V

Sweeney era fermo davanti alla vetrina di “Raoul”, intento in apparenza a osservare gli oggetti esposti, in realtà a scrutare nell’interno, al di sopra del basso fondale divisorio della vetrina. Due clienti, due donne, erano davanti al banco e insieme a Raoul stesso formavano tutta la popolazione del negozio.

Sweeney esaminò anche la vetrina e constatò che non era un caotico ammasso di oggetti a poco prezzo, come sono in genere quelle vetrine. Gli oggetti esposti erano pochi e abbastanza belli. Vi erano dei cani di porcellana cinese, curiosità del Messico, chincaglieria da sera di buon gusto, anche se vistosa, un paio di candelieri in ottone di forma squisitamente semplice; non c’era un solo oggetto che Sweeney avrebbe comperato, eccetto… eccetto forse i prezzi che non erano esposti. La sua opinione su Raoul salì di parecchi gradini.

Una delle clienti concluse il suo acquisto e uscì, mentre l’altra era evidentemente incerta, e Raoul, dopo averle offerto, a quanto sembrava, il suo aiuto, si appoggiava stancamente al banco.

Sweeney entrò nel negozio, e il proprietario gli si fece incontro con un sorriso propiziatorio, che si mutò in una smorfia, quando Sweeney si presentò. — Sono del “Blade” e vorrei parlarvi dell’affare di Lola Brent.

Raoul condusse Sweeney nel retrobottega, fuori della portata di orecchie indiscrete.

Sweeney chiese: — Quando aveva ottenuto l’impiego? Il giorno prima?

— Sì. Si erano presentati in molti in risposta all’annuncio sul giornale, il vostro giornale, il “Blade”. Aveva ottime referenze di un negozio di New York, e io non ho capito che erano false: era vestita bene e aveva una personalità attraente e simpatica. Inoltre, era libera, disposta a cominciare subito. Perciò le dissi di venire il giorno dopo.

— E venne a mezzogiorno?

— Infatti.

— Che cosa accadde, allora? L’avete pescata a rubare sugli incassi e l’avete buttata fuori?

— Non proprio così; l’ho già spiegato alla polizia.

Sweeney insisté. — Potrei farmelo raccontare da loro, ma preferirei di no, se a voi non è di troppo disturbo.

Raoul sospirò. — Dal mezzogiorno fin verso le tre siamo stati in negozio insieme. Non ci sono stati molti clienti, e io avevo occupato quasi tutto il tempo a mostrarle gli oggetti, i prezzi e tutti gli accorgimenti che le sarebbero stati necessari nel lavoro. Alle tre e un quarto circa sono dovuto uscire, per una faccenda personale. Al mio ritorno, le chiedo che cosa aveva venduto e lei mi risponde che c’era stato solo un cliente che aveva comperato un paio di portalibri da sei dollari. E infatti era l’unica cifra registrata alla cassa. Ma proprio allora vedo che manca qualcosa.

— Di che si trattava?

— Una statuetta, una figurina femminile, che costava ventiquattro dollari. Doveva essere al suo posto su quello scaffale — indicò con la mano — e siccome l’avevo vista messa di sbieco, proprio pochi minuti prima di uscire, l’avevo raddrizzata. Quindi la ricordavo in particolare. E ne ho notato la mancanza pochi minuti dopo essere rientrato. Su quel ripiano dovevano esserci tre statuine e invece ce n’erano solo due, avvicinate in maniera da nascondere il vuoto che si era formato tra di esse. Perciò domandai alla Brent se l’aveva spostata lei, ma lei negò anche di averla vista. — Sospirò. — Naturalmente era una situazione imbarazzante: io sapevo che non mi diceva la verità, perché, dato come si erano svolte le cose, ero certo che la statuina c’era al momento della mia uscita.

— Non poteva essere stata rubata da estranei?

— Quasi impossibile. Era alta venticinque centimetri e, per quanto fosse sottile, aveva le braccia tese in avanti e sarebbe stato molto difficile nasconderla sotto la giacca, mentre in una tasca non sarebbe mai potuta entrare. Non era assolutamente uno di quegli oggetti che vengono scelti dai ladruncoli soliti, ve lo assicuro. Inoltre, la Brent mi aveva detto che un solo cliente era stato nel negozio. Io non avevo alcun dubbio, signor… signor…

— Sweeney. Allora l’avete accusata di aver venduto la statuetta e di essersi tenuti i soldi?

— Che altro dovevo fare? L’ho avvertita che non avevo la minima intenzione di denunciarla e che l’avrei lasciata andare senza noie, se solo mi avesse permesso di perquisirla nella stanza del retro.

— Le avete trovato addosso il denaro?

— No. Ma quando ha visto che ero pronto sul serio a chiamare la polizia se non avesse confessato, ha ammesso il furto: i ventiquattro dollari, in un biglietto da venti e quattro da uno, li aveva nascosti in una calza. Un nascondiglio squisitamente femminile.

— Allora non l’avete perquisita?

— Ma sì che l’avevo fatto, avevo soltanto dimenticato quel particolare. Ma poi, dato che lei stessa aveva ammesso la sua disonestà, come potevo sapere se non aveva venduto anche qualcos’altro? Non potevo mettermi a inventariare il negozio; poteva per esempio aver venduto cinquanta dollari di chincaglierie e aver nascosto il denaro nell’altra calza o nel reggiseno o altrove.

— L’avete fatto?

— No. O almeno io non ho trovato altro denaro, fuorché pochi dollari nella borsetta, che sono propenso a credere anche ora che fossero proprio suoi. Era piuttosto restia a farsi perquisire, ma quando comprese i motivi della mia insistenza, si mostrò ragionevole e non era poi tanto ingenua da pensare che io volessi procedere alla perquisizione per… un qualsiasi altro motivo. Voi mi capite, credo.

— Capisco — rispose Sweeney. — Perciò, quando se ne andò, dovevano essere circa le quattro?

— Sì, non più delle quattro e un quarto, benché io non abbia guardato l’ora esatta.

— Se ne andò sola?

— Naturalmente. E tanto per prevenire la vostra prossima domanda, vi dico subito che non ho notato nessuno che l’attendesse fuori. Come era logico, sapendo che tipo era, la tenni d’occhio finché fu uscita dalla porta, poi non me ne occupai più, perciò non vidi che direzione prendesse. Deve essersi recata subito a casa, dato, a quanto mi risulta, che è stata trovata morta là davanti, alle cinque. Per arrivare a casa aveva almeno mezz’ora di strada da qui, attraversando il Loop, e forse anche di più.

— Tranne nel caso che prendesse un taxi o che qualcuno l’aspettasse per darle un passaggio.

— Sì, ma il taxi non è probabile, dati i pochi quattrini che aveva nella borsetta.

Sweeney annuì. — Anche il passaggio è difficile, poiché il suo amico doveva venire a trovarla in negozio alle sei, ma non poteva trovarsi nei paraggi già alle quattro e un quarto.

Le sopracciglia di Raoul si alzarono un poco. — Doveva venire a trovarla in negozio?

— Sì, per ritirare quel che lei aveva trattenuto sugli incassi.

— Veramente? La polizia non me lo ha detto.

Sweeney rise. — La polizia non va a raccontare alla gente le proprie storie. Ecco perché ho voluto parlare con voi invece che con loro. Comunque, vi è sembrato che Lola Brent mostrasse di riconoscere qualcuno dei clienti entrati in negozio quel pomeriggio, finché eravate presente?

— No, sono quasi assolutamente sicuro di no.

— Com’era la statuetta? Una figura femminile, a quanto ho capito, ma con o senza vestiti?

— Senza. Proprio senza, se mi capite.

— Credo di capire — rispose Sweeney — vi sono anche donne che riescono senza vestiti a essere più nude delle altre. È un dono di natura.

Raoul alzò al cielo le mani in gesto espressivo. — Non voglio assolutamente dire che quella statuetta fosse anche in minima parte pornografica o eccitante. Anzi, aveva un che di virgineo, in un modo tutto suo particolare.

— Questo mi confonde — replicò Sweeney. — Quante maniere esistono dunque di essere vergini? Credevo di sapere ormai tutto in proposito, ma…

Raoul sorrise. — Una stessa qualità può essere espressa in molte maniere. In questo caso particolare, la verginità era espressa attraverso il terrore, la paura, l’urlo. La verginità, o forse meglio la virginalità…

— Che differenza c’è? — interruppe Sweeney, ma rispose a se stesso per primo. — Aspetti, credo di aver compreso: una è una dote fisica, l’altra è spirituale. Giusto?

— Infatti. Possono coesistere oppure no. Molte donne sposate sono virginali, anche se non più vergini, perché non sono mai state toccate realmente: solo l’atto materiale si è verificato. Mentre, al contrario, una giovanetta che sia fisicamente virgo intacta può essere ben lontana dalla virginalità, se i suoi pensieri… mi seguite?

— Sì, ma ci allontaniamo dalla statuetta.

— Non molto. Volete vederla? Non quella venduta dalla Brent, ma la sua copia. Ne avevo ordinate due e mi piacevano tanto, che ne tenevo, e ne tengo ancora, una in casa mia, nel palazzo accanto. Ormai è ora di chiudere e… credetemi, signor Sweeney, non ho motivi reconditi…

— Grazie — disse Sweeney — ma non credo che sia necessario, perché la statua in sé non può aver nulla a che fare col delitto.

— No certamente, ma pensavo che vi interessasse su un altro piano. — Sorrise. — Vi dirò fra l’altro che è conosciuta col nome di «La statua che urla».

— Se me lo permettete, avrei cambiato idea — disse Sweeney — e vorrei conoscere questa statuetta, signor… Raoul è il vostro cognome?

— No, Reynarde, signor Sweeney, Raoul Reynarde. Scusatemi un momento solo… — Si recò ad avvertire la cliente che era l’ora di chiusura, e, dietro a lei, anche Sweeney uscì dal negozio, ad attendere che Raoul avesse spento tutte le luci. Percorsero un breve tratto di Division Street, poi entrarono in un palazzo e salirono al secondo piano.

— Non potrò trattenervi a lungo, signor Sweeney — si scusò Reynarde, mentre accendeva la luce nell’interno dell’appartamento — perché… aspetto un ospite. Però abbiamo il tempo di bere qualcosa. Posso prepararvi un cocktail?

— Sì, grazie, ma intanto dov’è la statuetta?

— Là, sul caminetto.

Lo sguardo di Sweeney, che era andato vagando per la stanza ammobiliata con eleganza raffinata, seppure un poco femminea, si fermò infine sulla statuetta, alta venticinque centimetri circa, sul marmo del caminetto. Attraversò la stanza per osservarla da vicino, e comprese allora che cosa aveva inteso dire Reynarde. La figuretta nuda aveva veramente un’aura virginale, ma lo si avvertiva solo in un secondo tempo: «La paura, l’orrore, l’urlo», aveva detto Reynarde, ed erano viventi non solo nel volto, ma nella contorta rigidità del corpo. La bocca era spalancata in un urlo silenzioso, mentre le braccia si tendevano avanti, con le palme aperte, a cercar riparo da un incombente orrore.

— Un oggetto squisito — disse la voce di Reynarde dall’altro lato della stanza, dove stava versando le bevande presso un piccolo mobile-bar di mogano, fornito anche di frigorifero. — Ed è fatta di una nuova materia plastica che non si distingue dall’ebano, se non la si tocca. La superficie è come quella dell’ebano. Ma se quella figurina fosse, come sembra, di ebano lavorato a mano e fosse un originale, avrebbe un valore enorme. — Fece un gesto circolare che indicava tutta la stanza. — Molti degli oggetti che vedete qui sono originali. Io li preferisco.

— Non sono d’accordo. Preferirei sempre una riproduzione di Renoir a un originale di una scuola d’arte qualsiasi. Ma è questione di gusti personali. Potreste procurarmi una di queste?

La voce di Reynarde risuonò proprio alle spalle di Sweeney. — Ecco il vostro bicchiere, signor Sweeney. Sì, credo che potrei trovarvi una «Statua che urla». La ditta che le fabbrica, una piccola azienda di Louisville, può averne qualche residuato. Di solito ne fanno poche centinaia di esemplari, quando si tratta di oggetti simili. Se però voi ci tenete davvero, posso vendervi questa. Pur essendo stata sul mio caminetto, è sempre virginale. — Rise da solo e proseguì: — Oppure, se vi sembra in questo modo di averla di seconda mano, potrei riportarla in negozio e vendervela là. È questo uno dei vantaggi di essere commercianti: io non arrivo mai in tempo a stancarmi di un oggetto d’arte o di un soprammobile, perché spesso mi trattengo degli oggetti del negozio qui in casa, finché ne sono sazio, e li scambio con altri. Penso che ormai quella creatura cominci ad annoiarmi. Alla vostra salute, signore!

Sweeney bevve senza neppure accorgersene, senza distogliere lo sguardo dalla statuetta e vuotando il bicchiere in un sorso. Poi disse: — Prima che cambiate idea, Reynarde… — Appoggiò il bicchiere sul caminetto e trasse dal portafoglio ventiquattro dollari. — Come mai le è stato dato quel nome? Siete stato voi o la ditta fabbricante?

Reynarde si morse le labbra. — Non so, non ricordo… però, sì! Il nome è arrivato dalla ditta fabbricante, ma non come nome ufficiale, è logico.

— Chi ha creato la statuetta? l’originale, s’intende.

— Non lo so proprio. La ditta è la Ganslen Art. Fabbricano molti portalibri e scacchiere, ma di quando in quando fanno anche questi piccoli lavori di scultura, che sono eccezionalmente belli per il loro prezzo. Volete che ve la incarti?

Sweeney rise. — Metterle le sottane? Mai. La porterò nuda per le strade.

— Un altro aperitivo, signor Sweeney?

— No, grazie. Credo che sia ora che la statuetta e io ce ne andiamo.

Prese in mano gentilmente la figurina, ma Reynarde disse: — Sedete un momento, signor Sweeney — e si adagiò per primo in un’ampia poltrona, benché Sweeney restasse in piedi. — C’è qualcosa che mi interessa, anche se non è per nulla affare che mi riguardi. Siete un sadico?

— Io?

— Voi. Mi ha incuriosito vedere come quella statuetta abbia esercitato un richiamo su di voi. È un vero inno al masochismo, e solo per un sadico può rappresentare un richiamo.

Sweeney lo guardò pensieroso. — No, io non sono sadico, ma capisco il vostro punto di vista riguardo al richiamo esercitato dalla statuetta. Però non posso rispondere. Nel momento in cui l’ho vista, ho sentito che avevo bisogno di possederla, ma non ho la minima idea della ragione.

— Forse come oggetto artistico?

— No, perché è ben fatta, con gusto e abilità, ma non è grande arte ispirata.

Reynarde sporse le labbra. — Forse qualche associazione mentale nel subcosciente?

— Potrebbe darsi — rispose Sweeney. — In ogni caso, grazie e arrivederci. Debbo andare.

Reynarde lo accompagnò alla porta, inchinandosi leggermente alla sua uscita. Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Sweeney si domandava perché aveva voluto quella statuetta. E anche perché si era seccato che Reynarde cercasse di scoprire i motivi del suo acquisto. Osservò la statuetta che teneva in mano e rabbrividì leggermente, non nel corpo, ma nello spirito. Non era bella né sensualmente significativa. Perdiana, Reynarde aveva ragione: poteva attrarre solo un sadico o comunque uno che fosse anormale. Eppure lui, Sweeney, aveva speso ventiquattro dollari per portarsela a casa. Era ubriaco di nuovo?

No, non lo era; anzi, la nebbia della sua mente si andava diradando, ed egli colse in un lampo una sensazione che avrebbe potuto costituire quell’associazione di idee cui aveva alluso Reynarde. Ma la nebbia calò di nuovo sul suo cervello. Bene, il lampo però sarebbe tornato, e Sweeney, sospirando, cominciò a scendere le scale. Incontro a lui saliva un bel ragazzo, biondo, roseo e ricciuto, che incrociandolo scrutò con curiosità la statuina di Sweeney, ma non fece commenti e si fermò a suonare il campanello di Reynarde.

Sweeney continuò a scendere e uscì nella sera punteggiata di cento luci, nell’aria calda e umida. Si diresse a ovest, poi a sud, per Dearborn Street, domandandosi fino a quando avrebbe resistito a camminare; quanto avrebbe resistito senza mangiare e senza dormire. La nausea tornava ad assalirlo, e il pensiero del cibo era sempre disgustoso, ma era un supplizio a cui doveva sottoporsi. Quando fu in Chicago Avenue, entrò in un piccolo ristorante lindo e simpatico e sedette al banco. Un uomo in grembiule bianco, che ricordò a Sweeney un chirurgo, gli si accostò dall’altra parte del banco, rimanendo in attesa degli ordini, mentre i suoi occhi fissavano affascinati la statuetta nera che Sweeney aveva deposto sul banco davanti a sé.

— Ehi, puoi procurarmi un pranzo proprio speciale? — disse Sweeney.

— Se abbiamo quello che volete, lo possiamo preparare.

— Pane — spiegò Sweeney. — Due fette di pane bianco, solo, senza burro. Non troppo fresco, ma neppure stantio. Con la crosta. E su un piatto bianco. Credo che riuscirò a mangiarlo. Il pane, s’intende, non il piatto. Puoi farmelo?

— Domanderò al cuoco. Anche caffè?

— Nero, carico. In una tazza.

Sweeney chiuse gli occhi per concentrarsi su un pensiero, così da evitare di prestar attenzione agli odori del ristorante, ma riuscì solamente a concentrarsi sugli odori. Quando udì il rumore del piatto e della tazza che gli venivano posti dinanzi, aprì gli occhi. Bevve un sorso di caffè bollente e cominciò a spilluzzicare una fetta di pane. Bene, pareva che andasse giù e fosse disposta a rimanerci.

Aveva quasi finito la seconda fetta, quando ritornò il cameriere. Si appoggiò al banco contemplando la statuetta e disse: — È una di quelle cose che prende, quando la si guarda. Da chi l’avete avuta?

— Da una fata — rispose Sweeney. — Quanto devo?

— Quindici cents. Sapete a che cosa mi fa pensare questa statua? Allo Squartatore. — Sweeney quasi si affogò col caffè; poi depose la tazza sul piattino con precauzione. Il cameriere non aveva notato nulla e continuava: — Voglio dire: a una donna attaccata dallo Squartatore. Nessuna donna sarebbe così spaventata se la rapissero semplicemente, ma con un pazzo che la insegue con un coltello in mano e magari la spinge in un angolo…

Sweeney si alzò lento in piedi, prese dal portafoglio cinque dollari e li mise sul banco, dicendo: — Tienti il resto — poi, afferrata saldamente la statuetta, uscì dal ristorante. Per la seconda volta nella giornata, un’automobile evitò per miracolo di investirlo mentre lui attraversava la strada. La nebbia era scomparsa; ora sapeva qual era l’associazione d’idee e sapeva perché aveva voluto «La statua che urla». Avrebbe potuto comprenderlo al momento in cui Reynarde aveva accennato all’attrazione della statua per un sadico; e certo lo avrebbe compreso allora, se la sua mente fosse stata chiara. Ma adesso tutto era trasparente come il gin. Un’ora o due prima di venir uccisa, Lola Brent aveva venduto «La statua che urla», e la sua morte non era collegata al suo furto sull’incasso, ma all’aver venduto lei la statua. L’acquirente era stato evidentemente un pazzo sadico, che l’aveva aspettata fuori dal negozio e l’aveva seguita fino a casa. Per lui era stata una fortuna miracolosa che Lola fosse scacciata e dovesse andare subito a casa, dove l’aveva aggredita nello stretto passaggio. Chissà se l’avrebbe comunque uccisa, nel caso che fosse uscita regolarmente all’ora del tè?

Se la mente era finalmente limpida, il corpo era ridotto a brandelli. Affrettò il passo, perché adesso poteva e doveva dormire.» E doveva arrivare a casa prima di cadere a terra.

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