Fredric Brown La statua che urla

I

Non potete mai dire che cosa farà un ubriaco irlandese. Potete azzardare una o cento ipotesi, a cominciare dalle più probabili, che sono facili da indovinare: cercarsi ancora da bere, attaccar briga con qualcuno, tenere un discorso, salire su un treno… per poi continuare con le più difficili: comperare un fascio di bandiere del suo paese, mettere nel caffè una barbabietola al posto dello zucchero, danzare coi veli, cantare l’inno nazionale o rubare un oboe. Così arriverete all’ipotesi meno probabile di tutte: che lui prenda una decisione e la mantenga.

So benissimo che è incredibile, eppure è successo. Un tipo che si chiamava Sweeney, una volta, a Chicago, lo fece. Prese una decisione e per portarla a termine dovette tenersi a galla in un mare di sangue e di caffè nero, però la spuntò. Forse non era quella che la gente normale chiama una «saggia» decisione, ma questo non importa. Importa che l’incredibile avvenne.

Ora dobbiamo fare molta attenzione, perché la verità non corrisponde mai ai modelli convenzionali. Come, ad esempio, «un irlandese ubriaco»: questo è un modello, se ce n’è uno, ma di rado la verità è tanto semplice.

Il tipo in questione si chiamava Sweeney veramente, ma era irlandese solo per cinque ottavi e sbronzo solo per tre quarti. Questo è il punto più vicino alla verità cui possa arrivare il modello, e se qualcuno non è soddisfatto, è meglio che smetta di leggere. Se non smettete adesso, forse in seguito vi dispiacerà, perché non è una storia simpatica. Ci sono assassinii, donne e alcol, dissipazioni e abusi. C’è un assassinio prima ancora che incominci la storia vera e propria, e ce n’è uno dopo che è finita; si comincia subito con una donna nuda e si finisce ancora con una donna nuda. Si tratta indubbiamente di un bel principio e di una bella fine, ma tutto quel che vi corre in mezzo non è affatto bello. Non mi dite che non vi ho avvertito in tempo. Ora, se leggete ancora, torniamo a Sweeney.

In una notte d’estate, Sweeney sedeva su una panchina del parco, accanto a Dio. A Sweeney, Dio piaceva, anche se non molti altri la pensavano come lui: Dio era un vecchio secco e dinoccolato, con una barba corta e arruffata, macchiata di nicotina. Il nome intero era Diomede e dico «il nome intero» a ragion veduta, perché nessuno, nemmeno Sweeney, sapeva se fosse il nome o il cognome. Era pazzo, ma non del tutto. Non più di quanto lo siano in genere a quell’età i vagabondi che vivono nei quartieri nord di Chicago e che col bel tempo ciondolano in giro per Bughouse Square. (Bughouse vuol dire casa delle cimici e la piazza viene chiamata anche in modo diverso, ma molto meno appropriato.) Bughouse si trova fra Clark Street e Dearborn Street, a sud della Newberry Library. Questa è la sua posizione orizzontale; verticalmente parlando, è molto più vicina all’inferno che al paradiso. Voglio dire che è illuminata in alto dalle luci dei lampioni, ma è scura in basso per le ombre dei relitti umani che durante l’intera notte occupano le sue panchine.

Erano le due di una notte d’estate, e Bughouse Square taceva, ormai quieta. Gli oratori improvvisati delle notti estive si erano allontanati, e la folla di vagabondi occasionali da un pezzo dormiva nelle proprie case: gli uomini dormivano sull’erba e sulle panchine. Avevano le stringhe delle scarpe ben legate con una serie di nodi robusti per assicurarsi che nessuno durante la notte gli portasse via le scarpe. Il possibile furto di denaro dalle loro tasche invece era l’ultima preoccupazione: non ne avevano. Ecco per che dormivano.

— Dio — disse Sweeney — ho voglia di bere. — E spinse indietro di due dita il poco pregevole cappello sulla sua testa altrettanto poco pregevole.

— Anch’io — disse Dio — ma non abbastanza per muovermi di qui.

— Adesso ricomincia la storia — brontolò Sweeney.

Dio sogghignò lievemente e rispose: — È vero, Sweeney. Lo sai benissimo. — Ed estratto di tasca un informe pacchetto di sigarette, ne diede una a Sweeney, accendendone un’altra per sé.

Sweeney aspirò profondamente: fissava la figura addormentata sulla panchina di fronte a lui, poi alzò un poco gli occhi alle luci di Clark Street. Aveva gli occhi appannati per l’ubriachezza, e le luci gli apparivano vaghe, per quanto sapesse che non lo erano in realtà. Non c’era un soffio d’aria ed egli si sentiva caldo e sudato, come il parco, come la città intera. Si tolse il cappello e si fece vento, poi un impulso di semiubriaco lo costrinse a tener fermo il cappello e a studiarlo attentamente. Tre settimane prima era stato un cappello nuovo: lo aveva comperato quando era ancora al “Blade”. Adesso aveva un’aria assurda, diversa da ogni altra cosa al mondo; ci era passata sopra un’automobile, era ruzzolato in un rigagnolo fangoso, ci si erano seduti e ci avevano camminato sopra. Era l’immagine di come si sentiva Sweeney.

Egli disse: — Dio — ma non si rivolgeva a Dio. Né d’altronde a nessun altro. Si rimise il cappello in testa e aggiunse: — Vorrei poter dormire — e, alzandosi dalla panchina: — Faccio quattro passi in giù. Vieni?

— Per perdere la panchina? — domandò Dio. — No. Credo che dormirò. Ci vediamo dopo. — E si accomodò di fianco sulla panchina, col braccio piegato sotto la testa.

Sweeney borbottò qualcosa e si allontanò verso Clark Street. Camminò nella notte giù per la strada, oltre Chicago Avenue. E, passando davanti ai bar, provò il desiderio di avere in tasca di che pagarsi da bere. Un poliziotto, passandogli accanto, lo salutò: — Ehi, Sweeney — e Sweeney rispose con un: — Ehi, Pete — ma non si fermò. Ripensava al ragionamento preferito da Dio, e pensandoci doveva ammetterlo: “Il vecchio pazzo ha ragione: non si riesce a ottenere quel che si desidera, se non lo si vuole con sufficiente intensità”. Avrebbe potuto facilmente farsi prestare da Pete un mezzo dollaro o un dollaro, se proprio avesse voluto bere. Forse domani il desiderio sarebbe stato così forte. Adesso ancora no, anche se si sentiva come una corda di violino accordata a un tono troppo alto. Dannazione, perché non aveva fermato Pete? Aveva bisogno di bere, bisogno di quei tre bicchieri d’alcol che lo portassero all’ultimo stadio dell’ubriachezza e gli permettessero finalmente di dormire. Quando aveva dormito l’ultima volta? Cercò di ricordarselo, ma le cose erano tutte confuse. E dove aveva dormito? Doveva essere stato in uno spiazzo sull’Huron ed era stato di notte, ma quale notte? Ieri o l’altro ieri o il giorno precedente? E ieri che cosa aveva fatto?

Passò davanti all’Huron e gli balenò la possibilità di arrivare al Loop, dove era probabile che qualcuno dei ragazzi del “Blade”, a zonzo per la piazza, gli prestasse qualcosa. Ma questa volta, durante la sbornia in corso, era già stato laggiù? Al diavolo la nebbia del suo cervello. Fino a che punto era «andato», adesso? Era ancora in condizioni tali da presentarsi al Loop?

Guardò lungo la fila delle vetrine, finché ne trovò una dove specchiarsi. Si studiò un poco e decise che non aveva poi un’aria troppo malconcia né troppo ubriaca. Il cappello era informe, non aveva cravatta e il vestito era naturalmente un cencio, però, tutto sommato… Si avvicinò di un passo alla vetrina e subito desiderò di non averlo fatto, perché così da vicino si vedeva nella nuda realtà: gli occhi arrossati e cisposi, la barba di tre o quattro giorni e il colletto della camicia disgustosamente sudicio. Il colletto di una camicia che una settimana prima era stata bianca. E scorgeva tutte le macchie sul vestito. Si voltò dall’altra parte e riprese a camminare. Ora sapeva di non potersi mostrare ai ragazzi del giornale, non al punto in cui era ridotto. Prima sì, quando aveva ancora un aspetto decente, o forse dopo, quando non gli sarebbe più importato nulla del suo aspetto. E, rendendosi conto che sarebbe arrivato senza rimedio a quel punto entro pochi giorni, si mise a imprecare contro se stesso, odiandosi e odiando di riflesso tutto e tutti al mondo.

Nella notte percorreva Ontario Street, protestando ad alta voce, senza neppure accorgersene. Vedeva se stesso e si osservava. Il Grande Sweeney Che Cammina Nella Notte, e cercava di allontanare quell’immagine dalla sua mente, senza riuscirvi. Aveva fatto male a specchiarsi, ma c’era anche qualcosa di peggio: ora che si osservava, sentiva anche l’odore della sua persona, l’afrore del corpo su cui il sudore si era irrancidito. Non si era tolto quei vestiti da… da quando la padrona di casa rifiutava di consegnargli la chiave della sua camera?

Ohio Street. Diavolo, non doveva dirigersi più a sud, o sarebbe finito al Loop. Perciò voltò verso est. Dove stava andando? E che importava? Forse, camminando a lungo, si sarebbe stancato tanto da riuscire a dormire. Però era bene che restasse nei paraggi della piazza, così da avere un posto dove lasciarsi cadere, appena il sonno fosse arrivato.

All’inferno! Avrebbe fatto qualsiasi cosa per un bicchierino; qualsiasi, tranne, naturalmente, incontrare una persona conosciuta.

Sul marciapiede camminava verso di lui qualcuno: un bel ragazzo con una magnifica giacca a quadri. I pugni di Sweeney si strinsero. Che probabilità aveva di colpire il bel ragazzo, strappargli il portafoglio e scappare per un vicolo? Ma non si era mai provato in simili imprese e le sue reazioni erano troppo lente. Davvero troppo lente: il bel ragazzo, costeggiando il marciapiede, aveva girato l’angolo ed era scomparso, prima che Sweeney avesse finito di raccogliere le idee.

Un’auto giunse procedendo a passo d’uomo lungo il marciapiede. Sweeney riconobbe un’auto d’ordinanza della polizia, occupata da due massicci poliziotti, e gli parve di svenire al pensiero del pericolo corso. Si concentrò tutto nel tentativo di camminare diritto, con l’aspetto sobrio e normale. Accorgendosi poi che stava ancora imprecando contro se stesso, tacque di botto, riflettendo che sarebbe stato supremamente sciocco farsi fermare dagli agenti proprio in quel momento, così da trovarsi ad affrontare un avvenire privo di qualsiasi tipo di beveraggio. Nel frattempo, l’auto era passata senza fermarsi.

All’angolo di Dearborn Street, Sweeney esitò un attimo, poi si diresse di nuovo a nord, per State Street. Lungo la via rumoreggiò un autocarro, strombazzando come se annunciasse la fine del mondo. Lo seguì un taxi, diretto a sud, e Sweeney per un minuto prese in considerazione la possibilità di fermarlo e di farsi portare al bar Randolph, pregando l’autista di aspettarlo mentre lui sarebbe entrato a chiedere un prestito a qualcuno. Però, dato il suo aspetto, il taxi non si sarebbe forse fermato… e, comunque, mentre lui stava meditando, era già scomparso.

Voltò deciso in State Street. Dopo aver costeggiato l’Erie, ora camminava lungo l’Huron e si sentiva un po’ meglio. Non molto, solo un poco meglio di prima. Era arrivato alla Superior Street e pensò con ironia a se stesso. Sweeney il Superiore… Sweeney Che Cammina Nella Notte e Nel Tempo…

Fu in quel momento, quasi all’improvviso, che gli apparve la folla raccolta all’ingresso di un edificio, a pochi metri da lui. Non era una folla numerosa: una dozzina circa di persone variamente assortite, quella strana e particolare specie di personaggi che può raccogliersi in State Street alle due e mezzo di mattina, per scrutare attraverso una vetrata chiusa nell’atrio di un edificio. Si udiva anche nel silenzio un curioso rumore che Sweeney non riusciva a identificare con precisione. Era una specie di brontolio selvaggio e animalesco.

Sweeney non affrettò il passo: probabilmente, pensò, si trattava di un ubriaco, che era caduto per terra o era stato ferito e ora giaceva incosciente, o morto, in quell’atrio, in attesa che un’ambulanza arrivasse a raccoglierlo. Ed era altrettanto probabile che giacesse in una pozza di sangue, dato che, se fosse stato semplicemente morto, non si sarebbe formata una folla di dodici persone a osservarlo: gli ubriachi abituali sono fin troppo comuni e conosciuti in quel quartiere di Chicago. Il sangue non attirava Sweeney: nella sua carriera di cronista aveva visto tanto sangue da esserne ormai nauseato. Sarebbe bastata la volta in cui aveva seguito i poliziotti nella sala da gioco di Townsend Street dove si svolgeva un’amichevole riunione a base di rasoi…

Perciò proseguì per la sua strada, oltre il gruppetto di persone, senza nemmeno gettare un’occhiata all’oggetto del loro interesse. Le aveva ormai quasi del tutto superate, quando qualcosa di strano colpì la sua attenzione, costringendolo suo malgrado a fermarsi: dei suoni e il silenzio.

Il silenzio strano era quello che regnava sulla piccola folla (ammesso che una dozzina di individui possa esser chiamata una folla quando si stringe su due file compatte intorno a una porta d’ingresso larga due metri) e, quanto ai suoni, uno era la sirena di un’auto della polizia, che giungeva lungo la Chicago Avenue in procinto di voltare l’angolo di State Street. Sweeney immaginò allora che nell’atrio dell’edificio giacesse il «corpo del delitto», nel qual caso non sarebbe stato opportuno che i poliziotti lo vedessero allontanarsi dalla scena del delitto, poiché lo avrebbero subito acchiappato per interrogarlo. Se invece uno resta incantato a guardare e a farsi spingere via dagli agenti, con la raccomandazione di spicciarsi a circolare, allora può andarsene tranquillamente. L’altro suono che fermò Sweeney era il ripetersi del verso che aveva udito prima e che ora si sentiva ancora più chiaramente, al di sopra del silenzio della folla e frammisto all’ululato della sirena: si trattava realmente del brontolio di un animale.

Considerati tutti questi motivi, qualunque conseguenza sia in seguito nata dal suo gesto, non potrete biasimare Sweeney se si fermò a guardare.

Com’era logico, non riusciva a scorgere nulla, oltre le schiene di quella dozzina di spettatori assortiti. Né poteva udire niente, eccetto il brontolio selvaggio davanti a sé e la sirena alle sue spalle, mentre l’auto della polizia girava l’angolo.

In quel momento, fosse per il suono della sirena, o fosse per il ringhio dell’animale, alcuni degli spettatori al centro del gruppo si ritirarono dalla porta a vetri dell’edificio, e Sweeney la scorse chiaramente e insieme vide al di là della vetrata. Non si vedeva bene, perché l’atrio non era illuminato se non dalla pallida luce dei lampioni stradali, che penetrava fin nell’interno. Scorse anzitutto il cane, perché era il più vicino alla porta, con la testa diritta a guardar fuori. Cane? Dato che si era a Chicago bisognava considerarlo tale, ma se lo aveste incontrato in un bosco, l’avreste creduto un lupo e anche un lupo di dimensioni e ferocia ragguardevoli. Stava rigido sulle zampe, a un metro circa dalla vetrata: il pelo del collo irto, le labbra stirate in un ringhio prolungato, che gli scopriva i denti lunghi un pollice, e gli occhi d’un bagliore giallo nell’ombra.

Quando quello sguardo giallo, apertamente selvaggio, si incrociò ostile col suo sguardo stanco, Sweeney rabbrividì un poco e volse gli occhi altrove, a disagio, sentendo quasi scomparsa l’ubriachezza. La belva lo fissava ed egli guardò invece l’oggetto che giaceva sul pavimento, dietro al cane, nella parte laterale dell’atrio. Era una figura di donna, col viso contro terra. E la definizione «figura» è usata appositamente. Anche nella penombra, le spalle candide splendevano, uscendo da un abito bianco, senza spalline: un abito da sera di raso, che accompagnava morbidamente ogni meravigliosa linea del corpo, le linee almeno che sono visibili di un corpo di donna giacente bocconi, così che Sweeney al vederla restò senza respiro.

Il volto non era visibile, perché la figura gli mostrava soltanto la nuca bionda dai capelli corti, ma lui «sapeva» con certezza che quel volto sarebbe stato meraviglioso. Doveva esserlo, poiché nessuna donna può avere un corpo così bello, senza che anche il viso gli si accordi.

Gli parve che la donna si fosse mossa, sebbene quasi impercettibilmente. Il cane ringhiò ancora con un tono basso in contrasto con lo stridio acuto dei freni dell’auto che si fermava in quel momento all’angolo della strada. Senza voltarsi, Sweeney udì aprire gli sportelli della vettura e sentì i passi pesanti degli agenti. Una mano sulla spalla di Sweeney lo spinse da parte in maniera brusca, mentre una voce domandava, con tono sbrigativo e pratico: — Che succede? Chi ha telefonato?

La domanda non era rivolta a Sweeney ed egli non rispose né si voltò. Nessuno dei presenti rispose.

Sweeney aveva barcollato all’urto, ma riprese il suo equilibrio e continuò a scrutare nella profondità dell’atrio.

L’agente in divisa blu accanto a lui accese la torcia elettrica che teneva in mano e proiettò un fascio di candida luce nell’oscurità dell’atrio, illuminando il luccichio giallo negli occhi selvaggi del cane e lo splendore dorato dei capelli della donna, insieme al bagliore bianco delle spalle e dell’abito di lei. Alla visione del quadro che gli si presentava, l’agente trattenne il fiato con un leggero fischio significativo e non pose altre domande. Avanzò di un passo e raggiunse la maniglia della porta.

Il cane interruppe il ringhio e si accucciò pronto a balzare in avanti, in un silenzio peggiore del sinistro brontolio di prima. L’uomo in divisa blu lasciò la maniglia, come se fosse incandescente. — All’inferno! — esclamò, e infilò la mano nella tasca interna della giacca, ma non estrasse la rivoltella. Invece si rivolse di nuovo alla piccola folla dei presenti. — Che cosa succede? Chi ci ha telefonato? Quella donna è ubriaca, o sta male, o che cos’ha?

Nessuno rispose. Interrogò ancora. — Il cane è suo?

Nessuna risposta di nuovo. Un uomo vestito di grigio era accanto all’agente in divisa blu e gli consigliò: — Prènditela calma, Dave. Se possiamo farne a meno, cerchiamo di non ammazzare la bestia.

— Bene — rispose la Divisa Blu. — Allora tu apri la porta e trattieni il cane, mentre io mi occupo della donna. Comunque, quello non è un cane: o è un lupo o è un demonio!

— Allora… — L’Abito Grigio alzò una mano verso la maniglia e la ritirò rapidamente alla vista del cane che di nuovo si preparava allo slancio, digrignando le zanne.

Divisa Blu sogghignò, domandando: — Ma la telefonata che cosa diceva? Hai risposto tu…

— Soltanto che in questo atrio c’era una donna sdraiata per terra: del cane non ha parlato. Il tipo in questione chiamava dal bar all’angolo nord della strada e ha detto anche il nome.

— Cioè ha detto un nome… — replicò sarcastico Divisa Blu. — Vedi, se fossi sicuro che la ragazza è solo ubriaca fradicia, potremmo chiamare la protezione animali per tirar fuori la bestia, perché loro son capaci di farlo. A me i cani piacciono: e non ho nessuna voglia di ammazzare quello lì. Molto probabilmente la donna è la sua padrona e lui cerca di proteggerla.

— Cerca un corno — brontolò Abito Grigio. — È maledettamente deciso. Anche a me piacciono i cani: ma quello lì non giurerei che è un cane… Bene… — Abito Grigio cominciò a togliersi la giacca. — Coraggio, io mi giro questa intorno al braccio e tu apri la porta, così, quando il cane mi salta addosso, io lo prendo con il calcio della…

— Guarda: si muove!

Infatti la donna si muoveva: alzava la testa. Si sollevò appena sulle mani (e Sweeney notò che calzava dei guanti bianchi lunghi sino al gomito) e alzò la testa finché gli occhi furono colpiti in pieno da un fascio luminoso della torcia elettrica. Il volto era meraviglioso, un volto in cui gli occhi fissavano sbarrati il vuoto, senza vedere.

— È fradicia addirittura — osservò Divisa Blu. — Guarda, Harry, tu potresti ammazzare il cane anche con il calcio della rivoltella e certamente poi qualcuno farebbe un putiferio. Anche la ragazza si metterebbe a farlo, una volta smaltita la sbornia. Invece, io aspetto qui di guardia e tu vai al posto di polizia più vicino e gli dici di far venire qua qualcuno della protezione animali con una rete o quel diavolo che adoperano loro, e…

In quel momento, dalle gole dei presenti uscì un suono strozzato, tanto strano che Divisa Blu tacque di botto come se gli avessero messo una mano sulla bocca. Qualcuno sussurrò, in modo quasi impercettibile, la parola «sangue».

Faticosamente, come in un incantesimo, la donna cercava di alzarsi. Aveva ripiegato le ginocchia sotto il corpo e si tirava su facendo leva sulle braccia tese. Il cane accanto a lei si mosse rapidamente e Divisa Blu con una bestemmia estrasse la pistola dalla fondina appesa alla spalla, mentre il muso dell’animale si avvicinava al volto della donna. Ma prima ancora che la pistola fosse pronta, il cane aveva leccato uggiolando il viso della padrona, con la lunga lingua rossa. Altrettanto rapidamente, vedendo che i due poliziotti si erano avvicinati alla porta, il cane si raccolse in posizione di slancio e ringhiò ferocemente. La donna continuava nel suo sforzo per alzarsi e ormai era visibile a tutti il sangue: una macchia allungata sull’abito bianco, sopra l’addome, nitidissima sul bianco dell’abito. E nel cono di luce, che rendeva la scena simile a una rappresentazione su un palcoscenico o a un’immagine proiettata su uno schermo televisivo alla mostra degli orrori, era chiarissimo lo squarcio lungo cinque pollici al centro della macchia.

Abito Grigio mormorò: — Gesù, una pugnalata! È lo Squartatore.

Sweeney venne spinto di fianco mentre i due agenti si avvicinavano di più. Egli si spostò girando intorno, per guardare sopra le loro spalle. Aveva dimenticato il progetto di andarsene al più presto possibile; in quel momento si sarebbe potuto allontanare senza che nessuno gli prestasse attenzione, ma non lo fece. Abito Grigio era ancora con la giacca mezzo infilata e mezzo no, agghiacciato nel gesto dall’improvvisa scoperta. Con un movimento brusco la rimise a posto strofinando le spalle contro il mento di Sweeney. Poi rapidamente: — Telefona per una ambulanza e per la squadra omicidi, Dave. Io cerco di prendere il cane.

Mentre dalla fondina estraeva la rivoltella, la sua spalla urtò di nuovo contro il mento di Sweeney. Poi la voce dell’agente risuonò improvvisamente calma, mentre impugnava la rivoltella. — Afferra la maniglia, Dave. Il cane ti salterà addosso e io avrò la mira sicura. Credo di riuscire a prenderlo.

Ma non alzò la rivoltella e Dave non toccò la maniglia. Perché stava accadendo la «cosa» incredibile, la «cosa» che Sweeney non avrebbe mai più dimenticato, e nessun’altra delle quindici o venti persone presenti avrebbe mai dimenticato.

La donna nell’atrio aveva ora la mano sul muro, accanto alla fila delle cassette postali e dei campanelli. Stava ancora sforzandosi per raggiungere la posizione eretta e appoggiava a terra un ginocchio. Il fascio abbagliante della luce la incorniciava come il riflettore di un palcoscenico, rivelando crudamente il candore dell’abito, dei guanti e della pelle e il rosso della macchia di sangue. Gli occhi erano sempre sbarrati. E Sweeney pensò che doveva essere soprattutto per lo choc, dato che una simile ferita di coltello non doveva essere molto grave né molto profonda perché altrimenti avrebbe sanguinato molto più abbondantemente. La donna chiuse gli occhi e vacillando si alzò lentamente in piedi. E l’incredibile avvenne.

Il cane si spostò dietro di lei e si drizzò sulle zampe posteriori, senza nemmeno sfiorarla con quelle anteriori, mentre il muso si avvicinava alla schiena di lei e coi denti cercava e trovava qualcosa sul bianco abito scollato e lo tirava verso l’esterno e verso il basso. Il «qualcosa», come si scoprì in seguito, era una nappina di seta bianca, attaccata all’estremità di una lunga chiusura-lampo.

L’abito scivolò a terra, formando intorno ai piedi di lei un cerchio di seta bianca. Sotto il vestito la donna non indossava nulla, assolutamente nulla.

Per un tempo imprecisato, che parve durare eterni minuti e che forse non fu più di dieci secondi, niente e nessuno si mosse. Nulla accadde, tranne un lieve tremolio della torcia nelle mani dell’agente.

Poi le ginocchia della donna si ripiegarono sotto il peso e lei lentamente si abbandonò a terra, senza cadere, solo afflosciandosi come chi è troppo stanco per restare ancora in piedi, in mezzo al bianco cerchio di seta che le aveva fatto da piedestallo.

D’improvviso, allora, accaddero cento cose insieme. Prima di tutto, Sweeney riprese fiato. Poi Divisa Blu puntò con cura la rivoltella contro il cane e premette il grilletto. Il cane ebbe un sobbalzo, poi ricadde e giacque immobile nell’atrio, mentre Divisa Blu entrava, ordinando ad Abito Grigio: — Chiama l’ambulanza, Harry. E lega le gambe di quella maledetta bestia; non credo di averla ammazzata, dev’essere solo ferita.

A questo punto, Sweeney si ritrasse e nessuno gli prestò attenzione, mentre si allontanava verso nord al Delaware e voltava a ovest verso Bughouse Square.

Diomede non sedeva sulla panchina, ma non doveva essere lontano, perché la panchina era ancora vuota e nelle notti d’estate le panchine non restano vuote a lungo. Sweeney sedette ad aspettare il vecchio.

— Ehi, Sweeney — disse Dio, sedendo accanto a lui — ho preso un mezzo litro. Ne vuoi un sorso?

Era una domanda tanto sciocca, che Sweeney non si scompose nemmeno a rispondere, tranne che stendendo la mano. D’altronde, neanche Dio si era aspettato una risposta e già gli porgeva la bottiglia. Sweeney ne bevve una lunga sorsata.

— Grazie — disse. — Santi, se era bella, Dio. Era la più fantastica ragazza… — e bevve un altro sorso, più breve, prima di restituire la bottiglia. — Darei il braccio destro…

— Chi? — domandò Dio.

— La ragazza. Stavo andando giù per State Street e… — S’interruppe, comprendendo che gli sarebbe stato impossibile raccontare l’accaduto. — Lasciamo andare. Come hai fatto a trovare il whisky?

— Sono andato laggiù: te l’avevo detto che potevo benissimo trovar da bere, se proprio ne avessi avuto voglia. Prima invece non ne avevo voglia abbastanza. Si può ottenere tutto quel che si vuole, a patto che lo si voglia sul serio.

— Storie — rispose Sweeney, meccanicamente, poi improvvisamente rise. — Si può ottenere tutto?

— Qualunque cosa tu desideri — ripeté Dio, con tono dogmatico. — È la cosa più facile del mondo, Sweeney. Prendi i ricchi, per esempio: è la cosa più facile del mondo, e chiunque può diventare ricco. Tutto quel che è necessario è desiderare il denaro con tale violenza, in modo che esso acquisti per te maggior importanza di qualunque altra cosa. Tu concentri tutto sul denaro e lo ottieni. Se invece ci sono altre cose che desideri allo stesso tempo, non riesci ad averlo.

Sweeney sorrise: si sentiva leggero e in ottime condizioni. Quel lungo sorso era stato proprio quel che ci voleva. E voleva stuzzicare un po’ il vecchio sul suo argomento preferito.

— E con le donne? — chiese.

— Cosa significa con le donne? — Gli occhi di Dio erano torbidi perché stava ubriacandosi e nella sua pronuncia riaffiorava il dialetto bostoniano, come sempre quando era brillo. — Vorresti dire se puoi ottenere una certa donna che desideri in modo speciale?

— Sì — assentì Sweeney. — Immagina per un momento che ci sia una data ragazza con cui vorrei passare una notte. Potrei riuscirci?

— Se tu ne avessi veramente il desiderio, certo che potresti. E tanto più certo se tu punti su quell’unico obiettivo con tutti i tuoi sforzi. Perché non dovresti?

Sweeney rise di nuovo e appoggiò indietro la testa, a contemplare il verde cupo delle foglie d’albero sopra di lui. La risata si mutò in un sorriso ed egli, toltosi il cappello, prese a farsi vento. Scrutò il cappello come se non lo avesse mai visto prima e cominciò a spolverarlo con la manica della giacca e a ridargli la forma primitiva di cappello.

Dio dovette ripetere due volte la sua domanda, prima che egli lo udisse, tanto era assorto. Non che non fosse una domanda sciocca per cominciare il discorso e Dio non si aspettava neppure una risposta, a parole. Gli stava semplicemente porgendo la bottiglia. Ma Sweeney non la prese. Si rimise in testa il cappello e, alzandosi, ammiccò a Dio e lo ringraziò. — No, grazie, vecchio mio. Ho un appuntamento.

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