano Vieni. Un televisore che parlava chissà dove. La Beata Vergine Maria era apparsa in un’isola del Mediterraneo.

Non aveva fame. Il sangue di Maharet era troppo forte. L’idea ingigantiva, la chiamava come una vecchia megera in un vicolo buio. Uccidere.

Si alzò dalla stretta cassa in cui giaceva, avanzò in punta di piedi nell’oscurità fino a che toccò con le mani la porta metallica. Passò nel corridoio e guardò l’interminabile scala di ferro che s’incrociava su se stessa come uno scheletro, e vide il cielo attraverso il vetro, come un fumo. Mael era a metà della salita, accanto alla porta della casa vera e propria, e la guardava dall’alto.

Si sentì vacillare… io sono una di voi, e siamo insieme. Il contatto della ringhiera di ferro sotto la mano, e un’angoscia improvvisa e fuggevole per tutto ciò che era stata prima che quella bellezza ardente l’afferrasse per i capelli.

Mael discese, come per aiutarla, perché quella sensazione la trasportava.

Capivano, vero, che adesso la terra respirava per lei e la foresta cantava, e le radici si protendevano nel buio attraverso le pareti di terra.

Guardò Mael. Un vago odore di pelle scamosciata e di polvere. Come aveva potuto pensare che quegli esseri fossero umani? Gli occhi che brillavano in quel modo. Eppure sarebbe venuto il momento in cui si sarebbe aggirata di nuovo tra gli esseri umani e avrebbe visto i loro occhi indugiare e poi distogliersi all’improvviso. Avrebbe camminato in fretta in una città buia come Londra o Roma. Mentre guardava negli occhi di Mael, rivide la vecchia megera nel vicolo; ma non era stata un’immagine precisa. No, vedeva il vicolo, vedeva l’uccisione, semplicemente. E in silenzio distolsero lo sguardo nello stesso istante; ma non in fretta, piuttosto rispettosamente. Mael le prese la mano e guardò il braccialetto che le aveva donato. All’improvviso la baciò sulla guancia. Poi la guidò su per le scale, verso la stanza in vetta alla montagna.

La voce della televisione divenne ancora più forte. Parlava d’isteria collettiva nello Sri Lanka. Le donne uccidevano gli uomini, assassinavano persino i neonati maschi. Sull’isola di Lynkonos c’erano state allucinazioni di massa e un’epidemia di morti inspiegate.

Solo a poco a poco comprese cosa stava ascoltando. Non era la Beata Vergine Maria; quando ne aveva sentito parlare per la prima volta, aveva pensato che era molto bello, il fatto che potessero credere una cosa simile. Si girò verso Mael, ma lui guardava davanti a sé. Conosceva già quelle notizie. Da un’ora la televisione continuava a trasmetterle.

Vide lo strano barlume azzurro quando entrò nella stanza in cima alla montagna. E lo strano spettacolo dei suoi nuovi confratelli dell’Ordine-segreto-dei-non-morti, sparsi come tante statue nella luce azzurra e con gli occhi fìssi sullo schermo.

«… casi simili in passato causati da sostanze contaminanti nel cibo o nell’acqua, tuttavia non è stata trovata una spiegazione per la similarità delle notizie pervenute da luoghi lontani, che includono diversi villaggi isolati tra i monti del Nepal. Le donne catturate sostengono di aver visto una donna bellissima, la Beata Vergine o la Regina del Paradiso, chiamate semplicemente la dea, che ha domandato loro di massacrare i maschi del villaggio, risparmiando solo pochi prescelti. Alcuni rapporti parlano anche di un’apparizione maschile, una divinità bionda che non parla e per ora non ha un titolo né un nome…»

Jesse guardò Maharet che osservava con aria impenetrabile e una mano appoggiata al bracciolo della poltrona.

La tavola era coperta di giornali, in francese e in indostano, non solo in inglese.

«… da Lynkonos a diverse altre isole prima che venisse chiamata la milizia. Le prime stime indicano che circa duemila uomini sarebbero stati uccisi in questo piccolo arcipelago al largo della punta estrema della Grecia.»

Maharet toccò il piccolo telecomando nero e lo schermo svanì. Sembrò che l’apparecchio sparisse nel legno scuro mentre le finestre diventavano trasparenti e le cime degli alberi apparivano in interminabili strati nebbiosi contro il cielo violetto. In lontananza, Jesse vedeva le luci ammiccanti di Santa Rosa annidate tra le colline buie. Sentiva l’odore del sole che aveva brillato in quella stanza, sentiva il caldo che saliva lentamente attraverso il soffitto di vetro.

Guardò gli altri che stavano seduti in un silenzio stordito. Marius girò cupamente gli occhi sul teleschermo, sui giornali sparsi davanti a lui.

«Non abbiamo tempo da perdere», disse Khayman a Maharet. «Devi continuare il racconto. Non sappiamo quando lei verrà qui.»

Fece un gesto, e i giornali vennero improvvisamente spazzati via, accartocciati e lanciati nel fuoco che li divorò e lanciò una pioggia di scintille nella canna fumaria.

Jesse si sentiva girare la testa. Avveniva tutto troppo in fretta. Guardò Khayman. Si sarebbe mai abituata? Le loro facce di porcellana e le espressioni improvvisamente violente, le sommesse voci umane e i movimenti quasi invisibili?

E cosa stava facendo la Madre? I maschi massacrati. Il tessuto della vita di quelle popolazioni ignoranti, distrutto completamente. Una fredda sensazione di minaccia la toccò. Scrutò il volto di Maharet cercando di comprendere.

Ma i lineamenti di Maharet erano rigidi. Non aveva risposto a Khayman. Si girò lentamente verso la tavola e intrecciò le dita sotto il mento. Gli occhi erano opachi, remoti, come se non vedesse nulla davanti a sé.

«È necessario annientarla», disse Marius, come se non potesse più trattenersi. Il colore avvampò nelle sue guance sconvolgendo Jesse, perché per un istante il suo volto era stato segnato da tutte le rughe di un uomo mortale. Adesso erano sparite; e Marius tremava visibilmente di collera. «Abbiamo scatenato un mostro, e sta a noi rimediare.»

«E come possiamo?» chiese Santino. «Tu parli come se si trattasse di una semplice decisione. Non puoi ucciderla!»

«Sacrifichiamo le nostre vite, ecco come possiamo fare», disse Marius. «Agiamo di concerto, e poniamo fine a questa cosa una volta per tutte, come avrebbe dovuto aver fine molto tempo fa.» Li guardò a uno a uno e i suoi occhi indugiarono su Jesse, quindi si spostarono su Maharet. «Il suo corpo non è indistruttibile. Non è fatto di marmo. Può essere trafìtto, tagliato. L’ho trafitto con i miei denti. Ne ho bevuto il sangue!»

Maharet fece un piccolo gesto noncurante, come per dire: conosco queste cose e tu sai che le conosco.

«E quando lo feriamo, feriamo noi stessi?» chiese Eric. «Propongo di andarcene per nasconderei da lei. Cosa ci guadagniamo restando qui?»

«No!» esclamò Maharet.

«Vi ucciderà a uno a uno se lo farete», disse Khayman. «Siete vivi solo perché ora attendete le sue istruzioni.»

«Ti dispiace continuare a raccontare la tua storia?» chiese Gabrielle rivolgendosi direttamente a Maharet. Era rimasta chiusa in se stessa, e aveva ascoltato gli altri solo a tratti. «Voglio sapere il resto», disse. «Voglio sapere tutto.» Appoggiò le braccia sul piano del tavolo.

«Credi di trovare un modo per sconfiggere Akasha in quelle vecchie favole?» chiese Eric. «Allora sei pazza.»

«Continua il racconto ti prego», disse Louis. «Voglio…» Esitò. «Anch’io voglio sapere che cosa accadde.»

Maharet lo fissò a lungo.

«Continua, Maharet», disse Khayman. «Con ogni probabilità la Madre sarà annientata, ed entrambi sappiamo come e perché: e tutti questi discorsi non significano nulla.»

«Cosa può significare ormai la profezia, Khayman?» chiese Maharet con voce bassa, devitalizzata. «Cadiamo negli stessi errori che imprigionano la Madre. Il passato può istruirci, ma non basterà a salvarci.»

«Sta per giungere tua sorella, Maharet. Viene come aveva promesso.»

«Khayman», disse Maharet con un lungo sorriso amaro.

«Raccontaci cosa accadde», insistette Gabrielle.

Maharet rimase immobile come se cercasse un modo per incominciare. Al di là delle finestre il cielo si oscurava: tuttavia un riflesso rosso apparve a occidente, e diventò sempre più vivido sullo sfondo delle nubi grigie. Alla fine svanì, lasciandoli avvolti nell’oscurità più assoluta, spezzata dalla luce del fuoco e dai riflessi delle pareti di vetro che sembravano specchi.

«Khayman vi condusse in Egitto», disse Gabrielle. «E là che cosa vedeste?»

«Sì, ci condusse in Egitto», disse Maharet. Sospirò e si assestò sulla sedia, con lo sguardo fìsso sul tavolo. «Era inevitabile. Khayman ci avrebbe portate via con la forza. E in verità accettammo noi di andare. Per venti generazioni eravamo state mediatrici fra gli uomini e gli spiriti. Se Amel aveva compiuto un grande male, avremmo cercato di porvi rimedio. O almeno, come ho detto quando ci siamo riuniti per la prima volta intorno a questo tavolo, avremmo tentato di comprendere.

«Lasciai mia figlia alle cure delle donne che avevano la mia fiducia. La baciai. Le confidai molti segreti. Quindi la lasciai, e partimmo sulla lettiga reale come se fossimo ospiti del re e della regina di Kemet, e non prigioniere come prima.

«Khayman fu gentile con noi durante la lunga marcia; ma era cupo e taciturno ed evitava di guardarci negli occhi. Era meglio così, perché non avevamo dimenticato le nostre sofferenze. Poi, l’ultima notte, quando ci accampammo sulle rive del grande fiume che l’indomani avremmo attraversato per raggiungere il palazzo reale, Khayman ci chiamò nella sua tenda e ci disse tutto ciò che sapeva.

«I suoi modi erano cortesi e decorosi, e noi cercammo di accantonare i sospetti nei suoi confronti. Ci raccontò ciò che aveva fatto il demone… lo chiamava così.

«Poche ore dopo che eravamo state espulse dall’Egitto, s’era accorto che qualcosa lo spiava, una forza tenebrosa e malefica. Dovunque andasse ne sentiva la presenza, sebbene tendesse a svanire alla luce del giorno.

«Poi tante cose erano state alterate in casa sua… piccole cose che gli altri non notavano. In un primo momento aveva temuto d’impazzire. Trovava sempre il suo tavolo di scrittura fuori posto e, una volta, gli era accaduto anche di non trovare il suo sigillo di maestro di palazzo. E nei momenti più impensati, sempre quando era solo, quegli oggetti volavano contro di lui e lo colpivano alla faccia o gli piovevano ai piedi. A volte comparivano nei posti più assurdi: per esempio, trovava il sigillo nella birra o nel brodo.

«Non osava dirlo al re e alla regina. Sapeva che era opera dei nostri spiriti e che se avesse parlato avrebbe firmato la nostra condanna a morte.

«Perciò custodiva il terribile segreto mentre la situazione peggiorava. Gli ornamenti che aveva cari fin dall’infanzia venivano fatti a pezzi e i frammenti gli piovevano addosso; gli amuleti sacri finivano nella latrina, gli escrementi venivano spalmati sui muri.

«Khayman sopportava con difficoltà di vivere nella sua casa; tuttavia ammoniva gli schiavi di non dirlo a nessuno. E quando quelli fuggirono spaventati, provvide da sé alla propria toeletta e spazzò i pavimenti come se fosse un servitore.

«Ma ormai era atterrito. C’era qualcosa, in quella casa; ne sentiva l’alito in faccia. E ogni tanto avrebbe potuto giurare di sentirne anche i denti aguzzi.

«Alla fine, per disperazione, incominciò a parlargli e a pregarlo di andarsene; ma questo sembrava ingigantire la sua forza. Le parole raddoppiavano il suo potere. Gli vuotava la borsa sui sassi e faceva tintinnare tutta la notte le monete d’oro. Gli rovesciava il letto e lo faceva cadere sul pavimento, gli metteva la sabbia nel cibo.

«Ormai erano passati sei mesi da quando avevamo lasciato il regno e Khayman era fuori di sé. Forse noi eravamo in salvo; ma non poteva esserne sicuro e non sapeva che fare, e inoltre era terrorizzato dallo spirito.

«Poi una notte, mentre si domandava quali fossero le intenzioni dello spirito perché da un po’ se ne stava tranquillo, sentì bussare con violenza alla porta. Si spaventò. Sapeva che non doveva rispondere perché a bussare non era una mano umana. Ma alla fine non resistette più; recitò una preghiera e spalancò la porta. E ciò che vide lo portò al culmine dell’orrore: la mummia putrida di suo padre, avvolta nelle bende lacere, e appoggiata contro il muro di cinta del giardino.

«Naturalmente sapeva che non c’era vita nel volto incartapecorito e negli occhi morti che lo fissavano. Qualcosa aveva dissotterrato il cadavere e l’aveva portato lì: era il corpo di suo padre, il corpo che, secondo la legge sacra, avrebbe dovuto essere consumato in un regolare banchetto funebre da Khayman, dai suoi fratelli e dalle sue sorelle.

«Khayman si lasciò cadere in ginocchio piangendo e gridando. Poi, davanti ai suoi occhi increduli, la cosa si mosse! Incominciò a danzare! Le membra si agitavano, le bende andavano in pezzi. Khayman corse in casa e sprangò la porta. Poi il cadavere fu scagliato contro il battente e sembrò che lo percuotesse con un pugno per chiedere di entrare.

«Khayman invocò tutti gli dèi d’Egitto perché lo liberassero da quella mostruosità; chiamò le guardie del palazzo, chiamò i soldati del re. Maledisse il demone e gli ordinò di lasciarlo in pace, e cominciò a scagliare gli oggetti e a prendere a calci le monete d’oro, in preda alla rabbia.

«Tutti coloro che stavano nel palazzo accorsero alla casa di Khayman; ma il demone sembrava diventare ancora più forte. Le imposte tremarono e furono strappate dai cardini. I mobili di Khayman incominciarono a spostarsi.

«Ma era solo l’inizio. All’alba, quando i sacerdoti entrarono nella casa per esorcizzare il demone, dal deserto si levò un gran vento che portava con sé torrenti di sabbia accecante. E dovunque andasse Khayman, il vento lo seguiva; e finalmente vide che aveva le braccia coperte di minuscole trafitture e minutissime gocce di sangue. Persino le palpebre erano ferite. Si rifugiò in un ripostiglio per trovar pace, e lo spirito sfondò anche quella porta. E tutti fuggirono. Khayman rimase a giacere in lacrime sul pavimento.

«La tempesta infuriò per giorni. Più i sacerdoti pregavano e salmodiavano, più il demone s’incattiviva.

«Il re e la regina erano costernati. I sacerdoti maledicevano il demone. Il popolo attribuiva la colpa alle streghe dai capelli rossi e gridava che non avremmo dovuto lasciare la terra di Kemet. Dovevano trovarci a ogni costo, ricondurci lì e bruciarci vive: allora il demone si sarebbe acquietato.

«Ma le vecchie famiglie non erano d’accordo. Per loro il giudizio era chiaro. Non erano stati forse gli dèi a dissotterrare il corpo putrido del padre di Khayman, per dimostrare che i cannibali avevano sempre fatto ciò che piaceva al cielo? No: erano il re e la regina i colpevoli, e loro dovevano morire, perché avevano riempito l’Egitto di mummie e superstizioni.

«Il regno era sull’orlo della guerra civile.

«Finalmente il re andò da Khayman che piangeva nella sua casa, avvolto nella veste come in un sudario. E il re parlò al demone mentre questi affliggeva Khayman con piccoli morsi e macchiava di gocce di sangue i drappi che lo coprivano.

«‘Pensa a ciò che ci dissero quelle streghe’, disse il re. ‘Questi sono soltanto spiriti, non demoni. E si può ragionare con loro. Se soltanto riuscissi a farmi ascoltare come vi riuscivano le streghe, e potessi indurii a rispondere!’

«Ma questo parve esasperare ancora di più lo spirito. Distrasse i mobili che non aveva ancora sfasciato; strappò la porta dai cardini, divelse gli alberi dal giardino e li scagliò intorno. Anzi, per il momento parve dimenticare completamente Khayman, e si avventò nei giardini del palazzo distruggendo tutto ciò che poteva.

«E il re lo seguì, l’implorò di riconoscerlo e di parlare con lui, e di rivelargli i suoi segreti. Stava intrepido ed estatico in mezzo al turbine.

«Finalmente apparve la regina che con voce alta e penetrante si rivolse al demone. ‘Tu ci punisci per l’afflizione delle sorelle dai capelli rossi!’ gridò. ‘Ma perché non servi noi anziché loro?’ Subito il demone le strappò le vesti e la tormentò come aveva fatto con Khayman. La regina cercò di coprirsi le braccia e il volto, ma fu inutile. Il re l’afferrò; insieme corsero nella casa di Khayman.

«‘Ora vattene’, disse il re a Khayman. ‘Lasciaci soli con questo demone, perché voglio comprendere che cosa desidera.’ Chiamò i sacerdoti e, in mezzo al turbine, spiegò ciò che gli avevamo detto, e cioè che l’essere odiava noi umani perché eravamo spirituali e carnali. Ma avrebbe provveduto a imprigionarlo, e redimerlo e a controllarlo; era Enkil, re di Kemet, e poteva farlo.

«Il re e la regina entrarono insieme nella casa di Khayman, e il demone andò con loro e fece a pezzi la dimora; tuttavia rimasero. Khayman, che adesso era libero, giaceva esausto sul pavimento del palazzo; temeva per i sovrani ma non sapeva che fare.

«La corte tutta era in subbuglio: gli uomini litigavano, le donne piangevano. Alcuni abbandonarono il palazzo per timore di ciò che stava per accadere.

«Per due notti e due giorni il re rimase con il demone, e rimase anche la regina. Poi le antiche famiglie, contrarie al re e alla regina, si radunarono davanti alla casa. Il re e la regina sbagliavano; era quello il momento di occuparsi delle sorti di Kemet e di assumerne la guida. Al calar della notte entrarono nella casa con i pugnali sguainati. Erano decisi a uccidere il re e la regina; e se il popolo avesse protestato, avrebbero detto che era stata opera del demone… e chi avrebbe potuto affermare che non era vero? E il demone non si sarebbe forse fermato dopo la morte del re e della regina, che avevano perseguitato le streghe dai capelli rossi?

«La regina li vide: e mentre correva gridando, i congiurati le piantarono i pugnali nel seno, e così cadde agonizzante. Il re si precipitò in suo aiuto, e i congiurati colpirono anche lui con la stessa spietatezza; quindi uscirono in fretta dalla casa perché il demone non aveva interrotto le sue persecuzioni.

«Khayman, intanto, era rimasto inginocchiato ai margini del giardino, abbandonato dalle guardie che si erano schierate con i cospiratori. Immaginava che sarebbe morto con gli altri servitori della famiglia reale. Poi udì il grido straziante della regina; un suono che non aveva mai udito. E quando anche i cannibali lo udirono, abbandonarono quel luogo.

«Khayman, fedele maestro di palazzo del re e della regina, prese una torcia e andò in aiuto dei sovrani.

«Nessuno tentò di fermarlo. Tutti erano fuggiti in preda alla paura. Ed ecco ciò che vide Khayman.

«La regina giaceva a terra e si contorceva nell’agonia, mentre il sangue le sgorgava dalle ferite e una grande nube rossastra l’avvolgeva; era come se un vortice la circondasse, o meglio un vento che sollevava innumerevoli gocce di sangue. E in mezzo a quel vento o a quella pioggia, la regina si contorceva e roteava gli occhi. Il re era steso riverso.

«L’istinto suggeriva a Khayman di abbandonare quel luogo, di andare il più lontano possibile. In quel momento desiderava abbandonare per sempre la patria. Ma era la sua regina, quella che giaceva ansimante con il dorso inarcato e le mani che si contraevano sul pavimento.

«Poi la grande nube di sangue che la velava e si gonfiava e si contraeva divenne all’improvviso più densa, e, come risucchiata dalle ferite, scomparve. La regina restò immobile; quindi si sollevò lentamente a sedere con gli occhi fissi davanti a sé. Un terribile grido gutturale le uscì dalla bocca, e infine tacque.

«Non si udiva alcun suono mentre la regina fissava Khayman; c’era solo lo scoppiettio della torcia. La regina riprese ad ansimare, spalancò gli occhi e parve sul punto di morire. Ma non morì. Si riparò gli occhi dalla luce della torcia come se la ferisse; si voltò e vide il marito che giaceva come morto al suo fianco.

«Un urlo; no, non era possibile. E nello stesso istante Khayman vide che tutte le ferite si rimarginavano; gli squarci profondi non erano altro che graffi sulla pelle.

«‘Mia signora!’ esclamò. E si avvicinò alla regina, che piangeva e si guardava le braccia e il seno, già straziati dai pugnali dei congiurati, e ormai risanati. Gemeva pietosamente mentre guardava le ferite; all’improvviso si lacerò la pelle con le unghie e il sangue sgorgò. Ma la ferita guarì di nuovo!

«‘Khayman, mio Khayman,’ urlò coprendosi gli occhi per non vedere la torcia. ‘Che cosa mi è accaduto?’ Le sue grida divennero ancora più forti; si gettò sul re in preda al panico e gemette: ‘Enkil, aiutami, Enkil, non morire’, e continuò dicendo tutte le altre cose assurde che si gridano in un disastro. Mentre guardava il re, un cambiamento terribile si operò in lei. Si buttò su di lui come una bestia famelica, e con la lingua lambì il sangue che gli copriva la gola e il petto.

«Khayman non aveva mai visto un simile spettacolo. La regina sembrava una leonessa che leccava il sangue d’una preda. Teneva la schiena incurvata e le ginocchia sollevate; attirò a sé il corpo inerte del re e addentò l’arteria della gola.

«Khayman lasciò cadere la torcia e indietreggiò verso la porta per fuggire. Ma udì la voce del re che parlava sommessamente: ‘Akasha, mia regina’. E la regina si sollevò tremante e piangente, si guardò e guardò il re: lei era completamente risanata mentre Enkil era ancora straziato da molte ferite. ‘Khayman’, gridò. ‘Il tuo pugnale! Dammelo. Hanno portato via le loro armi. Il tuo pugnale. Subito!’

«Khayman obbedì, sebbene pensasse che ora avrebbe visto il suo re morire una volta per tutte. Ma la regina prese il pugnale, si tagliò i polsi e guardò il sangue sgorgare sulle ferite del marito e risanarle. Poi gli spalmò il sangue sul viso.

«Le ferite del re si rimarginarono. Khayman lo vide: vide i grandi squarci richiudersi. Vide il re agitarsi, lambire il sangue di Akasha che gli scorreva sul volto. Quindi si sollevò nella stessa posa animalesca che aveva avuto la regina fino a pochi attimi prima, l’abbracciò e le accostò la bocca alla gola.

«Khayman aveva visto abbastanza. Nella luce della torcia agonizzante quelle due figure pallide erano diventate per lui due demoni. Uscì camminando all’indietro, senza riuscire a staccare gli occhi da quello spettacolo straziante e terribile, finché raggiunse il muro del giardino. Si sentì venir meno e stramazzò sull’erba.

«Quando rinvenne, era adagiato su un divano dorato nell’appartamento della regina. Sul palazzo regnava il silenzio. Si accorse che gli avevano cambiato d’abito e lavato il viso e le mani. C’era soltanto una luce fioca e si sentiva nell’aria il dolce odore dell’incenso; le porte del giardino erano aperte come se non vi fosse nulla da temere.

«Poi vide nell’ombra il re e la regina che lo guardavano; ma non erano il suo re e la sua regina. Stava per prorompere in grida atterrite; ma la regina gli accennò di tacere.

«‘Khayman, mio Khayman’, disse, porgendogli il bel pugnale dall’impugnatura d’oro. Tu ci hai serviti molto bene.’

«A questo punto Khayman interruppe il suo racconto. ‘Domani notte’, disse poi, ‘dopo il tramonto vedrete con i vostri occhi che cosa è accaduto. Perché soltanto allora, quando la luce sarà svanita dal cielo a occidente, appariranno insieme nelle sale del palazzo, e voi vedrete ciò che io ho veduto.’

«Ma perché soltanto di notte, chiesi a Khayman. Cosa significava tutto questo?

«Allora ci raccontò che, neppure un’ora dopo il suo risveglio e prima ancora che sorgesse il sole, il re e la regina avevano cominciato ad allontanarsi dalle porte del palazzo e a gridare che la luce feriva loro gli occhi. Già rifuggivano dalle torce e dalle lampade; ma ora stava per giungere il mattino e nel palazzo non c’era un posto dove potessero nascondersi.

«Lasciarono furtivamente il palazzo, avvolti in pesanti indumenti, e corsero con una velocità che nessun essere umano poteva eguagliare. Corsero verso le mastaba, le tombe delle vecchie famiglie, che erano state costrette a mummificare i loro morti. Insomma, fuggirono verso i luoghi più sacri che nessuno avrebbe osato profanare, correndo così in fretta che Khayman non poté seguirli. Il re, tuttavia, a un certo punto si fermò: si rivolse a Ra il dio del sole, e invocò misericordia. E quindi, piangendo e riparandosi gli occhi e gridando come se il sole li ferisse anche se la sua luce era appena spuntata nel cielo, il re e la regina sparirono alla vista di Khayman.

«Poi Khayman continuò: ‘Da allora in poi non si sono mai più visti girare prima del tramonto e tornano sempre dal cimitero sacro, sebbene nessuno sappia di preciso dove. Li attendeva sempre una gran folla che li acclamava come dèi, immagini di Osiride e di Iside, divinità della luna. Tutti gettavano fiori e s’inchinavano a loro.

«‘Infatti s’era sparsa dovunque la notizia che il re e la regina avevano sconfitto la morte grazie a un potere celestiale, che li aveva trasformati in dèi immortali e invincibili e potevano leggere nel cuore degli uomini. Nessun segreto poteva essere loro nascosto, i loro nemici venivano puniti immediatamente. Potevano udire le parole che gli umani pronunciavano solo con il pensiero. Tutti li temevano.

«‘Tuttavia io so, come sanno tutti i loro fedeli servitori, che non sopportano la vicinanza di una candela o di una lampada; urlano di fronte alla luce viva di una torcia, e giustiziano i loro nemici in segreto e ne bevono il sangue. Lo bevono, vi dico. Come le belve della giungla si nutrono delle loro vittime, e dopo la stanza sembra la tana di un leone. E io, Khayman, il loro fido maestro di palazzo, devo raccogliere i corpi e gettarli nella fossa.’ A questo punto Khayman tacque e scoppiò in lacrime.

«Ma il racconto era finito ed era quasi mattino. Il sole sorgeva sui monti a oriente; ci preparammo ad attraversare il grande Nilo. Il deserto si stava riscaldando. Khayman raggiunse il fiume mentre la prima chiatta dei soldati l’attraversava. Piangeva ancora quando vide il sole splendere sulle acque e incendiarle.

«‘Ra, il dio del sole, è il più antico e il più grande di Kemet’, mormorò. ‘Ed è adirato con loro. Perché? In segreto piangono il loro fato; la sete li fa impazzire; temono che diventerà insopportabile. Dovete salvarli. Dovete farlo per il nostro popolo. Non vi hanno mandate a chiamare per rimproverarvi o farvi del male. Hanno bisogno di voi. Siete streghe potenti. Costringete lo spirito a disfare la sua opera.’ Quindi ci guardò, ricordò tutto ciò che ci era accaduto e si abbandonò alla disperazione.

«Io e Mekare non rispondemmo. La chiatta era pronta per portarci al palazzo. Guardammo al di là dell’acqua i grandi edifici dipinti della città reale e ci chiedemmo quali sarebbero state le conseguenze di quell’orrore.

«Mentre prendevo posto sulla chiatta pensai a mia figlia e compresi che sarei morta in Kemet. Volevo chiudere gli occhi e chiedere segretamente agli spiriti se era davvero quello il mio destino, ma non osavo. Non potevo rinunciare alla mia ultima speranza.»


Maharet si tese.

Jesse la vide raddrizzare le spalle e muovere la mano sul piano di legno, stringerla e riaprirla mentre le unghie dorate brillavano nella luce del fuoco.

«Non voglio che abbiate paura», disse con voce spenta. «Ma sappiate che la Madre ha attraversato il gran mare orientale. Lei e Lestat sono più vicini…»

Jesse sentì la corrente d’allarme scuotere tutti i presenti. Maharet rimase rigida, come se ascoltasse o se vedesse qualcosa; le pupille dei suoi occhi si muovevano leggermente.

«Lestat chiama», disse, «ma è troppo debole perché io possa udire le parole, vedere le immagini. Tuttavia è illeso; questo lo so, e so di aver poco tempo, per finire la mia storia…»

7. LESTAT: IL REGNO DEI CIELI

I Caraibi. Haiti. Il giardino di Dio.

Ero in cima alla collina, al chiaro di luna, e cercavo di non vedere quel paradiso. Cercavo di immaginare coloro che amavo. Erano ancora riuniti nella foresta fiabesca di alberi mostruosi, dove avevo visto camminare mia madre? Se avessi almeno potuto vedere le loro facce e udire le loro voci! Marius, non fare il padre sdegnato. Aiutami! Aiutaci tutti! Io non mi rassegno, ma sto perdendo, sto perdendo l’anima e la mente. Il mio cuore è già perduto. Appartiene a lei.

Ma erano irraggiungibili. La distanza immane ci isolava, e io non avevo il potere di superarla.

Guardavo le colline verdeggianti costellate di piccole fattorie, un mondo da libro illustrato con i fiori che sbocciavano a profusione, e le piante alte come alberi. E le nubi sempre mutevoli, portate come enormi velieri dal soffio dei venti. Cosa avevano pensato gli europei quando avevano guardato quella terra feconda circondata dal mare scintillante? Che quello era il Giardino di Dio.

E pensare che vi avevano portato la morte; gli indigeni erano spariti in pochi anni, distrutti dalla schiavitù, dalle malattie e dalla crudeltà. Non restava neppure un discendente degli esseri pacifici che avevano respirato quell’aria balsamica e colto i frutti che maturavano tutto l’anno, e credevano che i visitatori fossero dèi e intendessero ricambiare la loro gentilezza.

Ora, nelle vie di Port-au-Prince, c’erano tumulti e morte, e non erano opera nostra. Era solo la storia immutabile di quel luogo sanguinoso dove la violenza fioriva da quattrocento anni, anche se la vista delle colline che sorgevano nella nebbia poteva spezzare il cuore.

Ma avevamo compiuto la nostra opera; lei perché la compiva, io perché non facevo nulla per impedirlo… nelle piccole città sparse lungo il percorso tortuoso che portava a quella vetta boscosa. Cittadine di cassette dai colori pastello, banani selvatici e gente così povera, così affamata. Persino adesso le donne cantavano gli inni e, alla luce delle candele e della chiesa incendiata, seppellivano i morti.

Eravamo soli. Molto al di là del punto dove finiva la strada, dove la foresta nascondeva le rovine d’una vecchia casa che un tempo aveva dominato la valle come una cittadella. Erano trascorsi secoli da quando i piantatori se n’erano andati, da quando avevano danzato e cantato e bevuto vino nelle stanze ora in rovina, mentre gli schiavi dormivano.

Sui muri di mattoni si arrampicavano le buganville, fluorescenti nel chiaro di luna. Tra le pietre era cresciuto un grande albero carico di fiori, e spingeva indietro con i rami nodosi le ultime travi che un tempo sostenevano il tetto.

Ah, restare lì per sempre, con lei. E dimenticare il resto. Niente morte, niente uccisioni.

Akasha sospirò e disse: «Questo è il Regno dei Cieli».

Nel minuscolo villaggio più in basso le donne scalze avevano inseguito gli uomini brandendo i bastoni. E il sacerdote del vodu aveva urlato antiche maledizioni quando l’avevano raggiunto nel cimitero. Avevo abbandonato la scena della carneficina; ero salito da solo sulla montagna. Infuriato, in fuga, incapace di continuare ad assistere a quello spettacolo.

E lei mi aveva seguito, mi aveva trovato fra quelle rovine, aggrappato a qualcosa che potevo capire. Il vecchio cancello di ferro, la campana arrugginita; le colonne di mattoni avvolte dai rampicanti; cose create da mani umane e sopravvissute. Ah, come mi aveva deriso.

La campana che aveva chiamato gli schiavi, aveva detto; quella era la dimora di coloro che avevano bagnato di sangue la terra. Perché ero stato spinto lì dagli inni delle anime semplici ed esaltate? Sarebbe stato giusto che ogni casa come quella cadesse in rovina. Avevamo litigato. Litigato davvero, come succede agli innamorati.

«È questo che vuoi?» aveva chiesto. «Non sentire mai più il sapore del sangue?»

«Era una cosa semplice, pericolosa ma semplice. Facevo ciò che facevo per restare vivo.»

«Oh, tu mi rattristi. Che menzogne. Che menzogne. Cosa devo fare perché tu capisca? Sei così egoista, così cieco?»

Avevo visto di nuovo la sofferenza sul suo volto. Il balenare della sofferenza che la umanizzava completamente, avevo teso le mani verso di lei.

E per ore eravamo rimasti abbracciati, o almeno così parve.

Adesso la pace e il silenzio. Tornai indietro dal ciglio del precipizio e l’abbracciai di nuovo. La sentii parlare mentre guardava le grandi nubi torreggiami, attraverso le quali la luna riversava la sua luce bizzarra. «Questo è il Regno dei Cieli.»

Sembrava che non importassero più che le cose semplici, come giacere insieme o sedere su una panchina di pietra. Era la felicità pura, cingerla con le braccia. E avevo bevuto di nuovo il nettare, il suo nettare, sebbene piangessi e pensassi, ah, ecco, ora vieni disciolto come una perla nell’aceto. Sei perduto, piccolo diavolo, lo sai, perduto in lei. Attendevi e li guardavi morire. Attendevi e guardavi.

«Non c’è vita senza morte», sussurrò lei. «Ora io sono la via, la via dell’unica speranza di vita senza lotta che mai potrà esistere.»

Sentii le sue labbra sulla mia bocca. Mi chiesi se avrebbe mai fatto ciò che aveva fatto nel sacrario. Ci saremmo avvinghiati nello stesso modo, prendendo il sangue l’uno dall’altra?

«Ascolta i canti nei villaggi. Puoi sentirli.»

«Sì.»

«Poi ascolta i suoni della città, molto più in basso. Sai quanti morti vi sono stati questa notte? Quanti sono stati massacrati? Sai quanti altri moriranno per mano degli uomini se non cambiamo il destino di questo posto? Se non lo innalziamo a una nuova visione? Sai per quanto tempo si è protratta questa battaglia?»

Secoli prima, ai miei tempi, era stata la colonia più ricca della corona francese. Ricca di tabacco, indaco, caffè. C’era chi vi aveva guadagnato una fortuna in una stagione. Ora il popolo spogliava la terra, si aggirava scalzo per le strade sterrate; i mitra latravano nella città di Port-au-Prince, i morti dalle camicie di cotone colorate giacevano a mucchi sul selciato. I bambini attingevano l’acqua dai fossi. Gli schiavi erano insorti, avevano vinto e avevano perso tutto.

Ma è il loro destino, il loro mondo. Sono umani.

Akasha rise sommessamente. «E noi che cosa siamo? Siamo inutili? Come giustifichiamo ciò che siamo? Come possiamo stare in disparte e assistere a ciò che non vogliamo modificare?»

«Immagino che sia sbagliato», dissi, «e che sia peggio per il mondo, e che alla fine tutto sia orrore, irrealizzabile, ineliminabile… e allora? E tutti quegli uomini nelle tombe, la terra trasformata in un cimitero, un rogo funebre. E nulla è meglio. Ed è ingiusto, ingiusto.»

«Chi ti dice che è ingiusto?»

Non risposi.

«Marius?» Com’era sprezzante la sua risata: «Non capisci che ora non vi sono più padri, adirati o no?»

«Vi sono fratelli e sorelle», dissi io. «E troviamo i nostri padri e le nostre madri gli uni negli altri, non è così?»

Un’altra risata, ma questa volta gentile.

«Fratelli e sorelle», disse Akasha. «Vorresti vedere i tuoi veri fratelli e sorelle?»

Sollevai la testa dalla sua spalla. Le baciai la guancia. «Sì, voglio vederli.» Il mio cuore batteva di nuovo convulsamente. «Ti prego», dissi mentre le baciavo la gola, gli zigomi, gli occhi chiusi. «Ti prego.»

«Bevi ancora», mormorò. Sentii il suo seno protendersi contro di me. Premetti i denti contro la sua gola e il piccolo miracolo si ripetè; la crosta che si spezzava, il nettare che sgorgava nella mia bocca.

Una grande ondata mi consumava. Non c’era più la forza di gravita, non esisteva più un tempo o un luogo. Akasha.

Poi vidi le sequoie, la casa con le luci accese, la stanza in cima alla montagna, la tavola e tutti loro, i volti riflessi nelle pareti di vetro scuro, il fuoco che danzava. Marius, Gabrielle, Louis, Armand. Sono insieme e sono salvi! Lo sto sognando? Ascoltano una donna dai capelli rossi. E io la conosco! Ho visto quella donna!

Era nel sogno delle gemelle.

Ma voglio vedere… vedere gli immortali radunati intorno al tavolo. La giovane dai capelli rossi, quella a fianco della donna: ho visto anche lei. Ma era viva, allora. Al concerto rock, in quella frenesia, l’avevo cinta con un braccio e avevo guardato nei suoi occhi folli. L’avevo baciata e avevo pronunciato il suo nome; ed era stato come se un abisso si spalancasse sotto di me, e io precipitassi nel sogno delle gemelle che non riuscivo mai a ricordare veramente. Pareti dipinte; templi.

Tutto svanì all’improvviso. Gabrielle. Madre. Troppo tardi. Mi protendevo e vorticavo nell’oscurità.

Ora hai tutti i miei poteri. Hai solo bisogno di tempo per perfezionarli. Puoi portare la morte, puoi muovere la materia, puoi scatenare il fuoco. Ora sei pronto per andare da loro. Ma lasceremo che finiscano la loro fantasticheria, i loro stupidi piani e le discussioni. Mostreremo loro ancora un po’ del nostro potere…

No, ti prego, Akasha, ti prego, andiamo da loro.

Si scostò da me; mi colpì.

Barcollai per lo choc. Tremante, raggelato, sentii la sofferenza diffondersi nelle ossa della faccia, come se le sue dita vi premessero ancora. Mi morsi le labbra, lasciai che il dolore ingigantisse e recedesse. Strinsi irosamente i pugni e non feci nulla.

Akasha si avviò sulle vecchie pietre a passi decisi, con i capelli ondeggianti sulla schiena. Poi si fermò accanto al cancello caduto, alzò leggermente le spalle e incurvò il dorso come se intendesse chiudersi in se stessa.

Le voci si levarono; raggiunsero il culmine prima che potessi fermarle. E ricaddero, come l’acqua che recede dopo una grande inondazione.

Vidi di nuovo le montagne intorno a me. Vidi la casa in rovina. Il dolore al viso era passato, ma tremavo.

Akasha si voltò a guardarmi, intensamente, con gli occhi socchiusi. «Significano tanto per te, vero? Cosa credi che faranno o diranno? Credi che Marius mi distoglierà dalla mia strada? Conosco Marius come tu non potrai mai conoscerlo. Conosco tutte le vie della sua ragione. È avido come lo sei tu. Chi credi che io sia per lasciarmi dissuadere così facilmente? Sono nata regina. Ho sempre regnato. Regnavo persino dal sacrario.» I suoi occhi si velarono. Udivo le voci, un brusio sordo. «Regnavo, sia pure nella leggenda, nelle menti di coloro che venivano da me e mi rendevano omaggio. I principi che suonavano per me e mi portavano offerte e preghiere. Cosa vuoi ora da me? Che rinunci per te al mio trono, al mio destino?»

Come potevo rispondere?

«Sai leggere nel mio cuore», dissi. «E sai che cosa voglio: che tu vada a loro e dia loro la possibilità di parlare di queste cose, come ne hai dato la possibilità a me. Loro conoscono parole che io ignoro, sanno cose che io non so.»

«Oh, Lestat, ma io non li amo. Non li amo come amo te. Quindi che cosa m’importa ciò che dicono? Non ho pazienza con loro!»

«Ma ne hai bisogno. L’hai detto tu. Come puoi incominciare, altrimenti? Intendo incominciare veramente, e non con quei villaggi arretrati; parlo delle città dove la gente opporrà resistenza. I tuoi angeli… è così che li hai chiamati.»

Scosse mestamente la testa. «Non ho bisogno di nessuno», disse. «Eccettuato… Eccettuato…» Esitò, e il suo volto si spianò per lo stupore.

Mormorai qualcosa prima di riuscire a trattenermi, in un’espressione di angoscia irresistibile. Mi parve di vedere i suoi occhi che si offuscavano, mi parve che, le voci salissero di nuovo al suo udito, e che mi guardasse senza vedermi.

«Ma vi annienterò tutti se sarà necessario», disse vagamente. I suoi occhi mi cercavano ma non mi trovavano. «Credimi, quando lo dico. Questa volta non sarò sconfìtta: vedrò realizzati i miei sogni.»

Distolsi lo sguardo da lei, oltre il cancello cadente e l’orlo accidentato del dirupo, verso la valle. Cosa avrei dato per liberarmi da quell’incubo? Sarei stato disposto a morire di mia mano? I miei occhi si riempirono di lacrime mentre guardavo i campi bui. Era vigliaccheria pensarlo; era opera mia. Per me non c’era scampo.

Lei stava immobile e ascoltava. Poi battè le palpebre, mosse le spalle come se portasse dentro un gran peso. «Perché non puoi credere in me?» chiese.

«Rinuncia!» risposi. «Abbandona tutte queste visioni.» Mi avvicinai e la presi fra le braccia. Lei alzò lo sguardo, quasi stordita. «Quello dove ci troviamo è un luogo senza tempo… e i poveri villaggi che abbiamo conquistato sono come hanno continuato a essere per migliaia di anni. Lascia che ti mostri il mio mondo, Akasha. Lascia che te ne mostri una minima parte! Vieni con me come una spia nelle città, non per distruggere ma per vedere!»

I suoi occhi s’illuminavano di nuovo; la stanchezza si spezzava. Mi abbracciò; e all’improvviso desiderai di nuovo il sangue. Non riuscivo a pensare ad altro, sebbene resistessi, sebbene piangessi per la pura debolezza della mia volontà. Lo volevo. Volevo Akasha e non riuscivo a contrastare il desiderio; ma le vecchie fantasie ritornavano, le antiche visioni in cui immaginavo di destarla, di portarla con me all’opera e ai musei e ai concerti sinfonici, nelle grandi capitali piene di tutte le cose belle e imperiture che uomini e donne avevano creato nei secoli, gli oggetti che trascendevano il male e la fallibilità dell’anima umana.

«Ma io che cosa ho a che fare con simili meschinità, amor mio?» sussurrò. «E tu vorresti insegnarmi a conoscere il tuo mondo? Ah, quale vanità! Io sono al di fuori del tempo, come lo sono sempre stata.»

Tuttavia ora mi guardava con un’espressione desolata. Angoscia, ecco ciò che vedevo in lei.

«Ho bisogno di te!» bisbigliò. E per la prima volta i suoi occhi si riempirono di lacrime.

Non lo sopportavo. Sentivo i brividi inondarmi, come sempre, nei momenti della sofferenza. Ma lei mi posò le dita sulle labbra per farmi tacere.

«Sta bene, amor mio», disse. «Andremo dai tuoi fratelli e dalle tue sorelle, se lo desideri. Andremo da Marius. Ma prima lascia che ti stringa ancora una volta al cuore. Vedi, non posso essere altro che ciò che vorrei. È questo che tu hai destato con il tuo canto; è ciò che sono!»

Volevo protestare, negare; volevo ricominciare la discussione che ci avrebbe divisi e l’avrebbe fatta soffrire. Ma non riuscivo a trovare le parole mentre la guardavo negli occhi. E all’improvviso compresi cosa stava accadendo.

Avevo trovato il modo di fermarla; avevo trovato la chiave: l’avevo sempre avuta davanti. Non era il suo amore per me, ma il suo bisogno di me, il bisogno di un alleato nel grande reame, un’anima affine, fatta della sua stessa sostanza. Aveva creduto di potermi rendere come lei, e ora sapeva che non poteva.

«Ah, ma t’inganni», disse con gli occhi pieni di lacrime. «Sei soltanto giovane e spaventato.» Sorrise. «Tu appartieni a me. E se così dovrà essere, mio principe, ti annienterò.»

Non parlai. Non potevo. Sapevo che cosa avevo visto; lo sapevo anche se lei non poteva accettarlo. Non era mai stata sola, in tutti questi secoli di silenzio. Oh, non era una cosa semplice come Enkil al suo fianco, o Marius che veniva a deporre offerte davanti a lei. Era qualcosa di più profondo, infinitamente più importante: non aveva mai combattuto da sola una guerra della ragione con quelli che le stavano intorno!

Le lacrime le scorrevano sulle guance. Due violente striature rosse. La sua bocca era socchiusa, le sopracciglia contratte, sebbene il suo volto continuasse a essere radioso.

«No, Lestat», disse di nuovo. «Hai torto. Ma ormai dobbiamo andare fino in fondo. Se devono morire tutti, affinchè ti aggrappi a me, così sia.» Aprì le braccia.

Volevo indietreggiare, volevo inveire contro di lei e contro le sue minacce. Ma non mi mossi mentre si avvicinava.

Qui; la calda brezza dei Caraibi; le sue mani che si muovevano sulla mia schiena; le sue dita che si insinuavano tra i miei capelli. Il nettare che fluiva di nuovo in me e mi inondava il cuore. E poi le sue labbra sulla mia gola, la trafittura improvvisa dei suoi denti. Sì! Com’era avvenuto nel sacrario tanto tempo prima, sì! Il suo sangue e il mio sangue. E il rombo assordante del suo cuore, sì! Era l’estasi, e tuttavia non potevo cedere. Non potevo, e lei lo sapeva.

8. LA STORIA DELLE GEMELLE [conclusione]

Trovammo il palazzo esattamente come lo ricordavamo, o forse solo un po’ più lussuoso, perché arricchito dal bottino di altre terre conquistate. Altri drappi d’oro e dipinti ancora più vividi, e un numero doppio di schiavi come se fossero semplici ornamenti, con i corpi nudi carichi d’oro e gemme.

«Fummo accompagnate in una cella reale, con sedie e tavole eleganti, e uno splendido tappeto, e ci furono portati piatti di carne e di pesce.

«Al tramonto udimmo le acclamazioni di quando il re e la regina apparvero nel palazzo: tutta la corte andò a rendere omaggio, cantando inni alla bellezza della loro carnagione pallida, dei loro capelli splendenti e dei corpi che erano miracolosamente risanati dopo l’aggressione dei cospiratori. E tutto il palazzo echeggiava di quei canti di lode.

«Ma quando lo spettacolo finì, fummo accompagnate nella camera da letto della coppia reale, e per la prima volta, nella luce fioca delle lampade lontane, vedemmo la trasformazione con i nostri occhi.

«Vedemmo due esseri pallidi e magnifici, simili in ogni particolare a ciò che erano stati da vivi; tuttavia emanavano una strana luminescenza, e la loro pelle non era più tale, come le loro menti non appartenevano più, interamente, a loro. Tuttavia erano splendidi. Come potete immaginare tutti. Ah, sì, splendidi come se la luna fosse discesa dal cielo e li avesse modellati con la sua luce. Stavano fra i mobili d’oro, drappeggiati di stoffe preziose, e ci guardavano con occhi che rifulgevano come ossidiana. Poi, con voce completamente diversa che sembrava sfumata dalla musica, il re parlò.

«‘Khayman vi ha detto, ciò che vi è accaduto. Avete davanti a voi i beneficiari di un grande miracolo, perché abbiamo trionfato sulla morte certa. Ora abbiamo trasceso i limiti e le esigenze degli esseri umani; e vediamo e comprendiamo cose che prima ci erano nascoste.’

«Ma la rigidità della regina cedette immediatamente, ed ella disse con un sibilo: ‘Dovete spiegarci tutto questo! Che cos’ha fatto il vostro spirito?’

«Eravamo più che mai in pericolo di fronte a quei mostri. Cercai di trasmettere l’avvertimento a Mekare, ma la regina rise. ‘Credi che non sappia cosa stai pensando?’ chiese.

«Il re l’implorò di tacere. ‘Lascia che le streghe usino i loro poteri’, disse. ‘Sapete che vi abbiamo sempre riverite.’

«‘Sì’, osservò irridente la regina. ‘E voi ci avete mandato questa maledizione.’

«Subito giurai che non era opera nostra e che avevamo mantenuto l’impegno dopo aver lasciato il reame, quando eravamo tornate a casa nostra. E mentre Mekare li studiava in silenzio, li implorai di comprendere che, se lo spirito aveva fatto una cosa simile, l’aveva fatto per proprio capriccio.

«‘Capriccio!’ esclamò la regina. ‘Cosa intendi con questa parola? Che cosa ci è accaduto? Che cosa siamo?’ chiese di nuovo. Poi aggricciò le labbra per mostrare i denti. Vedemmo le zanne, minuscole e acuminate come coltelli. Anche il re ci rivelò lo stesso mutamento.

«‘Per succhiare meglio il sangue’, mormorò. ‘Sapete cos’è per noi questa sete? Non riusciamo a saziarla, quattro uomini muoiono ogni notte per nutrirci, tuttavia andiamo a letto torturati dalla sete.’

«La regina si strappava i capelli come se stesse per urlare. Ma il re le posò la mano sul braccio. ‘Consigliateci, Mekare e Maharet’, disse. ‘Perché vogliamo comprendere questa trasformazione e sapere come può essere usata a fin di bene.’

«‘Sì’, disse la regina, cercando di riprendersi. ‘Perché sicuramente una cosa simile non può accadere senza ragione…’ Poi tacque, poco convinta. Sembrava che la sua meschina visione pratica delle cose, sempre in cerca di giustificazioni, fosse completamente crollata, mentre il re si aggrappava alle illusioni come fanno spesso gli uomini fino a che giungono molto avanti negli anni.

«Quando tacquero entrambi, Mekare si avvicinò e posò le mani sulle spalle del re e chiuse gli occhi. Quindi posò le mani sulla regina, nello stesso modo, sebbene la regina la guardasse con un’espressione colma di veleno.

«‘Spiegaci’, disse Mekare guardandola, ‘che cosa accadde in quel momento. Che cosa ricordi? Che cosa vedesti?’

«La regina taceva, cupa e sospettosa. Per la verità, la sua bellezza era esaltata dalla trasformazione; tuttavia c’era in lei qualcosa di ripugnante come se ora non fosse più il fiore, ma una copia del fiore, realizzata in cera bianca. E mentre rifletteva, assumeva un’aria tetra e feroce. Istintivamente mi accostai a Mekare, per cercare di proteggerla.

«Ma la regina parlò: ‘Erano venuti per ucciderci, i traditori! Intendevano indicare come colpevoli gli spiriti: era il loro piano, per tornare a mangiare di nuovo la carne delle madri e dei padri, e la carne di coloro che amavano cacciare. Entrarono nella casa e mi trafissero con i pugnali, sebbene fossi la loro regina’. Tacque come se vedesse di nuovo quella scena. ‘Caddi sotto i loro colpi, mentre mi trafiggevano con i pugnali. Non si può sopravvivere a simili ferite; e quando caddi sapevo d’essere morta! Capite quel che sto dicendo? Sapevo che nulla poteva salvarmi. Il mio sangue sgorgava sul pavimento.

«‘Ma mentre lo vedevo formare una pozza davanti a me, mi accorsi che non ero nel mio corpo straziato, che l’avevo già abbandonato, e la morte mi aveva presa e mi stava trascinando verso l’alto, come attraverso un grande tunnel verso un luogo dove non avrei più sofferto!

«‘Non avevo paura; non sentivo nulla. Abbassai lo sguardo e mi vidi distesa nella piccola casa, pallida e coperta di sangue. Ma non m’importava. Ero libera. All’improvviso qualcosa mi afferrò, afferrò il mio essere invisibile! Il tunnel era scomparso; ero presa in una grande rete, simile a quella d’un pescatore. Spinsi con tutte le mie forze: cedeva ma senza spezzarsi e mi tratteneva e mi impediva di continuare l’ascesa.

«‘Quando tentai di urlare, ero di nuovo nel mio corpo! Sentivo la sofferenza delle ferite come se le lame mi trafiggessero di nuovo. Ma la rete, la grande rete, continuava a tenermi; e anziché essere infinita come prima, adesso era contratta in una tessitura più fitta, come un gran velo di seta.

«‘E tutto intorno a me questa rete, visibile eppure invisibile, turbinava come se fosse un vento e mi trascinava. Il sangue sgorgava dalle ferite e scorreva nella trama del velo come in un qualunque tessuto.

«‘E ciò che prima era trasparente, adesso era intriso di sangue. E vidi una cosa mostruosa, informe, colossale e soffusa di quel sangue, ma dotata di un’altra proprietà: un centro. Sembrava un minuscolo centro bruciante che era in me e si scatenava nel mio corpo come un animale spaventato. Mi scorreva nelle membra e martellava e palpitava, come un cuore dalle gambe scalpitanti. Si aggirava nel mio ventre, mentre io mi graffiavo: avrei voluto dilaniarmi pur di estromettere quella cosa!

«‘Sembrava che la gran parte invisibile, la nebbia di sangue che mi circondava e mi avviluppava, fosse controllata dal centro minuscolo che si attorceva qua e là e saettava dentro di me, mi scorreva nelle mani per un momento, e un attimo dopo era nei miei piedi. Sfrecciava lungo la spina dorsale.

«‘Sarei morta, sarei sicuramente morta, pensavo. Poi venne un momento di cecità! Silenzio. Mi aveva uccisa, ne ero certa. Avrei dovuto ascendere di nuovo, no? Invece aprii gli occhi all’improvviso: mi sollevai a sedere come se gli assalitori non mi avessero abbattuta, e vidi con immensa chiarezza! Khayman, con la torcia accesa in mano! Gli alberi del giardino… oh, era come se non avessi mai visto quelle cose semplici per ciò che erano realmente! Il dolore era sparito, in me e nelle ferite. Soltanto la luce mi straziava gli occhi. Non potevo sopportarne il fulgore. Tuttavia ero stata strappata alla morte; il mio corpo era stato glorificato e reso perfetto. Tuttavia…’ E a questo punto s’interruppe.

«Akasha guardava davanti a sé, indifferente per un momento. Quindi soggiunse: ‘Khayman vi ha detto tutto il resto’. Fissò il re che le stava accanto e la scrutava cercando di comprendere ciò che lei aveva detto, come lo cercavamo noi.

«‘Il vostro spirito’, disse la regina. ‘Ha tentato di annientarci. Ma è accaduto qualcosa d’altro; una grande forza è intervenuta per trionfare sul suo male diabolico.’ Di nuovo la convinzione l’abbandonò. Le menzogne si arrestarono sulla sua lingua. Il volto era freddo, minaccioso. Disse dolcemente: ‘Parlate, streghe, sagge streghe. Voi che conoscete tutti i segreti. Quale nome date a ciò che siamo?’

«‘Mekare sospirò e mi guardò. Sapevo che non voleva parlare. Ricordava l’ammonimento degli spiriti. Il re e la regina d’Egitto ci avrebbero fatto certe domande e non avrebbero gradito le nostre risposte. Ci avrebbero uccise…

«Poi la regina ci voltò le spalle. Sedette e chinò la testa. Solo allora divenne evidente la sua tristezza. Il re sorrise stancamente. ‘Noi soffriamo, streghe’, disse. ‘Potremmo sopportare il peso della trasformazione solo se la comprendessimo meglio. Voi, che avete rapporti con tutte le cose invisibili, diteci cosa sapete di questa magia; aiutateci, perché sapete che non abbiamo mai avuto intenzione di farvi del male, ma solo di diffondere la verità e la legge.’

«Non ci soffermammo sulla stupidità di una tale affermazione… la virtù di diffondere la verità per mezzo dei massacri. Mekare, tuttavia, invitò il re a dire ciò che riusciva a ricordare.

«Il re parlò di cose che voi tutti conoscete: stava morendo; aveva assaporato il sangue della moglie che gli copriva la faccia; e il suo corpo aveva ripreso vita e aveva desiderato quel sangue, e l’aveva preso dalla moglie che glielo donava; quindi era diventato come lei. Ma per il re non c’era stata la misteriosa nube di sangue, né altro. ‘La sete è insopportabile’, ci disse. ‘Insopportabile.’ E chinò a sua volta la testa.

«Restammo a guardarci in silenzio per un momento, io e Mekare. Come sempre, Mekare parlò per prima.

«‘Non possiamo dare un nome a ciò che siete diventati perché non lo conosciamo’, disse. ‘Non sappiamo che al mondo sia mai accaduta una cosa simile. Ma è abbastanza chiaro quel che è successo.’ Fissò gli occhi della regina. ‘Quando ti sei accorta di morire, la tua anima ha cercato di sottrarsi in fretta alle sofferenze, come fanno spesso le anime. Ma mentre ascendeva lo spirito Amel l’ha afferrata; era invisibile come la tua anima; e nel corso normale delle cose tu avresti potuto vincere facilmente questa entità legata alla terra e proseguire verso i regni sconosciuti.

«‘Ma questo spirito aveva operato già da molto tempo un cambiamento in se stesso, un cambiamento del tutto nuovo: aveva assaporato il sangue degli uomini che aveva punzecchiato o tormentato, come tu stessa l’hai visto fare. E il tuo corpo, giacente e pieno di sangue nonostante le molte ferite, era ancora vivo.

«‘Perciò lo spirito assetato è piombato nel tuo corpo, e la sua forma invisibile si è legata alla tua anima.

«‘Avresti potuto ancora trionfare, lottando con l’essere maligno come fanno spesso gli invasati. Ma il minuscolo nucleo dello spirito, la cosa di materia che è il centro ruggente di tutti gli spiriti, e dal quale traggono la loro infinita energia, all’improvviso si è riempito di sangue come mai era avvenuto in passato.

«‘E così la fusione del sangue e del tessuto eterno si è ingigantita e accelerata un milione di volte: il sangue ha incominciato a fluire in tutto il suo corpo, materiale e immateriale, e questa era la nube di sangue che hai veduto.

«‘Ma la cosa più significativa è la sofferenza che hai provato, la sofferenza che si diffondeva nelle tue membra. Perché, sicuramente come la morte inevitabile veniva al tuo corpo, il minuscolo nucleo dello spirito si è fuso con la tua carne, nello stesso modo in cui la sua energia s’era già fusa con la tua anima. Ha trovato un organo o un luogo in cui la materia si è unita alla materia come lo spirito si era già unito allo spirito. E così si è formata una cosa nuova.’

«‘Il suo cuore e il mio cuore’, mormorò la regina. ‘Sono divenuti una cosa sola.’ Chiuse gli occhi e si portò una mano al seno.

«Non dicemmo nulla perché questa sembrava una semplificazione, e noi non credevamo che il cuore fosse il centro dell’intelletto o del sentimento. Per noi era il cervello che controllava queste cose. E in quel momento io e Mekare rivivemmo un ricordo terribile, il cuore e il cervello di nostra madre buttati a terra e calpestati nelle ceneri e nella polvere.

«Tuttavia lottammo contro il ricordo. Era inammissibile che quella sofferenza dovesse essere vista da coloro che ne erano stati la causa.

«Il re ci rivolse una domanda. ‘Sta bene’, disse, ‘avete spiegato cos’è accaduto ad Akasha. Lo spirito è in lei, forse con il nucleo saldato al nucleo. Ma che cosa è in me? Non ho sentito sofferenza, né l’agitarsi del demone. Ho sentito… Ho sentito soltanto la sete, quando le sue mani insanguinate hanno toccato le mie labbra.’ E guardò la moglie.

«La vergogna e l’orrore che provavo per quella sete erano evidenti.

«‘Ma lo stesso spirito è anche in te’, rispose Mekare. ‘Amel è uno solo. Il suo nucleo è nella regina, ma è anche in te.’

«‘Com’è possibile?’ chiese il re.

«‘L’essere ha una grande parte invisibile’, disse Mekare. ‘Se l’avessi visto nella sua interezza, prima di questa catastrofe, avresti visto qualcosa di quasi infinito.’

«‘Sì’, confessò la regina. ‘Era come se una rete coprisse l’intero cielo.’

«Mekare spiegò: ‘È solo concentrando quelle forme immense che gli spiriti conseguono la forza fisica. Lasciati a se stessi, sono come le nuvole che si estendono all’orizzonte, o addirittura più grandi; ogni tanto si sono vantati con noi di non aver confini, anche se probabilmente non è la verità.’

«Il re guardava la moglie.

«‘Ma com’è possibile allontanarlo?’ chiese Akasha.

«Noi due non volevamo rispondere. Ci sorprendeva che la risposta non fosse ovvia per entrambi. ‘Distruggi il tuo corpo’, disse finalmente Mekare alla regina. ‘E anche lo spirito sarà distrutto.’

«Il re la fissò incredulo. ‘Distruggere il suo corpo!’ Si girò a guardare la moglie, disperato.

«Ma Akasha si limitò a sorridere amaramente. Quelle parole non la sorprendevano. Per un momento non disse nulla; si limitò a guardarci con odio, quindi guardò il re. Quando guardò noi, fece la domanda: ‘Noi siamo morti, non è vero? Non possiamo vivere se ci abbandona. Non mangiamo, non beviamo se non il sangue che lo spirito desidera. I nostri corpi non espellono più rifiuti; non siamo cambiati minimamente dopo quella notte spaventosa ma non siamo più vivi’.

«Mekare non rispose. Sapevo che li studiava e si sforzava di vedere le loro forme, non come le avrebbe viste un umano, ma come una strega; lasciava che la quiete e il silenzio si addensassero intorno a loro per poter osservare gli aspetti impercettibili che sfuggivano agli sguardi normali. Andò in trance, mentre guardava e ascoltava. Quando parlò, la sua voce era spenta.

«‘Sta intervenendo sul vostro corpo, come il fuoco interviene sul legno che consuma e come i vermi intervengono sulla carcassa d’animale. La sua opera è inevitabile; è la continuazione della fusione avvenuta; e il sole lo ferisce, perché usa tutta la sua energia per fare ciò che deve e non sopporta il calore del sole che l’investe.’

«‘E neppure la luce viva di una torcia’, sospirò il re.

«‘A volte neppure la fiamma di una candela’, disse la regina.

«‘Sì’, disse Mekare, scuotendosi dalla trance. ‘E siete morti’, soggiunse in un sussurro. ‘Eppure siete vivi! Se le ferite si sono rimarginate come hai detto, se hai risanato il re, allora forse hai sconfitto la morte, sempre che non ti avventuri sotto i raggi ardenti del sole.’

«‘No, questo non può continuare!’ disse il re. ‘La sete, voi non sapete quanto è terribile la sete.’

«Ma la regina sorrise di nuovo con la stessa amarezza. ‘Questi non sono più corpi viventi. Sono ospiti per il demone.’ Le tremavano le labbra mentre ci guardava. ‘Altrimenti, noi siamo veramente divinità!’

«‘Rispondete, streghe!’ disse il re. ‘È possibile che ora siamo essere divini, benedetti dai doni comuni solo agli dèi?’ Sorrideva mentre pronunciava queste parole; era ciò che desiderava credere. ‘Non è possibile che quando il vostro demone ha cercato di annientarci, i nostri dèi siano intervenuti?’

«Una luce maligna brillava negli occhi della regina. L’idea le piaceva, ma non lo credeva… non esattamente.

«Mekare mi guardò. Voleva che io mi avvicinassi e li toccassi come aveva già fatto. Voleva che li guardassi come lei li aveva guardati. C’era qualcosa d’altro che desiderava dire; tuttavia non ne era sicura. Io avevo poteri istintivi un po’ più forti, sebbene fossi meno dotata di lei per quanto riguardava le parole.

«Mi accostai. Toccai la loro pelle bianca sebbene mi ispirasse ripugnanza, come loro stessi me l’ispiravano per tutto ciò che avevano fatto alla nostra gente e a noi. Li toccai, quindi mi scostai e li guardai, e vidi l’opera di cui aveva parlato Mekare. Udivo addirittura il turbinare instancabile dello spirito. Imposi il silenzio alla mia mente, la sgombrai da preconcetti e paure, e mentre discendeva in me la calma della trance, mi decisi a parlare: «‘Vuole altri esseri umani’, dissi. Guardai Mekare. Era ciò che aveva sospettato.

«‘Noi gli offriamo tutti quelli che possiamo!’ esclamò la regina. E il rossore della vergogna riapparve sulle guance pallide. Anche il volto del re si colorò. E compresi allora, come lo comprese Mekare, che quando bevevano il sangue conoscevano l’estasi. Non avevano mai conosciuto un simile piacere, né nel loro letto, né al tavolo dei banchetti, e neppure quando erano ebbri di birra o di vino. Quella era la causa della vergogna. Non era per l’uccisione ma per il nutrimento mostruoso. E il piacere. Ah, erano una degna coppia!

«Ma mi avevano fraintesa. ‘No’, spiegai. ‘Vuole altri come voi, vuole impossessarsi d’altri per farne bevitori di sangue come ha fatto con il re; è troppo immenso per essere contenuto in due piccoli corpi umani. La sete diverrà sopportabile solo quando ne creerete altri che divideranno con voi questo peso.’

«‘No!’ urlò la regina. ‘Questo è impensabile!’

«‘Sicuramente non può essere così semplice’, dichiarò il re. ‘Entrambi siamo stati creati in un unico, terribile istante, mentre i nostri dèi facevano guerra al demone… probabilmente mentre i nostri dèi facevano guerra e vincevano.’

«‘Non lo credo’, dissi.

«‘Tu affermi’, chiese la regina, ‘che se nutriamo altri con questo sangue, anch’essi saranno contagiati?’ Ma ora ricordava ogni dettaglio della catastrofe. Il marito morente, con il cuore che non batteva più, e il sangue che gli sgocciolava nella bocca.

«‘Ma io non ho sangue sufficiente per una cosa simile!’ dichiarò. ‘Io sono soltanto ciò che sono? Poi pensò alla sete e a tutti i corpi che l’avevano servita.

«E ci rendemmo conto dell’ovvio: aveva succhiato il sangue del marito prima che lui lo riprendesse; e così tutto si era compiuto. Il re s’era trovato in punto di morte, estremamente ricettivo, con lo spirito che stava per liberarsi ed era pronto a venire incatenato dai tentacoli invisibili di Amel.

«Naturalmente entrambi lesserò quei pensieri.

«‘Io non credo a ciò che dici’, esclamò il re. ‘Gli dèi non lo permetterebbero. Noi siamo il re e la regina di Kemet. Peso o benedizione, questa magia è destinata a noi.’

«Vi fu un momento di silenzio. Poi riprese a parlare, con grande sincerità. ‘Non capite, streghe? Era destino. Eravamo destinati a invadere la vostra terra, a portare qui voi e questo demone, affinchè ciò accadesse. Noi soffriamo, è vero, ma ora siamo dèi; questo è un fuoco sacro, e dobbiamo rendere grazie per ciò che ci è accaduto.’

«Cercai di trattenere Mekare perché non parlasse; le strinsi forte la mano. Ma già sapevano cosa intendeva dire. La sua convinzione li sconvolgeva.

«‘Molto probabilmente potrebbe trasmettersi a chiunque’, disse, ‘se le condizioni si ripetessero, se l’uomo o la donna fosse debole e morente in modo che Amel potesse stabilire il suo dominio.’

«Ci fissarono in silenzio. Il re scosse la testa. La regina distolse lo sguardo, disgustata. Ma poi il re sussurrò: ‘Se è così, allora altri possono cercare di toglierlo a noi!’

«‘Oh, sì’, mormorò Mekare. ‘Se li rendesse immortali, lo farebbero sicuramente. Infatti, chi non vorrebbe vivere in eterno?’

«Il volto del re si trasformò. Incominciò a camminare avanti e indietro. Guardò la moglie che aveva gli occhi sbarrati come se fosse sul punto d’impazzire e le disse con grande prudenza: ‘Allora sappiamo ciò che dobbiamo fare. Non possiamo generare una razza di simili mostri! Lo sappiamo!’

«Ma la regina si tappò gli orecchi con le mani e incominciò a urlare. Prese a singhiozzare e finalmente a gridare in preda alla sofferenza, con le dita contratte mentre levava lo sguardo verso il soffitto.

«Io e Mekare ci ritirammo in un angolo della camera e ci stringemmo l’una all’altra. Poi Mekare incominciò a tremare e a piangere, e io sentii le lacrime salirmi agli occhi.

«‘Siete state voi a farmi questo!’ ruggì la regina, e non avevamo mai udito una voce umana raggiungere un simile volume. E mentre infuriava e fracassava tutto ciò che c’era nella stanza, vedemmo in lei la forza di Amel, perché faceva ciò che nessun umano avrebbe potuto fare. Scagliava gli specchi contro il soffitto e i mobili dorati andavano in frantumi sotto i suoi pugni. ‘Che siate maledette e possiate finire in eterno negli inferi tra i demoni e le belve, per ciò che ci avete fatto!’ urlò. ‘Abominio! Streghe! Voi e il vostro demone! Dite che non siete state voi a mandarlo. Ma l’avete fatto nei vostri cuori. Avete mandato questo demone! E il demone ha letto nei vostri cuori, come lo leggo io ora, che ci auguravate questo male!’

«Ma il re la prese fra le braccia, la convinse a tacere e la baciò, e lasciò che singhiozzasse contro il suo petto.

«Finalmente Akasha si staccò da lui. Ci fissò con gli occhi colmi di sangue. ‘Mentite!’ disse. ‘Mentite come i vostri demoni hanno mentito! Pensate che potesse accadere una cosa simile se non era destino che accadesse?’ Si rivolse al re. ‘Oh, non capisci? Siamo stati sciocchi ad ascoltare queste mortali che non possiedono i nostri poteri! Ah, ma noi siamo giovani divinità, e dobbiamo sforzarci di apprendere i disegni del cielo. E sicuramente il nostro destino è chiaro: lo vediamo nei doni che ci appartengono.’

«Non reagimmo alle sue parole. Mi sembrava, almeno per qualche momento, che fosse una fortuna che lei potesse credere a simili assurdità. Perché io potevo credere soltanto che Amel il maligno, Amel lo stupido, lo spirito idiota, fosse incappato in quella fusione disastrosa e che forse il mondo intero fosse condannato a pagarne il prezzo. Ricordai il monito di mia madre. Ricordai tutte le nostre sofferenze. E poi fui travolta da tali pensieri, dal desiderio di veder annientati il re e la regina, che dovetti coprirmi la testa con le mani e scuotermi e cercare di svuotarmi la mente per non dover affrontare la loro collera.

«Ma la regina non prestava attenzione a noi; si limitò a urlare alle guardie che dovevano farci prigioniere e che l’indomani ci avrebbe giudicate davanti a tutta la corte.

«All’improvviso ci catturarono; e mentre Akasha dava gli ordini a denti stretti, i soldati ci trascinarono via brutalmente e ci gettarono in una cella buia come prigioniere comuni.

«Mekare mi abbracciò e mormorò che fino al sorgere del sole non dovevamo pensare a nulla che potesse causarci danno; dovevamo cantare le vecchie canzoni e camminare avanti e indietro, per evitare persino i sogni che avrebbero offeso il re e la regina. Era spaventata a morte.

«Non avevo mai visto Mekare tanto impaurita. Era sempre lei a incollerirsi, mentre io mi trattenevo pensando alle cose più terribili.

«Ma quando venne l’alba, quando fu sicura che il re e la regina si fossero chiusi nel rifugio segreto, scoppiò in pianto.

«‘Sono stata io, Maharet’, mi disse. ‘Sono stata io a mandarlo contro quei due. Avevo tentato di non farlo, ma Amel ha letto nel mio cuore. È accaduto esattamente come ha detto la regina.’

«Non finiva più di recriminare. Era stata lei a parlare ad Amel, a dargli forza, a incitarlo e a tener vivo il suo interesse; quindi aveva desiderato che si scatenasse contro gli egizi, e lo spirito l’aveva saputo.

«Cercai di confortarla. Le dissi che nessuno poteva controllare i propri sentimenti, che Amel ci aveva salvato la vita una volta, che nessuno poteva comprendere certi bivi, certe scelte terribili; e ora dovevamo bandire ogni rimorso e volgere lo sguardo al futuro. Come potevamo liberarci? Come potevamo costringere quei mostri a lasciarci andare? I nostri spiriti buoni ormai non potevano più spaventarli. Dovevamo riflettere e far piani. Dovevamo fare qualcosa.

«Finalmente avvenne ciò che avevo sperato in segreto: Khayman venne da noi. Era ancora più magro e più scavato del solito.

«‘Credo che siate spacciate’, ci disse. ‘Il re e la regina nutrono forti dubbi in merito a ciò che avete detto, e prima del mattino sono andati a pregare al tempio di Osiride: non potete dar loro una speranza di riscatto? La speranza che questo orrore possa aver fine?’

«‘Khayman, una speranza c’è’, sussurrò Mekare. ‘Gli spiriti mi sono testimoni: non dico che tu debba farlo, mi limito a rispondere alla tua domanda. Se vuoi porre fine a tutto ciò, annienta il re e la regina. Scopri il loro nascondiglio e lascia che il sole li raggiunga, il sole che non sopportano.’

«Ma Khayman era atterrito dall’idea di un simile tradimento. Poi sospirò e disse: ‘Ah, mie care streghe, ho visto tali orrori, eppure non oso farlo.’

«Le ore passarono tra grandi sofferenze, poiché eravamo certe che saremmo state messe a morte. Tuttavia non eravamo pentite di ciò che avevamo detto o fatto. Mentre giacevamo abbracciate al buio, cantavamo le canzoni della nostra infanzia, le canzoni di nostra madre. Io pensavo alla mia bambina e cercavo di andare a lei, d’innalzarmi in spirito da quel luogo per starle vicina; ma senza la pozione della trance mi era impossibile. Udimmo la moltitudine cantare gli inni all’avvicinarsi del re e della regina. I soldati vennero a prenderci e ci condussero ancora una volta nel grande cortile del palazzo. Là dove Khayman ci aveva disonorate. Fummo condotte con le mani legate, davanti agli stessi spettatori.

«Questa volta, tuttavia, era notte, e le lampade ardevano fioche sotto le arcate; una luce maligna brillava sui fiori di loto delle colonne e sulle figure dipinte che coprivano le pareti. Il re e la regina salirono sul podio e tutti i presenti caddero in ginocchio; i soldati ci costrinsero a fare altrettanto. Quindi la regina incominciò a parlare.

«Con voce fremente, disse ai sudditi che eravamo streghe mostruose, e avevamo scatenato nel regno il demone che aveva perseguitato Khayman e aveva tentato di affliggere gli stessi sovrani. Ma il gran dio Osiride, il più antico fra gli dèi e ancora più forte del dio Ra, aveva sconfitto la forza diabolica e aveva assurto alla gloria celeste il re e la regina.

«Ma il gran dio non poteva essere clemente con le streghe che tanto avevano afflitto il suo amato popolo, e chiedeva che non vi fosse misericordia.

«‘Mekare, per le tue menzogne malefiche e i tuoi rapporti con i demoni’, disse la regina, ‘ti sarà strappata la lingua. E tu, Maharet, per il male che hai cercato di mostrarci, ti saranno strappati gli occhi! E per tutta la notte resterete legate insieme, in modo che ognuna senta piangere l’altra, una incapace di parlare, l’altra di vedere. E domani a mezzogiorno, sulla pubblica piazza davanti al palazzo, sarete bruciate vive alla presenza del popolo.

«‘Perché il male non prevarrà sugli dèi d’Egitto e sul re e sulla regina, da loro prescelti. Perché gli dèi ci guardano con benevolenza e favore, e perché noi siamo in terra come il re e la regina del Cielo, il nostro destino vale quello del bene comune!’

«Rimasi senza fiato nell’udire la condanna: la paura e l’angoscia erano indicibili. Ma Mekare gettò un grido di sfida. Si svincolò dai soldati e si fece avanti. I suoi occhi erano come stelle mentre parlava. E tra i mormoni sgomenti dei cortigiani, annunciò: ‘Gli spiriti mi siano testimoni, perché possiedono la conoscenza del futuro… di ciò che sarà e di ciò che io voglio! Tu sei la Regina dei Dannati, ecco che cosa sei! Il tuo unico destino è il male, e lo sai! Ma io ti fermerò, a costo di dover tornare dalla morte per riuscirvi. Nell’ora della minaccia più grande sarò io a sconfiggerti! Sarò io ad abbatterti! Guardami bene in faccia, perché mi rivedrai!’

«Non appena ebbe pronunciato questo giuramento, questa profezia, gli spiriti si radunarono e suscitarono un turbine di vento. Le porte del palazzo si spalancarono e le sabbie del deserto oscurarono l’aria.

«I cortigiani urlarono atterriti.

«Ma la regina gridò ai suoi soldati: ‘Strappatele la lingua come ho comandato!’ E mentre i cortigiani si aggrappavano atterriti ai muri, i soldati avanzarono, afferrarono Mekare ed eseguirono l’ordine.

«Assistetti in preda a un gelido orrore; la sentii gemere. Poi, con furia sorprendente, Mekare li respinse con le mani legate, si gettò in ginocchio, raccolse la lingua insanguinata e l’inghiottì prima che potessero calpestarla o gettarla via.

«Poi i soldati mi afferrarono.

«Le ultime cose che vidi furono Akasha con l’indice puntato e gli occhi scintillanti, poi il viso straziato di Khayman, con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. I soldati mi afferrarono la testa, sollevarono le palpebre e mi tolsero la vista, mentre piangevo in silenzio.

«All’improvviso sentii una mano calda stringermi, sentii qualcosa contro le mie labbra. Khayman aveva i miei occhi e me li premeva contro la bocca. Subito li inghiottii perché non fossero profanati e non andassero perduti.

«Il vento divenne più forte. La sabbia turbinava intorno a noi. Sentivo i cortigiani correre in tutte le direzioni, tossendo e ansando e gridando, mentre la regina invitava alla calma. Mi voltai, cercai a tentoni Mekare, e la sentii appoggiare la testa sulla mia spalla, i capelli contro la mia guancia.

«‘Ora bruciatele!’ ordinò il re.

«‘No, è troppo presto’, disse la regina. ‘Lascia che soffrano ancora.’

«Ci portarono via e ci gettarono sul pavimento della piccola cella.

«Per ore gli spiriti infuriarono nel palazzo, ma il re e la regina confortarono i sudditi e li rassicurarono. L’indomani a mezzogiorno il male sarebbe stato scacciato dal regno; fino a quel momento gli spiriti potevano fare ciò che volevano.

«Finalmente ritornò il silenzio. Sembrava che nessuno si muovesse nel palazzo, tranne il re e la regina. Persino le nostre guardie dormivano.

«Sono le ultime ore della mia vita, pensai. E domattina la sofferenza di mia sorella sarà più grande della mia perché mi vedrà bruciare mentre io non potrò vederla, e non potrà neppure gridare. Tenni abbracciata Mekare che mi appoggiò la testa sul cuore. E così trascorsero i minuti.

«Alla fine, quando dovevano mancare circa tre ore al mattino, udii un rumore fuori dalla cella. Stava accadendo qualcosa di violento; la guardia gettò un grido e cadde. Era stata uccisa, Mekare si scosse. Sentii la serratura aprirsi, i cardini scricchiolare. Poi mi parve di udire un gemito di Mekare.

«Qualcuno era entrato nella cella e l’istinto mi diceva che era Khayman. Quando tagliò le corde che ci legavano, gli afferrai la mano. Istintivamente pensai: questo non è Khayman! E poi compresi: ‘Hanno compiuto la loro opera su di te!’

«‘Sì’, rispose, con voce colma di collera e di amarezza. Un suono nuovo vi si era insinuato, un suono inumano. ‘Sono stati loro! L’hanno fatto per avere la prova, per accertare se avevate detto la verità. Hanno trasfuso il male anche in me.’ Mi sembrava che singhiozzasse dal profondo del petto. Tuttavia sentivo la forza immensa delle sue dita; mi faceva male alla mano, sebbene non volesse.

«‘Oh, Khayman’, dissi piangendo. ‘Un simile tradimento da parte di coloro che avevi servito così bene!’

«‘Ascoltatemi, streghe’, disse Khayman con voce gutturale e pieno di rabbia. ‘Volete morire domani tra il fumo e le fiamme davanti a una popolazione ignorante, oppure volete lottare contro questo male? Volete essere le loro nemiche su questa terra? Che cosa ferma la forza dei potenti, se non una forza eguale? Chi arresta un guerriero se non un altro egualmente poderoso? Streghe, se loro hanno fatto questo a me, non posso farlo io a voi?’

«Indietreggiai, ma Khayman non mi lasciò, non sapevo se era possibile. Ma sapevo che non volevo.

«‘Maharet’, disse Khayman, ‘il re e la regina creeranno una razza di accoliti devoti a meno che vengano sconfitti; e chi può sconfiggerli se non altri potenti quanto loro?’

«‘No, preferirei morire’, disse. Tuttavia pensai alle fiamme che mi attendevano. Ma no, era imperdonabile. Domani avrei raggiunto mia madre; avrei lasciato per sempre il mondo e nulla avrebbe potuto indurrai a rimanere.

«‘E tu, Mekare?’ lo sentii dire. ‘Vuoi realizzare la tua maledizione, oppure morire e affidarla agli spiriti che ti hanno delusa fin dall’inizio?’

«Il vento si levò di nuovo e ululò intorno al palazzo. Sentii sbattere le porte esterne, sentii la sabbia gettata contro i muri. I servitori correvano nelle stanze lontane, i dormienti si alzavano dal letto. Sentivo i lamenti ultraterreni degli spiriti che più amavo.

«Taci’, gli dissi, ‘non lo farò. Non aprirò la porta a questo male.’

«Ma mentre stavo inginocchiata contro la parete e mi dicevo che dovevo trovare il coraggio di morire, mi resi conto che entro i confini della cella veniva operata di nuovo la magia innominabile. Mentre gli spiriti inveivano, Mekare aveva compiuto la scelta. Tesi la mano e sentii le due forme, maschile e femminile, unite come due amanti; e mentre mi sforzavo di separarli Khayman mi colpì e mi fece cadere svenuta.

«Sicuramente trascorsero pochi minuti. Nell’oscurità, gli spiriti piangevano. Conoscevano già l’esito. I venti svanirono, il silenzio scese nella tenebra, e nel palazzo tornò a regnare la quiete.

«Le mani fredde di mia sorella mi toccarono. Udii un suono strano, come una risata. Possono ridere coloro che non hanno la lingua? Per la verità, non presi una decisione; sapevo che per tutta la vita eravamo state come una sola persona, gemelle e immagini speculari l’una dell’altra, due corpi e un’anima sola. Ero seduta nella tenebra afosa della cella fra le braccia di mia sorella; per la prima volta lei era cambiata e non eravamo più lo stesso essere, e tuttavia lo eravamo. Sentii la sua bocca sulla mia gola, sentii la trafittura; e Khayman prese il coltello e completò l’opera. E incominciò lo svenimento.

«Oh, quei secondi divini, quei momenti in cui rividi nella mente la luce splendida del cielo argenteo, e mia sorella stava davanti a me e sorrideva mentre cadeva la pioggia. Danzavamo insieme sotto la pioggia, e con noi c’era la nostra gente, e i nostri piedi nudi affondavano nell’erba bagnata; e quando rumoreggiava il tuono e il lampo squarciava il cielo, era come se le nostre anime si fossero liberate dalla sofferenza. Fradicie di pioggia ci addentravamo insieme nella grotta, accendevamo una piccola lampada e guardavamo i vecchi dipinti sulle pareti, i dipinti eseguiti da tutte le streghe che ci avevano precedute; abbracciate, nel suono della pioggia lontana, ci perdevamo in quelle immagini di streghe danzanti e della luna che appariva per la prima volta nel cielo notturno.

«Khayman mi nutrì di magia; poi mia sorella, e di nuovo Khayman. Sapete cosa mi accadde vero? Ma sapete cos’è il Dono Tenebroso, per chi è cieco? Minuscole scintille divamparono nell’oscurità gassosa; poi sembrò che una luce cominciasse a definire le forme intorno a me in deboli palpiti, come i bagliori che compaiono quando si chiudono gli occhi dopo aver guardato una forte fonte luminosa.

«Sì, potevo muovermi nell’oscurità. Tesi la mano per accertare ciò che vedevo. La porta, il muro; poi il corridoio davanti a me; per un secondo balenò la mappa indistinta del cammino.

«Eppure la notte non era mai apparsa più silenziosa; nulla d’inumano respirava nell’oscurità. Gli spiriti erano scomparsi.

«Mai, mai più ho veduto o udito gli spiriti. Non avrebbero mai più risposto alle mie richieste e alle mie invocazioni. Gli spettri dei morti, sì, ma gli spiriti erano svaniti per sempre.

«Tuttavia non mi resi conto dell’abbandono in quei primi momenti e neppure nelle prime notti.

«Molte altre cose mi sbalordivano, mi colmavano di sofferenza o di gioia.

«Molto tempo prima del levar del sole eravamo nascosti, come stavano nascosti il re e la regina, nelle profondità di una tomba. Khayman ci portò nella tomba di suo padre, dov’era stata riportata la povera salma profanata. Ormai avevo bevuto sangue mortale. Avevo conosciuto l’estasi che faceva arrossire il re e la regina. Ma non avevo osato rubare gli occhi della mia vittima; non avevo neppure pensato che una cosa simile fosse possibile.

«Cinque notti più tardi feci la scoperta; e per la prima volta vidi come vede veramente un bevitore di sangue.

«Eravamo fuggiti dalla città reale, camminando verso il nord per tutta la notte. E in un luogo dopo l’altro Khayman aveva rivelato la magia a varie persone dicendo che dovevano insorgere contro il re e la regina, poiché volevano far credere d’essere i soli ad avere il potere, e questa era la peggiore delle loro tante menzogne.

«Oh, la rabbia che provava Khayman in quelle prime notti. Dava il potere a chiunque lo volesse, sebbene fosse così indebolito che stentava a camminare al nostro fianco. Aveva giurato che il re e la regina avrebbero avuto avversari degni. Quanti bevitori di sangue furono creati in quelle settimane folli, bevitori di sangue che si sarebbero moltiplicati per le battaglie sognate da Khayman!

«Ma in quella prima fase dell’impresa eravamo destinati all’insuccesso… la prima ribellione e poi la fuga. Ben presto saremmo stati separati per sempre, io, Khayman e Mekare.

«Il re e la regina, inorriditi dalla defezione di Khayman, sospettavano che ci avesse donato la magia e avevano scatenato all’inseguimento i soldati che potevano continuare le ricerche di giorno come di notte. E poiché dovevamo cercare in continuazione delle nuove vittime, la nostra pista era facile da seguire nei piccoli villaggi lungo il fiume, negli accampamenti tra le colline.

«E neppure due settimane dopo la nostra fuga dal palazzo reale, fummo catturati dalla folla alle porte di Saqqàra, a meno di due notti di cammino dal mare.

«Ah, se avessimo raggiunto il mare, se fossimo rimasti insieme! Il mondo era rinato per noi nell’oscurità, e ci amavamo disperatamente, e disperatamente ci eravamo scambiati i nostri segreti alla luce della luna.

«Ma a Saqqàra ci attendeva una trappola. E sebbene Khayman riuscisse ad aprirsi con le armi la strada della libertà, comprese che non avrebbe potuto salvarci e si addentrò fra le colline per attendere il momento propizio, che però non venne.

«Io e Mekare fummo circondate come ricorderete, come avete visto nei sogni. Mi strapparono di nuovo gli occhi; ora temevamo il fuoco perché sicuramente poteva annientarci, e pregavamo tutte le cose invisibili per la liberazione finale.

«Ma il re e la regina non osavano distruggere i nostri corpi. Avevano creduto a Mekare quando aveva parlato del grande spirito, Amel, che ci aveva contagiati tutti, e temevano che le sofferenze patite da noi venissero sentite anche da loro. Non era così, ovviamente: ma allora chi poteva saperlo?

«Perciò ci chiusero nei sarcofaghi di pietra, come vi ho detto; uno da portare a est, l’altro a ovest. Èrano già pronte le zattere per abbandonarci alla deriva sui grandi oceani. Avevo visto tutto anche nella cecità. Poi le zattere ci portarono via. E dalle menti dei nostri aguzzini avevo appreso cosa intendevano fare. Sapevo che Khayman non poteva seguirci, perché la marcia sarebbe continuata di giorno e di notte.

«Quando mi svegliai, andavo alla deriva. La zattera mi trasportò per dieci giorni; soffrii la sete e vissi nel terrore che il sarcofago sprofondasse e che io restassi sepolta per sempre senza poter morire. Tuttavia ciò non avvenne. E quando giunsi finalmente a riva sulla costa orientale dell’Africa meridionale, incominciai a cercare Mekare, attraversando il continente in direzione ovest.

«Per secoli la cercai da un estremo all’altro. Mi spinsi al nord, in Europa, viaggiai lungo le spiagge sassose e persino nelle isole settentrionali, fino a raggiungere le distese di ghiaccio e neve. Più volte, tuttavia, tornai al mio villaggio; e questa parte della storia ve la dirò fra un momento perché, come vedrete, per me è importante che la conosciate.

«Ma durante quei primi secoli volsi le spalle all’Egitto, volsi le spalle al re e alla regina.

«Solo molto più tardi appresi che il re e la regina sulla loro trasformazione, avevano fondato una grande religione, avevano assunto l’identità di Osiride e Iside e avevano modificato quegli antichi miti secondo il loro interesse.

«Osiride divenne il dio degli inferi: il re, infatti, poteva apparire soltanto nell’oscurità. E la regina divenne Iside, la Madre che raccoglie il corpo smembrato del consorte, lo risana e lo rende alla vita.

«Avete letto nelle pagine di Lestat del racconto che Marius gli fece così com’era stato fatto a lui, come gli dèi creati dalla Madre e dal Padre ricevevano in sacrificio i malfattori nei sacrari nascosti sulle colline dell’Egitto; e questa religione perdurò fino al tempo di Cristo.

«E avete anche saputo che la ribellione di Khayman riuscì; i nemici del re e della regina da lui creati insorsero, e furono combattute grandi guerre fra i bevitori di sangue del mondo. La stessa Akasha rivelò queste cose a Marius, e Marius le rivelò a Lestat.

«In quei primi secoli nacque la Leggenda delle gemelle, perché i fatti furono narrati dai soldati che avevano assistito agli avvenimenti delle nostre vite, dal massacro della nostra gente alla cattura finale. La Leggenda delle gemelle fu addirittura scritta in tempi più tardi dagli scribi egizi. Si credeva che un giorno Mekare sarebbe apparsa per abbattere la Madre, e tutti i bevitori di sangue sarebbero morti non appena la Madre fosse perita.

«Ma tutto questo accadde a mia insaputa e senza la mia collusione, perché ero ormai molto lontana.

«Solo dopo tremila anni tornai in Egitto, anonima e avvolta in vesti nere, per vedere che cosa era stato del Padre e della Madre: statue indifferenti, chiuse nel loro tempio sotterraneo. Solo le teste e le gole erano scoperte. E i giovani si rivolgevano ai sacerdoti bevitori di sangue che li vegliavano; venivano per cercare di bere alla fonte primordiale.

«Un giovane sacerdote mi chiese se desideravo bere: in quel caso avrei dovuto presentarmi agli Anziani e dichiarare la mia purezza e la mia devozione al vecchio culto, e giurare che non ero un’irregolare votata a fini egoistici. Avrei voluto ridere.

«Ma, oh, l’orrore di quegli esseri dagli occhi sbarrati! Stavo davanti a loro e sussurravo i nomi di Akasha ed Enkil, senza scorgere un lampo nei loro sguardi, un solo fremito della pelle bianca.

«Erano così da tempo immemorabile, mi dissero i sacerdoti; nessuno sapeva neppure più se i miti dell’inizio erano veri. Noi, i primi figli, venivamo chiamati la Prima Stirpe, quella che aveva generato i ribelli; ma la Leggenda delle gemelle era stata dimenticata, e nessuno sapeva di Khayman, di Mekare e di Maharet.

«Solo una volta, più tardi, avrei visto la Madre e il Padre; erano trascorsi altri mille anni. Era appena avvenuto il grande incendio quando l’Anziano di Alessandria, come vi ha narrato Lestat, aveva cercato di annientare la Madre e il Padre esponendoli al sole. Erano rimasti solo abbronzati dal calore del giorno, come ha detto Lestat, perché erano divenuti foltissimi; sebbene tutti noi dormiamo di giorno, piombando nell’impotenza, con il passare del tempo la luce diviene meno letale.

«Ma in tutto il mondo i bevitori di sangue erano morti tra le fiamme durante quelle ore diurne in Egitto, mentre i più vecchi avevano sofferto ed erano divenuti più scuri, ma nulla di più. Il mio carissimo Eric aveva allora mille anni; vivevamo insieme in India, e durante quelle ore interminabili rimase gravemente ustionato. Furono necessarie grandi quantità del mio sangue per risanarlo. Io stessa ero soltanto abbronzata e sebbene vivessi soffrendo per molte notti, scoprii un bizzarro effetto secondario; con la pelle scura mi era più facile passare inosservata fra gli umani.

«Molti secoli dopo, stanca del mio pallore, mi sarei bruciata al sole di proposito. Probabilmente lo farò ancora.

«Ma la prima volta che accadde, per me fu un mistero. Volevo sapere perché nei miei sogni avevo visto il fuoco e avevo udito le urla di tanti che perivano, e perché altri che io avevo creato, i novizi amatissimi, erano morti di quella morte indescrivibile.

«Perciò mi recai dall’India all’Egitto, che per me era sempre stato un luogo odioso, allora sentii parlare di Marius, un giovane romano bevitore di sangue miracolosamente illeso, che era venuto e aveva rubato il Padre e la Madre e li aveva portati via da Alessandria, in un luogo dove nessuno avrebbe più potuto bruciarli… e bruciare noi.

«Non fu diffìcile trovare Marius. Come vi ho detto, nei primi anni non potevamo mai udirci. Ma con il passare del tempo potemmo udire i più giovani come se fossero esseri umani. Ad Antiochia scoprii la casa di Marius, in vero palazzo dove viveva nello splendore romano, sebbene, nelle ore che precedevano l’alba, andasse in caccia di vittime umane per le strade buie.

«Aveva già reso immortale Pandora, che amava più di ogni altra cosa al mondo. E aveva collocato la Madre e il Padre in uno squisito sacrario, costruito con le sue mani in marmo di Carrara e mosaici, dove bruciava l’incenso come se fosse un tempio, come se i due fossero vere divinità.

«Attesi il mio momento. Marius e Pandora andarono a caccia. Quindi entrai nella casa, facendo in modo che le serrature cedessero dall’interno.

«Vidi la Madre il Padre, divenuti scuri come me e tuttavia belli e senza vita come mille anni prima. Marius li aveva posti su un trono dove sarebbero rimasti per duemila anni, come tutti sapete. Mi accostai, li toccai e li percossi. Non si mossero. Quindi, con un pugnale feci la prova. Trafissi la carne della Madre che era divenuta un rivestimento elastico come la mia pelle. Trafissi il corpo immortale che era divenuto indistruttibile e ingannevolmente fragile, e la lama trapassò il cuore. Colpii a destra e a sinistra, quindi mi fermai.

«Per un momento il sangue scorse denso e viscoso; per un momento il cuore cessò di battere; quindi la lacerazione cominciò a rimarginarsi, e il sangue versato s’indurì come ambra sotto il mio sguardo.

«Ma c’era una cosa più significativa; avevo sentito il momento in cui il cuore non aveva pompato il sangue. Avevo sentito la vertigine, il vago distacco, il bisbiglio della morte. Senza dubbio, in tutto il mondo i bevitori di sangue l’avevano sentito: forse per i più giovani era stato uno choc che li aveva fatti stramazzare. Il nucleo di Amel era ancora dentro di lei; l’ustione terribile e il pugnale dimostravano che la vita dei bevitori di sangue dimorava nel suo corpo, e così sarebbe stato per sempre.

«Se non fosse stato così, l’avrei annientata in quel momento. L’avrei fatta a pezzi, perché il tempo non poteva placare il mio odio per lei, l’odio per ciò che aveva fatto al mio popolo, perché mi aveva separata da Mekare, l’altra metà di me stessa.

«Come sarebbe stato bello se i secoli mi avessero insegnato a perdonare, se la mia anima si fosse schiusa per comprendere tutti i torti fatti a me e alla mia gente.

«Ma vi dico: è l’anima dell’umanità che si avvia verso la perfezione nei secoli, la razza umana che impara con il passare degli anni a perdonare e ad amare. Io sono ancorata al passato da catene che non posso spezzare.

«Prima di andarmene cancellai ogni traccia di ciò che avevo fatto. Per circa un’ora fissai le due statue, i due esseri malefici che tanto tempo prima avevano distrutto la mia gente e causato tante sofferenze a me e a mia sorella e che, a loro volta, avevano conosciuto mali tanto grandi.

«‘Alla fine non hai vinto’ dissi ad Akasha. Tu e i tuoi soldati e le tue spade. Perché mia figlia Miriam è sopravvissuta per tramandare il sangue della mia famiglia e questo, che forse non significa nulla per te che siedi in silenzio, per me significa tutto.’

«Le parole che pronunciai erano vere. Ma tra un momento verrò alla storia della mia famiglia. Ora lasciatemi parlare dell’unica vittoria di Akasha: io e Mekare non fummo più riunite.

«Perché, come vi ho detto, in tutti i miei vagabondaggi non ho mai trovato nessuno, uomo, donna o bevitore di sangue, che avesse veduto Mekare o avesse udito il suo nome. Vagai in tutto il mondo cercando mia sorella. Ma era perduta, come se l’avesse inghiottita il grande mare occidentale; e io ero la metà di un essere, all’eterna ricerca di ciò che avrebbe potuto rendermi completa.

«Tuttavia nei primi secoli, ero certa che Mekare vivesse; vi erano momenti in cui, come avviene sempre tra gemelli, sentivo la sua sofferenza: in attimi bui, simili al sogno, conoscevo sofferenze inesplicabili. Ma non le cose che i gemelli umani provano l’uno per l’altro. Via via che il mio corpo diventava più solido e quanto vi era di umano in me si dissolveva; e mentre il corpo immortale diventava dominante, persi quel semplice legame umano con mia sorella, tuttavia sapevo, sapevo che era viva.

«Le parlavo mentre mi aggiravo lungo la costa solitària e guardavo il gran mare freddo. E nelle grotte del monte Carmelo narrai la nostra storia in grandi disegni… tutto ciò che avevamo sofferto, ciò che ora voi vedete nei sogni.

«Nel corso dei secoli molti mortali avrebbero trovato la grotta e avrebbero visto i dipinti; quindi venivano dimenticati, per essere riscoperti più tardi.

«E finalmente in questo secolo un giovane archeologo ne sentì parlare, e un pomeriggio salì sul monte Carmelo con una lanterna. E quando vide i dipinti da me eseguiti tanto tempo prima, si sentì balzate il cuore nel petto perché aveva visto le stesse immagini in una caverna al di là del mare, sopra le giungle del Perù.

«Trascorsero anni prima che venissi a conoscenza della sua scoperta. Aveva viaggiato molto, con quelle prove frammentarie… fotografie dei dipinti rupestri del Vecchio e del Nuovo Mondo, e un vaso trovato nel deposito di un museo, un antico manufatto dei secoli dimenticati, quando era ancora conosciuta la Leggenda delle gemelle.

«Non so dirvi la gioia e il dolore che provai quando vidi le fotografie dei dipinti che l’archeologo aveva scoperto in una grotta del Nuovo Mondo.

«Mekare, infatti, aveva disegnato le stesse scene che io avevo disegnato; il suo cervello, il suo cuore, e la sua mano così simili ai miei avevano dato espressione alle stesse immagini strazianti. Le differenze erano minime. La prova era inconfutabile.

«La zattera di Mekare l’aveva portata attraverso il grande oceano occidentale fino a una terra sconosciuta nel nostro tempo. Secoli prima che l’uomo penetrasse nelle giungle meridionali del continente, Mekare era giunta a riva, forse per affrontare la solitudine più grande che una creatura possa conoscere. Per quanto tempo aveva vagato fra uccelli e belve prima di vedere un volto umano?

«Era durato secoli o millenni quell’isolamento inconcepibile? Oppure Mekare aveva trovato subito mortali che l’avevano confortata o erano fuggiti da lei in preda al terrore? Non l’avrei mai saputo. È possibile che mia sorella avesse perduto la ragione molto tempo prima e che il suo sarcofago toccasse le rive del Sud America.

«Io sapevo soltanto che era stata là, e che migliaia d’anni prima aveva tracciato quei disegni, come io avevo tracciato i miei.

«Naturalmente non lesinai gli aiuti all’archeologo. Gli diedi tutti i mezzi per continuare le ricerche sulla Leggenda delle gemelle; e io stessa mi recai in Sud America. Con Eric e Mael al mio fianco, scalai la montagna peruviana alla luce della luna e vidi con i miei occhi l’opera di mia sorella. I dipinti erano antichissimi: sicuramente erano stati eseguiti cent’anni dopo la nostra separazione, forse anche meno.

«Ma non trovammo altre prove che Mekare fosse viva e si aggirasse nelle giungle sudamericane, o in altri luoghi del mondo. Era sepolta sottoterra, dove gli appelli di Mael e di Eric non potevano raggiungerla? Dormiva in una grotta come una statua bianca, con gli occhi sbarrati mentre le sue spalle si coprivano di strati e strati di polvere?

«Non riesco a concepirlo. Non sopporto un simile pensiero.

«So soltanto, come ora sapete anche voi, che si è destata. Si è svegliata dal lungo sonno. Sono state le canzoni del vampiro Lestat a destarla? Le melodie elettroniche giunte fino ai più remoti angoli del mondo? Sono stati i pensieri delle migliaia di bevitori di sangue che le avevano udite e interpretate e avevano reagito? È stato l’avvertimento di Marius che ha annunciato il risveglio della Madre?

«Forse è stato qualche senso indistinto, ricavato da tutti questi segnali… la certezza che fosse venuto il tempo di realizzare l’antica maledizione. Non sono in grado di dirvelo. So soltanto che si muove verso nord e il suo percorso è erratico e che sono falliti tutti i miei sforzi di ritrovarla tramite Mael ed Eric.

«Non è me che cerca. Ne sono convinta. Cerca la Madre. E i vagabondaggi della Madre la disorientano.

«Ma troverà la Madre, se il suo scopo è questo! Troverà la Madre! Forse comprenderà che può volare nell’aria come la Madre, e coprirà la distanza in un batter d’occhio, quando l’avrà scoperto.

«Ma troverà la Madre. Lo so. E l’esito potrà essere uno solo. O Mekare perirà, oppure perirà la Madre, e con la Madre periremo anche tutti noi.

«La forza di Mekare è eguale alla mia, se non maggiore. È eguale a quella della Madre; e forse può trarre dalla follia una ferocia che nessuno di noi può misurare o contenere.

«Non credo nelle maledizioni, non credo nelle profezie. Gli spiriti che m’insegnarono la validità di queste cose mi abbandonarono migliaia di anni fa. Tuttavia Mekare credeva nella maledizione, quando la pronunciò: veniva dal profondo del suo essere, e fu lei a lanciarla. I suoi sogni parlano soltanto dell’inizio, dell’origine del suo rancore che ha sicuramente alimentato il desiderio di vendetta.

«Mekare può realizzare la maledizione; e forse sarà la cosa migliore per tutti noi. E se non annienterà Akasha, se noi non annienteremo Akasha, quale sarà il risultato? Sappiamo già quali mali ha incominciato a operare la Madre. Il mondo può fermarla se non capisce? Non sa che è immensamente forte e tuttavia vulnerabile; ha il potere di stritolare, tuttavia la pelle e l’osso possono venire trapassati e spezzati. Questo essere che può volare e leggere nelle menti e accendere il fuoco con il pensiero, e tuttavia può essere bruciato…

«Come possiamo fermarla e salvarci? Ecco l’interrogativo. Io voglio vivere, l’ho sempre voluto, non voglio chiudere gli occhi su questo mondo. Non voglio che accada qualcosa di male a coloro che amo. Anche i giovani, quelli che devono uccidere… mi sforzo di trovare un modo per proteggerli. È un male? Non siamo forse una specie e, come ogni specie, non vogliamo sopravvivere?

«Pensate a tutto ciò che vi ho detto della Madre, a ciò che ho detto della sua anima e della natura del demone che risiede in lei, con il nucleo saldato al suo nucleo. Pensate alla natura della grande cosa invisibile che anima ognuno di noi e ogni bevitore di sangue che sia mai esistito.

«Noi siamo coloro che ricevono l’energia da questo essere, come le radio ricevono invisibili onde che portano il suono. I nostri corpi non sono altro che involucri riempiti di tale energia. Noi, come disse Marius tanto tempo fa, siamo fiori di un’unica liana.

«Esaminate questo mistero: perché se lo esaminiamo attentamente, forse potremo trovare un modo per salvarci.

«E vorrei che esaminiate ancora una cosa a questo proposito: forse la cosa più preziosa che io abbia mai imparato.

«Nei primi tempi, quando gli spiriti parlavano a mia sorella e a me sulle pendici della montagna, quale essere umano avrebbe creduto che gli spiriti fossero cose prive d’importanza? Persino noi eravamo prigioniere del loro potere, e ritenevamo un dovere usare i doni in nostro possesso per il bene della nostra gente, come più tardi lo avrebbe creduto Akasha.

«Poi, per millenni, questa fede nel sovrannaturale ha fatto parte dell’anima umana. A volte avrei detto die era naturale, chimica, un ingrediente indispensabile della struttura degli uomini, qualcosa senza la quale non potevano prosperare e tanto meno sopravvivere.

«Abbiamo assistito molte volte alla nascita di culti e religioni… alle proclamazioni di visioni e miracoli e alle successive promulgazioni delle fedi ispirate da questi ‘eventi’.

«Viaggiate nelle città dell’Asia e dell’Europa e vedrete gli antichi templi ancora in piedi, e cattedrali del Dio cristiano dove vengono tuttora cantati i suoi inni. Visitate i musei di tutti i paesi: vedrete sculture e pitture religiose che abbagliano l’anima.

«Quanto sembrano grandiose queste realizzazioni: la macchina stessa della cultura dipende dal combustibile della fede religiosa.

«Eppure qual è stato il prezzo della fede che galvanizza i paesi e manda le armate una contro l’altra, che divide le mappe delle nazioni in vincitori e vinti e annienta gli adoratori degli dèi alieni?

«Ma negli ultimi secoli un miracolo vero che non ha nulla a che vedere con spiriti o apparizioni, o voci celesti che annunciano a questo o quello zelota ciò che deve fare!

«Abbiamo visto finalmente nell’animale umano una resistenza al miracoloso; uno scetticismo nei confronti dell’opera degli spiriti o di coloro che affermano di vederli e di comprenderli e di essere interpreti delle loro verità.

«Abbiamo veduto la mente umana abbandonare lentamente le tradizioni della legge basata sulla rivelazione, cercare le verità etiche tramite la ragione, e un modo di vita basato sul rispetto per il fisico e lo spirituale così come vengono percepiti da tutti gli esseri umani.

«E con questa perdita di rispetto per l’intervento sovrannaturale, con questa mancanza di credulità in tutte le cose distaccate dalla carne, è venuta l’epoca più illuminata; perché uomini e donne cercano l’ispirazione più alta non nel regno dell’invisibile, ma nel regno dell’uomo, la cosa che è carne e spirito, visibile e invisibile, terrena e trascendente.

«Il chiaroveggente e la strega non hanno più valore, ne sono convinta. Gli spiriti non possono darci nulla di più. Insomma, abbiamo superato la suscettibilità a questa follia e ci avviamo verso una perfezione che il mondo non ha mai conosciuto.

«Finalmente il verbo si è fatto carne, per citare un’antica frase biblica con tutto il suo mistero; ma il verbo della ragione, e la carne è il riconoscimento delle esigenze e dei desideri comuni a tutti gli uomini e tutte le donne.

«E cosa farebbe con il suo intervento la Madre, per questo mondo? Cosa gli donerebbe, lei la cui stessa esistenza è ormai irrilevante, e la cui mente è rimasta rinchiusa per secoli in un reame di sogni privi d’illuminazione?

«È necessario fermarla. Marius ha ragione: chi potrebbe dissentire da lui? Dobbiamo tenerci pronti ad aiutare Mekare, non a ostacolarla, anche se ciò significherà la fine per noi tutti.

«Ma lasciate che ora vi esponga l’ultimo capitolo del mio racconto, in cui sta la più completa illumuiazione della minaccia che la Madre rappresenta per noi tutti.

«Come ho già detto, Akasha non aveva annientato la mia nuova gente, che continuò a vivere in mia figlia Miriam e nelle sue figlie, e nelle figlie di queste ultime.

«Dopo vent’anni ritornai al villaggio dove avevo lasciato Miriam, e trovai una giovane donna, cresciuta tra le storie che sarebbero divenute la Leggenda delle gemelle.

«Al chiaro di luna la condussi con me sulla montagna, le rivelai le grotte dei suoi antenati e le consegnai le collane e l’oro ancora nascosti nel profondo delle caverne dipinte, dove gli altri non osavano entrare. E raccontai a Miriam tutte le storie dei suoi antenati. Ma la scongiurai di tenersi lontana dagli spiriti e da ogni rapporto con le cose invisibili, comunque venissero nominate, soprattutto se venivano chiamate dèi.

«Quindi andai a Gerico, perché nelle strade affollate era facile andare a caccia di vittime, di umani che desideravano la morte e quindi non avrebbero turbato la mia coscienza; e là potevo nascondermi agli occhi indiscreti.

«Ma nel corso degli anni tornai molte volte a visitare Miriam che aveva avuto quattro figlie e due figli; costoro ebbero a loro volta cinque figli che giunsero alla maturità; di questi cinque due erano donne ed ebbero a loro volta otto figli. E narrarono ai figli le leggende della famiglia, e anche la Leggenda delle gemelle che un tempo avevano parlato con gli spiriti, avevano fatto scendere la pioggia ed erano state perseguitate dalla malvagità del re e della regina.

«Duecento anni più tardi scrissi per la prima volta tutti i nomi della mia famiglia, perché ormai erano un intero villaggio; e impiegai quattro tavolette d’argilla per annotare ciò che sapevo. Quindi riempii una tavoletta dopo l’altra con le storie dell’origine, delle donne che risalivano al Tempo Prima dell’Avvento della Luna.

«E sebbene a volte vagassi anche per un secolo lontano dalla mia patria, in cerca di Mekare, sulle coste selvagge dell’Europa settentrionale, tornavo sempre fra la mia gente, nei miei nascondigli segreti fra le montagne e nella mia casa di Gerico; e scrivevo i progressi della famiglia, le figlie che erano nate e i nomi delle loro figlie. Scrivevo in dettaglio anche dei figli, delle loro imprese e della loro personalità, a volte anche del loro eroismo, come facevo per le donne. Ma non scrivevo della loro prole. Non era possibile sapere se i figli degli uomini appartenessero veramente alla mia stirpe e alla stirpe della mia gente. Perciò la discendenza divenne matrilineare, e da allora è sempre stato così.

«Mai però, in tutto quel tempo, rivelai alla mia famiglia la magia malefica che era stata operata su di me. Ero decisa a fare in modo che quel male non toccasse mai la famiglia; perciò se usavo i miei crescenti poteri sovrannaturali, era in segreto, e in modo che si potessero spiegare naturalmente.

«Alla terza generazione io ero soltanto una parente ritornata dopo molti anni vissuti in un’altra terra. Se e quando intervenivo, per portare oro o consigli alle mie figlie, lo facevo come poteva farlo un essere umano.

«Trascorsero migliaia d’anni mentre osservavo la famiglia nell’anonimato; solo ogni tanto recitavo la parte della parente che tornava in questo o in quel villaggio o a qualche riunione di famiglia per abbracciare i bambini.

«Ma nei primi secoli dell’era cristiana un altro concetto aveva colpito la mia immaginazione. Creai quindi un apposito ramo della famiglia che conservasse tutta la documentazione; ormai c’erano tavolette e rotoli in abbondanza, e anche molti libri rilegati. In ogni generazione di questo ramo inventato c’era una donna che aveva il compito di occuparsi dei documenti. Il nome Maharet accompagnava tale onore; e quando il tempo lo imponeva, la vecchia Maharet moriva, e una giovane Maharet ereditava la mansione.

«Così anch’io ero inserita nella famiglia che mi conosceva e di cui corrispondevo l’affetto. Divenni la corrispondente premurosa, la benefattrice, la visitatrice misteriosa ma fidata che appariva per sanare le rotture e raddrizzare i torti. E sebbene mille passioni mi consumassero, sebbene vivessi per secoli in terre diverse, imparando nuove lingue e nuovi costumi e meravigliandomi dell’infinita bellezza del mondo e del potere dell’immaginazione umana, ritornavo sempre alla famiglia che mi conosceva e si attendeva molto da me.

«Con il passare dei secoli e dei millenni, non sprofondai mai sottoterra come hanno fatto molti di voi. Non dovetti mai affrontare la follia e l’amnesia com’era comune tra i vecchi che spesso diventavano simili alla Madre e al Padre, statue sepolte nel sottosuolo. Non è mai trascorsa una notte, fin da quei primi tempi, senza che io abbia aperto gli occhi e ricordato il mio nome e riconosciuto il mondo intorno a me, pronta a riannodare il filo della mia vita.

«Non che la follia non mi minacciasse e la stanchezza non fosse a volte opprimente. Non è che l’angoscia non mi amareggiasse e i misteri non mi confondessero, e che io non conoscessi la sofferenza.

«Ma avevo i documenti della mia famiglia da salvaguardare, avevo la mia progenie da seguire e da guidare nel mondo. Perciò, anche nei tempi più bui, quando l’esistenza umana mi sembrava mostruosa e insopportabile, e i cambiamenti del mondo incomprensibili, mi rivolgevo alla famiglia come se fosse la sorgente della vita.

«E la famiglia mi insegnava i ritmi e le passioni d’ogni nuova epoca, mi portava in terre lontane dove forse non mi sarei mai avventurata da sola; la famiglia era la mia guida nel tempo e nello spazio. La mia maestra, il mio libro della vita. La famiglia era tutto.»

Maharet s’interruppe.

Per un momento sembrò che stesse per dire qualcosa di più. Poi si alzò, guardò gli altri e fissò Jesse.

«Ora voglio che veniate con me. Voglio mostrarvi che cosa è diventata questa famiglia.»

Tutti si alzarono in silenzio e attesero mentre Maharet girava intorno al tavolo, quindi la seguirono fuori dalla sala. La seguirono attraverso il ballatoio di ferro, nel pozzo della scala e in un’altra grande camera in cima alla montagna, con il tetto di vetro e i muri massicci.

Jesse fu l’ultima a entrare, e ancor prima di aver varcato la soglia intuì ciò che avrebbe veduto. Una sofferenza squisita la pervase, una sofferenza colma di ricordi felici e di nostalgie indimenticabili. Era la stanza priva di finestre dove era entrata molto tempo prima.

Ricordava chiaramente il camino di pietra e le poltrone di pelle scura; ricordava l’aria di grande eccitazione segreta che superava infinitamente il ricordo delle cose fisiche, e che da allora l’aveva sempre ossessionata e circondata di sogni rammentati vagamente.

Sì, c’era la grande mappa elettronica del mondo con i continenti appiattiti e coperti di migliaia e migliaia di minuscole spie luminose.

E le altre tre pareti così scure che sembravano coperte d’una fine rete metallica nera, sino a che si capiva che in realtà era un rampicante disegnato in inchiostro che riempiva ogni millimetro fra il pavimento e il soffitto; cresceva da un’unica radice in un angolo, si divideva in un milione di rami e ogni ramo era circondato da innumerevoli nomi scritti meticolosamente.

Un grido soffocato uscì dalle labbra di Marius quando si voltò e girò lo sguardo dalla mappa luminosa all’albero genealogico. Armand sorrise tristemente; e Mael fece una smorfia, sebbene fosse sbalordito.

Gli altri guardavano in silenzio. Eric conosceva già quei segreti; Louis, il più umano di tutti, aveva le lacrime agli occhi, Daniel osservava con aperta meraviglia. Mentre Khayman, con lo sguardo velato di mestizia, guardava la mappa come se non la vedesse e fosse ancora assorto nella contemplazione del passato.

Gabrielle annuì, con un mormorio sommesso di approvazione e di piacere.

«La Grande Famiglia», disse con uno schietto tono di riconoscimento mentre guardava Maharet.

Anche Maharet annuì.

Indicò la grande mappa del mondo che copriva la parete meridionale.

Jesse seguì l’immensa processione di luci che l’attraversavano: uscivano dalla Palestina e si spandevano in tutta l’Europa, discendevano in Africa e in Asia, e finalmente dilagavano in entrambi i continenti del Nuovo Mondo. Innumerevoli luci di vari colori… e mentre Jesse offuscava deliberatamente la vista, riconobbe quella grande diaspora per ciò che era. Vedeva anche i vecchi nomi di continenti e paesi e mari, scritti in oro sulla vetrata che copriva l’immagine tridimensionale di montagne, pianure, valli.

«Questi sono i miei discendenti», disse Maharet. «I discendenti di Miriam che era figlia mia, di Khayman e della mia gente, il cui sangue era in me e in Miriam, seguiti attraverso la linea matrilineare come la vedete davanti a voi, per seimila anni.»

«Inimmaginabile», mormorò Pandora. Anche lei era triste e stava per piangere. Aveva una bellezza malinconica, grandiosa e remota, e tuttavia tale da ricordare il calore che un tempo era esistito in lei, naturale e travolgente. Sembrava che quella rivelazione la facesse soffrire, perché le rammentava tutto ciò che aveva perduto da molto tempo.

«È una famiglia umana», disse a voce bassa Maharet. «Tuttavia non c’è nazione della terra che non ne accolga una parte; e i discendenti dei maschi, sangue del nostro sangue e mai contati, sicuramente esistono in numero eguale a coloro che conosciamo per nome. Molti di quelli che si addentrarono nella Grande Russia e in Cina e in Giappone e in altre regioni poco note andarono perduti per questa documentazione, come altri di cui persi le tracce nel corso dei secoli per svariate ragioni. Tuttavia i loro discendenti sono là! Non c’è un popolo, una razza, un paese che non contenga qualcuno della Grande Famiglia! La Grande Famiglia è araba, ebrea, anglosassone, africana; è indiana, è mongola, è giapponese e cinese. Insomma, la Grande Famiglia è la famiglia umana.

«Sì», mormorò Marius. Era straordinario vedere l’emozione sul suo volto, il lieve rossore del colorito umano e la luce sottile negli occhi, la luce che sfida sempre ogni descrizione. «Una famiglia e tutte le famiglie…» disse. Si accostò all’enorme mappa e alzò le mani, mentre studiava il corso delle luci che si muovevano sul terreno accuratamente modellato.

Jesse si sentì avvolgere dall’atmosfera di quella notte lontana; e poi impiegabilmente i ricordi, divampati per un istante, svanirono come se non avessero più importanza. Era lì con tutti i segreti, era di nuovo in quella camera.

Si avvicinò alle finissime scritte sulle pareti, guardò le miriadi di minuscoli nomi in inchiostro nero, si scostò e seguì il progresso di un ramo, un ramo esile e delicato, che saliva al soffitto con cento biforcazioni e volute.

E nel bagliore dei sogni realizzati, pensò con affetto a tutte le anime che avevano formato la Grande Famiglia conosciuta da lei, al mistero dell’eredità e dell’intimità. Era un momento al di fuori del tempo e silenzioso; non vedeva i volti bianchi dei nuovi parenti, le splendide forme immortali colte nella bizzarra immobilità.

Qualcosa del mondo reale era ancora vivo per lei; era qualcosa che evocava reverenza e angoscia, e forse anche l’amore più bello di cui fosse mai stata capace; per un momento sembrò che la possibilità naturale e quella sovrannaturale fossero eguali nel loro mistero. Erano eguali nel loro potere. E tutti i miracoli degli immortali non potevano splendere più di quella semplice, immensa cronaca. La Grande Famiglia.

La sua mano si alzò come se avesse vita propria. E la luce investì il braccialetto argenteo di Mael che portava ancora al polso, mentre posava in silenzio le dita sulla parete. Cento nomi coperti dal palmo della sua mano.

«Ecco ciò che ora viene minacciato», disse Marius con voce triste, senza staccare gli occhi dalla mappa.

Jesse si stupì che una voce potesse essere così forte e tuttavia così sommessa. No, pensò, nessuno farà del male alla Grande Famiglia. Nessuno!

Si rivolse a Maharet che la guardava. Eccoci qui, pensò Jesse, alle estremità opposte di questa linea, Maharet e io.

Una sofferenza terribile crebbe dentro di lei. Terribile. Venire trascinata via da tutte le cose reali, era stato irresistibile; ma pensare che tutte le cose reali potessero venire travolte, questo era insopportabile.

Durante i lunghi anni trascorsi con il Talamasca, quando aveva visto spiriti e fantasmi irrequieti, poltergeist che terrorizzavano le vittime stravolte e chiaroveggenti che parlavano in lingue straniere, aveva sempre saputo che il sovrannaturale non poteva mai sovrapposti al naturale. Maharet aveva avuto, ragione! Irrilevante, sì, irrilevante, incapace di intervenire!

Ma ora tutto ciò stava per cambiare. L’irreale era stato reso, reale. Era assurdo stare in quella camera, tra quelle forme impotenti, e dire: «Ciò non può accadere». La cosa, la cosa chiamata Madre, poteva protendersi attraverso il velo che per tanto tempo l’aveva separata dagli occhi mortali, e poteva toccare un milione di anime umane.

Che cosa vedeva Khayman quando la guardava, ora, come se la comprendesse? Vedeva in Jesse la propria figlia?

«Sì», disse Khayman. «Mia figlia. E non temere. Mekare verrà, realizzerà la maledizione. E la Grande Famiglia continuerà a esistere.»

Maharet sospirò. «Quando ho saputo che la Madre s’era destata, non ho intuito ciò che avrebbe potuto fare. Colpire i suoi figli, annientare il male che era derivato da lei e da Khayman e da me e da tutti coloro che hanno spartito con altri questo potere… ah, non potevo contestarlo! Che diritto abbiamo di vivere? Che diritto abbiamo d’essere immortali? Noi siamo incidenti; siamo orrori. E sebbene io voglia vivere, avidamente come l’ho sempre voluto, non posso dire sia male che la Madre abbia sterminato tanti…»

«Ne sterminerà altri!» esclamò disperatamente Eric.

«Ma è la Grande Famiglia, quella che ora cade sotto la sua ombra», disse Maharet. «È il mondo della Grande Famiglia, che la Madre vorrebbe far suo. A meno che…»

«Mekare verrà», disse Khayman. Un sorriso semplice animava il suo volto. «Mekare metterà in atto la maledizione! Io ho fatto di Mekare ciò che è, perché potesse riuscire in tale compito. Ora quella maledizione è anche la nostra.»

Maharet sorrise, ma la sua espressione era immensamente diversa. Era triste, indulgente, e di una strana freddezza. «Ah, proprio tu credi a questa simmetria, Khayman!»

«E moriremo, tutti!» disse Eric.

«Deve esservi un modo per ucciderla», disse freddamente Gabrielle, «senza uccidere anche noi. Dobbiamo pensare a questo, tenerci pronti, ideare un piano.»

«Non puoi cambiare la profezia», sussurrò Khayman.

«Khayman, se abbiamo imparato qualcosa», disse Marius, «è che il destino non esiste. E se non esiste il destino, non può esservi neppure una profezia. Mekare viene qui per fare ciò che aveva giurato: forse è la sola cosa che ora sa o può fare, ma ciò non significa che Akasha non sia in grado di difendersi contro di lei. Non pensate che la Madre sappia che Mekare si è destata? Non pensate che la Madre abbia veduto e udito i sogni dei suoi figli?»

«Oh, ma le profezie tendono a realizzarsi da sole», disse Khayman. «È la loro magia. Anticamente, tutti lo comprendevamo: il potere degli incantesimi è il potere della volontà; si potrebbe dire che eravamo tutti geni della psicologia in quei tempi tenebrosi, e potevamo essere uccisi dalla potenza dei disegni di un altro. E i sogni. I sogni, Marius, non sono altro che una parte d’un grande disegno.»

«Non parlare come se tutto si fosse già compiuto», disse Maharet. «Abbiamo un altro strumento. Possiamo usare la ragione. Ora quella creatura parla, no? Comprende ciò che le viene detto. Forse sarà possibile dissuaderla…»

«Oh, sei pazza, veramente pazza!» esclamò Eric. «Intendi parlare con il mostro che ha vagato per il mondo incenerendo la sua discendenza?» Era sempre più spaventato. «Cosa sa della ragione, colei che aizza le donne ignoranti a insorgere contro i loro uomini? Conosce il massacro e la morte e la violenza, sono le sole cose che ha conosciuto da sempre, come dimostra la tua storia. Noi non cambiamo, Maharet. Quante volte me l’hai ripetuto! Ci avviciniamo sempre più alla perfezione di ciò che eravamo destinati a essere.»

«Nessuno di noi vuole morire, Eric», disse con pazienza Maharet. Ma all’improvviso qualcosa la distrasse.

Khayman lo percepì nello stesso momento. Jesse li studiò entrambi e tentò di comprendere ciò che vedeva. Poi si accorse che anche Marius aveva subito una trasformazione sottile. Eric era impietrito. Mael, con grande stupore di Jesse, la fissava.

Udivano un suono. Lo rivelava il modo in cui giravano gli occhi: la gente ascolta con gli occhi, li muove mentre cerca di assorbire il suono e di individuarne la provenienza.

All’improvviso Eric disse: «I più giovani devono scendere immediatamente nella cantina».

«È inutile», disse Gabrielle. «E poi voglio restare qui.» Non poteva udire il suono ma si sforzava di captarlo.

Eric si rivolse a Maharet. «Intendi lasciare che lei ci annienti uno per uno?»

Maharet non rispose. Girò lentamente la testa e guardò in direzione del ballatoio.

Poi anche Jesse udì il suono. Gli orecchi umani non potevano certo udirlo; era l’equivalente uditivo d’una tensione priva di vibrazioni, che pervadeva ogni particella di sostanza. Inondava e disorientava. Sebbene vedesse che Maharet parlava a Khayman e Khayman rispondeva, Jesse non riusciva a udire ciò che dicevano. Scioccamente, si portò le mani agli orecchi. Vide che Daniel aveva compiuto lo stesso gesto. Ma entrambi sapevano che era inutile.

Il suono parve all’improvviso arrestare il tempo. Jesse perse l’equilibrio: indietreggiò contro il muro e fissò la mappa come se cercasse un sostegno. Fissò il flusso delle luci che uscivano dall’Asia Minore e scorrevano verso sud.

Un fremito inudibile riempì la camera. Il suono s’era spento, tuttavia l’aria echeggiava d’un silenzio assordante.

In un sogno muto, o almeno così le parve, vide la figura del vampiro Lestat apparire sulla soglia; lo vide precipitarsi fra le braccia di Gabrielle; vide Louis avvicinarsi e abbracciarlo. Poi vide che il vampiro Lestat la guardava… e colse l’immagine lampeggiante del banchetto funebre, le gemelle, il corpo sull’altare. Lestat non sapeva che cosa significava! Non lo sapeva!

La rivelazione la sconvolse. Ritornò al momento sul palcoscenico, quando Lestat s’era sforzato di riconoscere un’immagine fuggevole mentre si separavano.

Poi, mentre gli altri lo attiravano lontano con abbracci e baci (persino Armand gli era andato incontro a braccia spalancate), le rivolse un sorriso lievissimo. «Jesse», mormorò.

Fissò gli altri, Marius, le facce fredde e diffidenti. E com’era bianca la sua carnagione, assolutamente bianca… tuttavia il colore, l’esuberanza, l’eccitazione quasi infantile erano esattamente come prima.

Загрузка...