Essere amati profondamente da qualcuno da forza; amare qualcuno profondamente da coraggio.
Si scatenò una tormenta, la notte in cui Laura Shane venne alla luce, ma con qualcosa di insolito nell’atmosfera che la gente avrebbe ricordato per molti anni.
Era il 12 gennaio 1955, un mercoledì particolarmente rigido e cupo. Al tramonto, dal cielo minaccioso caddero grossi e soffici fiocchi di neve e gli abitanti di Denver si preparavano a una bufera di neve dalle Montagne Rocciose. Alle dieci, da ovest cominciò a soffiare con violenza un vento glaciale, che scese fischiando e sibilando dalle strette gole, spazzando le pendici boscose. I fiocchi di neve si fecero sempre più piccoli, fino a divenire minuti come granelli di sabbia e come manciate di sabbia risuonarono sospinti dal vento contro le finestre dello studio del dottor Paul Markwell.
Markwell si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona della scrivania e cercò di riscaldarsi con uno scotch. Ma la sensazione persistente di gelo che lo affliggeva, derivava da un freddo interiore della mente e del cuore, non certo da qualche corrente d’aria.
Da quando quattro anni prima il suo unico figlio Lenny era morto di poliomielite, Markwell si era gradualmente arreso al vizio del bere. Anche quella sera, in cui doveva essere reperibile in caso di chiamate urgenti dall’ospedale, non esitò a versarsi un secondo Chivas Regal.
Ormai a tutti i bambini veniva somministrato il vaccino del dottor Salk ed era vicino il giorno in cui la poliomielite sarebbe stata definitivamente debellata. Ma Lenny aveva contratto la malattia nel 1951, prima che Salk scoprisse il vaccino. La poliomielite aveva colpito anche i muscoli respiratori e le condizioni del ragazzo si erano aggravate per l’insorgenza di una broncopolmonite. Per Lenny non c’erano state speranze.
Dalle montagne a ovest echeggiò un sordo brontolio, ma Markwell non ci fece neppure caso. Era così immerso in quel suo incessante e cieco dolore, che a volte percepiva solo in modo semicosciente il mondo che lo circondava.
Sulla scrivania teneva una foto di Lenny. Dopo quattro anni, continuava a essere tormentato dal volto sorridente di suo figlio. Avrebbe dovuto mettere via quella foto, invece la lasciava bene in vista perché l’unico modo per attenuare il suo senso di colpa era torturarsi senza requie.
Nessuno dei colleghi si era accorto che aveva preso il vizio del bere perché in effetti non sembrava mai ubriaco. Aveva commesso diversi errori con alcuni pazienti ma senza esiti tragici, solo complicazioni che sarebbero potute insorgere naturalmente e che perciò non furono mai attribuite a trattamenti terapeutici sbagliati. Ma lui sapeva di aver sbagliato e il disgusto che provava per se stesso non faceva che spingerlo verso l’alcol.
Ci fu un altro boato. Questa volta riconobbe il tuono, ma continuò a non farci caso.
Il telefono squillò, ma Markwell non rispose subito. Lo scotch gli aveva reso lenti i riflessi e intorpidito la mente. Alzò il ricevitore solo al terzo squillo. «Pronto?»
«Dottor Markwell? Sono Henry Yamatta.» Era un interno dell’ospedale. Sembrava agitato. «È appena arrivata una delle sue pazienti, accompagnata dal marito, Janet Shane. È già in travaglio perché a causa del maltempo il loro viaggio è stato più lungo del previsto.»
Markwell continuò a bere mentre ascoltava. Poi, compiacendosi del fatto che le sue parole risuonavano ancora distinte, chiese: «È ancora nella prima fase?»
«I dolori sono intensi e insolitamente prolungati. E il muco vaginale presenta tracce di sangue.»
«Ma questo è normale.»
Spazientito, Yamatta ribattè: «No. Questa non è una perdita ematica normale».
Perdite ematiche, o muco vaginale con tracce di sangue, erano un chiaro segno che il parto era imminente. Poiché Yamatta aveva detto che la signora Shane era già a uno stadio avanzato, Markwell si rese conto di aver commesso un errore grossolano sostenendo che si trattasse di una perdita ematica normale.
Yamatta aggiunse: «Non è un’emorragia, ma c’è qualcosa che non va. Inerzia uterina, ostruzione della pelvi, o problemi…»
«Se ci fossero state disfunzioni fisiologiche tali da rendere la gravidanza pericolosa, me ne sarei accorto», replicò Markwell seccato. Ma sapeva bene che avrebbe anche potuto sfuggirgli… se fosse stato ubriaco. «Il dottor Carlson è di turno stanotte. Se ci fossero dei problemi prima del mio arrivo, può…»
«Sono appena arrivati quattro feriti e due sono in gravi condizioni. Carlson è impegnatissimo. Abbiamo bisogno di lei, dottor Markwell.»
«D’accordo, sarò lì fra venti minuti.»
Markwell riappese, finì il suo scotch e prese una mentina dalla tasca. Da quando esagerava con l’alcol portava sempre con sé quelle caramelle. Uscì dallo studio e si diresse verso l’armadio dell’anticamera.
Era ubriaco e stava per andare ad assistere una partoriente. Forse avrebbe anche combinato un disastro, il che significava la fine della sua carriera e la distruzione della sua reputazione, ma non gli importava niente. Anzi, riusciva a pensare a quella tragica eventualità con un gusto quasi perverso.
Si stava infilando il soprabito quando una serie di tuoni fece tremare la casa.
Rabbrividì e guardò fuori della finestra. Un mulinello di neve fitta e gelata vorticò contro il vetro, fermandosi un momento a mezz’aria. Non era la prima volta, quell’anno, che durante una bufera di neve udiva il brontolio dei tuoni, ma di solito erano sempre deboli e distanti, non così minacciosi.
Ci fu un lampo, poi un altro. La neve brillò in modo strano nella luce incostante e la finestra si trasformò ben presto in un specchio in cui Markwell vide riflesso il proprio volto tormentato. Il boato che seguì fu il più fragoroso.
Aprì la porta e osservò incuriosito lo spettacolo offerto dalla bufera. La violenza del vento scagliava la neve sotto il tetto della veranda, ammassandola contro la facciata della casa. Il prato e i rami dei pini erano ammantati di un sottile strato di neve fresca.
Il bagliore accecante di un altro lampo ferì gli occhi di Markwell. Il tuono che seguì fu così tremendo che sembrava provenisse non solo dal cielo, ma anche dalla terra, come se cielo e terra stessero per spaccarsi, annunciando lo scontro finale. Due fulmini intersecantisi squarciarono l’oscurità. Ovunque sembrava che si materializzassero sagome soprannaturali che saltavano, ondeggiavano e si contorcevano. Tutte le ombre degli oggetti venivano così stranamente distorte che il mondo familiare di Markwell acquistò le caratteristiche di un dipinto surrealista: quella luce irreale illuminava sinistramente gli oggetti comuni tanto da alterarne la fisionomia in modo inquietante.
Disorientato da quel cielo in fiamme, dai tuoni, dal vento e da quelle cortina di neve che la bufera sollevava, Markwell per la prima volta, quella sera, si sentì ubriaco. Si chiese quanto di reale ci fosse in quello strano fenomeno elettrico e quanto fosse provocato dalle allucinazioni indotte dall’alcol. Attraversò con cautela la veranda, si fermò in cima ai gradini e appoggiandosi alla colonnina sporse la testa per guardare il cielo.
Una serie ininterrotta di lampi creò uno strano effetto ottico, il prato e la strada di fronte cominciarono a sussultare ripetutamente, come se quella scena facesse parte di un film proiettato da una cinepresa difettosa. I colori svanirono, rimasero solo il biancore accecante, un cielo senza stelle, la neve scintillante e le scure ombre terrificanti.
Mentre assisteva atterrito a quell’agghiacciante manifestazione delle forze celesti, un altro fulmine squarciò il cielo. Ma questa volta si abbattè su un lampione poco distante. Markwell lanciò un urlo. La notte si fece incandescente e la boccia di vetro andò in mille pezzi. Markwell si sentì scoppiare la testa; il pavimento della veranda sussultò. Nell’aria fredda si diffuse immediatamente un odore di ozono e di ferro rovente.
Presto non fu che silenzio, immobilità e oscurità.
Markwell aveva involontariamente ingoiato la sua caramella di menta.
Lungo la via, i vicini attoniti cominciarono a fare capolino qua e là. O forse avevano assistito a tutta la scena, ma lui li vedeva solo ora. Alcuni avanzarono a fatica nella neve per osservare da vicino il lampione colpito. Si chiamarono l’un l’altro e chiamarono anche Markwell, ma lui non rispose.
Quello spettacolo terrificante non lo aveva certo reso sobrio. Temendo che i vicini si accorgessero del suo stato di ubriachezza, fece dietrofront e rientrò in casa.
Del resto non aveva tempo da perdere; una donna stava per partorire e aveva bisogno della sua assistenza.
Cercò di riprendere il controllo di sé, prese una sciarpa di lana dall’armadio e se l’avvolse attorno al collo incrociandone le estremità sul petto. Le mani gli tremavano e le dita erano leggermente rigide, ma riuscì lo stesso ad allacciarsi il cappotto. Lottando contro il capogiro si infilò un paio di calosce.
Fu sconvolto dall’idea che quel fulmine spaventoso avesse un significato speciale per lui. Un segno, una premonizione. Sciocchezze. Era solo il whisky a ottenebrargli la mente. Ma quella sensazione l’accompagnò mentre si avviava verso il box, sollevava la saracinesca e usciva con l’auto sul vialetto, facendo scricchiolare la neve sotto le catene.
Mentre stava per scendere e andare a chiudere il box, qualcuno picchiò forte sul suo finestrino. Sbigottito, Markwell si voltò e vide un uomo, leggermente piegato, che lo fissava attraverso il vetro.
Lo sconosciuto doveva avere circa trentacinque anni e un volto dai lineamenti decisi e regolari. Sebbene il finestrino fosse leggermente appannato, la sua figura gli parve impressionante. Indossava un giaccone da marinaio con il bavero alzato. In quell’aria gelida le sue narici fumavano e quando parlò le parole uscirono avvolte da un velo di nebbia. «Il dottor Markwell?»
Markwell tirò giù il vetro. «Sì?»
«Il dottor Paul Markwell?»
«Sì, sì. Le ho già risposto. Scusi, ma non sono di turno stanotte. Devo recarmi subito da una paziente all’ospedale.»
Lo sconosciuto aveva occhi di un azzurro particolare che a Markwell ricordarono un chiaro cielo invernale riflesso nel sottilissimo ghiaccio di un laghetto appena gelato. Erano singolari, quasi affascinanti, ma seppe all’istante che erano anche gli occhi di un uomo pericoloso.
Prima che Markwell potesse inserire la marcia e raggiungere la strada, dove avrebbe potuto trovare aiuto, l’uomo gli spianò contro una pistola attraverso il finestrino aperto. «Non muoverti, stupido.»
Quando sentì la fredda canna della pistola sulla gola, il medico si rese improvvisamente conto di aver paura di morire. Da tempo pensava di poter affrontare la morte senza timore. Ma invece di esserne contento, fu assalito dal rimorso. Desiderare vivere gli sembrava quasi un tradimento nei confronti di suo figlio, a cui avrebbe potuto ricongiungersi soltanto nella morte.
«Spenga le luci, dottore. Bene. E ora anche il motore.»
Markwell estrasse la chiave dal quadro. «Chi è lei?»
«Questo non è importante.»
«Lo è per me. Che cosa vuole? Che cosa vuole fare?»
«Collabori e non le accadrà nulla. Ma se solo fa una mossa, le faccio saltare le cervella. Poi riempirò di pallottole il suo cadavere, giusto per il gusto di farlo.» Il tono della sua voce era delicato, assurdamente piacevole, ma decisamente convincente. «Mi dia le chiavi.»
Markwell gliele passò attraverso il finestrino.
«E ora venga fuori.»
Ritrovato un minimo di lucidità, Markwell scese dalla macchina. Il vento impetuoso gli sferzava il viso e per ripararsi dal nevischio dovette tenere gli occhi socchiusi.
«Prima di chiudere la portiera, alzi il finestrino.» Lo sconosciuto non gli lasciava via d’uscita. «Okay, molto bene. E ora, dottore, venga con me verso il box.»
«Ma questo è pazzesco. Che cosa…»
«Si muova.»
Lo sconosciuto camminava al fianco di Markwell, tenendolo per il braccio sinistro. Anche se qualcuno, dalle case adiacenti o dalla strada, stava osservando la scena, non avrebbe comunque potuto accorgersi dell’arma a causa dell’oscurità e del nevischio.
Una volta nel box Markwell, eseguendo gli ordini dello sconosciuto, calò la saracinesca. I cardini, freddi e un po’ arrugginiti, cigolarono.
«Se è del denaro che vuole…»
«Stia zitto ed entri in casa!»
«Senta, c’è una paziente all’ospedale che sta per partorire…»
«Se non chiude quella bocca, le faccio saltare tutti i denti con il calcio della pistola, così poi non potrà più parlare.»
Markwell capì che l’avrebbe fatto. Alto circa un metro e ottanta, robusto, l’uomo aveva più o meno la corporatura di Markwell, ma in più incuteva timore. La neve che si era depositata sui suoi capelli biondi stava sciogliendosi e a mano a mano che le gocce gli cadevano sulle sopracciglia e lungo le tempie assumeva sempre più l’aspetto di un essere non umano, come una statua di ghiaccio a una festa invernale. Markwell non aveva dubbi che in uno scontro fisico lo sconosciuto avrebbe vinto contro più di un avversario, specialmente contro un dottore di mezza età, privo di forze e per giunta ubriaco.
Bob Shane si sentiva soffocare nell’angusta saletta d’attesa del reparto maternità. La stanza aveva un controsoffitto isolante, le pareti erano verde pallido e l’unica finestra era incorniciata da neve ghiacciata. L’aria era troppo calda. Le sei sedie e i due tavoli erano eccessivi per quello spazio ristretto. Sentì il bisogno impellente di spalancare la porta, uscire nel corridoio, correre all’altra estremità dell’ospedale, attraversare l’entrata principale e uscire nel freddo della sera, lasciando dietro di sé quell’odore di antisettici e di malattia.
Rimase dov’era, per stare vicino a Janet qualora avesse avuto bisogno di lui. Qualcosa non andava. Era prevedibile che il travaglio del parto fosse doloroso, ma non così penoso come le contrazioni prolungate e laceranti che avevano tormentato Janet per così lungo tempo. I medici non volevano ammettere che erano sorte delle gravi complicazioni, ma la loro preoccupazione era palese.
Bob capì il motivo di quella sua claustrofobia. In realtà non aveva paura di rimanere chiuso fra quelle pareti. Ciò che lo stava minacciando, in quel momento, era la morte, forse quella di sua moglie o del suo bambino non ancora nato, oppure la morte di entrambi.
I battenti della porta si aprirono ed entrò il dottor Yamatta.
Nell’alzarsi, Bob urtò contro un tavolo, facendo cadere a terra una pila di giornali. «Come sta, dottore?»
«È sempre uguale.» Yamatta era un uomo magro, di bassa statura, con un viso gentile e grandi occhi tristi. «Il dottor Markwell sarà qui fra poco.»
«Non state certo aspettando lui per somministrarle le cure di cui ha bisogno, vero?»
«No, certo. Non si preoccupi. Sta ricevendo tutte le cure del caso. Ho solo pensato che le avrebbe dato un po’ di sollievo sapere che il vostro medico sta per arrivare.»
«Oh, sì certo… grazie. Senta, dottore, posso vederla?»
«Non ancora», rispose Yamatta.
«E quando, allora?»
«Quando sarà… meno spossata.»
«Ma che razza di risposta è questa? Quando sarà meno spossata? Quando diavolo finirà di soffrire così?» Si pentì immediatamente di quello scoppio d’ira improvviso. «Io… mi dispiace dottore. Solo che… ho paura.»
«Lo so. Lo so.»
Una porta interna collegava il box di Markwell alla casa. Attraversarono la cucina e percorsero il corridoio al pianterreno, accendendo le luci mentre passavano e lasciando impronte bagnate sul pavimento.
L’uomo armato diede un’occhiata in tutte le stanze, nella sala da pranzo, nel salotto, nello studio, nell’ambulatorio e nella sala d’attesa, poi ordinò: «Di sopra».
Nella camera da letto inciampò in una delle lampade. Prese la sedia che si trovava accanto al tavolo da toeletta e la mise al centro della stanza.
«Dottore, per favore, si tolga i guanti, il cappotto e la sciarpa.»
Markwell obbedì, lasciando cadere gli indumenti sul pavimento, e a un ordine dell’uomo armato si sedette sulla sedia.
Lo sconosciuto posò la pistola sul tavolo e dalla tasca tirò fuori una fune arrotolata. Da sotto il giaccone estrasse un piccolo coltello dalla lama larga che evidentemente teneva in una guaina agganciata alla cintura. Tagliò la fune in tanti pezzi per legare Markwell alla sedia.
Il dottore fissò la pistola che era rimasta sul tavolo, calcolando velocemente le possibilità di battere sul tempo il suo avversario, ma quando incontrò il suo sguardo glaciale si rese conto di essersi tradito.
L’uomo sorrise, come per dire: «Forza, provaci».
Ma Paul Markwell voleva vivere. Si mostrò docile e rassegnato mentre lo sconosciuto lo legava, mani e piedi, alla sedia.
Strinse bene i nodi, ma non tanto da fargli male, quasi a dimostrare riguardo per il suo prigioniero. «Non voglio imbavagliarla. Ubriaco com’è, se le metto uno straccio intorno alla bocca, potrebbe vomitare e rimanermi lì stecchito. In un certo qual senso mi fido di lei. Ma provi solo a gridare aiuto e la farò fuori in men che non si dica. Chiaro?»
«Sì.»
Quando parlava un po’ più a lungo si notava un vago accento, ma così leggero che Markwell non riuscì a identificarlo. Si mangiava le finali di alcune parole e solo occasionalmente la sua pronuncia aveva una nota gutturale a malapena percettibile.
Lo sconosciuto si sedette sul bordo del letto e prese il telefono. «Qual è il numero dell’ospedale?»
Markwell sbarrò gli occhi. «Perché?»
«Accidenti, le ho chiesto il numero! Se non me lo dà, giuro che piuttosto che guardare sulla guida glielo faccio cacciare fuori con la forza.»
Impaurito da quelle parole, Markwell gli diede il numero.
«Chi è di turno stanotte?»
«Il dottor Carlson. Herb Carlson.»
«È un brav’uomo?»
«Che cosa intende?»
«Come medico è più bravo di lei, oppure è anche lui un ubriacone?»
«Io non sono un ubriacone. Io ho…»
«Lei non è che un irresponsabile. Un uomo che non fa che autocommiserarsi, un uomo che l’alcol ha ridotto a un rottame e lo sa meglio di me. Risponda alla mia domanda, dottore. Carlson è affidabile?»
L’improvvisa nausea che Markwell accusò era dovuta solo in parte alla quantità di alcol ingerita; l’altra causa era il rifiuto della verità di ciò che lo sconosciuto aveva detto. «Sì, Herb Carlson è un bravo medico. Un ottimo medico.»
«Chi è l’infermiera di turno stanotte?»
Markwell dovette pensarci un momento. «Ella Hanlow, credo. Non ne sono sicuro. Se non è Ella, è Virginia Keene.»
Lo sconosciuto chiamò l’ospedale e disse che parlava a nome del dottor Paul Markwell. Chiese di Ella Hanlow.
Una raffica di vento colpì con violenza la casa, fece sbattere una finestra malchiusa e passò sibilando sotto le grondaie; solo allora Markwell si ricordò della tormenta. Mentre guardava la neve cadere si sentì invadere ancora una volta da un senso di disorientamento. La serata era così densa di avvenimenti, con quel fulmine e l’apparizione inspiegabile di quell’intruso, che improvvisamente gli sembrò irreale. Diede uno strattone alle funi che lo legavano alla sedia, con la certezza che si trattasse solo di un brutto sogno e che come una sottilissima ragnatela si sarebbero dissolte nel nulla. Invece era tutto reale e lo sforzo gli diede nuovamente un senso di vertigine.
Al telefono lo sconosciuto disse: «Infermiera Hanlow? Il dottor Markwell non è in grado di venire in ospedale stasera. Una delle sue pazienti, Janet Shane, ha un parto piuttosto difficile. Come? Sì, certamente. Vuole che se ne occupi il dottor Carlson. No, no, mi dispiace, ma è impossibile che ce la faccia. No, non è per il tempo, è ubriaco. Sì, esatto. Sarebbe pericoloso per la paziente. No… è così ubriaco che è inutile che glielo passi. Mi dispiace. In questi ultimi tempi ha cominciato a bere parecchio, cercando di nasconderlo, ma questa notte è in condizioni pietose. Io? Sono un vicino. Okay, grazie, infermiera. Addio».
Markwell era furente ma con una certa sorpresa anche sollevato perché il suo segreto era stato svelato. «Bastardo, mi ha rovinato!» esclamò.
«No, dottore. Lei si è rovinato con le sue stesse mani. L’odio che lei prova per se stesso sta distruggendo la sua carriera e ha anche allontanato sua moglie. Il vostro matrimonio era già in crisi, ma si sarebbe potuto salvare se Lenny fosse vissuto, e forse anche dopo la sua morte, se lei non avesse deciso di non sperare più.»
Markwell era incredulo. «Ma come diavolo fa a sapere che cosa è successo fra me e Anna? E come fa a sapere di Lenny? Io non l’ho mai incontrata prima d’ora. Come sa tutte queste cose di me?»
Come se non avesse neppure sentito quelle domande, lo sconosciuto sistemò un paio di cuscini contro la testata del letto, appoggiò gli stivali sporchi e bagnati sulle coperte e si stiracchiò. «So come si sente, ma la responsabilità della morte di suo figlio non è sua. Lei è soltanto un medico, non un santone. Perdere Anna, questo sì, è stata colpa sua. E il fatto che ora costituisca un pericolo per i suoi pazienti, anche questo è colpa sua.»
Markwell stava per obiettare, ma lanciò un gemito e abbandonò il capo sul petto.
«Sa qual è il suo problema, dottore?»
«Immagino che lei me lo potrà dire.»
«Il suo problema è che non ha mai dovuto lottare per qualcosa, non sa che cosa siano le avversità. Suo padre era benestante e lei ha sempre avuto ciò che voleva, ha sempre frequentato le scuole migliori. E nonostante abbia sempre avuto successo nella sua professione, non ha mai avuto realmente bisogno di denaro, aveva la sua eredità. Perciò, quando Lenny si ammalò di poliomielite, lei si trovò a non sapere come affrontare quella difficoltà, perché la vita non gliene aveva mai dato prima l’occasione. Non era stato vaccinato e non avendo difese lei è stato colpito da una grave crisi di disperazione.»
Markwell sollevò la testa, sbattè gli occhi per riacquistare una visione chiara, poi mormorò: «Non ci posso credere».
«Tutta questa sofferenza le ha insegnato qualcosa, Markwell, e se si terrà lontano dall’alcol quanto basta per riuscire a ragionare lucidamente, potrà anche ritornare in carreggiata. Ha ancora una piccola possibilità di redimersi.»
«Ma forse io non voglio redimermi.»
«Certo, anche questo potrebbe essere vero. Io credo che lei abbia una paura fottuta di morire, ma non so se ha abbastanza fegato per continuare a vivere.»
Il dottore aveva un alito pesante, che puzzava di menta e di whisky, la bocca impastata e secca e la lingua gonfia. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un bicchierino.
Saggiò debolmente le funi che lo tenevano legato alla sedia poi, disgustato dal tono lamentevole della sua voce, ma incapace di recuperare la propria dignità, chiese: «Che cosa vuole da me?»
«Voglio impedirle di andare all’ospedale questa notte. Voglio essere matematicamente sicuro che il bambino di Janet Shane nasca senza il suo aiuto. È diventato un macellaio, un potenziale assassino. Questa volta deve essere fermato.»
Markwell si inumidì le labbra secche. «Non so ancora chi è lei.»
«E non lo saprà mai, dottore. Mai.»
Bob Shane non aveva mai avuto tanta paura. Ricacciò indietro le lacrime, perché aveva il presentimento che rivelando apertamente i suoi timori avrebbe in qualche modo dato una spinta al fato provocando la morte di Janet e del bambino.
Rimase seduto sulla sedia, si sporse un po’ in avanti, chinò la testa e pregò in silenzio: Signore, Janet avrebbe potuto avere molto di più. Lei è così bella mentre io… Non sono che un droghiere e il mio negozietto non frutterà mai grandi profìtti; ma lei mi ama. Signore, lei è buona, onesta, umile… non merita proprio di morire. Ma forse tu vuoi prenderla perché è tanto buona da meritare il Paradiso. Io invece non sono ancora abbastanza buono e ho bisogno di lei che mi aiuti a diventare un uomo migliore.
Una delle porte della saletta si aprì.
Bob alzò lo sguardo.
Entrarono in camice verde i dottori Carlson e Yamatta.
Il loro arrivo spaventò Bob, che si alzò lentamente.
Gli occhi di Yamatta erano più tristi che mai.
Il dottor Carlson era un uomo alto, corpulento, che riusciva ad avere un aspetto dignitoso anche in quella circostanza. «Signor Shane… sono desolato. Sono veramente desolato, ma sua moglie è morta durante il parto.»
Bob rimase in piedi, rigido come un palo, come se quella tremenda notizia avesse trasformato le sue carni in pietra. Udì solo in parte ciò che Carlson gli stava dicendo.
«… una grave ostruzione uterina… una di quelle donne non adatte alla maternità. Non avrebbe mai dovuto iniziare una gravidanza. Mi dispiace… sono così desolato… abbiamo fatto tutto il possibile… una forte emorragia… ma la bambina…»
La parola «bambina» fece riemergere Bob dallo stato di trance in cui si trovava. Avanzò esitante verso Carlson. «Che cos’ha detto? La bambina?»
«Sì, è padre di una femmina», disse Carlson. «Perfettamente sana.»
Bob aveva pensato che tutto fosse perduto. Adesso invece fissava Carlson, pensando che in fondo una parte di Janet non era morta e che lui, dopotutto, non era completamente solo al mondo. «Dice sul serio? Una bambina?»
«Sì», disse Carlson. «È una bambina straordinariamente bella, con tanti capelli castani.»
Guardando Yamatta, Bob mormorò: «La mia bambina si è salvata».
«Sì», disse Yamatta e il suo volto intenso si illuminò per un attimo di un dolce sorriso. «E deve ringraziare il dottor Carlson. Purtroppo la signora Shane non aveva speranze. In mani meno esperte anche il bambino sarebbe potuto morire.»
Bob si rivolse a Carlson, ancora incredulo. «Mia… figlia si è salvata e di questo almeno devo esservi grato, non è così?»
Il silenzio del dottore tradiva un certo imbarazzo. Poi Yamatta mise una mano sulla spalla di Bob Shane, consapevole che forse quel contatto lo avrebbe confortato.
Sebbene Bob fosse di una spanna più alto e più grosso del piccolo dottore, si appoggiò a Yamatta. Sopraffatto dal dolore pianse e Yamatta lo sostenne.
Lo sconosciuto rimase con Markwell per un’altra ora, ma non parlò più e non rispose ad alcuna delle domande che Markwell gli rivolgeva. Era coricato sul letto, lo sguardo fisso al soffitto, così immerso nei suoi pensieri che raramente si muoveva.
Gli effetti dell’alcol stavano svanendo e il dottore cominciò a essere tormentato da un tremendo mal di testa. Solitamente dopo i postumi della sbornia si sentiva quanto mai incline all’autocommiserazione.
Alla fine lo sconosciuto guardò l’orologio. «Undici e mezzo. Devo andare ora.» Saltò giù dal letto, si avvicinò alla sedia e tirò di nuovo fuori da sotto il giaccone il suo coltello.
Markwell si irrigidì.
«Taglierò uri po’ queste funi, dottore. Se si dà da fare, in una mezz’oretta sarà libero. E io avrò il tempo sufficiente per allontanarmi da qui.»
Quando l’uomo si abbassò dietro la sedia, Markwell pensò che gli avrebbe affondato la lama fra le costole.
Ma qualche attimo dopo lo sconosciuto mise via il coltello e si avvicinò alla porta della camera. «Ha una possibilità di redimersi, dottore. Io credo che lei sia troppo debole per farlo, ma spero di sbagliarmi.»
Poi uscì.
Dopo dieci minuti, mentre lottava per liberarsi, Markwell sentì dei rumori provenire dal piano di sotto. Evidentemente l’intruso stava cercando degli oggetti di valore. Per quanto misterioso, forse non era che un ladro con uno stranissimo e singolare modus operandi.
Finalmente, a mezzanotte e venticinque, Markwell riuscì a liberarsi delle funi che lo imprigionavano. I suoi polsi recavano profondi segni e sanguinavano. Sebbene nell’ultima mezz’ora non avesse udito alcun suono provenire dal primo piano, prese la pistola dal cassetto del comodino e scese le scale con cautela.
Si recò subito nell’ambulatorio, dove si aspettava che fossero state prelevate delle medicine, ma nessuna delle due alte vetrinette era stata manomessa.
Si precipitò nello studio, convinto che la cassaforte a muro fosse stata aperta.
Ma scoprì che anche quella era intatta.
Sconcertato, si voltò per andarsene quando, nel lavandino del bar, vide ammonticchiate bottiglie vuote di whisky, gin, tequila e wodka. Lo sconosciuto si era fermato soltanto per cercare la scorta dei liquori e poi svuotarli nello scarico del lavandino.
Sullo specchio del bar era stato appeso un biglietto: un messaggio a chiare lettere in stampatello:
SE NON SMETTE DI BERE, SE NON IMPARA AD ACCETTARE LA MORTE DI LENNY, TEMPO UN ANNO E SI INFILERÀ LA CANNA DI UNA PISTOLA IN BOCCA PER FARSI SALTARE LE CERVELLA. QUESTA NON È UNA PROFEZIA. QUESTO È UN DATO DI FATTO.
Tenendo ben stretti il biglietto e la pistola, Markwell si guardò attorno, come se lo sconosciuto fosse ancora lì, invisibile, un fantasma che poteva scegliere a suo piacimento fra l’essere visibile e invisibile. «Chi sei?» chiese. «Chi diavolo sei?»
Solo il vento alla finestra gli rispose, ma il suo gemito doloroso aveva significati che egli non poté capire.
Il mattino dopo, alle undici, dopo essersi occupato delle formalità di rito per la sepoltura di Janet, Bob Shane ritornò all’ospedale per vedere sua figlia. Indossò un camice, una cuffia e una mascherina e dopo che si fu meticolosamente lavato le mani, secondo gli ordini di un’infermiera, gli fu consentito di entrare nella nursery, dove con delicatezza sollevò Laura dalla sua culla.
Nella stanza c’erano altri nove neonati e tutti, in un modo o nell’altro, erano graziosi, ma Laura Jean parve a Bob la più bella di tutti. Sebbene di solito gli angeli venissero rappresentati con occhi azzurri e capelli biondi, mentre Laura aveva occhi e capelli scuri, il suo aspetto era angelico. Per tutto il tempo in cui la tenne in braccio non pianse mai. Socchiudeva gli occhi, oppure li faceva girare qua e là e sbadigliava. Aveva anche uno sguardo pensoso, come se sapesse di essere orfana di madre e che lei e suo padre non avevano altri su cui contare, in quel freddo e difficile mondo.
Una parete della stanza era costituita da una vetrata, attraverso la quale i familiari potevano vedere i neonati. Cinque persone erano radunate al di là di quel vetro. Quattro erano sorridenti, indicavano con il dito un punto nella stanza e facevano strane e buffe smorfie per intrattenere i neonati.
La quinta persona era un uomo biondo, indossava un giaccone da marinaio e stava in piedi, con le mani in tasca. Non sorrideva né faceva gesti né tanto meno smorfie. Teneva semplicemente lo sguardo fisso su Laura.
Dopo alcuni minuti, visto che lo sconosciuto non accennava a staccare gli occhi dalla bambina, Bob cominciò a preoccuparsi. Era un bel ragazzo dai lineamenti marcati, ma la durezza del suo volto e un qualcosa che non poteva essere espresso a parole indussero Bob a pensare che si trattasse di un uomo che aveva visto e fatto cose terribili.
Cominciarono a venirgli in mente storie incredibili lette sui giornali a proposito di rapimenti, di bambini venduti al mercato nero. Si diede del paranoico. Immaginava pericoli inesistenti, solo per il fatto che, avendo perso Janet, ora temeva di perdere anche la sua unica figlia. E più l’uomo fissava Laura, più aumentava l’inquietudine di Bob.
Come se avesse percepito quel turbamento, lo sconosciuto alzò lo sguardo e incrociò quello di Bob. Gli occhi blu dello straniero erano insolitamente luminosi, intensi. Bob ebbe paura. Strinse ancor più a sé la figlia, come se lo sconosciuto potesse irrompere nella stanza attraverso il vetro e portarsela via. Pensò allora di chiamare una delle infermiere affinchè andasse a parlare con quell’uomo e gli facesse delle domande. Ma in quell’istante lo sconosciuto sorrise. Un sorriso caldo e genuino che trasformò il suo volto. In una frazione di secondo la sua espressione da sinistra si era fatta amichevole. Rivolse a Bob un cenno d’intesa e con il solo movimento delle labbra mormorò un’unica parola attraverso lo spesso vetro: «Bellissima».
Bob si rilassò e sorrise, ma si rese conto che il suo sorriso era nascosto dalla mascherina, quindi annuì in segno di ringraziamento. Lo sconosciuto guardò ancora una volta Laura, poi ammiccò nuovamente a Bob e si allontanò dalla vetrata.
Più tardi, dopo che Bob Shane era tornato a casa, un uomo alto, vestito di scuro si avvicinò alla vetrata. Il suo nome era Kokoschka. Osservò un attimo i neonati, poi il suo sguardo si spostò e si accorse della sua immagine incolore riflessa sul vetro lucido. Aveva una faccia larga e piatta con lineamenti taglienti e labbra così sottili e dure che sembravano fatte d’acciaio. La guancia sinistra era segnata da una profonda cicatrice. I suoi scuri occhi erano privi di profondità, come se fossero state sfere di ceramica dipinte, molto più simili ai freddi occhi di uno squalo che vaga nelle oscure profondità dell’oceano.
Si compiacque nel rendersi conto di quanto la crudeltà del suo volto contrastasse con i visetti innocenti dei neonati al di là della vetrata; sorrise, fatto raro per lui, ma quel sorriso non addolcì il suo viso, anzi, lo fece apparire ancora più minaccioso.
Guardò ancora una volta al di là del vetro e non ebbe difficoltà a trovare Laura Shane, poiché il cognome di ciascuno era scritto su un cartellino applicato dietro la culla.
Perché tanto interesse intorno a te, Laura? si chiese. Perché la tua vita è così importante? Perché tutte queste energie spese per assicurarsi che tu venissi al mondo sana e salva? Devo ucciderti ora e mettere quindi fine al progetto del traditore?
Avrebbe potuto ucciderla senza alcun problema. Aveva già ucciso dei bambini in passato, sebbene nessuno piccolo quanto Laura. Nessun crimine era troppo efferato se serviva la causa alla quale egli aveva votato la sua vita.
La bimba stava dormendo. Ogni tanto la sua bocca si muoveva e il suo faccino si corrugava per un attimo; forse sognava la sicurezza del grembo materno, con rimpianto e desiderio.
Alla fine decise di non ucciderla. Non ancora.
«Posso sempre eliminarti più tardi, piccolina», mormorò. «Quando capirò che parte hai nei piani del traditore, allora e solo allora potrò ucciderti.»
Kokoschka si allontanò dalla vetrata. Sapeva che non avrebbe più rivisto quella bambina per almeno otto anni.
Nella California del sud la pioggia cade raramente in primavera, estate e autunno. La vera stagione delle piogge inizia solitamente in dicembre e termina a marzo. Ma il 2 aprile del 1963, un martedì, il cielo era carico di nubi e l’umidità era alta. Dalla porta aperta della piccola drogheria di quartiere a Santa Ana, Bob Shane scrutò il cielo e decise che era imminente un acquazzone di fine stagione.
Gli alberi di fico nel prato della casa di fronte e le palme all’angolo della strada erano immobili nell’aria morta e sembravano curvarsi come sotto il peso della tempesta imminente.
Accanto al registratore di cassa la radio era tenuta bassa. I Beach Boys stavano cantando il loro nuovo successo Surfin’ USA. Considerato il tempo, la loro melodia era fuori luogo; come se qualcuno in luglio si fosse messo a cantare Bianco Natale.
Bob guardò l’orologio: le tre e un quarto.
Entro un quarto d’ora, sarebbe cominciato a piovere a dirotto.
Gli affari erano andati bene la mattina, mentre nel pomeriggio non c’era stato movimento. In quel momento non c’erano clienti nel negozio.
La bottega a conduzione familiare doveva far fronte alla nuova e spietata concorrenza di una catena di negozi di generi alimentari come la 7-Eleven. Bob stava progettando di trasformare la piccola drogheria in un negozio di specialità gastronomiche, ma prendeva tempo perché quel tipo di servizio richiedeva un impegno decisamente maggiore.
Se il temporale era violento avrebbe avuto ben pochi clienti per il resto della giornata. Forse avrebbe chiuso prima e avrebbe portato Laura a vedere un film.
Allontanandosi dalla porta, disse: «Meglio prendere la barca, bambina mia».
Laura era inginocchiata accanto alla prima fila di scaffali, di fronte al registratore di cassa, assorta nel suo lavoro. Dal magazzino Bob aveva portato quattro cartoni di zuppa in scatola e ora Laura se ne stava occupando. Aveva soltanto otto anni, ma era una bambina di cui ci si poteva fidare e le piaceva aiutare in negozio. Dopo aver marcato ogni scatola con il prezzo, le sistemò sugli scaffali e, ricordandosi di ruotare la mercé, mise quelle vecchie davanti a quelle nuove.
Riluttante, alzò lo sguardo. «Barca? Quale barca?»
«Su di sopra, in casa. La barca nello stanzino. A giudicare dal cielo, più tardi avremo sicuramente bisogno di una barca per andare in giro.»
«Ma va’», esclamò lei. «Non abbiamo una barca nello stanzino.»
Bob girò dietro la cassa. «Una bella barchetta blu.»
«Ah sì? In uno stanzino? Quale stanzino?»
Bob cominciò a sistemare i pacchetti di Slim Jims sull’apposito espositore di metallo accanto alle confezioni di salatini. «Ma lo stanzino della biblioteca, naturalmente!»
«Ma noi non abbiamo una biblioteca.»
«No? Be’, adesso che me l’hai detto, la barca non è nella biblioteca. E nello stanzino che si trova nella stanza di Sir Rospo.»
Laura ridacchiò. «Ma quale rospo?»
«Come, vuoi farmi credere di non sapere nulla di Sir Rospo?»
Sorridendo la bimba scosse la testa.
«Oggi come oggi affittiamo una stanza a un onesto e raffinato rospo inglese. Un rospo gentiluomo che è qui per trattare affari per conto della regina.»
Il cielo fu scosso dai primi lampi e tuoni. La radio trasmetteva, insieme con le scariche, Rhythm of the Rain.
Laura non prestava alcuna attenzione al temporale, non la spaventavano le cose di cui la maggior parte dei bambini ha paura. Era così sicura e padrona di sé che a volte sembrava una vecchia signora travestita da bambina. «Ma perché la regina lascia che un rospo si occupi dei suoi affari?»
«I rospi sono eccellenti uomini d’affari», rispose Bob, aprendo un pacchetto di Slim Jims e prendendone una manciata. Da quando Janet era morta e si erano trasferiti in California per ricominciare tutto da capo, aveva messo su un bel po’ di chili. Non era mai stato un bell’uomo e ora che aveva trentotto anni ed era diventato grassottello, aveva poche possibilità di far girare la testa a una donna. E non era neppure un uomo di successo. Nessuno sarebbe diventato ricco con una botteguccia come la sua. Ma lui non ci faceva caso; aveva Laura ed era un buon padre e lei lo amava con tutto il cuore; quindi ciò che il resto del mondo poteva pensare di lui non aveva assolutamente importanza. «Sì, i rospi sono veramente degli eccellenti uomini d’affari. La famiglia di questo rospo ha servito la corona per centinaia di anni, gli hanno addirittura dato il titolo, Sir Thomas Rospo.»
I lampi si erano fatti più luminosi e i tuoni fecero tremare le pareti.
Laura aveva terminato di sistemare i barattoli sugli scaffali, si alzò e si pulì le mani sul grembiule bianco che indossava sopra la maglietta e i jeans. Era proprio graziosa; con quei bei capelli castani e i grandi occhi scuri, ricordava sua madre in modo sorprendente. «E quanto paga d’affitto Sir Thomas Rospo?»
«Sei pence la settimana.»
«Sta nella stanza accanto alla mia?»
«Sì, la stanza dove c’è la barchetta nello stanzino.»
Rise di nuovo. «Be’, farà meglio a non russare.»
«Lui ha detto la stessa cosa di te.»
Una vecchia Buick malconcia si arrestò davanti al negozio e mentre il guidatore apriva la porta, un terzo fulmine squarciò il cielo che andava oscurandosi. I lampi incendiarono la strada illuminando sinistramente la Buick parcheggiata e le auto di passaggio. Il tuono che seguì scosse l’edificio fino alle fondamenta.
«Wow!» esclamò Laura, andando con passo sicuro verso le vetrine.
La pioggia non aveva ancora cominciato a cadere, ma il vento soffiò improvviso da ovest, trascinando con sé foglie e cartacce.
L’uomo che uscì dalla decrepita Buick blu fissava il cielo attonito. Fulmini e saette cominciarono a squarciare le scure nubi, rispecchiandosi come lame taglienti sulle finestre e sulle auto e a ogni lampo seguiva un tuono che colpiva con tale violenza che sembrava provenire direttamente dalla mano di Dio.
I lampi terrorizzavano Bob. Quando chiamò Laura lei si precipitò dietro il bancone e si lasciò appoggiare una mano sulla spalla, probabilmente più per dare conforto a suo padre che non a se stessa.
L’uomo della Buick si affrettò a entrare nel negozio. Guardando il cielo sconvolto dai fulmini disse: «Visto che roba? Accidenti!»
L’eco del tuono si spense e il silenzio ritornò.
Cominciò a piovere. Prima grosse gocce che colpirono le vetrine debolmente, poi la pioggia divenne torrenziale, una vera cortina al di là della quale non si vedeva nulla.
Il cliente si voltò e sorrise. «Che spettacolo, eh?»
Bob stava per rispondere ma si zittì quando osservò con più attenzione l’uomo. Presagì il pericolo con la stessa sensibilità con cui un cervo può sentire un lupo in agguato. L’individuo indossava un paio di logori stivali di gomma, dei jeans sporchi e sopra una lurida maglietta bianca portava una giacca a vento macchiata, semiallacciata. Aveva la barba incolta e i capelli arruffati dal vento erano unti. Gli occhi febbricitanti erano iniettati di sangue: era un drogato. Avvicinandosi al bancone, da sotto la giacca a vento estrasse una rivoltella e l’apparizione di quell’arma non fu una sorpresa per Bob.
«Dammi quello che hai in cassa, stronzo.»
«Subito.»
«Svelto!»
«Sì, sì, ma stia calmo.»
Il drogato si inumidì le labbra screpolate. «Ehi stronzo, non fare il duro con me.»
«Okay, okay. Ecco», disse Bob cercando di proteggere Laura dietro di sé con una mano.
«Lasciala. Voglio vederla. Voglio vederla bene! Fammi vedere quella fottutissima bambina!»
«Va bene, ma non si agiti.»
L’uomo era fuori di sé, teso come una corda di violino, e tutto il corpo tremava visibilmente. «Lì, lì dove posso vederla. E tu non toccare nient’altro che la cassa. Non ti muovere, non cercare pistole o ti faccio saltare le cervella.»
«Non ho una pistola», lo rassicurò Bob. Lanciò un’occhiata in direzione della vetrina, nella speranza che non sopraggiungessero altri clienti proprio in quel momento. Il drogato sembrava così eccitato che avrebbe potuto colpire chiunque fosse entrato nel negozio.
Laura cercò di spostarsi lentamente da dietro suo padre, ma l’uomo sbraitò: «Ehi, non ti muovere!»
«Ma ha solo otto anni…»
«È una puttana. Grandi o piccole sono tutte delle fottutissime puttane!»
Aveva la voce strozzata. Sembrava ancora più spaventato di Bob e questo non fece che terrorizzare ulteriormente il pover’uomo.
Nonostante la sua attenzione fosse tutta concentrata sul rapinatore e la sua rivoltella, Bob sentì le note di The End of the World, un pezzo di Skeeter Davis, provenire dalla radio. Gli parvero di cattivo auspicio. E sull’onda della superstizione — perdonabile in un uomo che viene tenuto sotto il tiro di una pistola — Bob pregò che quella canzone finisse.
«Ecco, i soldi. Tutto quello che ho. Li prenda!»
L’uomo ripulì la cassa, infilò il bottino nella lurida giacca a vento, e chiese: «Nel retro c’è un magazzino, vero?»
«Perché?»
Con un gesto stizzito, il drogato spazzò dal banco tutta la mercé esposta, facendola cadere a terra. Brandendo la pistola in direzione del proprietario, sbraitò: «Brutto stronzo, so che c’è un magazzino! E adesso andiamo. Nel magazzino!»
Bob spalancò la bocca. «Senta, prenda il denaro e se ne vada. Ha avuto ciò che voleva e adesso per favore vada via.»
Sogghignando, più sicuro di sé con i soldi in tasca e incoraggiato dal terrore che leggeva negli occhi di Bob l’uomo rispose: «Non ti preoccupare, non voglio uccidere nessuno. Ehi, non sono un assassino, che cosa credi? Mi piacciono solo le femmine, ecco tutto. Voglio solo divertirmi con quella puttanella, poi me ne vado di qui.»
Bob si maledisse per non aver avuto una pistola. Laura era immobile, aveva fiducia in lui, e lui non poteva fare niente per salvarla. Quando sarebbero andati nel magazzino, avrebbe aggredito il drogato cercando di disarmarlo. Ma era grasso e lento, incapace di movimenti agili e fulminei. Sarebbe finito a terra mentre quel lurido bastardo portava Laura nel retro e la violentava.
«Muoviti!» gridò spazientito. «Ora!»
Si udì un colpo. Laura lanciò un urlo e Bob la strinse a sé per proteggerla. Il drogato, colpito alla tempia, piombò sui pacchetti di patatine e di chewing-gum. Era morto così in fretta che non aveva avuto neppure il tempo di premere il grilletto.
Sbigottito, Bob si voltò e vide alla sua destra un uomo alto e biondo che impugnava una pistola. Doveva essere entrato dal retro e si era infilato silenziosamente nel magazzino. Appena varcata la soglia del negozio aveva sparato al drogato senza alcun avvertimento. Fissava il corpo senza vita con aria impassibile, come se fosse abituato a quel tipo di azioni.
«Grazie al cielo», disse Bob, «la polizia.»
«Non sono un poliziotto.» L’uomo indossava un paio di ampi pantaloni grigi, una camicia bianca e una giacca scura sotto la quale s’intravedeva una fondina.
Bob era confuso e si chiese se il nuovo arrivato non fosse un altro ladro venuto a finire il lavoretto che il drogato era stato così violentemente costretto a interrompere.
Lo sconosciuto alzò lo sguardo. I suoi occhi erano di un blu chiaro, limpidi e schietti.
Bob fu sicuro di aver già visto quell’uomo, ma non ricordava né dove né quando.
Lo sconosciuto guardò Laura. «Tutto bene, tesoro?»
«Sì», rispose la bambina, stringendosi più forte al padre.
Lo sconosciuto attraversò la stanza evitando il corpo, che adesso puzzava di urina, e chiuse a chiave la porta d’ingresso. Accostò le tendine e guardò preoccupato le vetrine sulle quali scrosciava la pioggia. «Non ci sarà modo di coprirle, immagino. Dobbiamo solo sperare che nessuno passi e guardi dentro.»
«Che cosa volete fare di noi?» chiese Bob.
«Io? Nulla. Non sono un delinquente. Non voglio nulla da voi. Ho chiuso la porta solo per decidere cosa racconterà alla polizia. Ma dobbiamo sbrigarci, prima che qualcuno entri e lo veda.»
«Ma… ma perché ho bisogno di una storia?»
Lo sconosciuto si chinò sul corpo e dalle tasche della giacca a vento macchiata di sangue tirò fuori le chiavi dell’automobile e il denaro. Alzandosi disse: «Ecco. Dovrà dirgli che erano in due. Questo voleva Laura, ma l’altro era così disgustato dall’idea di violentare una bambina che voleva semplicemente andarsene. Ne è seguita una discussione e l’altro ha sparato al complice e ha tagliato la corda con i soldi. Riuscirà a raccontarla in modo che sia credibile?»
Bob era confuso. Con un braccio teneva stretta a sé la figlia. «Io… io non capisco. Lei non era con lui. Non è nei guai per averlo ucciso. Lui ci stava ammazzando. Perché non dobbiamo raccontare che cosa è veramente successo?»
Avvicinandosi alla cassa per restituirgli il denaro, lo sconosciuto chiese: «E qual è la verità?»
«Be’… è capitato qui e ha visto che cosa stava succedendo.»
«Ma io non sono capitato qui, Bob. Io sto vegliando su di voi.»
Infilando la pistola nella fondina, l’uomo abbassò lo sguardo su Laura.
Lei lo fissava con gli occhi spalancati. Lui le sorrise e le sussurrò: «L’angelo custode».
Non credendo agli angeli custodi, Bob disse: «Vegliando su di noi? Ma da dove? Da quanto? E perché?»
Con una voce che tradiva una certa urgenza e un vago, indefinibile accento, che solo allora Bob notò, lo sconosciuto rispose: «Questo non posso dirglielo». Guardò le vetrine bagnate di pioggia e riprese: «Non posso affrontare un colloquio con la polizia. Perciò deve imparare questa storia, e alla svelta».
«Ma dove l’ho conosciuta?»
«Non mi conosce.»
«Sono sicuro di averla già vista.»
«Si sbaglia. E comunque non ha bisogno di saperlo. Ma ora, per l’amor del cielo, nasconda quel denaro e lasci la cassa vuota. Sarebbe alquanto strano che il rapinatore se ne fosse andato senza il denaro. Prenderò la Buick e l’abbandonerò a qualche isolato da qui, così potrà descriverla ai poliziotti. Dia pure anche la mia descrizione, tanto non cambia nulla…»
Fuori si sentiva ancora tuonare, ma il temporale si era ormai allontanato.
L’aria umida si fece pesante quando l’odore rancido del sangue, più lento a sprigionarsi cominciò a mischiarsi al fetore dell’urina.
Nauseato, appoggiato al bancone, ma tenendo sempre Laura stretta a sé, Bob domandò: «Ma perché non posso raccontare come ha sventato la rapina, ucciso l’uomo e poi è sparito nel nulla visto che non vuole farsi pubblicità?»
Spazientito, lo sconosciuto alzò la voce. «Un uomo armato che capita proprio da queste parti mentre è in corso una rapina e decide di fare l’eroe? Ma non crederanno mai a una storia come questa!»
«Ma è la verità.»
«Ma non la berranno mai. Senta, cominceranno a pensare che sia stato lei a uccidere il delinquente. E dal momento che non possiede un’arma, almeno ufficialmente, cominceranno a pensare che si trattasse di un’arma illegale, che ha fatto sparire subito dopo averlo ammazzato, architettando poi questa storia assurda su uno strano Cavaliere Solitario che le ha salvato la pelle.»
«Ma io sono un rispettabile uomo d’affari e godo di un’ottima reputazione!»
Gli occhi dello sconosciuto si velarono di una strana tristezza. «Bob, lei è un brav’uomo, ma a volte è un po’… ingenuo.»
«Ma che cosa sta…?»
Lo sconosciuto levò una mano per zittirlo. «Quando un uomo viene a trovarsi in una situazione difficile, la sua reputazione non vale mai tanto quanto dovrebbe. La maggior parte delle persone ha buon cuore e concede sempre il beneficio del dubbio, ma quei pochi che hanno l’animo perfido non desiderano che vedere il loro prossimo in ginocchio, rovinato.» La voce si era fatta un sussurro. «È l’invidia, Bob. Li mangia vivi. Se fosse ricco, invidierebbero il suo denaro. Ma dal momento che non lo è, la invidiano perché ha una bella figlia, buona e dolce. La invidiano perché è un uomo felice, perché non prova invidia nei loro confronti. Una delle più grandi miserie dell’umanità è che tanti non sanno gioire del semplice fatto di esistere, di essere vivi, ma trovano la felicità solo nella miseria degli altri.»
Bob non poteva negare di essere ingenuo e sapeva che lo sconosciuto diceva il vero. Rabbrividì.
Dopo un momento di silenzio l’uomo riprese: «E quando i poliziotti arriveranno alla conclusione che la storia sul Cavaliere Solitario è tutta una menzogna, allora cominceranno a pensare che forse quel drogato non voleva affatto derubarla, che lei lo conosceva e aveva avuto una discussione con lui per una ragione o per l’altra. O addirittura che ha premeditato la sua morte, simulando poi il furto. Queste sono le conclusioni che trarrebbero. E anche se non potranno dimostrare la sua colpevolezza, cercheranno in tutti i modi di renderle la vita impossibile. Vuole davvero che Laura subisca tutto ciò?»
«No.»
«E allora faccia come le ho detto.»
Bob annuì. «Va bene. Ma chi diavolo è lei?»
«Non ha importanza. E adesso non c’è tempo.»
Andò dietro il bancone e si chinò su Laura. «Hai capito quello che ho detto a tuo padre? Se la polizia ti chiede che cosa è accaduto…»
«Lei era con quell’uomo», rispose prontamente indicando il cadavere.
«Giusto.»
«Lei era suo amico», continuò Laura, «ma poi avete cominciato a litigare per colpa mia. Anche se non so bene perché, visto che non ho fatto niente.»
«Non ha importanza il perché, cara», disse lo sconosciuto.
Laura annuì. «E poi gli ha sparato ed è corso via con tutti i soldi e io ho avuto molta paura.»
L’uomo alzò lo sguardo verso Bob. «Otto anni, eh?»
«È una bambina intelligente.»
«Sarebbe comunque meglio che i poliziotti non le rivolgessero troppe domande.»
«Non glielo permetterò.»
«Se lo fanno», li interruppe Laura, «comincerò a piangere e a strillare finché non smettono.»
Lo sconosciuto sorrise. Lo sguardo che rivolse a Laura era così amorevole che Bob si sentì a disagio. Le diede un buffetto sulle guance e inaspettatamente gli si inumidirono gli occhi. Rialzandosi aggiunse: «Bob, nasconda quel denaro. Si ricordi che l’ho portato via io».
Bob obbedì. Infilò alla rinfusa le banconote nella tasca dei pantaloni, nascondendo il rigonfiamento sotto il largo grembiule.
Lo sconosciuto aprì la porta, scostò la tendina e, prima di andarsene, aggiunse: «Si prenda cura di lei, Bob. È speciale». Quindi uscì nella pioggia, lasciò la porta aperta dietro di sé e salì sulla Buick. Uno stridio di gomme segnalò la sua partenza.
La radio era ancora accesa, ma Bob la udì solo in quel momento. L’ultima cosa che aveva sentito era The End of the World, prima che il rapinatore venisse ucciso. Shelley Fabares ora stava cantando Johnny Angel.
Piano piano tornò a essere consapevole di ciò che lo circondava. Sentiva anche la pioggia, ma non come un semplice picchiettio monotono di sottofondo. Ora la sentiva battere con violenza contro le finestre e sul tetto. Nonostante le folate di vento che entravano dalla porta aperta, il fetore di sangue e urina era diventato insopportabile e solo allora, come per incanto, realizzò quanto Laura fosse stata vicina alla morte. La sollevò da terra, la prese fra le braccia e la strinse, ripetendo il suo nome e accarezzandola. Affondò il viso fra i suoi capelli aspirando la dolce fragranza della sua pelle, sentì l’arteria del collo pulsare e ringraziò Dio che fosse ancora viva.
«Ti voglio bene, Laura.»
«Anch’io, papà. Ti voglio bene perché mi racconti sempre le storie di Sir Rospo e per mille altre ragioni, ma adesso dobbiamo chiamare la polizia.»
«Già, certo», annuì lui malvolentieri, mettendola a terra.
Aveva gli occhi pieni di lacrime mentre cercava di ricordare dove fosse il telefono.
Laura aveva già preso il ricevitore e glielo stava porgendo. «Se vuoi, papà, li posso chiamare io. Il numero è qui. Vuoi che li chiami io?»
«No, cara. Lo faccio io.» Trattenendo le lacrime, prese il telefono e si sedette sul vecchio sgabello di legno dietro il bancone.
Lei gli appoggiò una mano sul braccio per rassicurarlo.
Janet era stata una donna forte, ma la forza e la padronanza che Laura dimostrava erano insolite per la sua età e Bob Shane non sapeva in verità da dove le venissero. Forse la perdita della madre l’aveva resa più matura e sicura di sé.
«Papà? La polizia, ricordi?» gli rammentò Laura indicando il telefono.
«Oh sì, certo», rispose lui, e trattenendo un conato di vomito, compose il numero della polizia.
Kokoschka, seduto sull’automobile parcheggiata di fronte al piccolo negozio di Bob Shane, si toccava con fare pensoso la cicatrice sulla guancia.
La pioggia era cessata. La polizia se n’era andata. Le insegne luminose dei negozi e i lampioni erano accesi, ma nonostante l’illuminazione le strade bagnate erano opache, come se il selciato assorbisse la luce invece di rifletterla.
Kokoschka era arrivato nel quartiere insieme con Stefan, il biondo traditore dagli occhi azzurri. Aveva udito lo sparo e aveva visto Stefan infilarsi nell’automobile del rapinatore.
Quando era arrivata la polizia aveva raggiunto la folla di curiosi e aveva saputo quello che era accaduto nel negozio.
Aveva intuito la verità che si celava dietro la storia di Bob Shane. Stefan non era il loro aggressore, bensì colui che si era autoproclamato loro protettore e senza dubbio aveva mentito per coprire la sua vera identità.
Laura era stata salvata ancora una volta.
Ma perché?
Kokoschka cercava di immaginare quale parte potesse giocare Laura nei piani del traditore, ma era perplesso. Sapeva bene che non avrebbe ottenuto alcuna informazione interrogando la bambina, poiché era troppo giovane per essere a conoscenza di qualcosa. La ragione per la quale era stata salvata era certamente un mistero per lei come lo era per Kokoschka.
Era altrettanto sicuro che anche il padre non sapesse nulla. L’interesse di Stefan era sicuramente diretto alla bambina e non certo al padre, quindi Bob Shane non sarebbe stato messo al corrente delle origini o delle intenzioni di Stefan.
Kokoschka mise in moto la macchina e si diresse verso un ristorante a diversi isolati di distanza, cenò e a notte già inoltrata tornò nei pressi del negozio. Parcheggiò a lato della strada, al riparo delle fronde di una palma. Le luci della bottega erano spente, mentre le finestre dell’appartamento al secondo piano erano illuminate.
Estrasse da una tasca dell’impermeabile una P38 a canna mozza. Kokoschka aveva un debole per le armi ben fatte e sicure e soprattutto gli piaceva la sensazione che provava quando le impugnava: era la Morte in persona imprigionata nell’acciaio.
Kokoschka poteva tagliare i fili del telefono degli Shane, forzare la porta di casa, uccidere la bambina e suo padre e svanire nel nulla prima ancora che la polizia potesse reagire agli spari. Aveva un talento particolare per quel genere di lavoro.
Ma se li avesse uccisi senza sapere il perché, senza capire quale ruolo avessero nei piani di Stefan, in seguito avrebbe potuto scoprire di aver commesso un irreparabile errore. Prima di agire doveva scoprire qual era l’obiettivo di Stefan. Con riluttanza rimise in tasca la rivoltella.
Nella notte senza vento, la pioggia cadeva sulla città tamburellando rumorosamente sul tetto e sul parabrezza della piccola auto nera.
All’una di notte di quel martedì di fine marzo, sulle strade spazzate dalla pioggia viaggiavano solo alcuni veicoli militari. Stefan decise di imboccare una strada secondaria per recarsi all’istituto, evitando così i posti di blocco che conosceva, augurandosi che non ne fossero stati istituiti di nuovi. Aveva i documenti in ordine e con il suo lasciapassare poteva circolare anche durante il nuovo coprifuoco, ma preferiva non dover subire un controllo della polizia militare. Non poteva permettersi che gli perquisissero la macchina ed esaminassero il contenuto della valigia sul sedile posteriore: fili di rame, detonatori ed esplosivi al plastico.
A causa della pioggia che oscurava la città, dei tergicristalli ormai consumati e delle luci di posizione molto basse, per poco non vide la stradina che portava sul retro dell’istituto. Frenò, sterzò all’improvviso e imboccò il viottolo facendo stridere le ruote e sbandando sul terreno bagnato.
Parcheggiò nell’oscurità accanto all’entrata posteriore. Uscì dall’auto e prese la valigia dal sedile posteriore. Era un edificio grigio di quattro piani con pesanti inferriate alle finestre. Un’aria minacciosa incombeva su quel luogo, anche se non aveva l’aria di custodire segreti tali da poter cambiare radicalmente il mondo. Premette il pulsante della porta nera di metallo, udì il segnale acustico risuonare all’interno e attese nervosamente una risposta.
Indossava un paio di stivali di gomma e un impermeabile con il bavero alzato, ma non aveva né cappello né ombrello. I capelli fradici di pioggia gli gocciolavano sul collo.
Rabbrividendo rivolse lo sguardo a una feritoia che si trovava accanto alla porta. All’esterno il piccolo riquadro si presentava con un vetro a specchio che diventava trasparente all’interno.
Mentre aspettava, ascoltò il ticchettio della pioggia sul tetto dell’auto, osservò le pozzanghere e i rigagnoli d’acqua che finivano in un tombino.
Uno stretto fascio di luce gialla a forma di cono lo illuminò da sopra la porta.
Stefan sorrise alla guardia anche se non poteva vederla dietro la feritoia.
La luce si spense, le serrature scattarono e la porta si aprì verso l’interno. Conosceva Viktor, un uomo massiccio, sulla cinquantina, con i capelli grigi tagliati corti e un paio d’occhiali con la montatura in acciaio, ma non ne ricordava il cognome. Era un uomo di buon carattere, più di quanto desse a vedere. Era una vera e propria chioccia che si preoccupava sempre della salute degli amici.
«Signore! Che cosa fa qui a quest’ora e con questo tempaccio?»
«Non riuscivo a dormire.»
«Già. Un tempo davvero orribile. Ma entri, la prego o si prenderà un raffreddore.»
«Non riuscivo a darmi pace per aver lasciato un lavoro in sospeso, così ho pensato di venire qui e finirlo.»
«Se continua così, signore, andrà incontro a una morte prematura. Non c’è alcun dubbio.»
Entrando in anticamera Stefan osservò la guardia richiudere la porta e cercò nella mente qualcosa che gli potesse ricordare la vita privata di Viktor. «A guardarla, non è difficile intuire che sua moglie cucini ancora quelle deliziose tagliatene di cui mi ha tanto parlato.»
Voltandosi, Viktor sorrise dolcemente accarezzandosi la pancia. «È il diavolo in persona che me l’ha mandata per indurmi in tentazione e peccare di gola. Ma che cos’è quella, signore, una valigia? Si sta trasferendo qui?»
Stefan si asciugò con una mano il viso bagnato di pioggia, poi disse: «Sono i dati di una ricerca, li ho presi per lavorarci la sera».
«Ma non ha una vita privata?» «Mi concedo venti minuti ogni due martedì.» Viktor schioccò la lingua in segno di disapprovazione. Si diresse verso il tavolo che occupava gran parte della stanza, sollevò il ricevitore e chiamò il suo collega in servizio all’entrata principale dell’istituto. Questa era la prassi: quando una guardia lasciava entrare un visitatore dopo l’orario di lavoro, doveva sempre informare il collega, per evitare falsi allarmi e spiacevoli incidenti.
Lasciando una scia di gocce d’acqua sulla passatoia consumata, Stefan tolse dalla tasca dell’impermeabile un mazzo di chiavi e si diresse verso la porta d’acciaio interna. La serratura scattava solo girando simultaneamente due chiavi, una in possesso dell’impiegato autorizzato e l’altra della guardia di turno. Il lavoro che si svolgeva nell’istituto era così particolare e segreto che persino alle guardie notturne non era consentito accedere ai laboratori e agli archivi.
Viktor riappese il ricevitore. «Quanto ha intenzione di rimanere, signore?».
«Un paio d’ore. C’è qualcun altro in laboratorio?»
«No. C’è solo lei. Nessun altro eroe stasera, signore. Ma se continua così si ammazzerà. E per che cosa, per chi, poi? A chi importerà?»
«Eliot scrisse: ‘I santi e i martiri dettan legge dalla tomba’.»
«Eliot? È un poeta?»
«T. S. Eliot. Un poeta, già.»
«’Santi e martiri dettan legge dalla tomba.’ Non lo conosco, ma non mi sembra un poeta ufficiale; piuttosto un sovversivo.» Viktor rise di gusto, apparentemente divertito all’idea che il suo amico, indefesso lavoratore, potesse essere un traditore.
Insieme aprirono la porta interna. Stefan trascinò gli esplosivi nella sala al pianoterra dell’istituto e accese le luci.
«Se ha intenzione di venire spesso a lavorare nel cuore della notte», continuò Viktor, «le porterò un po’ di torta che fa mia moglie, per darle un po’ di carica.»
«Grazie, Viktor, ma mi auguro che non diventi un’abitudine.»
La guardia richiuse la porta e la serratura scattò automaticamente.
Quando rimase solo pensò, non per la prima volta, alla fortuna di essere biondo, occhi azzurri e di corporatura robusta. Il suo aspetto spiegava la noncuranza con cui trasportava quegli esplosivi in giro per l’istituto senza il timore di venire perquisito o sospettato. Non c’era nulla di subdolo o furtivo in lui. Era l’uomo ideale, angelico quando sorrideva e devoto al paese. E uomini come Viktor non avrebbero mai messo in dubbio la sua dedizione e la sua obbedienza.
Salì al terzo piano e andò direttamente al suo ufficio, accese una lampada, si tolse gli stivali di gomma, l’impermeabile e scelse una cartelletta dallo schedario. Dispose il contenuto sulla scrivania, per dare l’impressione che stesse lavorando. Nel caso improbabile che un altro membro dell’organico decidesse di fare la sua comparsa nel cuore della notte, era necessario evitare i sospetti.
Presa la valigia e una pila, salì le scale che portavano al quarto piano e raggiunse il solaio. Il fascio di luce illuminò enormi travi da cui spuntavano qua e là chiodi arrugginiti. Il solaio non veniva usato come magazzino. Era sgombro, a parte uno spesso strato di polvere e di insetticida. Il tetto d’ardesia a spiovente consentì a Stefan di stare eretto solo al centro.
Lo scrosciare incessante della pioggia gli richiamò alla mente l’immagine di una flottiglia di bombardieri che volava a bassa quota sopra di lui, forse perché era convinto che un simile disastro si sarebbe abbattuto sulla sua città.
Aprì la valigia con la rapidità e la sicurezza di un esperto, sistemò il plastico e plasmò ogni carica in modo da direzionare l’esplosione verso il basso e all’interno. La detonazione non doveva semplicemente far saltare il tetto ma polverizzare i piani intermedi, riducendo tutto a un ammasso di macerie. Nascose il plastico fra le travi e negli angoli e sistemò una carica sotto due assi del pavimento.
Il temporale sembrò calmarsi, ma per poco. Subito dopo riecheggiarono nella notte tuoni sinistri e la pioggia riprese a cadere con più violenza accompagnata dal vento che, ululando e sibilando sotto le grondaie, sembrava minacciare e al contempo compiangere la città.
Il freddo gli penetrò nelle ossa e Stefan proseguì il delicato lavoro con le mani sempre più tremanti, ma nonostante i brividi cominciò a sudare.
Inserì un detonatore in ogni carica e riunì i fili nell’angolo a nord-ovest del solaio. Li intrecciò a formare un unico cavo di rame, calandolo, lungo un condotto di aerazione che arrivava direttamente al seminterrato.
Le cariche e il cavo erano stati ben mimetizzati e non sarebbero stati scoperti se qualcuno avesse aperto la porta del solaio per gettarvi una rapida occhiata, ma non sarebbero certo sfuggiti a un controllo più accurato. Aveva bisogno di ventiquattr’ore, durante le quali nessuno doveva andare nel solaio. In fondo non chiedeva molto, considerando che era l’unico a essere entrato in quel solaio da mesi.
La notte seguente sarebbe tornato con una seconda valigia e avrebbe sistemato le cariche nel sotterraneo. Schiacciare l’edificio fra due esplosioni simultanee era l’unico modo per essere certi di ridurre la struttura e i suoi contenuti a un cumulo di macerie. Dopo la deflagrazione e l’incendio che ne sarebbe seguito, non doveva rimanere più alcuna documentazione che potesse favorire la ripresa della pericolosa ricerca che si stava svolgendo nell’istituto.
La grande quantità di esplosivo, nonostante la precisione con cui era stato piazzato, avrebbe danneggiato le strutture di tutte le ali dell’edificio e alcuni innocenti sarebbero rimasti uccisi. Ma non poteva farci nulla. Quei morti non potevano essere evitati. Non aveva osato ridurre il quantitativo di plastico perché, se tutto il materiale non fosse stato distrutto completamente, il progetto sarebbe stato subito ripreso e ciò avrebbe segnato la fine del genere umano. Se degli innocenti fossero periti, sarebbe vissuto con quel peso sulla coscienza.
Ritornò nel suo ufficio al terzo piano e si sedette per un momento alla scrivania. Voleva aspettare che gli si asciugassero i capelli e cessasse il tremito che lo scuoteva tutto. Voleva evitare che Viktor notasse qualcosa di strano.
Chiuse gli occhi e rivide il viso di Laura. Riusciva sempre a calmarsi quando pensava a lei. Il semplice fatto che lei esistesse lo riempiva di pace e di grande coraggio.
Gli amici di Bob Shane non volevano che Laura seguisse i funerali del padre perché pensavano che a una ragazzina di dodici anni dovesse essere risparmiata una cerimonia tanto dolorosa. Ma lei insistette con tanta determinazione che nessuno riuscì a dissuaderla.
Quel lunedì 24 luglio 1967 fu il giorno più infelice della sua vita, anche più doloroso del sabato precedente quando suo padre era morto. L’effetto dei calmanti che le avevano somministrato stava esaurendosi. Lentamente cominciò a realizzare l’entità di quella perdita.
Scelse un vestito blu scuro, non possedendone uno nero, indossò scarpe nere e un paio di calzettoni blu scuro. Temette di apparire troppo frivola con quei calzettoni. Del resto non aveva mai indossato calze di nylon e non le sembrava una bella idea metterle per la prima volta proprio al funerale. Si aspettava che il padre la guardasse dal cielo durante il servizio funebre e lei desiderava essere proprio come lui la ricordava. Se l’avesse vista con le calze di nylon, quasi a voler avere un’aria adulta, avrebbe potuto sentirsi imbarazzato per lei.
Nella camera mortuaria Laura sedette in prima fila fra Cora Lance, proprietaria della profumeria poco distante dalla drogheria Shane, e Anita Passadopolis, che aveva fatto beneficenza insieme con Bob alla Chiesa presbiteriana di St. Andrew. Avevano superato entrambe la cinquantina e trattavano entrambe Laura come se fosse una nipotina, accarezzandola in modo rassicurante e osservandola spesso con preoccupazione.
Ma non avevano bisogno di preoccuparsi. Non si sarebbe abbandonata a una crisi di pianto, né si sarebbe strappata i capelli. Sapeva che tutti dovevano morire: le persone, i cani, i gatti, gli uccelli e anche i fiori. Anche le vecchie sequoie morivano, prima o poi, sebbene vivessero venti o trenta volte più a lungo degli uomini, il che non le sembrava tanto giusto. D’altro canto, vivere un centinaio d’anni come un albero sarebbe stato certamente molto più noioso che vivere per soli quarantadue anni come un felice essere umano. Suo padre ne aveva quarantadue quando aveva avuto l’attacco di cuore. Un attacco improvviso. Ma così andava il mondo e piangerci sopra non aveva senso. Laura si sentì orgogliosa della propria saggezza.
La morte, poi, non significava la fine di una persona. La morte in realtà era solo l’inizio di un’altra vita, migliore. Era certa che fosse così perché glielo aveva detto suo padre, e lui non mentiva mai. Suo padre era l’uomo più sincero, dolce e gentile che fosse mai esistito.
Quando il pastore si avvicinò al leggìo, alla sinistra della bara, Cora Lance si chinò verso Laura. «Stai bene, cara?» le chiese.
«Sì. Sto bene», rispose, ma non si voltò. Non osava guardare nessuno e fissava semplicemente il vuoto.
Quella era la prima camera mortuaria in cui fosse mai entrata e non le piaceva. Il tappeto rosso era troppo spesso, quasi ridicolo. Anche i tendaggi, il tessuto delle sedie e i paralumi delle lampade erano dello stesso colore, con minuscole guarnizioni in oro. Così tutte le stanze sembravano essere state decorate da un architetto ossessionato da un feticcio color rosso.
Feticcio per lei era una parola nuova. L’aveva usata troppo, proprio come usava troppo ogni parola nuova, ma in questo caso era appropriata.
Il mese precedente, quando per la prima volta aveva udito la parola «sequestrato», che significava «appartato» o «isolato», l’aveva usata in ogni occasione, finché suo padre aveva iniziato a prenderla in giro. «Le patatine sono un articolo che rende parecchio, così le sposteremo nel primo scaffale vicino alla cassa perché nell’angolo in cui si trovano ora mi sembrano un po’ sequestrate». Gli piaceva farla ridere, come con le storie di Sir Rospo, un personaggio che aveva inventato quando lei aveva otto anni e la cui simpatica biografia veniva arricchita quasi ogni giorno. In un certo senso suo padre era stato più bambino di lei e lei lo aveva amato per questo.
Si morsicò le labbra per non scoppiare in lacrime. Se avesse pianto, avrebbe significato dubitare delle parole che suo padre le aveva sempre detto riguardo all’altra vita, a quella migliore. Piangendo lo avrebbe dichiarato morto, morto una volta per tutte. Finito per sempre.
Avrebbe dato chissà che cosa pur di essere «sequestrata» nella sua stanza, sopra la drogheria, nel suo letto, la testa nascosta sotto le coperte. L’idea era così allettante, che s’immaginò di poter facilmente creare un feticcio che la «sequestrasse».
Conclusasi la cerimonia, il corteo prese la via del cimitero.
Nel camposanto non c’erano lapidi e i tumuli erano contrassegnati da targhe di bronzo fissate su lastre di marmo poste a livello del terreno. I verdi prati ondulati, ombreggiati da enormi allori e da magnolie più piccole, avrebbero potuto essere scambiati per un parco, un luogo dove giocare, correre e ridere, se non fosse stato per la fossa aperta su cui era sospesa la bara di Bob Shane.
Quella notte Laura si era svegliata due volte per l’eco lontana di un tuono e, nonostante fosse semiaddormentata, le era sembrato di vedere dei lampi saettare alla finestra, ma anche se c’era stato un temporale fuori stagione, ora non ve n’era traccia. Il cielo, di un blu intenso, era terso.
Laura stava tra Cora e Anita, che l’abbracciavano e le sussurravano parole rassicuranti, ma lei non trovava conforto né nei loro gesti né nelle loro parole. Il grande gelo che avvertiva dentro di sé si faceva più profondo a ogni parola che il pastore pronunciava nella sua ultima preghiera, finché si sentì come nuda in un inverno glaciale invece che all’ombra di un albero in un caldo, tranquillo mattino di luglio.
La bara di Bob Shane fu calata nella fossa.
Non riuscendo a sopportare quella vista, Laura si liberò dell’abbraccio affettuoso delle due donne e fece quattro passi nel cimitero. Era fredda come il marmo, aveva bisogno di fuggire da tutta quell’ombra. Si fermò appena raggiunse uno spiraglio di sole. Lo sentì caldo sulla pelle, ma non riuscì a sciogliere il gelo che l’attanagliava.
Lasciò vagare lo, sguardo per qualche minuto lungo la dolce collina prima di scorgere l’uomo all’estremità del cimitero, al limitare di un boschetto di allori. Indossava un paio di calzoni larghi, di un marrone chiaro, e una camicia bianca, che in quell’oscurità appariva debolmente luminosa, come se fosse un fantasma che avesse abbandonato il suo abituale rifugio notturno per mostrarsi alla luce del giorno. Stava osservando lei e le persone raccolte intorno alla tomba di Bob, in cima alla collina. Da quella distanza Laura non poteva riconoscerlo, ma riuscì a rendersi conto che era alto, forte e biondo e… con un’aria familiare.
Quell’osservatore la incuriosì, anche se non sapeva perché. Come incantata, prese a scendere la collina, passando fra una tomba e l’altra. Più si avvicinava e più quell’uomo le sembrava familiare. Dapprima lui non reagì mentre lei si avvicinava, ma sapeva che la stava studiando attentamente, riusciva a sentire il peso del suo sguardo.
Cora e Anita la chiamarono, ma lei le ignorò. Presa da un’inspiegabile eccitazione, cominciò a camminare più velocemente. Solo pochi metri la separavano ora dallo sconosciuto.
L’uomo si ritrasse nella penombra tra gli alberi.
Timorosa che sparisse prima di poterlo osservare bene, ma senza capire ancora perché fosse tanto importante per lei vederlo meglio, Laura si mise a correre. Le suole delle scarpe nuove erano scivolose e per diverse volte rischiò di cadere. Nel punto in cui l’uomo si era fermato l’erba era schiacciata; quindi non era un fantasma.
Laura vide qualcosa muoversi fra gli alberi; era il bianco spettrale della sua camicia. Lo rincorse. Sotto gli allori, dove i raggi del sole non giungevano, cresceva solo una pallida erbetta, tuttavia spuntavano ovunque in superficie radici e ombre insidiose. Inciampò, si aggrappò al tronco di un albero per evitare di cadere, riacquistò l’equilibrio, alzò lo sguardo e scoprì che l’uomo era svanito.
Il boschetto era formato da un centinaio di alberi e i rami erano così intrecciati fra loro da consentire al sole di penetrare solo con sottili fili dorati, come se il tessuto del cielo avesse iniziato a sfilacciarsi nei boschi. Si affrettò, scrutando nell’oscurità. Pensò di averlo visto almeno una mezza dozzina di volte, ma si trattava sempre di giochi di luce o di scherzi della fantasia. Quando si alzò una leggera brezza, fu certa di avere udito i suoi passi furtivi mascherati dal fruscio delle foglie, ma nel momento in cui si mise a inseguire quel suono, tutto tacque.
Dopo un paio di minuti uscì dal boschetto e raggiunse una strada che serviva un’altra parte dell’esteso cimitero. Sul bordo erano parcheggiate delle macchine, luccicanti in quel bagliore, e un centinaio di metri più in là c’era un gruppo di persone che assisteva a un altro servizio funebre.
Laura, ferma sul limitare della stradina, il respiro affannoso, si chiese dove fosse andato l’uomo con la camicia bianca e perché si fosse quasi sentita obbligata a inseguirlo.
Il sole accecante, la lieve brezza che aveva cessato di soffiare e il ritorno del silenzio totale nel cimitero la fecero sentire a disagio. Il sole sembrava trapassarla, come se fosse stata trasparente, e lei si sentiva stranamente leggera, quasi senza peso, e anche vagamente stordita: si sentiva come se fosse stata in un sogno, fluttuante su un paesaggio irreale.
Sto per morire, pensò.
Appoggiò una mano sul parafango di un’auto posteggiata e strinse i denti, lottando per rimanere cosciente.
Nonostante avesse solo dodici anni, raramente aveva pensato o agito come una bambina, e lei non si era mai sentita una bambina. Ma in quel momento, nel cimitero, improvvisamente si sentì molto giovane, debole e indifesa.
Una Ford marrone si muoveva lentamente lungo la strada, rallentando a mano a mano che le si avvicinava. Al volante c’era l’uomo con la camicia bianca.
Nell’attimo in cui lo vide, seppe perché le era così familiare. Quattro anni prima. La rapina. Il suo Angelo Custode. Sebbene a quel tempo avesse solo otto anni, non avrebbe mai dimenticato il suo volto.
La macchina rallentò, quasi volesse fermarsi, poi le passò accanto. Solo pochi passi la separavano dallo sconosciuto.
Attraverso il finestrino aperto poté distinguere i lineamenti di quel bel volto, come in quel terribile giorno quando lo aveva visto per la prima volta nel negozio. Gli occhi blu erano luminosi e affascinanti proprio come li ricordava. Quando i loro sguardi si incontrarono, rabbrividì.
L’uomo non disse nulla, non sorrise, ma la osservò intensamente, come se cercasse di imprimersi nella mente ogni dettaglio. La fissava come un uomo può fissare un grande bicchiere di acqua fresca dopo aver attraversato un deserto. Il suo silenzio e quello sguardo fisso spaventarono Laura, ma la riempirono anche di un incomprensibile senso di sicurezza.
L’auto stava passando oltre. «Aspetta!» urlò.
Si staccò via dall’auto contro la quale era rimasta appoggiata e schizzò verso la Ford. Lo sconosciuto accelerò e si allontanò a gran velocità, lasciandola sola nel sole, finché un attimo dopo udì la voce di un uomo chiamarla per nome: «Laura?»
Quando si voltò non riuscì a vederlo subito. Pronunciò ancora il suo nome, dolcemente, e lei lo scorse poco distante accanto agli alberi, fermo nell’ombra sotto un cespuglio di alloro. Indossava larghi pantaloni neri, una camicia nera e sembrava fuori luogo in quel giorno d’estate.
Curiosa e perplessa, chiedendosi se in qualche modo quell’uomo avesse a che fare con il suo Angelo Custode, Laura si avvicinò. Solo quando fu a pochi passi dallo sconosciuto, realizzò che la disarmonia che aveva colto fra lui e quel luminoso e caldo giorno estivo non era semplicemente dovuta al suo abbigliamento. Un’oscurità gelida era l’essenza stessa del suo essere; sembrava sprigionare un freddo interiore, come se fosse nato per dimorare nelle regioni polari o in grotte sperdute su alte montagne circondate da ghiacci.
Laura si fermò a pochi passi da lui.
L’uomo non disse più nulla, ma la fissò intensamente, con uno sguardo che sembrava più perplesso che mai.
Laura vide che aveva un cicatrice sulla guancia sinistra.
«Perché tu?» chiese l’uomo gelido e fece un passo in avanti, cercando di afferrarla.
Laura si ritrasse, troppo spaventata per gridare.
Dalla macchia di alberi giunse il richiamo di Cora Lance: «Laura? Tutto bene, Laura?»
Lo sconosciuto reagì sentendo la voce di Cora così vicino, si voltò e si allontanò fra gli alberi, dileguandosi velocemente nell’ombra, come se non fosse stato un essere reale, ma un alito di oscurità che per un attimo avesse preso forma nella vita.
Cinque giorni dopo il funerale, sabato 29 luglio, per la prima volta, Laura fece ritorno nella sua stanza sopra il negozio. Era venuta per mettere via le sue cose e per dire addio a quel luogo che per anni era stato casa sua.
Si sedette sul bordo del letto disfatto, cercando di ricordare quanto fosse stata felice e quanto si fosse sentita sicura in quella stanza solo pochi giorni prima. Una pila di libri, per la maggior parte storie di cani e di cavalli, era accatastata in un angolo. Cinquanta miniature di cani e di gatti, in vetro, ottone, porcellana e peltro, riempivano le mensole sopra la testiera del letto.
Non aveva cuccioli, perché le norme sanitarie non consentivano di tenere animali in un retrobottega. Ma un giorno o l’altro avrebbe avuto un cane e forse anche un cavallo. Ma la cosa più importante era che da grande voleva fare il veterinario, curare gli animali malati e feriti.
Suo padre le aveva detto che avrebbe potuto fare quello che voleva: diventare veterinario, avvocato, attrice, qualsiasi cosa. «Puoi fare la mandriana se vuoi, oppure la ballerina sui trampoli. Niente ti può fermare.»
Laura sorrise, ricordando il padre nell’imitazione di una ballerina sui trampoli. Ma non c’era più. Avvertì un vuoto tremendo dentro di sé.
Svuotò l’armadio, piegò con cura i vestiti e riempì due grandi valigie. Aveva anche un vecchio baule, in cui mise i libri preferiti, alcuni giochi e un orsacchiotto.
Cora e Tom Lance stavano facendo un inventario degli oggetti rimasti nel piccolo appartamento e nel negozio sottostante. Laura sarebbe andata a vivere da loro, anche se non le era ancora chiaro se quella sistemazione fosse permanente o solo temporanea.
Il pensiero del suo futuro incerto la rese nervosa, così riprese a sistemare le sue cose. Aprì il cassetto di uno dei comodini, quello più vicino a lei, e rabbrividì alla vista dei minuscoli stivali, del piccolo ombrello e della sciarpina lunga solo dieci centimetri che suo padre aveva acquistato a riprova che Sir Rospo aveva veramente preso in affitto una camera da loro.
Aveva convinto uno dei suoi amici, un bravo calzolaio, a fargli degli stivali con una forma adatta alle zampe di un rospo. L’ombrello l’aveva acquistato in un negozio di miniature, mentre la sciarpa verde l’aveva confezionata lui stesso applicando persino le frange. Il giorno del suo nono compleanno, quando era tornata a casa da scuola, gli stivali e l’ombrellino erano appoggiati contro il muro proprio accanto all’ingresso e la piccolissima sciarpa era accuratamente appesa all’attaccapanni.
«Ssst!» l’aveva zittita il padre in tono serio. «Sir Rospo è appena ritornato da un viaggio molto impegnativo in Ecuador per conto della regina, che là possiede una miniera di diamanti! È esausto. Sono sicuro che dormirà per giorni. Però mi ha detto di augurarti buon compleanno e ha lasciato un regalo per te nel prato là fuori.» Il regalo era una nuova bicicletta.
Ora, mentre osservava i tre oggettini nel cassetto, Laura realizzò che con suo padre se n’erano andati Sir Rospo e tanti altri personaggi che aveva creato e quelle sciocche, bellissime favole con cui l’aveva divertita. Gli stivali, il piccolo ombrello e la sciarpa apparivano così dolci e patetici; poteva quasi credere che Sir Rospo fosse davvero esistito e che ora se ne fosse andato in un mondo migliore. Le sfuggì un gemito e si abbandonò sul letto nascondendo il viso fra i cuscini e soffocando i singhiozzi disperati. Per la prima volta da quando suo padre era morto, diede finalmente libero sfogo al dolore.
Non voleva vivere senza di lui, tuttavia non solo doveva vivere, ma avere successo. Nonostante fosse ancora piccola, comprendeva che vivendo bene e comportandosi come una persona onesta avrebbe permesso a suo padre di continuare a vivere in un certo senso attraverso di lei.
Ma guardare al futuro con ottimismo sembrava piuttosto difficile. Ora sapeva che nella vita potevano esserci tragedie e mutamenti; un momento la serenità e il calore, un attimo dopo l’oscurità e il freddo. Non si poteva mai sapere quando il destino avrebbe colpito qualcuno che si amava. Non esiste nulla di eterno e immutabile. La vita è una candela nel vento. Era una dura lezione per una bambina della sua età e la fece sentire vecchia, molto vecchia.
Smise di piangere e in breve riprese il controllo di sé, perché non voleva che i Lance scoprissero che aveva pianto. Se il mondo era così duro, crudele e imprevedibile, non era certo saggio mostrare anche la più piccola debolezza.
Avvolse accuratamente gli stivali, l’ombrello e la piccola sciarpa di Sir Rospo in un foglio di carta e li ripose nel vecchio baule. Una volta sistemati anche gli altri oggetti che si trovavano nei comodini, andò a svuotare la scrivania e sul tampone di feltro trovò un foglio di carta ripiegato con un messaggio per lei, in una scrittura chiara, elegante e nitida come se fosse stata stampata.
Cara Laura,
alcune cose è destino che accadano e nessuno può evitarle, neanche il tuo Custode speciale. Sii contenta di sapere che tuo padre ti ha amata con tutto il cuore, in un modo in cui poche persone avranno mai la fortuna di essere amate. Anche se adesso pensi che non sarai mai più felice, ti sbagli. A tempo debito la felicità verrà da te. E questa non è una vuota promessa, è un fatto.
Il biglietto non era firmato, ma lei sapeva chi doveva averlo scritto: l’uomo che era al cimitero, che l’aveva osservata dall’auto, che almi prima aveva salvato lei e suo padre. Nessun altro avrebbe potuto definirsi il suo Custode speciale. Si sentì percorrere da un tremito, non perché avesse paura, ma perché la stranezza e il mistero che avvolgevano quel personaggio la riempivano di curiosità e meraviglia.
Si avvicinò alla finestra della camera e tirò la tendina trasparente, certa che l’avrebbe visto lì, fermo nella strada, che guardava il negozio. Ma lui non c’era.
Neppure l’uomo vestito di nero era lì, ma lei non si era aspettata di vederlo. Era in parte convinta che l’altro sconosciuto non avesse alcuna relazione con il suo Custode, pensava che fosse al cimitero per qualche altra ragione. Certo conosceva il suo nome… ma forse aveva sentito Cora chiamarla qualche momento prima, dalla cima della collina. Era in grado di cancellarlo dalla sua mente perché non voleva che lui fosse parte della sua vita, mentre desiderava disperatamente avere un Custode speciale.
Rilesse il messaggio.
Sebbene non comprendesse chi fosse quell’uomo biondo o perché si fosse preso tanta cura di lei, Laura si sentì rassicurata dal biglietto che le aveva lasciato. Comprendere non sempre è necessario, l’importante è credere.
La notte seguente, dopo che aveva sistemato gli esplosivi nel solaio dell’istituto, Stefan ritornò con la stessa valigia, sostenendo ancora una volta di soffrire d’insonnia. Prevedendo quella visita notturna, Viktor gli aveva portato metà del dolce che aveva preparato sua moglie, come promesso.
Stefan sbocconcellò il dolce mentre modellava e sistemava gli esplosivi al plastico. L’enorme sotterraneo era diviso in due stanze e al contrario del solaio veniva usato giornalmente dal personale. Avrebbe dovuto nascondere le cariche e i cavi con particolare attenzione.
La prima camera conteneva i documenti relativi alla ricerca e un paio di lunghi tavoli da lavoro. Gli schedari, alti circa due metri, erano disposti in fila lungo due pareti. Riuscì a collocare gli esplosivi in cima agli schedari, nascondendoli contro le pareti, dove neppure il più alto degli addetti avrebbe potuto vederli.
Collegò i fili dietro gli schedari, anche se fu costretto a praticare un piccolo buco nella parete divisoria per far arrivare il filo di detonazione nell’altra camera. Il buco si trovava in una posizione che non avrebbe destato l’attenzione di nessuno e i cavi erano visibili solo per un paio di centimetri su entrambi i lati della parete divisoria.
La seconda stanza veniva usata come magazzino per le forniture dell’ufficio e del laboratorio e anche per ospitare tutti gli animali che avevano fatto da cavia ed erano sopravvissuti nei primi esperimenti all’istituto: numerosi criceti, qualche topolino bianco, due cani e una scimmia rinchiusa in una grande gabbia con tre sbarre su cui poteva dondolarsi. Sebbene gli animali non servissero più, venivano tenuti sotto osservazione nel caso manifestassero problemi clinici imprevisti che potevano essere collegati alle loro singolari avventure.
Stefan sistemò le potenti cariche al plastico nelle cavità che si trovavano dietro le forniture ammassate e portò tutti i cavi verso la griglia del condotto di aerazione lungo il quale aveva lasciato cadere, la notte prima, i cavi del solaio. Mentre lavorava, si accorse che gli animali osservavano con un’intensità insolita, come se sapessero che avevano meno di ventiquattr’ore da vivere. Si sentì arrossire per la vergogna, un turbamento che invece non aveva provato quando aveva pensato alla morte degli uomini che lavoravano nell’istituto.
Forse perché gli animali erano innocenti, mentre gli uomini no.
Alle quattro del mattino aveva finito. Prima di lasciare l’istituto si diresse verso il laboratorio al pianterreno e rimase a fissare per un minuto il tunnel.
Il tunnel.
I segnali dei quadranti, degli indicatori e dei grafici nella macchina del tunnel si coloravano di arancione, giallo o verde.
La «cosa» era di forma cilindrica, lunga circa quattro metri e con un diametro di tre, appena visibile nella fioca luce; l’involucro esterno in acciaio inossidabile rifletteva debolmente i segnali luminosi che lampeggiavano nella macchina che occupava tre delle pareti della stanza.
Aveva usato il tunnel migliaia di volte, ma continuava ad averne soggezione, non tanto perché fosse un’incredibile conquista scientifica, ma perché il suo potenziale distruttivo era illimitato. Non era il tunnel per l’inferno, ma nelle mani degli uomini sbagliati avrebbe anche potuto diventarlo. Ed era veramente nelle mani di uomini sbagliati.
Dopo aver ringraziato Viktor per il dolce, fece ritorno al suo appartamento.
Per la seconda notte consecutiva infuriava la tempesta. La pioggia scrosciava con violenza. L’acqua scendeva schiumante dalle grondaie, per riversarsi nei tombini, colava dai tetti e formava grandi pozzanghere nelle strade e poiché la città era immersa nell’oscurità le pozze e i rivoli sembravano scure macchie d’olio. Si aggiravano solo alcuni militari coperti da scuri impermeabili.
Stefan prese la via diretta per tornare a casa, superando senza difficoltà i posti di blocco che conosceva. I suoi documenti erano in ordine, anche il lasciapassare che gli consentiva di circolare nelle ore notturne era regolare e inoltre non stava più trasportando esplosivi.
Arrivato a casa, puntò la sveglia e si addormentò quasi subito. Aveva un disperato bisogno di dormire perché lo attendeva una giornata difficile: due viaggi pericolosi e parecchi morti. Se non fosse stato più che all’erta, avrebbe potuto trovarsi sulla pericolosa traiettoria di una pallottola.
Sognò di Laura e ciò gli parve un buon presagio.
Come l’amaranto che viene trascinato lungo i deserti della California dalla furia del vento, così Laura Shane visse dai dodici ai diciassette anni, arrestandosi brevemente qua e là nei momenti di calma; poi, a una nuova folata di vento, veniva strappata e cominciava nuovamente a vorticare.
Non aveva parenti e, non poteva rimanere con i migliori amici di suo padre, i Lance. Tom aveva sessantadue anni e Cora cinquantasette e nonostante fossero sposati da trentacinque anni, non avevano figli. La prospettiva di dover crescere una ragazzina li aveva spaventati.
Laura comprese e non gli serbò rancore. Il giorno in cui lasciò la casa dei Lance, in compagnia di un’assistente sociale, Laura baciò sia Cora sia Tom assicurandoli che sarebbe stata bene. Mentre si allontanava agitò festosamente la mano in segno di saluto, con la speranza che si sentissero assolti.
Assolto. Una parola di recente acquisizione. Assolto: prosciolto dall’accusa di aver commesso qualche cattiva azione; liberato o sciolto da un impegno, un obbligo morale o una responsabilità. Sperava di poter essere assolta dall’obbligo di procedere nella vita senza la guida di un padre amorevole, dalla responsabilità di vivere e andare avanti nel suo ricordo.
Dalla casa dei Lance fu portata in un orfanotrofio, l’istituto McIlroy, un vecchio palazzo fatiscente in stile vittoriano, con ventisette stanze, costruito da un magnate dell’agricoltura nell’epoca in cui nella regione il settore aveva conosciuto momenti di gloria. In seguito era stato trasformato in istituto dove venivano ospitati temporaneamente i bambini sotto custodia pubblica, prima che venissero dati in affidamento. L’istituto era diverso da quelli descritti nei libri, soprattutto perché non c’erano suore gentili avvolte in ampie tonache fluttuanti.
C’era invece Willy Sheener.
Laura lo notò per la prima volta subito dopo il suo arrivo, mentre un’assistente sociale, la signora Bowmaine, le stava mostrando la stanza che avrebbe dovuto dividere — così le disse — con le gemelle Ackerson e con Tammy. Sheener stava spazzando il pavimento del corridoio.
Era un uomo sulla trentina, forte, di corporatura robusta, carnagione pallida, tutto lentigginoso, con capelli rosso rame e occhi verdi. Sorrise e mentre lavorava sibilò: «Come sta questa mattina, signora Bowmaine?»
«Benone, Willy.» Si vedeva che aveva un debole per Sheener. «Questa è Laura Shane, una nuova ragazza. Laura, questo è il signor Sheener.»
Sheener fissò Laura con un’intensità che metteva i brividi. Con voce impastata rispose: «…Ehm… benvenuta a McIlroy».
Mentre seguiva l’assistente sociale, Laura si voltò a guardarlo e Sheener, portatosi la mano alla patta dei pantaloni, cominciò a toccarsi sfacciatamente.
Laura distolse immediatamente lo sguardo.
Più tardi, mentre stava sistemando le sue poche cose, cercando di rendere più accogliente quell’angolo di stanza al terzo piano che le era stato assegnato, si voltò e vide Sheener fermo sulla porta. In quel momento era sola. Gli altri bambini stavano giocando nel cortile. Sorrideva, ma il suo sorriso era diverso da quello che aveva rivolto alla signora Bowmaine: era un sorriso freddo, da predatore. Il fascio di luce che entrava da una delle piccole finestre, andava a illuminare proprio l’entrata e si rifletteva nei suoi occhi con un’angolazione tale che apparivano argentei invece che verdi, come la cataratta che vela gli occhi di un morto.
Laura cercò di parlare senza riuscirci. Cominciò a indietreggiare finché si ritrovò contro la parete accanto al suo letto.
L’uomo era immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani chiuse a pugno.
L’istituto McIlroy non aveva l’aria condizionata. Le finestre della camera da letto erano aperte, ma dentro il caldo era torrido. Tuttavia Laura aveva cominciato a sudare solo quando si era voltata e aveva visto Sheener. Ora la sua maglietta era completamente bagnata.
Fuori, i bambini urlavano e ridevano. Erano vicini, ma sembravano lontanissimi.
Il respiro ansimante di Sheener sembrava sempre più forte, fino a coprire gradualmente le voci dei bambini.
Per un momento che sembrò lunghissimo nessuno dei due si mosse o parlò. Poi, improvvisamente, l’uomo si voltò e andò via.
Con le ginocchia tremanti, madida di sudore, Laura si mosse verso il letto e si sedette sul bordo. Il materasso molle sprofondò e le molle cigolarono.
Mentre il battito furioso del suo cuore andava rallentando, gettò uno sguardo alla grigia stanza e fu colta dalla disperazione. Ai quattro angoli erano sistemati dei lettini di ferro, con consunti copriletti in ciniglia e cuscini tutti bitorzoluti. Accanto a ogni letto c’erano dei comodini malconci, con il piano in formica, su cui poggiava una lampada di metallo. C’era poi un cassettone tutto graffiato con otto cassetti, di cui due erano suoi, e c’erano anche due armadi, e lei ne poteva usare solo la metà di uno. Vecchie tende sbiadite e macchiate pendevano da bacchette semiarrugginite. L’intero edificio stava andando in rovina e sembrava abitato dai fantasmi; nell’aria aleggiava un odore sgradevole e Willy Sheener sembrava vagare nelle stanze come uno spirito malvagio in attesa della luna piena e degli scherzi sanguinali che sarebbero seguiti.
Dopo cena le gemelle Ackerson chiusero la porta della stanza e invitarono Laura a unirsi a loro sul logoro tappeto marrone, dove potevano sedersi in cerchio e condividere i loro segreti.
Tammy, una strana e tranquilla biondina, non parve interessata alla proposta. Appoggiata ai cuscini, rimase seduta sul letto a leggere un libro, mordicchiandosi le unghie come un topolino.
A Laura, Thelma e Ruth Ackerson piacquero immediatamente. Avevano da poco compiuto dodici anni e quindi avevano più o meno la stessa età di Laura, ma erano piuttosto mature. Erano rimaste orfane tre anni prima e trovare dei genitori adottivi alla loro età era difficile, soprattutto considerato che erano due gemelle decise a non separarsi.
Non belle, ma incredibilmente identiche nella loro semplicità, avevano capelli castani, occhi marrone affetti da miopia, viso largo con il mento schiacciato e grandi bocche. Nonostante non avessero particolari requisiti fisici, erano incredibilmente intelligenti, energiche e di indole buona.
Ruth indossava un pigiama blu con bordini verde scuro e pantofole blu; i capelli erano raccolti a coda di cavallo. Thelma indossava invece un pigiama rosso scuro e un paio di pantofole gialle tutte pelose, su cui erano stati disegnati due cerchi a rappresentare gli occhi; teneva i capelli sciolti. Con il calar della sera, l’insopportabile calura del giorno se n’era andata. Solo una decina di chilometri li separava dal Pacifico, così che la brezza notturna rendeva il loro sonno piacevole. Dalle finestre aperte entrava un’arietta leggera che muoveva le vecchie tende e circolava nella stanza.
«L’estate è una noia», spiegò Ruth mentre si sedevano in cerchio sul pavimento. «Non è permesso allontanarsi dall’istituto e qui non è abbastanza grande. E in estate tutte le ‘benefattrici’ sono in vacanza e si dimenticano di noi.»
«Invece Natale è bello», intervenne Thelma.
«Sì, novembre e dicembre sono fantastici», precisò Ruth. «Proprio così», confermò Thelma. «Ci sono delle belle feste perché le dame di carità cominciano a sentirsi in colpa per avere tanto, quando invece noi, povere meschine senza casa, dobbiamo indossare cappotti smessi, scarpe dalla suola di cartone e mangiare pancotto a Capodanno. E così ci mandano cestini pieni di leccornie, ci portano in giro per negozi e al cinema, ma mai a vedere i film giusti.»
«Oh, a me alcuni piacciono», obiettò Ruth.
«Già, quel genere di film in cui non succede mai un cavolo, nessuno che salta per aria e soprattutto mai delle belle palpate. Non ci portano mai a vedere quei bei film dove ci sono delle scene erotiche, eccitanti. Film da oratorio. Noiosi, ma così noiosi…»
«Devi scusare mia sorella», disse Ruth a Laura, «ma pensa di essere arrivata alla soglia della pubertà…»
«Io sono alla soglia della pubertà! Mi sento tutta scombussolata», precisò Thelma protendendo un braccio sopra la testa.
«La mancanza di una guida materna e paterna l’ha segnata duramente, purtroppo. Non si è adattata tanto bene a essere orfana.»
«Devi scusare mia sorella», continuò Thelma. «Lei invece ha deciso di saltare completamente la pubertà e di passare direttamente dall’infanzia alla senilità.»
«E che cosa mi dite di Willy Sheener?» chiese Laura.
Le gemelle Ackerson si lanciarono uno sguardo d’intesa e iniziarono a parlare con una tale sincronia che fra una risposta e l’altra non passò lo spazio di una frazione di secondo. «Oh, un uomo disturbato», dichiarò Ruth. Thelma s’intromise: «Feccia». Ruth riprese: «Ha bisogno di un dottore». Thelma aggiunse: «No, no, quello lì ha bisogno di prendersi delle belle legnate sulla testa con una mazza da baseball, almeno una mezza dozzina di volte, anzi di più, e poi dovrebbe essere rinchiuso per il resto dei suoi giorni».
Laura raccontò alle gemelle quanto era accaduto nel pomeriggio.
«Non ha detto nulla?» si informò Ruth. «Molto strano, solitamente dice: ‘Ma che bella bambina’, oppure…»
«…‘Ti offro delle caramelle’», finì per lei Thelma con una smorfia di disgusto. «Te lo immagini? Caramelle? Che banalità! È come se avesse imparato a fare il vecchio libidinoso leggendo quei libretti che la polizia distribuisce per mettere all’erta i bambini sui pervertiti.»
«Nessuna caramella», disse Laura, tremando al ricordo degli occhi e del respiro ansimante di Sheener.
Thelma si chinò in avanti, abbassando la voce fino a farla diventare un sussurro. «Si direbbe che l’Anguilla Bianca avesse la lingua attorcigliata, troppo eccitato persino per ricordarsi i soliti ritornelli. Forse sente un’attrazione speciale per te, Laura.»
«Anguilla Bianca?»
«Sì, è Sheener», svelò Ruth. «O semplicemente Anguilla per farla breve.»
«Pallido e viscido com’è», proseguì Thelma, «il nome gli sta a pennello. Scommetto che l’Anguilla ha un debole per te. Intendo dire, bimba, che sei uno schianto.»
«No, non è vero», si difese Laura.
«Ma vuoi scherzare?» disse Ruth. «Con quei capelli neri e quegli occhi così grandi.»
Laura arrossì e cominciò a protestare, ma Thelma tagliò corto: «Senti, Shane, il Fantastico Duo Ackerson, ovvero Ruth e moi, non sopporta la falsa modestia così come non tollera la superbia. Siamo dei tipi schietti. Ci piace arrivare subito al dunque. Sappiamo perfettamente quali sono le nostre possibilità e ne siamo orgogliose. Una cosa è certa: nessuna di noi due vincerà il titolo di Miss America, ma siamo intelligenti, molto intelligenti e non abbiamo alcun problema ad ammetterlo. E tu, ragazza mia, sei bellissima, quindi smettila di fare tante scene».
«Mia sorella a volte ha un modo di fare un po’ troppo brutale e colorito», si scusò Ruth.
«Mia sorella, invece», replicò Thelma, «sta recitando la parte di Melania in Via col vento.» Ostentando un forte accento sudista, cominciò a recitare: «Oh, Rossella non vuole fare del male a nessuno. È tanto deliziosa. Anche Rhett è così adorabile, in fondo. E persino gli yankee sono brava gente, anche se hanno bruciato i nostri raccolti e si sono fatti gli stivali con la pelle dei nostri bambini».
Laura cominciò a ridere nel bel mezzo della scenetta.
«Smettila, dunque, di recitare la parte della fanciulla modesta! Tu sei bellissima.»
«Okay, okay. Sono… carina.»
«Ma vuoi scherzare! Quando l’Anguilla Bianca ti ha visto gli si è fuso il cervello.»
«Proprio così», convenne Ruth in tono di approvazione. «L’hai mandato in visibilio. Ecco perché non riusciva neanche a pensare di infilare una mano nella tasca per tirar fuori le caramelle che porta sempre con sé.»
«Caramelle!» esclamò Thelma. «Dei piccoli sacchettini di zuccherini dell’amore!»
«Laura, devi stare attenta», l’avvertì Ruth. «È un uomo malato…»
«È un porco!» incalzò Thelma. «Un topo di fogna!»
Da un angolino della stanza, Tammy sussurrò: «Non è poi cattivo come dite».
La biondina era così tranquilla, così esile e anonima che Laura aveva finito per dimenticarsi di lei. Ora vide che Tammy aveva messo da parte il libro e stava seduta sul letto; aveva raccolto le ginocchia ossute contro il petto, cingendole con le braccia. Aveva dieci anni, due in meno delle sue compagne, ed era piccola per la sua età. Con quella camicia da notte e i calzettoni bianchi, Tammy sembrava più un’apparizione che una persona reale.
«Non farebbe del male a nessuno», protestò con un filo di voce, come se esprimere la sua opinione su Sheener o su qualsiasi altra cosa o persona, fosse come camminare su una fune senza rete sotto.
«No, farebbe proprio del male a chiunque, se fosse sicuro di farla franca», obiettò Ruth.
«È solo…» Tammy si morse un labbro. «È semplicemente… solo.»
«No, dolcezza», la contraddisse Thelma. «Non è solo. È così pieno di sé che non sarà mai solo.»
Tammy distolse lo sguardo, si alzò, infilò i piedi nelle sue pantofoline e borbottò: «È ora di andare a letto». Prese la sua bustina dal comodino e ciabattò fuori dalla stanza, chiuse la porta e si diresse verso uno dei bagni alla fine del corridoio.
«Lei prende le caramelle», spiegò Ruth.
Laura fu scossa da un fremito di repulsione. «Oh no!»
«Sì», confermò Thelma. «Ma non perché vuole le caramelle. È un po’… confusa. Ha bisogno di quel genere di approvazione che ottiene dall’Anguilla.»
«Ma perché?» chiese Laura.
Ruth e Thelma si scambiarono un’altra occhiata e senza aprir bocca sembrarono discutere e raggiungere una decisione nel giro di un paio di secondi. Sospirando, Ruth concluse: «Be’, vedi, Tammy ha bisogno di quel genere di approvazione perché… suo padre le ha insegnato ad averne bisogno».
Laura era sconvolta. «Suo padre?»
«Non tutti i bambini che sono qui sono orfani», le spiegò Thelma.
«Alcuni sono qui perché i loro genitori hanno commesso dei crimini e sono stati mandati in prigione. E altri perché hanno maltrattato i loro figli o… abusato sessualmente di loro.»
L’aria fresca che entrava dalle finestre era probabilmente solo un poco più fresca di quando si erano sedute in cerchio sul pavimento, ma a Laura sembrò un gelido vento di tardo autunno, infiltratosi in quella notte d’agosto.
«Ma a Tammy non piace sul serio, vero?» insistette Laura.
«No, non credo», disse Ruth. «Solo che lei…»
«… ci è costretta», disse Thelma. «Non può farne a meno.»
Si zittirono, pensando all’impensabile, poi, rompendo il silenzio, Laura disse: «Strano e… così triste. Non possiamo fare qualcosa per far cessare tutto questo? Non possiamo raccontare alla signora Bowmaine o a qualche altro assistente che cosa fa Sheener?»
«Non servirebbe a nulla», brontolò Thelma.
«L’Anguilla negherebbe tutto e anche Tammy negherebbe e noi non abbiamo una prova.»
«Ma se lei non è la sola bambina di cui abusa, una delle altre…»
Ruth scosse la testa. «Molti di loro sono stati dati in affidamento, oppure sono stati adottati o sono ritornati nelle loro famiglie. Quei due o tre che sono ancora qui… be’, sono come Tammy, oppure hanno semplicemente una paura folle dell’Anguilla, sono troppo spaventati per tradirlo.»
«E inoltre», intervenne Thelma, «i grandi non vogliono sapere, non vogliono avere niente a che fare con queste cose. Cattiva pubblicità per l’istituto. E ci fanno anche la figura degli scemi per non essersi accorti che gliela stavano facendo sotto il naso. E poi, chi crederebbe a dei bambini?» Thelma imitò così bene la signora Bowmaine e quel suo caratteristico tono di falsità che Laura la riconobbe all’istante. «Oh, caro, sono delle creaturine orribili, bugiarde. Bestioline noiose e turbolente, capaci di distruggere la reputazione di un uomo come il signor Sheener solo per il gusto di farlo. Bisognerebbe appenderle a un gancio e alimentarle con le flebo. Pensi, mio caro, come sarebbe più efficiente questo sistema e che giovamento per loro, soprattutto.»
«Dopodiché l’Anguilla uscirebbe pulita da questa storia», disse Ruth, «tornerebbe a lavorare e troverebbe mille modi per farci pagare la soffiata. È già successo con un altro depravato che lavorava qui, un tipo che noi chiamavamo Fogel il Furetto. Povero Danny Jenkins.»
«Danny aveva denunciato Fogel il Furetto; aveva raccontato alla Bowmaine che il Furetto molestava lui e altri due bambini. Fogel fu sospeso. Ma gli altri due bambini non confermarono il racconto di Danny. Avevano paura del Furetto… ma avevano anche questo schifoso bisogno della sua approvazione. Quando la Bowmaine e gli altri interrogarono Danny…»
«Lo martellarono», proseguì Ruth, con voce piena di rabbia, «di domande trabocchetto, cercando di coglierlo in fallo. Cominciò a confondersi, a contraddirsi e così sostennero che si era inventato tutto.»
«E Fogel ritornò al lavoro», sottolineò Thelma.
«Attese il momento buono», aggiunse Ruth, «poi trovò il modo di rendere insopportabile la vita a Danny. Tormentò il bambino, finché un giorno… Danny cominciò a gridare e non smise più. Il dottore dovette fargli un’iniezione, poi lo portarono via. Psichicamente disturbato, dissero.» Ruth era sul punto di piangere. «Non l’abbiamo più visto.»
Thelma mise una mano sulla spalla della sorella. A Laura, spiegò: «A Ruth piaceva Danny. Era un bambino grazioso, piccolo, timido e dolce… ma la sua vita era segnata. Ecco perché devi essere dura con l’Anguilla. Non devi fargli vedere che hai paura di lui. Se cerca di fare qualcosa, urla e dagli un calcio nelle palle».
Tammy ritornò dal bagno e senza guardarle si sfilò le pantofole e si infilò sotto le coperte.
Nonostante Laura provasse repulsione al pensiero che Tammy fosse succube di Sheener, guardò la fragile biondina più con compassione che con disgusto. Non vi era visione più drammatica di quella piccola ragazzina, sola e annientata, che giaceva in quel lettino striminzito.
Quella notte Laura sognò Sheener. La testa era umana, ma il corpo era quello di un’anguilla bianca e per quanto Laura corresse Sheener strisciava dietro di lei, infilandosi sotto porte chiuse e altri ostacoli.
Nauseato da ciò che aveva appena visto, Stefan lasciò il laboratorio principale e fece ritorno al suo ufficio al terzo piano. Si sedette alla scrivania e si mise le mani nei capelli, tremando di disgusto, di rabbia e di paura.
Quel bastardo di Willy Sheener avrebbe violentato Laura, l’avrebbe picchiata a morte, lasciandola così traumatizzata che non si sarebbe più ripresa. Questa non era che una possibilità, ma sarebbe accaduto realmente se Stefan non avesse fatto qualcosa per prevenirlo. Aveva visto le conseguenze: il volto di Laura coperto dai lividi, il labbro spaccato… e i suoi occhi. Uno sguardo spento, senza vita, occhi che non risplenderanno più di gioia o di speranza.
La pioggia picchiettava contro le finestre dell’ufficio e quel suono sordo sembrava ripercuotersi nel suo essere, come se le cose terribili che aveva visto lo avessero svuotato.
Aveva salvato Laura dal drogato nel negozio di suo padre, e ora c’era già un altro maniaco. Una delle cose che aveva imparato dagli esperimenti dell’istituto era che modificare il destino non sempre era facile. Il destino non si arrendeva e cercava di far rispettare gli schemi decisi. Forse l’essere molestata e distrutta psicologicamente era un aspetto talmente immutabile del destino di Laura, che Stefan prima o poi non avrebbe più potuto impedirlo. Forse non poteva salvarla da Willy Sheener, o magari se avesse ostacolato Sheener un altro violentatore sarebbe entrato nella vita della ragazza. Ma doveva tentare.
Quegli occhi senza vita, senza gioia…
Settantasei bambini erano ospiti all’istituto McIlroy, tutti sui dodici anni. Quando compivano il tredicesimo anno venivano trasferiti alla Caswell Hall, ad Anaheim. Dato che la sala da pranzo era sufficiente solo per quaranta, i pasti venivano serviti in due turni. Laura era nel secondo, con le gemelle Ackerson.
Al mattino, il primo che Laura trascorreva all’orfanotrofio, mentre era in fila con Ruth e Thelma al bancone del self-service, vide che Sheener era uno dei quattro inservienti. Controllava la distribuzione del latte e dava a ciascuno delle paste, che prendeva con un paio di pinze.
A mano a mano che la coda si avvicinava, l’Anguilla guardò più volte Laura.
«Non lasciarti intimidire da lui», bisbigliò Thelma.
Laura cercò di sostenere apertamente lo sguardo e la sfida di Sheener.
Quando venne il suo turno, lui la salutò: «Buongiorno, Laura». E mise sul suo vassoio un dolce, una pasta particolare che aveva tenuto da parte proprio per lei; era più grande di quella degli altri, con più ciliegine e glassa.
Il giovedì, il terzo giorno che Laura trascorreva all’istituto, dovette sostenere un colloquio con la signora Bowmaine, nell’ufficio al primo piano. Etta Bowmaine era una donna grassa, con un guardaroba tutt’altro che seducente costituito da vestiti a fiori. Si esprimeva usando luoghi comuni e frasi fatte pregne di quella falsità melensa che Thelma aveva imitato così bene e le rivolse un sacco di domande a cui, in realtà, non desiderava le rispondesse con onestà. Laura mentì, descrivendo quanto fosse felice di essere al McIlroy e quelle bugie piacquero enormemente alla signora Bowmaine.
Mentre ritornava alla sua stanza, al terzo piano, incontrò l’Anguilla sulle scale dell’ala nord. Arrivò al secondo pianerottolo e lo vide sulla rampa di scale successive, mentre lucidava il corrimano con uno straccio. Su uno scalino era posato un flacone di cera.
Laura rabbrividì e il cuore cominciò a batterle più forte, perché sapeva che lui era rimasto lì ad aspettarla. Doveva aver saputo del suo colloquio nell’ufficio della signora Bowmaine e doveva aver immaginato che uscendo Laura avrebbe preso le scale più vicine per far ritorno alla sua stanza.
Erano soli. In qualsiasi momento poteva arrivare un altro bambino o un altro membro del personale, ma per ora erano soli.
Il suo primo impulso fu di ritornare indietro e di usare le altre scale ma poi ricordò ciò che le aveva detto Thelma, cioè di mostrarsi decisa di fronte all’Anguilla perché i tipi come lui sceglievano le loro prede fra i più deboli. Decise che la cosa migliore era passargli davanti senza proferire parola, ma le sembrava di avere i piedi incollati allo scalino; non riusciva a muoversi.
Guardando giù dalla rampa, l’Anguilla sorrise. Era un sorriso orribile. Aveva la pelle bianca, le labbra livide e i denti cariati erano gialli e chiazzati di marrone come la buccia di una banana matura. Sotto i capelli rossi tutti spettinati, il suo viso sembrava quello di un clown. Ma non quelli simpatici e burloni che si vedono al circo, bensì quelli in cui ci si può imbattere la notte di Halloween, che si portano appresso una motosega invece di una bottiglia di seltz. «Sei veramente carina, Laura.»
Cercò di dirgli di andare all’inferno, ma non riuscì ad aprire bocca.
«Voglio essere tuo amico», le propose. In qualche modo trovò la forza di salire i gradini verso di lui. Il suo sorriso si fece più ampio, forse perché pensava che Laura stesse rispondendo alla sua offerta di amicizia. Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un paio delle sue solite caramelline.
Laura si ricordò del racconto divertente di Thelma sugli stupidi e banali stratagemmi dell’Anguilla e improvvisamente non le sembrò più spaventoso come prima. Mentre le offriva le caramelle, guardandola con occhi lascivi, Sheener le parve una figura ridicola, una caricatura del demonio e gli avrebbe riso in faccia se non avesse saputo ciò che aveva fatto a Tammy e ad altre bambine. Nonostante non potesse ridere di lui, l’aspetto e i modi comici dell’Anguilla le diedero il coraggio di aggirarlo velocemente.
Quando realizzò che la bambina non avrebbe preso le caramelle né avrebbe risposto alla sua offerta di amicizia, l’afferrò per una spalla per fermarla.
Con un gesto rabbioso, Laura allontanò da sé la mano. «Non ci provare mai più, brutto porco!»
Si affrettò su per le scale, lottando contro il desiderio di correre. Se si fosse messa a correre, avrebbe capito che aveva ancora paura. Non doveva mostrare alcuna debolezza, perché ciò lo avrebbe incoraggiato a continuare a tormentarla.
Mentre era a soli due gradini dal pianerottolo successivo, pensò di aver vinto. Il suo atteggiamento deciso doveva averlo impressionato. Ma a quel punto sentì l’inconfondibile rumore di una cerniera lampo. Dietro di lei, quasi sospirando, Sheener le gridò: «Ehi, Laura, guarda qui. Guarda che cosa ho per te. Guarda, guarda che cosa ho in mano, Laura».
Lei non si voltò.
Raggiunse il pianerottolo e imboccò la rampa successiva pensando: non c’è ragione di correre; non provare a correre, non correre. Non devi correre!
Dalla rampa sottostante l’Anguilla la stuzzicò: «Guarda che bel bombolone grosso grosso ho in mano, Laura. È molto più grande di quello degli altri».
Arrivata al terzo piano, Laura si precipitò in bagno, dove si lavò vigorosamente le mani. Si sentiva sporca dopo aver toccato la mano di Sheener per togliersela dalla spalla.
Più tardi, quando con le gemelle Ackerson si riunì per la cerimonia notturna sul pavimento della stanza, Thelma non riuscì a trattenere le risate al pensiero che l’Anguilla volesse che Laura guardasse il suo «grosso bombolone». «È forte, vero? Ma da dove pensi che tiri fuori queste trovate? Doubleday pubblica per caso una collana dei classici sul Comportamento dei pervertiti o qualcosa del genere?»
«Il punto è», disse Ruth preoccupata, «che non è rimasto male quando Laura l’ha affrontato come ha fatto. Non penso che la lascerà perdere facilmente come con le altre bambine che gli resistono.»
Quella notte Laura fece fatica ad addormentarsi. Pensò al suo Custode e si chiese se sarebbe comparso miracolosamente come era già successo e se avrebbe avuto a che fare con Willy Sheener. Ma in qualche modo, sentì che questa volta non avrebbe potuto contare su di lui.
Negli ultimi dieci giorni di agosto l’Anguilla seguì Laura come un’ombra. Quando lei e le gemelle Ackerson andavano nella stanza dei giochi per fare una partita a carte o a Monopoli, Sheener appariva dopo circa dieci minuti e si metteva a lavare le finestre o lucidare i mobili, nonostante in realtà la sua attenzione fosse principalmente focalizzata su Laura. Se le bambine cercavano rifugio in un angolo del giardino dietro la casa, per parlare o per fare qualche gioco che a volte inventavano, Sheener faceva la sua apparizione qualche minuto dopo, avendo improvvisamente notato che gli arbusti avevano bisogno di essere potati o concimati. E sebbene il terzo piano fosse solo per le bambine, era aperto al personale maschile addetto alla manutenzione dalle dieci del mattino alle quattro del pomeriggio durante i giorni feriali. Quindi Laura non poteva neppure rifugiarsi nella sua stanza durante quelle ore, poiché non era sufficientemente sicura.
La cosa più preoccupante era il fatto che la sua torbida passione per Laura fosse ingigantita al punto di diventare un bisogno paranoico che si percepiva dall’intensità sempre crescente del suo sguardo e dall’odore di sudore che emanava quando si trovava nella stessa stanza con lei per più di qualche minuto.
Laura, Ruth e Thelma cercarono di convincersi che l’Anguilla rappresentasse, con il passare dei giorni, un pericolo sempre minore, visto che non si decideva ad agire. Il fatto che esitasse significava che aveva capito che Laura era una preda inaccessibile. Ma in cuor loro sapevano che la loro era solo una speranza. Si resero conto della gravita del pericolo, una domenica pomeriggio, sul finire di agosto, quando rientrando nella loro stanza trovarono Tammy che stava distruggendo la collezione di libri di Laura, in un accesso di folle gelosia.
Laura teneva sotto il letto i suoi libri favoriti, circa una cinquantina, che aveva portato da casa. Tammy li aveva trascinati nel mezzo della stanza e con una frenesia carica d’odio ne aveva distrutti più della metà.
Laura era troppo sconvolta per reagire e Ruth e Thelma trascinarono via Tammy cercando di calmarla.
Laura non riuscì a nascondere il proprio dolore, sia perché quelli erano i suoi libri preferiti ed essendole stati regalati da suo padre costituivano anche un legame e un ricordo, ma soprattutto perché possedeva così poco. I suoi averi erano miseri, di scarso valore, ma realizzò all’improvviso quanto rappresentassero una difesa contro le crudeltà della vita.
Tammy perse qualsiasi interesse per i libri, ora che il vero oggetto del suo odio stava di fronte a lei. «Ti odio, ti odio!» Il suo volto pallido e contratto, per la prima volta apparve a Laura vivo, arrossato e contorto dall’emozione. I cerchi scuri intorno agli occhi non erano spariti, ma non la facevano più sembrare debole e indifesa, al contrario, ora appariva feroce e crudele. «Ti odio, Laura, ti odio!»
«Tammy, dolcezza», si intromise Thelma, mentre cercava di tenere ferma la bambina, «Laura non ti ha mai fatto nulla.»
Con il respiro affannoso, ma senza più dimenarsi per liberarsi dalla stretta di Ruth e Thelma, Tammy urlò a Laura: «Tu sei l’unica cosa di cui lui parla! Io non gli interesso più, solo tu, non fa che parlare di te! Ti odio, perché sei venuta qui? Ti odio!»
Nessuno ebbe bisogno di chiederle a chi si stesse riferendo. L’Anguilla.
«Non mi vuole più. Nessuno mi vuole più, adesso. Mi vuole solo perché così posso aiutarlo a prendere te. Laura, Laura, Laura! Vuole che con uno stratagemma io ti porti in un posto dove possa essere solo con te, un posto che sia sicuro per lui, ma non lo farò, no, non lo farò! Perché una volta che lui ti avrà che cosa mi rimane? Nulla!» Il suo volto era rosso di rabbia, ma la cosa peggiore era la disperazione che si leggeva nei suoi occhi.
Laura corse fuori dalla stanza, percorse tutto il corridoio e si infilò nel bagno. Nauseata dal disgusto e dalla paura, cadde in ginocchio sulle gialle piastrelle crepate e vomitò. Una volta liberato lo stomaco, si avvicinò a uno dei lavandini, si sciacquò la bocca e si gettò dell’acqua fredda sulla faccia. Quando sollevò la testa e si guardò nello specchio, finalmente arrivarono le lacrime.
Non era per il senso di solitudine e di paura che piangeva. Piangeva per Tammy. Il mondo era un luogo di una crudeltà inimmaginabile se era possibile che la vita di una bambina di dieci anni potesse valere tanto poco al punto che le sole parole di assenso che avesse mai udito da un adulto erano quelle di un pazzo che abusava di lei, che l’unico avere di cui potesse andare orgogliosa era l’aspetto sessuale ancora immaturo del suo esile corpo infantile.
Laura si rese conto che la situazione di Tammy era infinitamente peggiore della sua. Benché privata dei sui libri, Laura aveva bellissimi ricordi di un padre amorevole, gentile, dolce, che Tammy non aveva mai avuto. Anche se quelle poche cose che possedeva le fossero state tolte, Laura avrebbe continuato a essere sana di mente, Tammy invece era psicologicamente labile e forse per lei non c’era alcuna speranza di recupero.
Sheener viveva in un bungalow in una tranquilla strada di Santa Ana. Un quartiere costruito dopo la seconda guerra mondiale: case piccole, gradevoli a vedersi, con interessanti dettagli architettonici. In quell’estate le diverse specie di alberi di fico avevano raggiunto la maturità e i loro rami si allargavano sulle case, quasi a proteggerle; l’abitazione di Sheener era parzialmente nascosta da grandi arbusti di azalea, eugenia e ibisco dai fiori rossi.
Verso mezzanotte, con l’ausilio di un arnese di plastica, Stefan fece saltare la serratura della porta sul retro e si introdusse nella casa. Mentre ispezionava il bungalow accese tutte le luci e non si preoccupò neppure di tirare le tende alle finestre. La cucina era perfettamente pulita. Tutto risplendeva, dal ripiano blu in formica, alle maniglie cromate dei mobiletti, al rubinetto del lavandino e persino i bordi in metallo delle sedie luccicavano. Non c’era il segno di un’impronta. Aprì il frigorifero, senza sapere bene che cosa si aspettasse di trovare là dentro. Forse un’indicazione delle psicologia anormale di Willy Sheener; forse una vittima delle sue molestie, uccisa e congelata per conservare i ricordi di una passione deviante? Nulla di tanto drammatico. Tuttavia risultava chiara la mania ossessiva dell’uomo per la pulizia: tutti i cibi erano chiusi in appositi contenitori.
L’unica particolarità che notò osservando il contenuto del frigorifero e della credenza, fu la preponderanza di dolci: gelati, paste, torte, caramelle, ciambelle, persino dei croccantini per animali. C’erano anche parecchi articoli che andavano per la maggiore in quel periodo, come per esempio gli Spaghetti-Os e barattoli di minestre di verdura in cui la pasta aveva forme che ricordavano i personaggi dei cartoni animati. Quelle provviste sembravano essere state fatte da un bambino, senza il controllo di un adulto.
Stefan si addentrò nella casa.
La crisi di gelosia di Tammy durante la quale aveva distrutto i libri di Laura, le tolse quel poco di energia che ancora possedeva. Non parlò più di Sheener e sembrava che non serbasse più alcuna animosità nei confronti di Laura. Si chiuse sempre più in se stessa, giorno dopo giorno, cominciò a tenere sempre il capo chino e la sua voce si affievolì.
Laura non capiva che cosa le fosse più intollerabile, se la minaccia costante costituita dall’Anguilla, oppure vedere la personalità già fragile di Tammy farsi sempre più evanescente a mano a mano che scivolava verso uno stato catatonico.
I problemi di Laura parvero risolversi quando, mercoledì 30 agosto, apprese che sarebbe stata affidata a una famiglia che viveva a Costa Mesa e che il suo trasferimento era previsto per il giorno seguente.
Tuttavia le dispiaceva lasciare le gemelle. Nonostante le conoscesse solo da qualche settimana, la loro amicizia, nata in una situazione difficile, si era consolidata in fretta e appariva molto più solida di quelle nate in periodi normali.
Quella notte, mentre erano sedute come al solito sul pavimento della loro stanza, Thelma disse: «Shane, se finisci in una brava famiglia, in una bella casa, sistemati ben bene e goditela. Se sei in un bel posto dimenticaci, fatti nuovi amici e vai avanti per la tua strada. Ma le leggendarie sorelle Ackerson, Ruth e moi, sono già passate sotto il torchio delle famiglie che chiedono l’affidamento per ben tre volte e tutt’e tre erano pessime, perciò ricorda che se capiti in un posto orribile, non sei obbligata a rimanerci».
Ruth le suggerì: «Comincia a piangere e non smettere più, così che tutti sappiano quanto sei infelice. E se non riesci a piangere sul serio, fai finta».
«Tieni il muso», consigliò Thelma, «e comincia a mostrarti maldestra. Per esempio, ogni volta che lavi i piatti lasciane cadere per terra. Insomma, diventa una peste.»
Laura parve sorpresa. «Avete fatto tutto ciò per ritornare a McIlroy?»
«Questo e altro», confessò Ruth.
«Ma non vi sentivate… in colpa a rompere le loro cose?»
«È stato più difficile per Ruth che per me», confidò Thelma. «Io ho il diavolo in corpo, mentre Ruth è la reincarnazione di un’oscura e sdolcinata suora del quattordicesimo secolo di cui non abbiamo ancora identificato il nome.»
Nel giro di un giorno Laura capì che non desiderava rimanere con la famiglia Teagel, ma cercò di adattarsi illudendosi che la loro compagnia fosse preferibile a un ritorno al McIlroy.
La vera vita non era che uno scenario nebuloso per Flora Teagel, a cui interessavano solo le parole crociate. Trascorreva intere giornate seduta al tavolo della sua cucina, sempre avvolta in un maglione — qualunque tempo facesse — e riempiva, una dopo l’altra, riviste di parole crociate, con una dedizione che era allo stesso tempo stupefacente e idiota.
Quando si rivolgeva a Laura, solitamente era per darle una lista di lavori da sbrigare, oppure per chiederle aiuto quando si trovava di fronte a qualche definizione complessa. Quando Laura lavava i piatti, Flora spesso se ne usciva con domande del tipo: «Qual è la parola di sei lettere per indicare gatto?»
La risposta di Laura era sempre la stessa: «Non lo so».
«’Non lo so, non lo so, non lo so’», la scimmiottava la signora Teagel. «Sembra che tu non sappia molto, ragazza mia. Non presti attenzione a scuola? Non ti interessano la lingua, le parole?»
Laura ovviamente era affascinata dalle parole. Per lei le parole erano cose meravigliose; considerava ciascuna come una polvere o una pozione magica che poteva essere combinata con altre per creare formule misteriose. Ma per Flora Teagel le parole non erano che lettere necessarie per riempire dei quadratini vuoti, grappoli di lettere fastidiosamente inafferrabili che la frustravano.
Il marito, Mike, era un camionista tracagnotto, con la faccia da bambino. Trascorreva le serate seduto in poltrona, assorto nella lettura del National Enquirer e delle sue storie assurde su contatti con alieni e su personaggi dediti a culti satanici. La sua passione per quelle che lui definiva «notizie esotiche» sarebbe stata innocua se si fosse limitato a starsene in poltrona, ma spesso andava da Laura mentre stava facendo i lavori di casa oppure in quei rari momenti in cui aveva del tempo libero per fare i compiti e insisteva per leggerle ad alta voce gli articoli più incredibili.
Laura pensava che queste storie fossero stupide, illogiche e senza senso, ma non poteva certo dirglielo. Del resto, se l’avesse fatto, non si sarebbe nemmeno offeso. Al contrario, l’avrebbe guardata con compatimento e poi, con una pazienza esasperante e con un fare irritante da saputello, tipico di chi studia tanto ma rimane sempre ignorante, avrebbe iniziato a spiegarle come funziona il mondo. Lentamente. Ripetutamente. «Laura, ci sono ancora tante cose che devi imparare. I capoccioni che stanno a Washington, quelli sì che conoscono tutto sugli alieni e sui segreti di Atlantide…»
Su un punto Flora e Mike erano perfettamente d’accordo: prendere in affidamento un bambino per ottenere gratuitamente un servo. Laura doveva lavare, occuparsi del bucato, stirare e cucinare.
La loro unica figlia, Hazel, aveva solo due anni in più di Laura ed era terribilmente viziata. Hazel non cucinava mai, non lavava mai i piatti, non faceva mai il bucato, né puliva la casa. Nonostante avesse solo quattordici anni, aveva le dita delle mani e dei piedi perfettamente curate e dipinte. Se dalla sua età fosse stato sottratto il numero di ore che aveva trascorso a imbellettarsi di fronte allo specchio, avrebbe avuto solo cinque anni.
«Quando fai il bucato», spiegò a Laura proprio il giorno in cui arrivò, «devi mettere dentro prima i miei vestiti. E inoltre devi sempre assicurarti di appenderli nel mio armadio a seconda del colore.»
Laura pensò che aveva già letto quel libro e aveva già visto quel film. Perdiana, aveva preso il posto di Cenerentola!.
«Vedi, io diventerò una grande attrice, oppure una modella», le spiegò Hazel, «perciò il mio viso, le mie mani e il mio corpo sono il mio futuro e devo proteggerli.»
La visita della signora Ince, la magrissima assistente sociale che si occupava del caso, era stata fissata per sabato mattina, 16 settembre, e Laura aveva intenzione di chiedere di essere rimandata all’istituto McIlroy. La minaccia rappresentata da Willy Sheener le sembrava un problema secondario rispetto alla vita quotidiana con i Teagel.
Quando la signora Ince arrivò, trovò Flora che stava lavando per la prima volta in due settimane i piatti. Laura invece era seduta al tavolo, in cucina, con un libro di parole crociate che le era stato messo fra le mani solo quando il campanello aveva cominciato a squillare.
Durante la parte della visita dedicata a un colloquio privato con Laura nella sua stanza, la signora Ince si rifiutò di credere a ciò che Laura le stava raccontando riguardo a tutto il lavoro che le avevano assegnato. «Ma cara, il signore e la signora Teagel sono dei genitori esemplari e poi non mi sembri così provata dal lavoro, anzi, hai persino messo su qualche chilo.»
«Io non li sto accusando di farmi soffrire la fame», replicò Laura. «Ma non ho mai tempo per fare i compiti e poi ogni sera vado a letto esausta…»
«Inoltre», la interruppe la signora Ince, «da queste famiglie non ci si aspetta semplicemente che ospitino i bambini, ma che li educhino, e ciò significa insegnare loro come comportarsi, instillare i buoni valori e l’amore per il lavoro.»
La signora Ince non offriva alcuna speranza.
Laura si risolse ad adottare il piano delle Ackerson per disfarsi di una famiglia che non voleva. Cominciò a mettere poca cura nei lavori domestici. Quando era lei a occuparsi dei piatti, erano macchiati e rigati. E quando stirava faceva delle gran pieghe sui vestiti di Hazel.
Dato che la distruzione della maggior parte della sua collezione di libri le aveva insegnato ad avere un profondo rispetto per la proprietà, Laura non voleva rompere i piatti o qualsiasi altra cosa appartenesse ai Teagel, perciò sostituì quella parte del piano Ackerson con il disprezzo e lo scherno. Un giorno Flora chiese una parola di sei lettere che significasse «una specie di bue» e Laura rispose: «Teagel». Una sera Mike cominciò a raccontare una storia di dischi volanti, che aveva letto sull’Enquirer, e lei lo interruppe per narrargli a sua volta un racconto assurdo su degli uomini mutati in talpe che vivevano nascosti nel supermercato della zona. Ad Hazel, invece, suggerì che per sfondare nel mondo dello spettacolo avrebbe dovuto fare domanda per diventare la controfigura di Ernest Borgnine. «Sei il suo ritratto perfetto, Hazel. Devono per forza prenderti!»
La logica conseguenza di tanta insolenza fu una sculacciata. Con le sue grandi mani callose Mike non aveva certo bisogno di un battipanni. Ma Laura si morse un labbro e non gli diede la soddisfazione di vederla piangere. Dalla soglia della cucina, Flora gridò: «Basta, Mike. Non lasciarle dei segni». Ma lui smise di battere Laura solo quando la moglie entrò nella stanza e gli fermò la mano.
Quella notte Laura si addormentò con fatica. Per la prima volta aveva impiegato il suo amore per le parole, il potere del linguaggio, per raggiungere l’effetto desiderato e le reazioni dei Teagel erano la prova che poteva usare le parole nel modo giusto. Ma ancora più eccitante era il pensiero, ancora troppo embrionale per essere compreso appieno, che forse aveva la capacità non solo di difendersi, ma di farsi strada nel mondo grazie alle parole, magari persino come autrice di quel genere di libri che le piacevano tanto. Con suo padre aveva parlato dei suoi sogni di diventare medico, ballerina, veterinario, ma erano stati discorsi così, tanto per dire. Nessuno di quei sogni l’aveva riempita di eccitazione come la prospettiva di diventare una scrittrice.
Il mattino seguente, quando scese in cucina, trovò i Teagel riuniti per la colazione. «Ehi, Mike», lo canzonò Laura, «ho appena scoperto che nello sciacquone in bagno vive un calamaro intelligente che viene da Marte».
«Ma che cosa stai dicendo?» le chiese Mike.
Laura sorrise. «Notizie esotiche.»
Due giorni più tardi Laura veniva rimandata all’istituto McIlroy.
Il salotto e lo studio di Willy Sheener erano ammobiliati come se ci vivesse un uomo normale. Del resto Stefan non era neppure sicuro di quello che si era aspettato di trovare. Forse le prove della demenza di quell’uomo, ma non certo una casa linda e ordinata.
Una delle camere da letto era vuota, mentre l’altra era decisamente strana. Il letto era costituito da un nudo e stretto materasso posato sul pavimento. Le federe dei cuscini e le lenzuola erano quelle usate per i bambini, con dei conigli tutti colorati. Il comodino e il cassettone erano a misura di bambino, di un azzurro pallido, con figure di animali stampate sui lati e sui cassetti: giraffe, conigli, scoiattoli. Sheener possedeva anche una collezione di Little Golden Books e altri libri illustrati, animali di stoffa e giocattoli adatti a bambini di sei, sette anni.
All’inizio Stefan pensò che quella stanza avesse lo scopo di attirare i bambini del vicinato e Sheener fosse così maniaco da cercare le sue prede persino vicino a casa, dove il rischio era maggiore. Ma nell’alloggio non c’erano altri letti e l’armadio e i cassetti non contenevano che abiti da uomo. Alle pareti erano appese fotografie incorniciate dello stesso ragazzo dai capelli rossi; alcune lo ritraevano da bambino, altre quando aveva circa sette o otto anni, e il volto era chiaramente quello di Sheener. Stefan cominciò a realizzare che l’unico frequentatore di quella casa era Willy Sheener. Quella creatura viscida dormiva proprio lì. Evidentemente, di notte si ritirava in un fantasioso mondo infantile, e in quella sua misteriosa regressione notturna trovava senza dubbio la pace che così disperatamente andava cercando.
Fermo al centro di quella strana stanza, Stefan si sentì allo stesso tempo rattristato e disgustato. Sembrava che Sheener non molestasse i bambini solo e principalmente a scopo sessuale, ma per assorbire la loro giovinezza, per ritornare a essere bambino come loro; attraverso la perversione sembrava che cercasse di discendere non tanto nello squallore morale, quanto in una perduta innocenza. Era patetico e allo stesso tempo spregevole, impreparato alle prove che si presentano nella vita di un adulto e, proprio a causa di ciò, pericoloso. Stefan rabbrividì.
Il suo letto nella stanza delle gemelle Ackerson ora era occupato da un’altra bambina. A Laura fu assegnata una stanzetta a due letti all’estremità nord del terzo piano, vicino alle scale. La sua compagna, Eloise Fischer, aveva nove anni, le lentiggini e portava le treccine. Inoltre aveva un atteggiamento troppo serio per una bambina. «Da grande farò la ragioniera», informò Laura. «Mi piacciono molto i numeri. Si può sommare una colonna di numeri e ottenere sempre la stessa risposta tutte le volte, non ci sono sorprese con i numeri, non sono come le persone.» I genitori di Eloise erano stati condannati per detenzione di stupefacenti e mentre il tribunale decideva quale parente dovesse prendersi cura di lei, era stata mandata all’istituto McIlroy.
Appena Laura ebbe sistemato le sue poche cose, corse nella stanza delle Ackerson. Entrò gridando: «Sono libera! Libera!»
Mentre Tammy e l’altra ragazza quasi la ignorarono, Ruth e Thelma le corsero incontro e l’abbracciarono. Era proprio come tornare a casa.
«Non piacevi alla tua famiglia?» chiese Ruth.
«Hai usato il piano Ackerson?» domandò Thelma.
«No, li ho uccisi tutti nel sonno.»
«Certo che è una bella trovata», commentò Thelma.
Rebecca Bogner, la nuova ragazza, aveva undici anni. Tra lei e le Ackerson non correva buon sangue. Ascoltando Laura e le gemelle, Rebecca cominciò a dire: «Ma siete strambe, troppo strambe» e poi: «Accidenti quanto mistero», con una tale aria di superiorità e disprezzo che avvelenò l’atmosfera con un’efficacia pari a un’esplosione nucleare. Laura e le gemelle uscirono e andarono a rifugiarsi in un angolo del cortile, dove poter scambiarsi le notizie di cinque settimane, senza i commenti di Rebecca.
Era già ottobre e le giornate erano ancora calde, anche se verso le cinque del pomeriggio l’aria cominciava a diventare più frizzante. Infilarono le giacche e si sedettero sui rami più bassi di un grande albero tropicale, ormai abbandonato dai bambini più piccoli che erano già andati a prepararsi per la cena.
Non erano trascorsi cinque minuti che Willy Sheener fece la sua apparizione con una sega elettrica. Si mise a potare un’eugenia a pochi passi da loro, ma la sua attenzione era focalizzata su Laura.
A cena, l’Anguilla era come al solito dietro il bancone del self-service e distribuiva latte e fette di torta alle ciliegie. Aveva serbato la più grande per Laura.
Il lunedì mattina iniziò a frequentare una nuova scuola dove gli altri bambini avevano già avuto quattro settimane a disposizione per conoscersi e fare amicizia. Ruth e Thelma seguivano alcuni dei suoi corsi e ciò rese più facile l’adattamento, ma questa situazione non fece che rammentarle quanto instabile fosse la condizione di un’orfana.
Il martedì pomeriggio, tornando da scuola, la signora Bowmaine la fermò all’entrata. «Laura, posso vederti nel mio ufficio?»
La signora Bowmaine indossava un vestito a motivi floreali rosso porpora, che faceva a pugni con le tende e la tappezzeria del suo ufficio, dove invece i motivi floreali erano rosa pastello e color albicocca. Laura prese posto su una sedia a fiori rosa.
La signora Bowmaine era alla scrivania e intendeva sistemare in fretta la faccenda di Laura per poi passare ad altri impegni. La signora Bowmaine era uno di quei tipi sempre indaffarati, con mille cose da fare.
«Eloise Fischer è andata via oggi», le comunicò la signora Bowmaine.
«Chi si prenderà cura di lei?» chiese Laura. «So che le sarebbe piaciuto andare da sua nonna.»
«E infatti è proprio così. Andrà da sua nonna.»
Laura fu contenta per Eloise e in cuor suo sperò che quella bambina lentigginosa, con le treccine, la futura contabile, potesse trovare qualcosa in cui credere al di là dei freddi numeri.
«Ora non hai compagne», disse la signora Bowmaine. «E non c’è un letto libero altrove, quindi non potrai spostarti con…»
«Posso dare un suggerimento?»
La signora Bowmaine ebbe un fremito d’impazienza e consultò l’orologio.
Laura disse in fretta e furia: «Ruth e Thelma sono le mie migliori amiche e le loro compagne sono Tammy Hinsen e Rebecca Bogner. Ma io credo che Tammy e Rebecca non vadano tanto d’accordo con Ruth e Thelma, quindi…»
«Noi vogliamo che voi impariate a convivere anche con persone diverse da voi. Stare insieme a delle bambine con cui andate già d’accordo non è costruttivo per il vostro carattere. Resta comunque il problema che fino a domani non posso provvedere a nuove sistemazioni; oggi sono troppo occupata. Quindi voglio sapere se posso fidarmi a lasciarti sola questa notte nella tua camera.»
«Fidarsi di me?» chiese Laura un po’ confusa.
«Dimmi la verità, signorina. Posso fidarmi a lasciarti da sola stanotte?»
Laura non riusciva a immaginare che tipo di problema potesse esserci a lasciare solo un bambino per una notte. Forse si aspettava che Laura si barricasse nella stanza tanto da dover costringere la polizia a far saltare la porta.
Laura si sentì confusa e offesa. «Certo, non ci sono problemi. Non sono una bambina. Andrà tutto bene.»
«Be’… d’accordo. Dormirai da sola stanotte, ma domani sistemeremo la faccenda.»
Dopo aver lasciato l’ufficio della signora Bowmaine e avere imboccato i grigi corridoi, salendo le scale verso il terzo piano, Laura improvvisamente pensò: l’Anguilla! Sheener avrebbe sicuramente saputo che avrebbe trascorso la notte da sola. Lui sapeva tutto ciò che accadeva al McIlroy e aveva le chiavi, quindi poteva ritornare durante la notte. La sua camera era vicina alle scale dell’ala nord, perciò poteva penetrare nella sua stanza e sopraffarla in pochi secondi. L’avrebbe bastonata o drogata, infilata in un sacco di tela, l’avrebbe portata via e rinchiusa in una cantina e nessuno avrebbe più saputo nulla di lei.
Arrivata sul pianerottolo del secondo piano cambiò direzione, scese i gradini a due a due e ritornò di corsa verso l’ufficio della signora Bowmaine, ma quando girò l’angolo poco ci mancò che si scontrasse proprio con l’Anguilla. Aveva uno spazzolone e un carrello su cui erano sistemati lo strizzatoio e un secchio d’acqua profumata di pino.
Le rivolse un largo sorriso. Forse era solo la sua immaginazione, ma Laura fu certa che lui sapesse già che avrebbe trascorso la notte da sola.
Gli sarebbe passata davanti e sarebbe andata dalla signora Bowmaine a chiederle di cambiare stanza per quella notte. Non avrebbe mosso accuse contro Sheener, altrimenti avrebbe fatto la fine di Denny Jenkins: screditata agli occhi del personale, tormentata lentamente e inesorabilmente dai suoi nemici; ma avrebbe trovato una scusa plausibile per quel suo repentino ripensamento.
Considerò anche la possibilità di scagliarsi contro di lui, spingergli la testa dentro il secchio, dargli un calcio nel sedere e dirgli che lei era più cattiva di lui e che avrebbe fatto meglio a starle alla larga. Ma era diverso dai Teagel. Mike, Flora e Hazel erano gretti, petulanti, ignoranti, ma relativamente sani di mente. L’Anguilla invece era malato e non c’era modo di sapere come avrebbe reagito se l’avesse steso.
Alla sua esitazione, egli rispose con un ghigno deforme.
Un rossore colorì le pallide guance e Laura, immaginando che potesse essere una vampata di desiderio, ne fu disgustata.
Si allontanò, ma non osò correre finché non risalì le scale e fu uscita dalla sua visuale. Poi si precipitò nella stanza delle Ackerson e raccontò tutto.
«Dormirai qui stanotte», propose Ruth.
«Certo», convenne Thelma, «starai nella tua stanza finché non sarà finito il controllo della sera, poi verrai qui.»
Dal suo angolo dove, seduta sul letto, stava facendo i suoi compiti di matematica, Rebecca obiettò: «Abbiamo solo quattro letti».
«Dormirò sul pavimento», replicò Laura.
«Ma questo è contro le regole», ribattè Rebecca.
Thelma le mostrò il pugno e la guardò con aria minacciosa.
«Okay, va bene», si arrese Rebecca. «Non ho mai detto di non volere che lei rimanesse qui. Sottolineavo solo il fatto che era contro le regole.»
Laura si aspettava che Tammy protestasse, invece la ragazza rimase supina sul letto, sopra le coperte a guardare fisso il soffitto, apparentemente persa nei suoi pensieri ed estranea ai loro progetti.
Nella sala da pranzo, davanti a un piatto di carne di maiale immangiabile con contorno di purè colloso e pisellini verdi duri come legno e sotto l’occhio vigile dell’Anguilla, Thelma attaccò: «Sai perché la signora Bowmaine voleva sapere se poteva fidarsi di lasciarti da sola?… Ha paura che tenti il suicidio».
Laura era incredula.
«Dei bambini l’hanno fatto», le spiegò Ruth con tono di triste. «Ecco perché ci mettono almeno in due, anche in stanze molto piccole. Stare soli per molto tempo… pare che faccia scattare l’impulso.»
Thelma riprese: «Non permetteranno mai che io e Ruth dividiamo una delle stanze piccole poiché, visto che siamo due gemelle identiche, pensano che siamo proprio come una persona sola. Sono convinti che appena chiusa la porta ci potremmo impiccare».
«Ma questo è ridicolo», sospirò Laura.
«Certo che è ridicolo», confermò Thelma. «L’impiccagione è un tipo di suicidio non sufficientemente spettacolare. Le sorprendenti sorelle Ackerson, Ruth e moi, hanno un debole per i drammi. Piuttosto faremmo hara-kiri con coltelli rubati in cucina, oppure se potessimo procurarci una motosega…»
Nel salone le conversazioni si tenevano con toni sottovoce, perché il personale passava fra i tavoli per tenere sotto controllo la situazione. La signorina Keist, una delle insegnanti interne, passò dietro il tavolo dove Laura sedeva con le Ackerson e Thelma bisbigliò: «Gestapo».
Quando la signorina Keist fu passata, Ruth continuò: «Le intenzioni della signorina Bowmaine sono buone, ma il suo problema è che non ci sa fare. Se solo avesse dedicato un po’ del suo tempo per capire che tipo di persona sei, Laura, non si sarebbe certo preoccupata di un tentato suicidio. Tu sei una che sopravvive.»
Mentre raccoglieva sul bordo del piatto quel cibo decisamente immangiabile, Thelma riprese: «Tammy Hinsen una volta è stata trovata nel bagno con un pacchetto di lamette, mentre cercava il punto giusto per tagliarsi le vene».
Laura fu improvvisamente impressionata da quel misto di umorismo e tragedia, di assurdità e di estremo realismo, che caratterizzava la loro vita al McIlroy. Un attimo prima si prendevano in giro scherzosamente e subito dopo stavano discutendo le tendenze suicide delle ragazze che conoscevano. Realizzò che si trattava di un’introspezione che andava al di là della sua età e appena fu ritornata nella sua stanza annotò quella considerazione sul diario che aveva appena iniziato.
Ruth era riuscita a risputare sul piatto il cibo. «Un mese dopo l’incidente delle lamette», incalzò, «organizzarono una perquisizione a sorpresa nella nostra stanza, alla ricerca di oggetti pericolosi. Scoprirono che Tammy aveva una lattina di benzina e dei fiammiferi. La sua intenzione era quella di andare nelle docce, cospargersi di benzina e darsi fuoco».
«Oh, mio Dio.» Laura pensò all’esile e pallida biondina, con le borse sotto gli occhi, e le sembrò che il suo piano di immolarsi fosse solo un desiderio di accelerare il lento fuoco che da tanto tempo la stava consumando dall’interno.
«La mandarono via per circa due mesi in terapia intensiva», riprese Ruth.
«Quando tornò», continuò Thelma, «i grandi affermarono che era migliorata, ma a noi sembrò uguale.»
Dieci minuti dopo che la signorina Keist aveva terminato il suo giro notturno nelle camere, Laura lasciò il suo letto. Il corridoio deserto del terzo piano era illuminato solo da tre lumicini. In pigiama, con un cuscino e una coperta, si affrettò a piedi nudi verso la stanza delle Ackerson.
Solo la lampada sul comodino di Ruth era accesa. Sussurrò: «Laura, tu dormi nel mio letto. Io mi sono sistemata sul pavimento».
«Be’, rimetti a posto tutto e torna nel tuo letto», le ordinò Laura.
Ripiegò più volte la coperta per fare un giaciglio morbido sul pavimento, che sistemò ai piedi del letto di Ruth, dopodiché vi si sdraiò con il suo cuscino.
Dal suo letto Rebecca Bogner borbottò: «Finiremo tutte nei guai per questa faccenda».
«Ma che cos’hai paura che ci facciano?» chiese Thelma. «Che ci leghino a un palo, ci cospargano di miele e ci lascino in pasto alle formiche?»
Tammy stava dormendo o fingeva di dormire.
Ruth spense la luce e si ritrovarono immerse nell’oscurità.
La porta si spalancò e la luce centrale venne accesa. Vestita di rosso, lo sguardo torvo e minaccioso, la signorina Keist entrò nella stanza. «Ah, è così! Laura, che cosa stai facendo qui?»
Rebecca Bogner disse in tono di disapprovazione: «Ve l’avevo detto che ci saremmo cacciate nei guai».
«Torna immediatamente nella tua stanza, signorina.»
La tempestività con cui era apparsa la signorina Keist parve un po’ sospetta e Laura rivolse lo sguardo a Tammy Hinsen. La biondina non stava più fingendo di dormire; ora stava appoggiata su un gomito e sorrideva. Evidentemente aveva deciso di aiutare l’Anguilla, forse nella speranza di ritornare a essere la sua preferita.
La signorina Keist scortò Laura nella sua stanza. Laura si infilò nel letto e la signorina Keist la guardò per un momento. «Fa caldo, aprirò la finestra.»
Ritornando accanto al letto, fissò Laura attentamente. «C’è qualcosa che vuoi dirmi? C’è qualcosa che non va?»
Laura prese in considerazione per un istante la possibilità di raccontarle dell’Anguilla. Ma che cosa sarebbe successo se la signorina Keist avesse aspettato di cogliere l’Anguilla sul fatto e se lui non si fosse presentato? Laura non avrebbe mai più potuto accusare l’Anguilla, perché aveva un precedente; nessuno l’avrebbe più presa sul serio. Perciò anche se Sheener l’avesse violentata, l’avrebbe fatta franca.
«No, va tutto bene», rispose Laura.
A questo punto la signorina Keist osservò: «Thelma è troppo sicura di se stessa per una ragazza della sua età e se sei così sciocca da trasgredire ancora ai regolamenti solo per il gusto di trascorrere tutta la notte a pettegolare, allora ti consiglio di sceglierti delle amiche per cui valga la pena di correre il rischio».
«Sì, signorina», le concesse Laura, giusto per disfarsi di lei, pentendosi di aver pensato anche solo per un momento di manifestare i propri timori a quella donna.
Dopo che la signorina Keist ebbe lasciato la stanza, Laura non si mosse. Rimase nell’oscurità, certa che nel giro di mezz’ora ci sarebbe stato un altro controllo. Di sicuro l’Anguilla non si sarebbe presentato prima di mezzanotte. Erano solo le dieci, perciò aveva tutto il tempo necessario per raggiungere un posto sicuro.
Lontano, molto lontano nella notte, si udì il brontolio di un tuono. Si sedette nel letto. Il suo Custode! Gettò via le coperte e corse alla finestra. Non vide nessun lampo. Il lontano brontolio si spense. Forse non era stato affatto un tuono. Attese dieci minuti, o forse di più, ma non successe più nulla. Delusa, tornò a letto.
Erano da poco passate le dieci e mezzo, quando la maniglia della porta scricchiolò. Chiuse gli occhi, socchiuse la bocca e si finse addormentata.
Qualcuno entrò silenziosamente nella stanza e si fermò accanto al suo letto.
Il respiro di Laura era lento, regolare, profondo, ma il cuore le batteva forte.
Era Sheener. Sapeva che era lui. Mio Dio, aveva dimenticato che non era normale, che era imprevedibile e ora era lì. Era arrivato prima di quanto avesse previsto, pronto a farle un’iniezione. L’avrebbe infilata in un sacco di tela e l’avrebbe portata via, vestendo i panni di un Babbo Natale impazzito venuto a rapire i bambini, invece di lasciare i regali.
L’orologio ticchettava. La brezza fece ondeggiare le tendine.
Alla fine la persona accanto al letto si ritirò e la porta si chiuse.
Era la signorina Keist.
Scossa da tremiti violenti, Laura scese dal letto e si infilò la vestaglia. Piegò la coperta sotto il braccio e lasciò la stanza senza pantofole: a piedi nudi avrebbe fatto meno rumore.
Non poteva ritornare nella stanza delle Ackerson. Si diresse perciò verso le scale dell’ala nord, aprì con cautela la porta e si affacciò sul pianerottolo appena illuminato. Tese l’orecchio, certa di udire i passi dell’Anguilla al piano di sotto. Scese guardinga, aspettandosi di incontrare Sheener da un momento all’altro, ma raggiunse il pianterreno sana e salva.
Intirizzita dal freddo, trovò rifugio nella sala giochi. Rimase lì, immersa nel bagliore spettrale dei lampioni che filtrava dalle finestre dando una sfumatura argentea ai mobili. Si fece strada fra le sedie e i tavoli e si coricò dietro il divano.
Il suo sonno fu irregolare, interrotto più volte da incubi. Di notte, il vecchio palazzo era animato da rumori sinistri: gli scricchiolii prodotti dalle assi di legno del pavimento e i sussulti del vecchio impianto idraulico.
Stefan spense tutte le luci e rimase ad attendere in quella camera da letto ammobiliata per un bambino. Alle tre e mezzo del mattino udì Sheener rientrare. Stefan si mosse silenziosamente dietro la porta della camera. Qualche minuto dopo entrò Willy, accese le luci e si diresse verso il materasso. Mentre attraversava la stanza, emise un suono strano, tra il sospiro e l’uggiolio di un animale che scappa da un mondo ostile per trovare rifugio nella sua tana.
Stefan chiuse la porta e Sheener si voltò di scatto a quel rumore, sconvolto all’idea che il suo nido fosse stato invaso. «Chi… chi è lei? Che diavolo sta facendo qui?»
Da un’auto parcheggiata nell’oscurità, dall’altro lato della strada, Kokoschka osservò Stefan uscire dalla casa di Willy Sheener.
Attese dieci minuti, scese dall’auto e si diresse sul retro del bungalow, trovò la porta spalancata e si introdusse nella casa con molta cautela.
Trovò Sheener nella sua stanzetta, picchiato a sangue, immobile. Nell’aria aleggiava un fetore di urina, perché l’uomo aveva perso il controllo della vescica.
Un giorno, pensò Kokoschka con feroce determinazione e un fremito di sadismo, ridurrò Stefan in uno stato anche peggiore di questo. Lui e quella dannata bambina. Quando avrò compreso quale ruolo gioca nei suoi piani e perché si sposta attraverso i decenni per rimodellare la sua vita, allora li sottoporrò a sofferenze tali che nessuno può nemmeno immaginare.
Lasciò la casa di Sheener e una volta all’aperto guardò per un momento il cielo trapunto di stelle, poi fece ritorno all’istituto.
Subito dopo l’alba, prima che gli inservienti si destassero e quando ormai aveva compreso che il pericolo era passato, Laura tornò nella sua stanza: tutto era come l’aveva lasciato. Nessun segno che durante la notte fosse stata visitata da un intruso.
Esausta, gli occhi cerchiati, si chiese se non avesse dato troppo peso a tutta quella faccenda e si sentì un po’ ridicola.
Rifece il letto — un compito che ogni bambino al McIlroy era tenuto a fare — e quando sollevò il cuscino rimase paralizzata: sul lenzuolo era posata un’unica caramella.
Quel giorno l’Anguilla non si presentò al lavoro. Aveva trascorso tutta la notte a preparare il rapimento di Laura e senza dubbio aveva bisogno di dormire.
«Io mi chiedo come faccia un uomo del genere a dormire», chiese Ruth quando si incontrarono in un angolo del cortile dopo la scuola. «Intendo dire, la sua coscienza non lo fa stare sveglio?»
«Ruth», la corresse Thelma, «lui non ha una coscienza.»
«Ma tutti ce l’hanno, anche i peggiori fra noi. Così ci ha fatti il Signore.»
«Shane», la mise in guardia Thelma, «preparati ad assistermi in un esorcismo. La nostra Ruth è ancora una volta posseduta da quello spirito cretino di Gidget.»
In un insolito impeto di generosità, la signora Bowmaine trasferì Tammy e Rebecca in un’altra stanza e consentì a Laura di sistemarsi con Ruth e Thelma. Per il momento il quarto letto rimase vacante.
«Sarà il letto di Paul McCartney», propose Thelma mentre con Ruth aiutava Laura a sistemarsi. «Tutte le volte che i Beatles saranno in città, Paul potrà venire qui e usarlo. E io userò Paul!»
«A volte», la rimproverò Ruth, «sei veramente imbarazzante.»
«Ehi, sto solo esprimendo un sano desiderio sessuale.»
«Ma Thelma, hai soltanto dodici anni!» la riprese Ruth in tono esasperato.
«Quasi tredici, prego. Da un giorno all’altro possono venirmi le mestruazioni. Ci sveglieremo un bel mattino e ci sarà tanto sangue in questa stanza che sembrerà che ci sia stato un massacro.»
«Thelma!»
Sheener non si presentò neppure il giovedì. I suoi giorni di riposo, quella settimana, erano venerdì e sabato, perciò il sabato sera Laura e le gemelle cominciarono a fare delle congetture sul fatto che l’Anguilla non si sarebbe più fatto vedere, che probabilmente era stato investito da un camion, oppure che aveva contratto il beriberi.
Ma la domenica mattina Sheener era di nuovo al suo posto. Aveva gli occhi neri, l’orecchio destro bendato, il labbro superiore gonfio, una lunga ferita gli segnava la guancia sinistra e gli mancavano due denti davanti.
«Forse è stato colpito da un camion», sussurrò Ruth mentre procedevano lungo il bancone del self-service.
Anche altri bambini stavano commentando lo stato di Sheener, e alcuni ridacchiavano. Ma dato che tutti provavano paura o disprezzo, nessuno si preoccupò di chiedergli che cosa gli fosse successo.
Laura, Ruth e Thelma si fecero silenziose e più si avvicinavano a lui, più appariva malconcio. Dovevano essere già trascorsi un paio di giorni, ma gli occhi erano ancora tumefatti; all’inizio dovevano essere stati così gonfi da non riuscire nemmeno ad aprirli. Il labbro era pieno di profonde escoriazioni. In quelle parti del volto che non presentavano lividi o abrasioni, la pelle, solitamente bianca come il latte aveva uno strano colore grigiastro. Sotto la massa di capelli rossicci, la sua figura era ridicola: sembrava un clown che fosse rotolato giù da una rampa di scale senza sapere bene come atterrare.
Non guardò in faccia nessuno dei bambini che stava servendo, ma tenne gli occhi fissi sui cartoni del latte e sulle paste. Sembrò agitarsi all’arrivo di Laura, ma non alzò lo sguardo.
Giunte al loro tavolo, Laura e le gemelle sistemarono le sedie in modo tale da poter osservare l’Anguilla. Solo un’ora prima non avrebbero mai previsto un simile capovolgimento della situazione. In quelle condizioni appariva quasi più indifeso che temibile. Invece di evitarlo, passarono la giornata a seguirlo mentre svolgeva i suoi lavori, cercando di avere l’aria di capitare proprio per caso dove si trovava lui e osservandolo furtivamente. Fu presto chiaro che era conscio della presenza di Laura, ma che evitava in tutti i modi di guardarla. Con gli altri bambini si comportava in modo diverso, anzi, in un’occasione si era addirittura fermato un attimo nella sala dei giochi a parlare con Tammy Hinsen, mentre sembrava temere lo sguardo di Laura.
Sul finire della mattinata Ruth dichiarò: «Laura, ha paura di te».
«È proprio vero», confermò Thelma. «Non sarai per caso stata tu a ridurlo così, Shane? Non ci avrai nascosto il fatto che sei cintura nera di karaté?»
«È veramente strano, vero? Perché ha paura di me?»
Ma lei lo sapeva. Il suo Custode. Anche se aveva pensato che avrebbe dovuto affrontare Sheener da sola, il suo Custode era intervenuto ancora una volta, avvertendo Sheener di starle alla larga.
Non era ben sicura del perché fosse così riluttante a rivelare la storia del suo misterioso Custode alle Ackerson. In fondo erano le sue migliori amiche, si fidava di loro, ma sentiva che il segreto del suo Custode doveva rimanere tale, che quel poco che sapeva di lui era sacro e che non aveva nessun diritto di parlare di lui ad altre persone, facendone un argomento di pettegolezzo.
Nelle due settimane che seguirono, i lividi di Sheener si fecero sempre meno evidenti e quando si tolse la benda dall’orecchio si scoprì una profonda sutura che era stata praticata su un lembo di cartilagine che era stato quasi staccato. Continuava a mantenere le distanze da Laura e quando la serviva nella sala da pranzo non serbava più per lei i dolci migliori e continuava a rifiutarsi di incontrare il suo sguardo.
Tuttavia le lanciava qualche occhiata furtiva, ma, colto sul fatto, si voltava rapidamente, evitando il suo sguardo. Quegli occhi verdi non tradivano più desiderio animalesco, ma collera. Accusava lei dell’accaduto.
Venerdì, 27 ottobre, Laura apprese che il giorno seguente sarebbe stata trasferita in un’altra famiglia. Era una coppia di Newport Beach, il signore e la signora Dockweiler, ansiosi di averla con loro.
«Sono sicura che questa sarà una sistemazione più compatibile con la tua personalità», si augurò la signora Bowmaine, in piedi accanto alla scrivania. «Farai bene a comportarti meglio di quanto tu non abbia fatto in casa Teagel.»
Quella notte, nella loro stanza, Laura e le gemelle cercarono di farsi coraggio e di affrontare l’imminente separazione con lo stesso spirito sereno con cui avevano affrontato il primo distacco. Ma il loro legame nel frattempo si era fatto ancora più saldo, tanto che Ruth e Thelma avevano cominciato a parlare di Laura come se fosse una sorella. Una volta Thelma aveva detto: «Le sorprendenti sorelle Ackerson, Ruth, Laura e moi». E Laura si era sentita desiderata, amata e viva.
«Vi voglio un mondo di bene», ammise Laura e Ruth singhiozzò: «Oh, Laura!» e scoppiò in lacrime.
Thelma corrugò la fronte. «Sarai indietro in men che non si dica. Questi Dockweiler devono essere persone orrende. Ti faranno dormire nel box!»
«Lo spero», ribattè Laura.
«Ti picchieranno con dei tubi di gomma…»
«Tanto di guadagnato.»
Questa volta il lampo che era venuto a colpire la sua vita era positivo, o perlomeno così parve all’inizio.
I Dockweiler vivevano in un’enorme casa in un ricco quartiere di Newport Beach. Laura aveva la sua stanza, che guardava sull’oceano. Il colore dominante era il beige.
Nel mostrarle la stanza, Carl Dockweiler spiegò: «Non sapevamo quali fossero i tuoi colori preferiti, perciò l’abbiamo lasciata così. Ma possiamo ridipingerla tutta come preferisci tu». Era un uomo sulla quarantina, grosso come un orso, con spalle enormi e una grande faccia paffuta, che le ricordava John Wayne, se John Wayne avesse avuto un aspetto divertente! «Forse una ragazzina della tua età preferisce una stanza tutta rosa.»
«Oh, no, mi piace com’è!» si affrettò a rispondere Laura. Ancora stupita per l’ambiente e la ricchezza che la circondava, si mosse verso la finestra e ammirò lo splendido panorama del porto di Newport, dove gli yacht dondolavano dolcemente sull’acqua che scintillava sotto i raggi del sole.
Nina Dockweiler raggiunse Laura e le posò una mano sulla spalla. Era una donna adorabile, con capelli scuri e occhi viola, una donna che ricordava le bambole di porcellana. «Laura, ci hanno detto che ami i libri, ma non sapevamo quale genere preferissi, perciò adesso facciamo un salto in libreria, così potrai scegliere quello che desideri.»
Alla libreria Walden Laura scelse cinque libri. I Dockweiler la invitarono a comprarne di più, ma lei si sentiva in colpa per avergli fatto spendere tanti soldi. Carl e Nina allora cominciarono a cercare fra gli scaffali, tirarono fuori altri volumi, ne lesserò i titoli e se lei mostrava anche solo il minimo interesse li aggiungevano a quelli che aveva già scelto. A un certo punto Carl si mise in ginocchio davanti alla sezione di libri per ragazzi, scandendo ad alta voce i titoli. «Ehi, qui c’è un altro libro sui cani. Ti piacciono le storie sugli animali? E qui c’è una storia di spie!» Era così comico che Laura non riuscì a trattenere una risata. Quando lasciarono la libreria, avevano acquistato circa un centinaio di libri, una quantità enorme di libri.
Cenarono per la prima volta insieme in una pizzeria, dove Nina mostrò un talento sorprendente per i giochi di magia. Da dietro l’orecchio di Laura tirò fuori un pezzo di peperone e lo fece sparire.
«Ma questo è sorprendente», esclamò Laura. «Dove l’hai imparato?»
«Dirigevo uno studio di progettazione d’interni, ma dovetti abbandonarlo otto anni fa, per motivi di salute. Era troppo stressante. Così, dato che non ero abituata a starmene a casa senza far nulla, decisi di fare tutte le cose che avevo sognato quando ero un’occupatissima donna d’affari. Per esempio imparare i giochi di prestigio.»
«Motivi di salute?» chiese Laura.
Ecco che di nuovo veniva a mancarle quella sicurezza di cui aveva tanto bisogno.
La paura trasparì dal suo volto, perché Carl Dockweiler disse: «Non ti devi preoccupare, Nina è nata con un cuore malato, un difetto congenito, ma vivrà quanto me e te se evita gli stress».
«Non si può operare?» s’informò Laura, posando il pezzo di pizza nel piatto.
«La chirurgia cardiovascolare sta facendo grandi progressi», le rispose Nina. «Forse fra un paio d’anni. Ma, non c’è niente di cui preoccuparsi. Mi riguarderò, soprattutto ora che ho una figlia da educare!»
«Noi desideravamo avere figli più di ogni altra cosa», spiegò Carl, «ma non potevamo. Quando finalmente ci decidemmo ad adottarne uno, Nina scoprì di essere malata di cuore, perciò a quel punto non eravamo più idonei per le adozioni.»
«Ma non abbiamo problemi a ottenere l’affidamento», proseguì Nina, «perciò, se ti piace vivere con noi, potrai stare qui per sempre, proprio come se tu fossi adottata.»
Quella notte, nella sua grande stanza, con la vista sul mare, una vasta macchia nera che ora incuteva quasi paura, Laura si disse che non doveva affezionarsi troppo ai Dockweiler, che le condizioni di salute di Nina precludevano qualsiasi possibilità di una sicurezza reale.
Il giorno seguente, domenica, l’accompagnarono a comprare dei vestiti e avrebbero speso una fortuna se lei non li avesse alla fine pregati di smetterla. Con la Mercedes ricolma di vestiti nuovi, andarono a vedere un film con Peter Sellers e, dopo il cinema, da McDonald’s a bere dei formidabili frappe.
Mentre cospargeva le patatine fritte con il ketchup, Laura disse: «Siete veramente fortunati che il centro di assistenza abbia mandato me piuttosto che un altro bambino».
Carl inarcò le sopracciglia ed esclamò: «Oh, davvero?»
«Be’, voi siete delle brave persone, troppo brave e molto più vulnerabili di quanto non pensiate. Qualsiasi bambino si accorgerebbe di quanto siete vulnerabili in realtà e comincerebbe ad approfittarsi di voi. Senza pietà. Ma con me potete star tranquilli: io non approfitterò mai di voi e non vi farò mai pentire di avermi scelta.»
La guardarono con profondo stupore.
Dopo alcuni minuti Carl guardò Nina e commentò sorridendo: «Ci hanno preso in giro. Non ha dodici anni. Ci hanno rifilato uno gnomo».
Quella notte, mentre aspettava di addormentarsi, Laura continuò a ripetere a se stessa: «Non li devi amare troppo, non li devi amare troppo…» Ma ormai li amava già.
I Dockweiler la mandarono in una scuola privata, dove gli insegnanti erano molto più esigenti di quelli delle scuole pubbliche che aveva frequentato fino ad allora, ma a Laura piacevano le sfide e i suoi risultati furono ottimi. A poco a poco si fece dei nuovi amici; Thelma e Ruth le mancavano tantissimo, ma provò un certo sollievo al pensiero che sarebbero state contente di sapere che aveva finalmente trovato la felicità.
Cominciò persino a pensare che poteva avere fiducia nel futuro, che poteva trovare il coraggio di essere felice. Dopotutto aveva il suo Custode personale. Forse persino un Angelo Custode. Sicuramente qualsiasi ragazza che avesse avuto la fortuna di avere un Angelo Custode era destinata ad avere amore, felicità e sicurezza.
Ma un Angelo Custode avrebbe veramente potuto sparare a un uomo? E picchiare a sangue un altro? Pazienza! La cosa più importante era che aveva un Custode bellissimo, Angelo o non Angelo, e dei genitori che l’amavano e lei non poteva certo rifiutare la felicità, ora che le stava piovendo addosso.
Martedì, 5 dicembre, Nina aveva il suo appuntamento mensile con il cardiologo, perciò non c’era nessuno in casa quando Laura tornò a casa da scuola nel pomeriggio. Aprì la porta con le sue chiavi e lasciò i libri sul tavolo stile Luigi XIV, all’entrata, accanto alle scale.
I colori tenui dell’enorme salone, crema, rosa e verde pallido, lo rendevano accogliente nonostante le sue dimensioni. Sostò un attimo alla finestra per godere della vista e in quel momento pensò a come sarebbe stato bello se Ruth e Thelma avessero potuto unirsi a lei e improvvisamente le sembrò la cosa più naturale del mondo che loro fossero lì.
Perché no? A Carl e Nina piacevano molto i bambini. Avevano amore da offrire a una nidiata di bambini, a centinaia di bambini.
«Shane», si congratulò ad alta voce, «sei un genio.»
Andò in cucina e si preparò un panino da portare nella sua stanza. Si versò un bicchiere di latte, scaldò una brioche al cioccolato nel forno e prese una mela dal frigorifero, mentre pensava al modo migliore per parlare ai Dockweiler delle gemelle. Quel progetto era così naturale che quando si accostò con il suo panino alla porta a soffietto che divideva la cucina dalla sala da pranzo e l’aprì, spingendola con la schiena, non era ancora riuscita a pensare a un singolo motivo che potesse farlo fallire.
L’Anguilla la stava aspettando nella sala da pranzo. L’afferrò e la sbattè contro il muro con una tale violenza da farle mancare il fiato. La mela e la brioche volarono via dal piatto, che le scivolò dalla mano. Con un colpo brutale le fece scivolare il bicchiere di latte che teneva nell’altra mano. Quando la scagliò di nuovo con violenza contro il muro, Laura sentì una fitta nella schiena e la vista le si annebbiò. Sapeva che non poteva assolutamente perdere conoscenza e così si aggrappò con tutte le sue forze a quel filo di coscienza che le rimaneva, con tenacia, anche se era tormentata dal dolore, non riusciva a respirare e la testa le doleva terribilmente.
Ma dov’era il suo Custode? Dove?
Sheener accostò la faccia alla sua e il terrore sembrò acutizzare i suoi sensi, poiché era perfettamente cosciente di ogni minimo particolare di quel volto sconvolto dalla ferocia: le suture ancora rosse, dove l’orecchio era stato riattaccato, i punti neri nelle pieghe attorno al naso, le cicatrici che l’acne aveva lasciato sulla sua pelle pallida. I suoi occhi verdi erano troppo strani per essere umani, alieni e feroci come quelli di un gatto.
Da un momento all’altro il suo Custode l’avrebbe liberata dalla morsa dell’Anguilla, l’avrebbe strappato via e ucciso. Era questione di secondi.
«Ti ho preso», disse Sheener con voce stridula da folle, «ora sei mia, dolcezza, e mi dirai chi è quel figlio di puttana, quello che mi ha pestato. Gli farò saltare la testa.»
La teneva per il braccio, affondando le unghie nella carne. La sollevò da terra, alzandola fino all’altezza dei suoi occhi, poi la inchiodò al muro. I suoi piedi dondolavano nel vuoto.
«Chi è quel bastardo?» Era molto più forte di quanto sembrasse. L’attirò a sé, per poi sbatterla nuovamente con violenza contro il muro, tenendola sempre all’altezza dei suoi occhi. «Dimmelo, dolcezza, altrimenti strappo via il tuo orecchio.»
Poteva arrivare da un momento all’altro. Sì, da un momento all’altro.
Una fitta di dolore le percorse nuovamente la schiena, ma fu in grado di respirare, anche se ciò che inalò fu il suo respiro, acre e nauseante.
«Rispondimi, dolcezza.»
Poteva anche morire aspettando che l’Angelo Custode intervenisse.
Gli sferrò un calcio nei testicoli. Un colpo perfetto. Per tenersi in equilibrio aveva le gambe divaricate e non era abituato ad alcun tipo di reazione, perciò non si rese assolutamente conto di ciò che stava accadendo. Spalancò gli occhi e per un istante le sembrarono umani. Emise un suono sordo, strangolato e lasciò la presa. Laura crollò sul pavimento e Sheener barcollò all’indietro, perse l’equilibrio, rovinò sul tavolo e finì dolorante sul tappeto cinese.
Immobilizzata dal dolore, dallo choc e dalla paura, Laura non riusciva a reggersi in piedi. Però poteva strisciare, strisciare lontano da lui. Freneticamente. Verso la porta della sala da pranzo. Con la speranza di riuscire ad alzarsi in piedi una volta raggiunto il salone. Lui le afferrò la caviglia sinistra. Lei scalciò per cercare di liberarsi. Niente da fare. Era troppo debole. Sheener tenne duro. Si sentì addosso le sue dita gelide, le dita di un morto. Tentò di lanciare un grido, ma le si strozzò in gola. Appoggiò una mano in un punto in cui il tappeto era intriso di latte. Vide il bicchiere rotto. La parte superiore era andata in frantumi, ma la base era ancora intatta, frastagliata da punte affilate, su cui brillavano gocce di latte. Sempre raggomitolato, semiparalizzato dal dolore, l’Anguilla le afferrò l’altra caviglia. Contorcendosi, strisciava verso di lei. Continuava a emettere un suono stridulo, come quello di un uccello. Da un momento all’altro si sarebbe gettato su di lei, immobilizzandola. Laura afferrò il bicchiere rotto e si ferì un dito, ma non sentì nulla. L’uomo lasciò un attimo la presa, ma solo per afferrarla più in alto, sulle cosce. Laura, con la schiena a terra, si muoveva a scatti, dibattendosi: come se ora fosse lei un’anguilla. Rivolse il pezzo di bicchiere rotto contro di lui, non con l’intenzione di ferirlo, ma di tenerlo lontano. L’uomo però si era già sollevato e stava ripiombando su di lei. Le punte acuminate gli penetrarono nella gola. Cercò di strapparsi via quell’arma micidiale e le punte si spezzarono nella carne. Rantolante e perdendo sangue dal naso la inchiodò al pavimento con il peso del suo corpo. Laura cominciò a dimenarsi, lui l’afferrò ancora più forte; il ginocchio che le premeva sull’anca era pesante come un macigno. La bocca era pericolosamente vicina alla sua gola. La morsicò, ma le sfiorò appena la carne. Si dimenò ancora, con più violenza. Dalla gola martoriata uscì un respiro sibilante, rantolante. Laura sgusciò via, lui l’afferrò di nuovo ma lei gli sferrò un calcio. Aveva ritrovato le forze. Il calcio era stato ben assestato. Si trascinò verso il salone, si aggrappò alla colonna della volta e si alzò in piedi. Si voltò indietro, vide che l’Anguilla era ancora accanto a lei e brandiva una sedia come fosse una mazza. La calò su Laura, che riuscì a schivarla ed entrò barcollando nel salone, per raggiungere l’entrata, la porta, una via di salvezza. Sheener lanciò nuovamente la sedia, e questa volta la colpì alla spalla. Laura cadde, rotolò, levò lo sguardo e lo vide sopra di sé. Le afferrò il braccio sinistro e lei si sentì di nuova mancare le forze; macchie scure cominciarono ad annebbiarle la vista. Era perduta. Ma le schegge di vetro nella gola raggiunsero un’altra arteria. Improvvisamente, dal naso gli sgorgò un fiotto di sangue. Le crollò addosso, un peso enorme, terribile, morto.
Non poteva muoversi, riusciva a malapena a respirare e doveva lottare con tutte le sue forze per non perdere i sensi. Mentre era scossa dai singhiozzi, udì la porta aprirsi. Dei passi.
«Laura? Sono arrivata.» Era la voce di Nina, dapprima festosa, poi l’urlo agghiacciante di terrore: «Laura? Oh, mio Dio! Laura!»
Laura fece uno sforzo tremendo per spostare quel corpo morto, ma riuscì a liberarsi solo parzialmente, quanto bastava per vedere Nina, in piedi nell’anticamera.
Per un momento la donna rimase paralizzata dallo choc. Fissava il suo bel salone, quelle tinte delicate, armoniose, deturpate da grandi chiazze cremisi. Poi i suoi occhi viola si posarono di nuovo su Laura e uscì dal suo stato di trance. «Laura, o mio Dio, Laura!» Mosse qualche passo, poi si bloccò di colpo, ripiegandosi su se stessa come se fosse stata colpita allo stomaco. Emise un suono strozzato: «Oh, oh, oh…» Cercò di raddrizzarsi. Il suo volto era contorto dalla sofferenza. Sembrava che non riuscisse a stare in posizione eretta e alla fine piombò sul pavimento senza emettere più alcun suono.
Non poteva accadere tutto così. Non era giusto, dannazione!
Con la forza della disperazione Laura si liberò dal corpo di Sheener e si trascinò velocemente accanto alla madre.
Nina giaceva priva di forze, gli splendidi occhi spalancati, vitrei.
Laura accostò la mano insanguinata al collo di Nina, alla ricerca di una vena che pulsasse. Pensò di averne trovata una. Debole, irregolare, ma sempre una pulsazione.
Tolse un cuscino dalla sedia e lo sistemò sotto la testa di Nina, poi corse in cucina dove i numeri di telefono della polizia e dei vigili del fuoco erano scritti accanto al telefono. Tremante, riferì quanto era successo e diede il loro indirizzo.
Quando appese, sapeva che ogni cosa si sarebbe risolta al meglio, perché aveva già perso suo padre a causa di un infarto, e sarebbe stato troppo assurdo perdere Nina nello stesso modo. La vita aveva dei momenti assurdi, certo, ma la vita in sé non era assurda. La vita era strana, difficile, miracolosa, preziosa, incerta, misteriosa, ma non totalmente assurda. Perciò Nina sarebbe vissuta, perché la sua morte non aveva senso.
Ancora spaventata e preoccupata, ma in un certo senso sollevata, Laura tornò di corsa nel salone, si inginocchiò accanto alla madre e le rimase vicino.
Newport Beach offriva dei servizi di emergenza di prim’ordine. L’ambulanza arrivò nel giro di tre o quattro minuti. I due paramedici erano efficienti e ben attrezzati. Non ci misero molto a pronunciarsi: Nina era morta. E non c’era dubbio che fosse morta nel momento in cui si era accasciata sul pavimento.
Una settimana dopo Laura fece ritorno al McIlroy e otto giorni prima di Natale, la signora Bowmaine riassegnò il posto vacante nella stanza delle Ackerson a Tammy Hinsen. In un insolito incontro privato con Laura, Ruth e Thelma, l’assistente sociale spiegò il ragionamento che stava alla base di quella decisione. «Lo so che pensate che Tammy con voi non sia felice, ma dopotutto sembra che si trovi meglio da voi che in qualsiasi altro posto. L’abbiamo messa in diverse stanze, ma gli altri bambini non riescono a tollerarla. Non so che cosa ci sia in quella bambina che la rende una reietta, ma i suoi compagni finiscono per usarla come fosse un punching-ball.»
Una volta tornate nella loro stanza, prima che Tammy arrivasse, Thelma si sistemò sul pavimento, le gambe ripiegate nella posizione del loto, con le caviglie che poggiavano contro le anche. Aveva cominciato a interessarsi di yoga quando i Beatles si erano accostati alla meditazione orientale e sosteneva che quando finalmente avrebbe incontrato Paul McCartney (destino inconfutabile questo), sarebbe stato bello avere qualcosa in comune, «e questo sarà possibile solo se posso parlare con una certa autorità di questo cacchio di yoga».
Invece di concentrarsi nella meditazione, Thelma disse: «Che cos’avrebbe fatto quella caprona se le avessi detto: ‘Signora Bowmaine, i bambini non sopportano Tammy perché si è lasciata abbindolare dall’Anguilla, e non solo, lo ha anche aiutato a individuare delle altre bambine vulnerabili, perciò, per quel che ne pensano loro, lei è il nemico’. Che cos’avrebbe fatto quella bestia della Bowmaine se le avessi spiattellato tutto questo?»
«Ti avrebbe detto che eri una brutta bertuccia bugiarda», sentenziò Laura lasciandosi cadere sul letto.
«Senza dubbio, e poi mi avrebbe fatto arrosto. Ma ci pensi a quant’è grossa quella donna? Si allarga di settimana in settimana. Qualsiasi persona di quella stazza è pericolosa, un onnivoro famelico capace di mangiarsi il primo bambino che gli capita vicino, ossa e tutto quanto, e con la stessa naturalezza con cui ingollerebbe una pinta di birra.»
Ruth era alla finestra e guardava i bambini che giocavano nel cortile: «Non è giusto il modo in cui trattano Tammy».
«La vita non è giusta», decretò Laura.
«La vita non è tutta rose e fiori», aggiunse Thelma. «E poi, per carità, Shane, non cercare di filosofeggiare quando ciò che hai da dire sono solo delle banalità. Lo sai bene che qui odiamo le banalità solo leggermente meno di quanto odiamo accendere la radio e sentire Bobbie Gentry che canta Ode to Billy Joe.»
Quando Tammy arrivò, un’ora più tardi, Laura era nervosa. Dopotutto aveva ucciso Sheener e Tammy era sempre stata succube di lui. Si aspettava che fosse furiosa, invece la bambina la salutò con un sorriso triste, sincero e timido.
Dopo qualche giorno divenne chiaro che Tammy considerava la perdita delle attenzioni dell’Anguilla con un dispiacere perverso, ma anche con sollievo. Quel temperamento feroce che aveva rivelato quando aveva distrutto i libri di Laura si era spento. Era nuovamente la bambina slavata, ossuta e sciatta che Laura aveva visto quando era arrivata al McIlroy, più un’apparizione che una persona reale, un essere che da un momento all’altro poteva dissolversi in fumoso ectoplasma e disperdersi completamente alla prima folata di vento.
Dopo la morte dell’Anguilla e di Nina Dockweiler, Laura dovette sottoporsi a delle sedute di mezz’ora con il dottor Boone, uno psicoterapeuta che esercitava al McIlroy ogni martedì e sabato. Boone non riusciva a capire come Laura potesse superare lo choc dell’aggressione di Willy Sheener e la morte tragica di Nina senza alcun danno psicologico. Era stupito di fronte all’analisi articolata che Laura faceva dei propri sentimenti e ai termini con cui esprimeva la sua presa di coscienza rispetto agli eventi accaduti a Newport Beach. Il fatto di riuscire a superare tutto, ad assorbire qualunque cosa la vita le presentasse, le veniva dal fatto che era orfana di madre, che aveva perso suo padre e che aveva affrontato numerose situazioni drammatiche, ma soprattutto perché aveva beneficiato dell’amore immenso di suo padre. Tuttavia, anche se riusciva a parlare di Sheener con distacco e di Nina più con affetto che con tristezza, lo psichiatra giudicò il suo atteggiamento come puramente apparente e non reale.
«Quindi sogni Willy Sheener?» le chiese nella piccola stanza riservata.
«Ho sognato di lui solo due volte. Ovviamente erano incubi. Ma tutti i bambini li hanno.»
«Ma sogni anche di Nina. Anche quelli sono degli incubi?»
«Oh, no! Sono dei sogni bellissimi.»
Lo psichiatra sembrò sorpreso da quella risposta. «Quando pensi a Nina provi tristezza?»
«Sì. Ma anche… ricordo quanto era buffo andare in giro per negozi con lei, a provare i vestiti. Ricordo il suo sorriso e la sua risata.»
«E sensi di colpa? Non ti senti in colpa per ciò che è accaduto a Nina?»
«No. Forse Nina non sarebbe morta se io non mi fossi trasferita da loro e non avessi trascinato con me Sheener, ma non posso sentirmi in colpa per questo. Ho fatto del mio meglio per essere una buona figlia per loro e loro erano contenti di me. Ciò che è accaduto è che la vita ci ha tirato addosso un’enorme torta alla crema e questo non è colpa mia; non si può mai sapere quando ti tirano una torta alla crema. Se si vede arrivare la torta non c’è più il divertimento.»
«Torta alla crema?» chiese il dottore al colmo della perplessità. «Tu consideri la vita come una farsa grossolana? Come i Three Stooges?»
«In parte.»
«Allora la vita è solo un gioco?»
«No. La vita è una cosa seria e un gioco allo stesso tempo.»
«Ma come può essere?»
«Be’, se non lo sa lei», replicò Laura. «Dovrei essere io a farle questa domanda.»
Riempì molte pagine del suo diario con osservazioni che riguardavano il dottor Boone. Del suo ignoto Custode, tuttavia, non scrisse nulla. Cercava di non pensare a lui. L’aveva trascurata. Aveva cominciato a dipendere da lui; i suoi sforzi eroici per proteggerla l’avevano fatta sentire speciale e quella sensazione l’aveva aiutata ad affrontare la vita da quando suo padre era morto. Ora si sentiva sciocca per essersi aspettata un aiuto da qualcuno che non fosse lei stessa. Aveva ancora il biglietto che le aveva lasciato sulla scrivania, dopo i funerali del padre, ma non lo aveva più riletto. E, giorno dopo giorno, gli interventi che il suo Custode aveva fatto nella sua vita divennero sempre più simili a fantasie che dovevano essere sradicate.
Il pomeriggio di Natale tornarono nelle loro stanze con i regali che avevano ricevuto dagli istituti di beneficenza e dalle dame di carità. Finirono per cantare festosamente canzoni natalizie e grande fu il loro sconcerto quando Tammy si unì a loro. Cantava con una vocina bassa, titubante.
Nelle due settimane che seguirono smise quasi completamente di mangiarsi le unghie. Era solo un po’ più espansiva del solito, ma sembrava più calma, più soddisfatta di se stessa di quanto non lo fosse mai stata.
«Da quando non ha più maniaci che le girano attorno e che le danno fastidio», osservò Thelma, «forse si sente di nuovo pulita.»
Venerdì, 12 gennaio 1968, Laura compiva tredici anni, ma non festeggiò il compleanno; non riusciva a trovare alcuna gioia in quella ricorrenza.
Il lunedì fu trasferita dal McIlroy al Caswell Hall, un istituto che ospitava ragazzi più grandi, situato a una decina di chilometri di distanza, ad Anaheim.
Ruth e Thelma l’aiutarono a portare le sue cose nell’ingresso. Laura non avrebbe mai immaginato di provare un tale dispiacere nel lasciare il McIlroy.
«Verremo in maggio», la rassicurò Thelma. «Il 2 maggio compiamo tredici anni e saremo di nuovo insieme.»
Quando arrivò l’assistente sociale dell’istituto Caswell, Laura la seguì con riluttanza.
L’istituto Caswell era un vecchio liceo nel quale erano stati ricavati dormitori, sale di ricreazione e uffici per le assistenti sociali. L’atmosfera risultava perciò più istituzionale di quella al McIlroy; ma non solo, il Caswell era anche molto più pericoloso del McIlroy perché i ragazzi erano più grandi e perché molti di loro erano già dei delinquenti potenziali. All’interno dell’istituto circolavano marijuana e LSD, e gli scontri fra i ragazzi, persino fra le ragazze, non erano rari. Come al McIlroy, anche qui si formavano dei gruppi, alcuni dei quali così pericolosamente chiusi in se stessi da diventare delle vere e proprie bande. Il furto era prassi comune.
Nel giro di qualche settimana Laura realizzò che vi erano due tipi di sopravvissuti nella vita: quelli che, come lei, avevano trovato la forza di reagire nell’immenso amore che avevano ricevuto, e coloro che, non avendo mai conosciuto l’amore, avevano imparato a crescere nell’odio e nel sospetto, pensando alla vendetta. Di fronte ai sentimenti si mostravano sprezzanti, ma allo stesso tempo invidiosi di non poterli vivere e provare.
Laura visse in quell’ambiente con grande prudenza, ma non si lasciò mai vincere dalla paura. Quei piccoli delinquenti erano sì pericolosi, ma erano anche patetici e, nel loro atteggiamento e nei loro rituali di violenza, persino buffi. Non trovò nessuno con cui condividere i momenti di tristezza, perciò non fece che riempire il suo diario. In quei limpidi monologhi scritti, si chiuse nel suo guscio mentre attendeva che le Ackerson compissero i tredici anni. Quello fu un periodo molto ricco per lei, in cui ebbe la possibilità di scoprire se stessa e di comprendere meglio quel mondo tragico e farsesco in cui era nata.
Sabato, 30 marzo, mentre si trovava nella sua stanza intenta alla lettura, udì una delle sue compagne, una lagnosa ragazza di nome Fran Wickert, parlare nel corridoio con un’altra ragazza, di un incendio in cui erano rimasti uccisi due bambini. Laura non prestò molta attenzione al discorso, finché non udì la parola «McIlroy».
Un brivido improvviso la percorse, si sentì paralizzare il cuore e le mani. Lasciò cadere il libro e si precipitò nel corridoio, facendo trasalire le due ragazze. «Quando? Quando è avvenuto l’incendio?»
«Ieri», rispose Fran.
«Quanti m-morti?»
«Non molti, due bambini, credo; forse solo uno, ma ho sentito dire che si poteva sentire l’odore di carne bruciata. È questa la cosa più madornale che…»
Afferrando Fran per un braccio, Laura chiese: «Come si chiamano?»
«Ehi, lasciami andare!»
«Dimmi i loro nomi!»
«Non li so. Cristo, che cosa ti succede?»
In seguito Laura non ricordò né di aver lasciato andare Fran, né di essere uscita dall’istituto, ma improvvisamente si ritrovò sulla Katella Avenue, a diversi isolati da Caswell Hall. La Katella Avenue era una strada commerciale e in alcuni punti non c’era neppure il marciapiede, perciò corse dando le spalle alla strada, in direzione est, con il traffico che sfrecciava alla sua destra. Caswell distava circa dieci chilometri dal McIlroy e non era sicura di conoscere tutta la strada, ma fidandosi dell’istinto corse finché non fu esausta, poi camminò finché non fu in grado di correre di nuovo.
La cosa più razionale sarebbe stata rivolgersi direttamente a uno dei responsabili del Caswell e chiedere i nomi dei bambini che erano rimasti uccisi nell’incendio. Ma Laura aveva la strana sensazione che il destino delle gemelle Ackerson fosse legato alla sua decisione di intraprendere il difficile viaggio fino al McIlroy per chiedere di loro. Era sicura che se avesse chiesto informazioni per telefono le avrebbero detto che erano morte, mentre invece, se avesse sopportato la fatica estenuante di quella corsa, avrebbe trovato le Ackerson sane e salve. Era superstizione, ma non poté fare a meno di crederci.
Scese il crepuscolo. Il cielo di fine marzo era screziato di lingue di fuoco e i contorni delle nuvole, sparse qua e là, si erano già incendiati quando Laura arrivò in prossimità dell’istituto. Con sollievo vide che la facciata del vecchio edificio non portava tracce di incendio.
Nonostante fosse fradicia di sudore e tremante per la fatica, e sebbene avesse un tremendo mal di testa, non rallentò quando vide l’edificio intatto, ma proseguì a passo deciso fino alla fine.
Entrando incontrò sei bambini e altri tre li vide sulle scale. Due di loro la chiamarono per nome, ma non si fermò per chiedere loro notizie dell’incidente. Doveva vedere con i propri occhi.
Sull’ultima rampa di scale cominciò a sentire l’odore che l’incendio aveva lasciato: il fetore acre, pungente di cose bruciate e l’odore penetrante, persistente del fumo.
Una volta arrivata in cima, aprì la porta e vide che le finestre del corridoio al terzo piano erano aperte e che al centro erano stati disposti dei ventilatori elettrici, per incanalare l’aria in quella direzione.
La stanza delle Ackerson aveva una porta completamente nuova, di legno grezzo, ma la parete recava i segni evidenti di un incendio. Una nota scritta a mano avvisava del pericolo. Come tutte le altre porte al McIlroy, anche questa non aveva serratura, perciò Laura ignorò l’avviso e spalancò la porta, oltrepassò la soglia e vide ciò che aveva tanto temuto: tutto era distrutto.
La luce proveniente dal corridoio alle sue spalle e dalle finestre non illuminava in modo adeguato la stanza, ma fu sufficiente per vedere che i resti del mobilio erano stati portati via; la stanza era vuota. Il pavimento era annerito dalla fuliggine e bruciacchiato, sebbene strutturalmente apparisse intatto. Anche le pareti erano annerite dal fumo. Le porte degli armadi erano ridotte in cenere, alcuni pezzi di legno ciondolavano dai cardini parzialmente fusi. Entrambe le finestre erano esplose o erano state rotte da coloro che cercavano di sfuggire alle fiamme. Le aperture erano state temporaneamente coperte da teli di plastica trasparente, assicurati al muro con dei chiodi. Fortunatamente per gli altri bambini del McIlroy, il fuoco era divampato verso l’alto, devastando il soffitto. Guardò in alto, verso il solaio, dove grosse travi annerite erano appena visibili nella luce incerta. Apparentemente le fiamme si erano fermate prima di raggiungere il tetto, perciò non poté vedere il cielo.
Respirava a fatica, non solo a causa dell’estenuante corsa, ma perché si sentiva il cuore stretto da una morsa di terrore e ogni volta che inalava quell’aria acre avvertiva un senso di nausea.
Fin dal principio, nel momento stesso in cui dalla sua stanza, al Caswell, aveva sentito parlare dell’incendio, non aveva avuto dubbi sulla causa, anche se non voleva ammetterlo. Tammy Hinsen una volta era stata scoperta con una lattina di benzina e dei fiammiferi, con i quali aveva intenzione di darsi fuoco. Quando aveva saputo di quel progetto di autoimmolazione, Laura aveva capito che le intenzioni di Tammy erano serie, perché quel gesto sembrava proprio la giusta forma di suicidio per lei, un’esternazione del fuoco interiore che l’aveva consumata per anni.
Per favore, Gesù, fai che fosse sola nella stanza, per favore.
Asfissiata da quell’odore opprimente e sconvolta da quello spettacolo di distruzione, Laura lasciò la stanza devastata dal fuoco e uscì in corridoio.
«Laura?»
Alzò lo sguardo e vide Rebecca Bogner. Il respiro di Laura si fece affannoso, ma in qualche modo riuscì a pronunciare i loro nomi con voce rauca: «Ruth… Thelma?»
L’espressione gelida della ragazza negava qualsiasi possibilità che le gemelle fossero uscite illese, ma Laura ripetè quei cari nomi e nella sua voce straziata Rebecca colse una nota patetica, implorante.
«Laggiù», rispose allora, indicando un punto in fondo al corridoio. «La prima porta a sinistra dopo l’ultima stanza.»
Piena di speranza, Laura corse verso la stanza che le era stata indicata. Tre letti erano vuoti, ma nel quarto, illuminata dalla luce di una lampada da tavolo, c’era una ragazza sdraiata su un fianco, la faccia contro il muro.
«Ruth? Thelma?»
La ragazza sul letto si alzò lentamente: era una delle Ackerson, illesa. Indossava un vestito grigio, tutto stropicciato; i capelli erano tutti in disordine; il volto gonfio e gli occhi pieni di lacrime. Si mosse verso Laura, ma si fermò, come se lo sforzo fosse troppo grande.
Laura si precipitò verso di lei abbracciandola.
Stretta in quell’abbraccio, la testa appoggiata alla spalla di Laura, parlò, infine, con la voce straziata dal dolore. «Oh, Shane, come vorrei che fosse toccato a me. Se doveva essere una di noi, perché non io?»
Fino a quando la ragazza non pronunciò le prime parole, Laura pensò si trattasse di Ruth.
Rifiutando di accettare quell’orribile realtà, Laura chiese: «Dov’è Ruthie?»
«Ruthie non c’è più. La mia piccola Ruthie è morta.»
Laura ebbe la sensazione che qualcosa dentro di lei si lacerasse. Il dolore era tale che non riuscì neppure a piangere; era stordita, inebetita.
Due bambine fecero capolino sulla porta. Evidentemente dividevano la stanza con Thelma, ma Laura fece loro cenno di andare via.
Tenendo gli occhi bassi, Thelma cominciò a raccontare: «Mi sono svegliata all’improvviso con quell’urlo stridulo, un terribile urlo lacerante… e poi tutta quella luce così forte che mi feriva gli occhi. Poi ho realizzato che la stanza era in fiamme. Tammy era in fiamme. Bruciava come una torcia e si contorceva nel suo letto, avvolta da tutte quelle fiamme, urlando…»
Laura le mise un braccio attorno alle spalle e attese.
«… Lingue di fuoco si staccarono dal corpo di Tammy e… su per il muro, il suo letto era in fiamme e anche il pavimento, il tappeto, tutto era in fiamme…»
Laura ricordò quando Tammy aveva cantato con loro il giorno di Natale e come fosse diventata più calma con il trascorrere dei giorni, come se gradualmente stesse ritrovando una pace interiore. Quella pace che aveva ritrovato si basava sulla determinazione di porre fine ai suoi tormenti.
«Il letto di Tammy era quello più vicino alla porta e la porta stava bruciando. Così spaccai il vetro della finestra sopra il mio letto. Chiamai Ruth, lei… lei disse che stava arrivando, c’era tanto fumo, non riuscivo a vedere nulla; poi Heather Dorning, che dormiva nel tuo letto, si avvicinò alla finestra, e io l’aiutai a uscire. Intanto il fumo si era un po’ diradato e così riuscii a vedere che Ruth stava cercando di gettare la sua coperta su Tammy per spegnere le fiamme, ma la coperta si incendiò, e così vidi Ruth… Ruth… Ruth in fiamme…»
Fuori, l’ultimo bagliore rossastro del crepuscolo stava svanendo nell’oscurità.
Le ombre negli angoli della stanza si fecero profonde.
Il persistente odore di bruciato sembrava più forte.
«… Sarei dovuta correre da lei… ma proprio allora il fuoco esplose. Era ovunque nella stanza e il fumo era così nero e così denso che non riuscivo più a vedere Ruth né qualsiasi altra cosa… poi ho sentito le sirene, forti e vicine, e così ho cercato di convincere me stessa che sarebbero arrivati in tempo per aiutare Ruth, ma era una bugia, una bugia… e io volevo crederci. E… la lasciai lì, Shane. Oh, mio Dio. Uscii dalla finestra e lasciai che Ruthie morisse tra le fiamme…»
«Non potevi fare nient’altro», la rassicurò Laura.
«Ho lasciato che Ruthie bruciasse viva.»
«Non c’era nulla che tu potessi fare.»
«Ho lasciato Ruthie.»
«Non c’era ragione che morissi anche tu.»
«Ho lasciato che Ruthie bruciasse viva.»
In maggio, dopo che Thelma ebbe compiuto tredici anni, fu trasferita al Caswell e fu sistemata nella stanza di Laura. Le assistenti sociali la ritennero la soluzione migliore perché Thelma soffriva di depressione e non rispondeva alle terapie. Forse avrebbe trovato l’aiuto di cui aveva bisogno nell’amicizia con Laura.
Per mesi Laura disperò nel vedere l’amica uscire da quella situazione. La notte era tormentata dagli incubi e di giorno non faceva che rimproverarsi per quanto era accaduto. Alla fine, il tempo la guarì, anche se le sue ferite non si rimarginarono mai completamente. Piano piano ritornò a essere spiritosa e il suo umorismo si fece più tagliente che mai, con una vena di malinconia che non l’abbandonò mai più.
Divisero la stanza alla Caswell Hall per cinque anni, finché non furono più sotto la custodia dello stato e da sole s’incamminarono per la loro strada. Condivisero tante gioie in quegli anni. La vita era di nuovo bella, ma non fu più quella di prima dell’incendio.
Nel laboratorio principale dell’istituto l’elemento più importante era il tunnel, attraverso il quale si poteva viaggiare in altre dimensioni spazio-temporali. Era un enorme dispositivo, di forma cilindrica, lungo circa quattro metri e con un diametro di circa tre, in acciaio brunito all’esterno, mentre l’interno era rivestito in rame. Poggiava su blocchi di rame, che lo tenevano sollevato dal pavimento di circa venticinque centimetri. Dal cilindro si diramavano grossi cavi elettrici e all’interno delle strane correnti facevano luccicare l’aria come se fosse acqua.
Kokoschka ritornò attraverso il tempo al tunnel, materializzandosi all’interno dell’enorme cilindro. Quel giorno aveva compiuto numerosi viaggi, seguendo come un’ombra Stefan in epoche e luoghi lontani, e alla fine aveva saputo perché il traditore si ostinava a voler rimodellare la vita di Laura Shane. Si affrettò verso l’uscita del tunnel e saltò sul pavimento del laboratorio, dove due scienziati e tre dei suoi uomini lo stavano aspettando.
«La ragazza non ha nulla a che fare con i complotti di quel bastardo contro il governo, nulla a che fare con i suoi tentativi di distruggere il progetto del viaggio nel tempo», disse Kokoschka. «È una questione a se stante, solo una delle sue crociate personali.»
«Perciò ora conosciamo tutto quello che ha fatto e perché», sostenne uno degli scienziati, «e potete eliminarlo.»
«Sì», convenne Kokoschka, attraversando la stanza e dirigendosi verso il quadro principale di programmazione. «Ora che abbiamo scoperto tutti i segreti del traditore, possiamo ucciderlo.»
Sedendosi davanti al quadro di programmazione, con l’intenzione di azzerare il programma in modo che il tunnel potesse trasportarlo in un altro tempo, dove poteva sorprendere il traditore, Kokoschka decise di uccidere anche Laura. Sarebbe stato un gioco da ragazzi, una faccenda che poteva sbrigare da solo, anche perché aveva l’elemento sorpresa dalla sua; e comunque preferiva lavorare da solo. Non gli piaceva condividere il piacere con nessuno. Laura Shane non era un pericolo né per il governo né per il suo progetto di ristrutturare il futuro del mondo, ma avrebbe ucciso lei per prima e per giunta di fronte a Stefan, giusto per spezzargli il cuore prima di finirlo con una pallottola. A Kokoschka piaceva uccidere.
Il 12 gennaio 1977, in occasione del suo ventiduesimo compleanno, Laura Shane ricevette per posta un rospo. Sulla scatola in cui era stato recapitato non c’era l’indirizzo del mittente e neppure un biglietto di accompagnamento. Aprì il pacchetto sul tavolo vicino alla finestra nella sala da pranzo del suo appartamento e i luminosi raggi del sole di quel giorno invernale insolitamente tiepido, fecero scintillare il piccolo rospo di ceramica. Era alto circa cinque centimetri, poggiava su un piedistallo, anch’esso di ceramica, color lillà; sulla testa portava un cappello a cilindro, in una mano teneva un bastone.
Due settimane prima la rivista letteraria dell’università le aveva pubblicato Storia di un anfibio, un breve racconto in cui narrava la storia di una ragazza il cui padre si dilettava a raccontare le avventure fantastiche di un rospo immaginario, Sir Tommy d’Inghilterra. Solo lei sapeva che quella storia era vera tanto quanto immaginaria, anche se sembrava che qualcuno avesse intuito, almeno in parte, quanto fosse importante per lei, visto che il piccolo rospo con il cappello a cilindro era stato confezionato con una cura straordinaria. Era accuratamente avvolto in una morbida stoffa di cotone, legata con un nastro rosso, poi ulteriormente incartato nella carta velina e sistemato in un letto di batuffoli di cotone all’interno di una semplice scatola bianca, la quale era stata a sua volta inserita in una scatola più grande imbottita di fogli di giornale accartocciati. Nessuno si sarebbe dato tanto da fare per proteggere una statuina da cinque dollari, a meno che la confezione non volesse dimostrare che il mittente sapeva quanto fosse profondo il suo coinvolgimento emotivo.
Il suo appartamento si trovava a Irvine, fuori della città universitaria, e per potersi pagare l’affitto lo divideva con altre due studentesse, Meg Falcone e Julie Ishimina. All’inizio Laura pensò persino che fosse stata una di loro a spedirle il rospo. Ma scartò la possibilità poiché non aveva rapporti stretti né con l’una né con l’altra. Erano sempre occupate con gli studi e con i loro interessi e poi vivevano con lei solo da settembre. Dichiararono infatti di non sapere nulla del rospo.
Si chiese allora se fosse stato il dottor Matlin, il docente della facoltà che seguiva la rivista letteraria all’UCI, a mandarle quella statuina. Da quando, al secondo anno, aveva seguito il corso di Matlin sulla scrittura creativa, lui l’aveva incoraggiata a coltivare il suo talento e a raffinare la sua abilità. Gli era piaciuta in modo particolare la Storia di un anfibio, e magari era stato lui a mandarle il rospo giusto per dimostrarle la propria approvazione. Ma perché anonimo, senza neppure un biglietto? Perché tutta quella segretezza? No, non era nel carattere di Harry Matlin.
All’università aveva qualche amico, ma con nessuno aveva stretto una vera e propria amicizia. Le mancava il tempo per coltivare legami più profondi. Gli studi, il lavoro e lo scrivere assorbivano tutte le ore disponibili. Non riuscì a immaginare chi potesse aver avuto un’idea tanto bizzarra.
Un mistero.
Il giorno seguente aveva la prima lezione alle otto e l’ultima alle due del pomeriggio. Alle quattro meno un quarto fece ritorno alla sua vecchia Chevy parcheggiata nel campus, aprì la portiera, si sedette e rimase sbalordita vedendo un altro rospo sul cruscotto.
Questo era alto cinque centimetri e lungo dieci. Anche questo era in ceramica, verde smeraldo, con un braccio piegato e la testa appoggiata sulla mano. Sorrideva con aria sognante.
Era sicura di aver lasciato la macchina chiusa e infatti lo era quando era tornata alla fine delle lezioni. L’enigmatico donatore di rospi aveva evidentemente dovuto affrontare non poche difficoltà per aprire la Chevy senza la chiave; doveva aver fatto passare attraverso il finestrino un fil di ferro per cercare di sbloccare il dispositivo di chiusura e poter infine lasciare il rospo.
Più tardi mise il nuovo ospite sul comodino, accanto all’altro con il cappello a cilindro. Trascorse la serata a letto, a leggere. Di tanto in tanto il suo sguardo andava alle statuine in ceramica.
Il mattino seguente, quando lasciò l’appartamento, trovò un pacchetto davanti alla porta. All’interno c’era un altro rospo sempre accuratamente confezionato. Era di peltro e sedeva su un tronco tenendo un banjo tra le zampe.
Il mistero si faceva più fitto.
In estate, cominciò a lavorare a tempo pieno come cameriera all’Hamburger Hamlet, a Costa Mesa, ma durante l’anno scolastico le lezioni erano così impegnative da consentirle di lavorare solo tre sere la settimana. L’Hamlet era un ristorante di categoria abbastanza elevata, nel quale si servivano cibi di buona qualità a prezzi ragionevoli, in un ambiente moderatamente lussuoso, con pannelli di legno alle pareti e comode poltrone. Qui i clienti erano più soddisfatti di quelli che Laura aveva avuto occasione di servire in altri locali.
Anche se l’atmosfera fosse stata diversa e i clienti meno gentili, non avrebbe lasciato il lavoro; aveva bisogno di denaro. In occasione del suo diciottesimo compleanno, quattro anni prima, aveva appreso che suo padre aveva stabilito un fondo fiduciario, costituito dal patrimonio liquidato dopo la sua morte, e che quel fondo non era stato utilizzato dallo Stato per pagare il suo mantenimento all’istituto McIlroy e all’istituto Caswell. Raggiunti i diciotto anni era entrata in possesso di quel fondo, che le era servito per il suo mantenimento e per pagare le spese dell’università. Suo padre non era ricco; c’erano solo dodicimila dollari di interessi maturati, appena sufficienti per quattro anni di affitto, cibo, vestiario e tasse scolastiche, perciò aveva bisogno del suo salario come cameriera.
La sera del 16 gennaio, Laura aveva quasi terminato il suo turno all’Hamlet quando il gestore accompagnò un’anziana coppia, sulla sessantina, a uno dei séparé assegnati a Laura. Chiesero due birre, mentre studiavano il menu. Qualche minuto dopo, quando Laura fece ritorno recando sul vassoio le birre e due caraffe ghiacciate, sul loro tavolo vide un rospo di ceramica. Per la sorpresa quasi rovesciò il vassoio. Guardò l’uomo e la donna e vide che le stavano sorridendo, ma non dicevano nulla. Così Laura esclamò: «Siete voi che mi avete regalato i rospi? Ma se non vi conosco neppure!»
L’uomo replicò: «Oh, ne ha ricevuti altri?»
«Questo è il quarto. Non l’avete portato per me, non è vero? In effetti non c’era qualche minuto fa. Chi l’ha messo sul tavolo?»
L’uomo fece un cenno d’intesa alla moglie, che disse a Laura: «Ha un ammiratore segreto, cara».
«Chi?»
«Un giovanotto che era seduto a quel tavolo là in fondo», rispose l’uomo, indicando la sezione in cui serviva una cameriera di nome Amy Heppleman. Il tavolo ora era vuoto; l’inserviente aveva appena finito di portare via i piatti sporchi. «Appena si è allontanata per andare a prendere le nostre birre, il giovanotto si è avvicinato e ci ha chiesto se poteva lasciare questo per lei.»
Era un rospo, vestito come Babbo Natale, ma senza barba, e sulle spalle portava un sacco pieno di giocattoli.
La donna chiese: «Veramente non sa chi è?»
«No. Che aspetto ha?»
«Alto», rispose l’uomo. «Abbastanza alto e robusto. Capelli castani.»
«Anche gli occhi sono castani», aggiunse sua moglie.
«E ha una voce dolce.»
Rigirando il rospo fra le mani, Laura disse: «C’è qualcosa in tutta questa faccenda… qualcosa che mi rende inquieta».
«Inquieta?» ripetè la donna. «Ma è solo un giovanotto che è innamorato di lei, cara.»
«Davvero?» chiese Laura in tono pensoso.
Trovò Amy Heppleman dietro il bancone dove si preparavano le insalate e riuscì a ottenere una descrizione più dettagliata dello sconosciuto.
«Ha ordinato una frittata ai funghi, pane tostato integrale e una Coca-Cola», spiegò Amy, mentre riempiva due piatti di insalata servendosi di un paio di pinze. «Non l’hai visto quando si è seduto lì?»
«No, non l’ho notato.»
«Un ragazzone. Jeans, camicia azzurra a scacchi. I capelli tagliati forse un po’ troppo corti. Un tipo attraente comunque, se piace il genere orso. Di poche parole. Mi è sembrato abbastanza timido.»
«Ha pagato con una carta di credito?»
«No. In contanti.»
«Dannazione», esclamò Laura.
Si portò il rospo a casa e lo mise accanto agli altri.
Il mattino seguente, lunedì, mentre lasciava l’appartamento trovò un’altra scatola bianca davanti alla porta. L’aprì con riluttanza. Conteneva un rospo in vetro.
Quando Laura tornò dall’università, quello stesso pomeriggio, trovò Julie Ishimina seduta in tinello a leggere il giornale sorseggiando una tazza di tè. «Ne hai ricevuto un altro», disse, indicando una scatola sul bancone della cucina. «Arrivato con la posta.»
Laura aprì il pacchetto lacerandone l’elaborata confezione. Il sesto rospo in realtà erano due: una saliera e una pepiera.
Mise i nuovi arrivati accanto agli altri, sul suo comodino, e per un po’ rimase seduta sul bordo del letto a guardare con aria accigliata la strana collezione.
Alle cinque del pomeriggio chiamò Thelma Ackerson a Los Angeles e le raccontò dei rospi.
Thelma, al contrario di Laura, non poteva permettersi l’università ma, come lei stessa affermava, non era una tragedia perché in fondo non le interessava proseguire gli studi. Terminate le scuole superiori era andata direttamente a Los Angeles, con la ferma intenzione di sfondare nel mondo dello spettacolo come attrice comica.
Quasi tutte le sere, dalle sei alle due di notte, girava per cabaret come l’Improv e il Comedy Store nella speranza di guadagnarsi uno spazio di qualche minuto in scena o di prendere almeno contatto con qualche impresario. Una lotta all’ultimo sangue con un’orda di giovani comici tutti alla ricerca dell’agognata scrittura.
Di giorno lavorava per pagarsi l’affitto, saltabeccando da un posto all’altro. Una volta aveva lavorato in una strana pizzeria dove cantava e serviva ai tavoli vestita da gallinella; un’altra volta ancora aveva sostituito in un picchetto alcuni membri del Writers Guild West che invece di partecipare alla manifestazione, come gli era stato chiesto dal sindacato, avevano preferito pagare qualcuno che reggesse i cartelli e firmasse i registri.
Anche se le separava solo un’ora e mezzo di viaggio, Laura e Thelma si vedevano due o tre volte l’anno e, di solito, solo per qualche ora a pranzo o a cena perché entrambe erano molto impegnate.
Ma quando si ritrovavano si sentivano immediatamente a proprio agio e subito si confidavano i pensieri e le esperienze più intime. «Il legame McIlroy-Caswell», disse una volta Thelma, «è più forte del legame che unisce fratelli di sangue, più forte di un patto della mafia e persino più forte del legame tra Fred Flintstone e Barney Rubble. Quei due sono veramente uniti.»
Dopo che ebbe ascoltato la storia di Laura, Thelma disse: «Be’, qual è il tuo problema, Shane? Mi sembra che si tratti semplicemente di qualche bel fusto, un po’ timido, che si è preso una bella cotta. Un sacco di donne andrebbero in estasi per una cosa così».
«Si tratta semplicemente di questo? Di una cotta innocente?»
«Che cos’altro, altrimenti?»
«Non so, ma… mi rende inquieta.»
«Inquieta? Ma questi rospi sono tutti oggettini graziosi, no? Fra di loro ce n’è forse dall’aria minacciosa? Oppure uno che brandisce un piccolo coltello da macellaio insanguinato? O una piccolissima motosega in ceramica?»
«Ma no!»
«Ti ha forse mandato un rospo decapitato?»
«No, ma…»
«Laura, gli ultimi anni sono stati tranquilli, anche se hai avuto una vita piuttosto movimentata. È comprensibile che ti aspetti che questo tipo sia il fratello di Charles Manson, ma puoi scommettere che è proprio ciò che sembra, un ragazzo che ti ammira da lontano, forse un po’ timido e con una vena romantica. Com’è la tua vita sessuale?»
«Non ho nessuna vita sessuale.»
«Perché no? Non sei vergine! C’era quel ragazzo l’anno scorso…»
«Ma lo sai che non ha funzionato.»
«E da allora non c’è stato più nessuno?»
«No. Ma che cosa pensi?… che vada con tutti?»
«Esagerata! Due amanti in ventidue anni non fanno certo di te una che va con tutti. Rilassati. Smettila di fare la nevrotica. Lasciati andare e vedi dove ti porta. Perché no, potrebbe anche essere il principe azzurro.»
«Ma… forse lo farò. Credo che tu abbia ragione.»
«A proposito, Shane?»
«Sì?»
«Giusto per sicurezza, d’ora in poi forse ti conviene andare in giro con una Magnum .357.»
«Molto divertente.»
«Il divertimento è il mio mestiere.»
Nei tre giorni seguenti Laura ricevette altri due rospi, e il sabato mattina, 22 gennaio, si trovò nuovamente confusa, furente e impaurita. Nessun ammiratore segreto avrebbe tirato il gioco così per le lunghe. Ogni nuovo rospo sembrava burlarsi di lei più che renderle omaggio. C’era una vena ossessiva nel ritmo implacabile di quel misterioso donatore.
Trascorse gran parte della serata di venerdì seduta al buio vicino alla grande finestra del salotto. Da uno spiraglio fra le tende vedeva la veranda coperta e la zona adiacente alla sua porta. Se quella sera fosse venuto, Laura intendeva coglierlo sul fatto e affrontarlo. Attese invano fino alle tre e mezzo del mattino, poi si appisolò. Al mattino, quando si svegliò, davanti alla porta non trovò nessun pacchetto.
Fece una doccia, consumò una frugale colazione, poi uscì prendendo le scale esterne che portavano sul retro dell’edificio, dove teneva la macchina nel posto che le era stato assegnato. Aveva intenzione di recarsi in biblioteca per un lavoro di ricerca e sembrava proprio il giorno giusto per stare al chiuso. Il cielo invernale era grigio e cupo e le nubi gravide di tempesta le misero addosso un senso d’inquietudine, una sensazione che s’intensificò quando trovò un’altra scatola sul cruscotto dell’auto. Avrebbe voluto urlare tanta era la sua frustrazione.
Invece si sedette al posto di guida e aprì il pacchetto. Le altre statuine non dovevano essere costate molto, non più di dieci o quindici dollari, alcune probabilmente anche meno, ma quest’ultima era una squisita miniatura di porcellana che valeva almeno cinquanta dollari. La sua attenzione, tuttavia, non fu attratta tanto dal rospo quanto dalla scatola in cui era contenuto. Contrariamente alle altre, recava il nome di un negozio di articoli da regalo, «Collectibles», nel centro commerciale di South Coast Plaza.
Laura si diresse immediatamente da quella parte, ma arrivò quindici minuti prima dell’apertura, perciò attese su una panchina lungo la passeggiata e fu la prima a entrare nel negozio. La titolare era Eugenia Farvor, una donnina dai capelli grigi. «Sì, noi trattiamo questo genere di articoli», rispose dopo aver ascoltato la succinta spiegazione di Laura e avere esaminato la statuetta di porcellana. «Infatti l’ho venduto io stessa a quel giovanotto, proprio ieri.»
«Sa come si chiama?»
«No, mi dispiace.»
«Che aspetto aveva?»
«Lo ricordò bene, era molto alto, almeno un metro e novantacinque, direi, con spalle larghe. Ben vestito, indossava un completo grigio a righine e una cravatta a righe blu e grigie. Ricordo di avergli fatto anche i complimenti e lui mi disse che non gli era facile trovare degli abiti che gli andassero bene.»
«Ha pagato in contanti?»
«Mmm… no. Ha usato una carta di credito, se ricordo bene.»
«Ha ancora la copia della ricevuta?»
«Certamente, perché di solito rimaniamo sempre in arretrato di un giorno o due con i versamenti.» La signora Farvor portò Laura nel piccolo ufficio sul retro del negozio, facendole strada fra le vetrinette piene di porcellane, cristalli di Lalique e Waterford, piatti di Wedgwood, statuine di Hummel e altri articoli costosi. Ma all’improvviso ebbe un ripensamento. «Se le sue intenzioni sono innocenti, se è solo un ammiratore, e devo ammettere che mi sembrava una persona perbene, rivelandole la sua identità, rovinerò tutto. Vorrà essere lui a farlo quando lo riterrà opportuno.»
Laura cercò con ogni mezzo di convincere la donna e conquistare la sua simpatia. Non ricordava di aver mai parlato in modo più eloquente e con tanto sentimento. Di solito non era così brava a esprimere a parole i suoi sentimenti. Alla fine si ritrovò in lacrime, con sua grande sorpresa, e ciò finì per commuovere Eugenia Farvor.
Dal tagliando di pagamento ottenne il nome, Daniel Packard, e il numero di telefono. Andò direttamente dal negozio a un telefono pubblico e cercò sulla guida. C’erano due Daniel Packard, ma dal numero di telefono che aveva scoprì che la persona che cercava abitava sulla Newport Avenue, a Tustin.
Ritornò al parcheggio sotto una fredda pioggerellina. Non avendo né il cappello né l’ombrello, alzò il bavero del cappotto e si affrettò verso la macchina, ma quando la raggiunse aveva ormai i capelli bagnati ed era intirizzita dal freddo. Per tutto il tragitto da Costa Mesa a North Tustin continuò a tremare.
Pensò che molto probabilmente l’avrebbe trovato a casa. Se era uno studente non sarebbe certo stato a lezione di sabato; e se aveva un normale lavoro di otto ore, con tutta probabilità non sarebbe stato neppure in ufficio. La giornata era poco invitante per i consueti passatempi del fine settimana a cui si dedicavano i californiani amanti della vita all’aperto.
L’indirizzo corrispondeva a un gruppo di edifici a due piani in stile spagnolo, di cui otto con giardino. Per alcuni minuti corse da un edificio all’altro, sul marciapiede sferzato dal vento, alla ricerca del suo appartamento. Quando finalmente lo trovò, al pianterreno nell’edificio più lontano dalla strada, aveva i capelli bagnati fradici. Il freddo le era penetrato nelle ossa. Lo sconforto mitigò la sua paura e accrebbe la sua rabbia e quando suonò il campanello lo fece senza esitazione.
Evidentemente il ragazzo non guardò dallo spioncino, perché quando aprì la porta e la vide parve stupito. Doveva avere forse cinque anni più di lei ed era veramente alto, sicuramente più di un metro e novanta, sui novanta chili, tutto muscoli. Indossava un paio di jeans e una maglietta azzurra sporca di grasso e piena di macchie; le braccia, molto muscolose, erano formidabili. Portava una barba corta e anche il viso era tutto sporco di grasso e le mani erano nere.
Tenendosi a distanza di sicurezza, Laura chiese semplicemente: «Perché?»
«Perché…» esordì lui spostando il peso da un piede all’altro. Era talmente imponente che riempiva il vano della porta. «Perché…»
«Sto aspettando.»
Si passò una mano sporca di grasso fra i cortissimi capelli inconsapevole del disastro che ne risultò. Distolse gli occhi da Laura e nel rivolgerle la parola guardò verso il cortile battuto dalla pioggia. «Come… come ha fatto a trovarmi?»
«Questo non ha importanza. Ciò che importa è che io non la conosco, non l’ho mai vista prima d’ora e nonostante questo mi ritrovo con un esercito di rospi che lei mi ha mandato. Arriva nel cuore della notte per lasciarli davanti alla porta, penetra furtivamente nella mia macchina per depositarli sul cruscotto e questa storia dura da settimane. Non crede che sia ora che io sappia di che cosa si tratta?»
Sempre senza guardarla, il ragazzo arrossì e balbettò: «Be’, certo, ma io non… non ero pronto… non pensavo che fosse ancora il momento giusto».
«Il momento giusto era una settimana fa!»
«Mmm.»
«Avanti, mi dica. Perché?»
Guardandosi le mani unte, replicò in tono sommesso: «Be’, vede…»
«Sì?»
«Io l’amo.»
Lo fissò incredula. Il ragazzo alzò finalmente lo sguardo e Laura gridò: «Lei mi ama? Ma se non mi conosce nemmeno! Come può amare una persona che non ha mai incontrato?»
Lui guardò altrove, si passò nuovamente la mano sporca fra i capelli e si strinse nelle spalle. «Non so, ma è così e io… be’, ehm, ho questa sensazione. Vede, la sensazione che devo passare il resto della mia vita con lei.»
Dai capelli bagnati goccioline di pioggia le scivolavano lungo la schiena; il suo giorno in biblioteca era saltato; del resto come avrebbe potuto concentrarsi sulla ricerca dopo quella scena a dir poco inverosimile? Per giunta aveva scoperto, e non senza disappunto, che il suo ammiratore segreto altri non era che quel sudicio, sudaticcio, tonto balbuziente. Laura disse: «Senta, signor Packard, io voglio che lei la smetta di mandarmi dei rospi».
«Be’, ma io voglio mandarglieli.»
«Ma io non li voglio ricevere. E domani le rispedirò quelli che mi ha mandato. Anzi, li rispedirò oggi stesso.»
Lui fissò Laura con aria sorpresa e disse: «Pensavo che le piacessero i rospi».
Sempre più in collera Laura replicò: «A me piacciono i rospi. Io adoro i rospi. Io credo che i rospi siano le creature più meravigliose di questa terra. In questo preciso istante desidererei perfino essere un rospo, ma non voglio i suoi rospi. Chiaro?»
«Ehm.»
«Non m’infastidisca, Packard. Forse alcune donne subiscono il suo strano fascino di romantico autoritario e di macho sdolcinato, ma io non sono una di quelle. So difendermi da sola, non creda che non sappia farlo. Sono molto più forte di quanto non sembri e ho dovuto affrontare cose ben peggiori.»
Dopodiché Laura gli voltò le spalle e si allontanò sotto la pioggia. Salì in macchina e prese la via del ritorno. Per tutto il viaggio continuò a tremare come una foglia, e non solo perché era bagnata e intirizzita, ma perché era letteralmente furibonda. Che faccia tosta!
Una volta a casa si svestì, si avvolse in una vestaglia, poi si preparò un caffè per scaldarsi.
Aveva appena bevuto il primo sorso di caffè, quando il telefono squillò. Rispose dalla cucina. Era Packard.
Parlò tutto d’un fiato, una frase dopo l’altra senza mai interrompersi. «Per favore, non riappenda. Ha ragione, sono uno stupido, un idiota, ma mi conceda solo un minuto per spiegarmi. Stavo sistemando la lavapiatti quando lei è arrivata, ecco perché ero così in disordine, così sporco di unto e tutto sudato. Ho dovuto tirarla fuori da sotto il ripiano io stesso; il padrone di casa l’avrebbe aggiustata, ma passando attraverso l’amministrazione ci vuole almeno una settimana e io del resto me la cavo con i lavori manuali, posso aggiustare qualsiasi cosa. La giornata era brutta, non avevo nient’altro da fare, così mi sono detto: Perché non aggiustarla io stesso? Non immaginavo certo di vederla arrivare. Io mi chiamo Daniel Packard, ma questo lei lo sa già. Ho ventotto anni, ho prestato servizio nell’esercito fino al ’73, tre anni fa mi sono laureato in economia all’università di Irvine, in California, e ora lavoro come agente di cambio, ma di sera seguo un paio di corsi all’università ed è così che per caso ho letto il suo racconto sul rospo sulla rivista letteraria dell’università. Eccezionale! Mi è piaciuto tantissimo, un racconto fantastico, veramente. Allora sono andato in biblioteca e ho sfogliato tutti i numeri arretrati per trovare altri suoi racconti. E li ho letti tutti. Parecchi erano belli, dannatamente belli. Non tutti, ma parecchi. A un certo punto non so bene quando mi sono innamorato di lei, della persona che avevo conosciuto attraverso quei racconti così belli e così reali. Poi una sera, mentre ero seduto in biblioteca a leggere una delle sue storie, la bibliotecaria passò dietro di me e a un certo punto si chinò e mi chiese se mi piaceva. Io annuii e lei mi disse: ‘Be’, l’autrice è proprio là di fronte, magari può andare a dirle che il racconto è bello’. E così l’ho vista. Era lì, a poca distanza da me, con una pila di libri, concentratissima, la fronte aggrottata, stava prendendo appunti ed era semplicemente splendida. Vede, io sapevo che doveva essere bella interiormente, perché i suoi racconti lo sono, perché i sentimenti che vi sono espressi sono belli, ma non ho mai pensato che lei potesse essere bella anche esteriormente. E non sapevo come fare per avvicinarla perché le donne belle mi hanno sempre terrorizzato, forse perché mia madre era bella ma fredda e inaccessibile, così mi sono convinto che tutte le donne belle mi rifiuteranno come ha fatto mia madre (questa è un’analisi da quattro soldi) ma è certo che sarebbe stato molto più facile per me se lei fosse stata brutta o insignificante. Il suo racconto mi fece venire l’idea di usare i rospi. Avrei fatto la parte dell’ammiratore segreto che manda i regali, per tentare di intimidirla. Mi ero ripromesso di scoprire le carte dopo il terzo o il quarto rospo, le assicuro che queste erano le mie intenzioni, ma continuai a rimandare perché non volevo essere rifiutato, almeno credo; mi resi conto che stava diventando una follia, ma non riuscivo a fermarmi e a dimenticarla e nonostante questo non avevo il coraggio di affrontarla. Questo è tutto. Non volevo certo farle del male o irritarla. Può perdonarmi? Spero di sì.»
Tacque, esausto.
Laura disse: «Bene».
«Vuole uscire con me?» replicò lui.
Sorpresa, Laura accettò: «Sì».
«Una cena e un film?»
«Va bene.»
«Stasera? Vengo a prenderla alle sei?»
«Okay.»
Dopo aver riappeso, Laura rimase per un momento a fissare il telefono. Alla fine disse ad alta voce: «Shane sei impazzita?… Però ha detto che i miei scritti sono ‘così belli e così reali’».
Andò in camera e guardò la collezione di rospi allineati sul suo comodino. «Certo che ha un comportamento veramente strano. La prima volta non riesce a dire una parola, e la volta dopo non smette un attimo di parlare. Potrebbe essere uno psicopatico, Shane.» Poi si disse: «Sì, potrebbe. Però è anche un grande critico letterario».
Visto che il programma era di andare a cena e poi al cinema, Laura indossò una gonna grigia, una camicetta bianca e un giubbotto marrone. Daniel, invece, aveva indossato un completo blu scuro, una camicia bianca con polsini doppi, una cravatta di seta blu con tanto di fermacravatta, un fazzoletto di seta nel taschino e un paio di scarpe nere lucidissime, come se dovesse andare a una prima all’opera. La scortò sotto il suo ombrello dall’appartamento all’auto, tenendola delicatamente sottobraccio. Aveva un’aria estremamente protettiva, come se temesse che Laura si potesse dissolvere se fosse stata toccata da una goccia di pioggia oppure si frantumasse in mille pezzi se fosse scivolata e caduta. A causa della diversità del loro abbigliamento e della vistosa differenza delle loro corporature — Laura era più bassa di almeno trenta centimetri e pesava la metà — ebbe la sensazione di andare a un appuntamento con suo padre o con un fratello maggiore. Non era una donna piccola, ma accanto a Daniel si sentì decisamente minuta.
Sull’auto Daniel rimase silenzioso e lei ritenne che ciò fosse dovuto al fatto che doveva guidare con estrema attenzione a causa del brutto tempo. Andarono in un delizioso ristorantino italiano a Costa Mesa, dove Laura era già stata un paio di volte in passato, apprezzandone la cucina. Si sedettero a un tavolo, ma prima che la cameriera potesse chiedere se desideravano un aperitivo, Daniel annunciò: «Qui non va bene, andiamo in un altro locale».
Sorpresa Laura chiese: «Perché? Qui va bene. La cucina è ottima».
«No, veramente, non va bene. Non c’è atmosfera, non c’è stile, non voglio che pensi, ehm». Ecco che di nuovo si esprimeva con difficoltà, come in occasione del loro primo incontro. Arrossendo proseguì: «Be’, ehm, comunque, qui non va bene, non è adatto per il nostro primo appuntamento, voglio che questa serata sia speciale». E si alzò. «Penso di conoscere il posto giusto.» Poi, rivolgendosi alla cameriera che li guardava con aria perplessa, disse: «Mi scusi, spero che non le abbiamo recato troppo disturbo». Ed era già alle spalle di Laura per aiutarla ad alzarsi. «Conosco il posto giusto. Vedrai, ti piacerà. Io non ci sono mai stato ma ho sentito che il cibo è ottimo, eccellente.» Laura si accorse che avevano attirato l’attenzione di altri clienti, perciò smise di protestare. «È vicino, tra l’altro, proprio a qualche isolato da qui.»
Ritornarono alla macchina, percorsero un paio di isolati e parcheggiarono di fronte a un ristorante dall’aspetto tutt’altro che pretenzioso, in un centro commerciale.
Ormai Laura lo conosceva abbastanza bene da sapere che doveva aspettare che lui le aprisse la portiera. Ma quando lo fece, Laura si accorse che era finito in una pozzanghera alta almeno venti centimetri. «Oh, le scarpe!» esclamò Laura.
«Si asciugheranno. Tu tieni l’ombrello e io ti porterò al di là della pozzanghera.»
Imbarazzata, Laura si lasciò sollevare e trasportare come se pesasse meno di un cuscino di piume. La depose sul marciapiede e senza l’ombrello ritornò sguazzando all’auto per chiudere la portiera.
Nel ristorante francese l’atmosfera era meno intima che in quello italiano. Furono fatti accomodare a un tavolo troppo vicino alla cucina, e mentre attraversavano la sala si udì soltanto il cic ciac e lo scricchiolio delle scarpe bagnate di Daniel.
«Ti prenderai una polmonite», disse Laura in tono preoccupato quando si furono seduti ed ebbero ordinato due aperitivi.
«Non io. Sono refrattario, non mi ammalo mai. Una volta in Vietnam, durante un’azione, rimasi isolato dalla mia unità e trascorsi una settimana da solo nella giungla e non smise un attimo di piovere. Quando finalmente trovai la via del ritorno, ero raggrinzito, ma non ho mai neppure preso un raffreddore.»
Mentre sorseggiavano l’aperitivo e studiavano il menu, Laura lo vide rilassato come mai prima di quel momento e in effetti si dimostrò un conversatore piacevole e persino divertente. Quando furono serviti gli antipasti, salmone in salsa di aneto per lei e scaloppine per lui, fu immediatamente chiaro che il cibo non era all’altezza dei prezzi, decisamente il doppio di quelli del ristorante italiano che avevano appena lasciato. Portata dopo portata, Daniel parve sempre più imbarazzato e anche la sua conversazione si fece meno brillante. Laura affermò che tutto era delizioso, ma non servì a nulla.
Il servizio inoltre era lentissimo. Quando finalmente fecero ritorno alla macchina, erano già in ritardo di mezz’ora per il film.
«Non importa», disse Laura. «Possiamo andare lo stesso e l’inizio lo vediamo dopo.»
«No, no», replicò Daniel. «È un modo indecente di vedere un film. Lo rovineremmo. E io che volevo che questa serata fosse perfetta!»
«Rilassati», esclamò Laura. «Mi sto divertendo.»
La guardò incredulo, si sorrisero, ma il suo era un sorriso triste.
«Se non vuoi andare al cinema», disse Laura, «non importa. Qualsiasi cosa tu voglia fare, ci sto.»
Lui scosse la testa, mise in moto la macchina e uscirono dal parcheggio. Solo dopo qualche chilometro Laura si rese conto che la stava accompagnando a casa.
Mentre la scortava fino alla porta di casa, continuò a scusarsi per la serata e lei a sua volta continuò ad assicurargli che non era rimasta affatto delusa. Giunti davanti all’appartamento, nell’istante in cui Laura infilò la chiave nella serratura Daniel si voltò e corse giù per le scale, senza chiederle il bacio della buonanotte e senza lasciarle la possibilità di invitarlo in casa.
Dall’alto lo guardò mentre scendeva, e a metà scala una folata di vento gli rovesciò l’ombrello. Mentre cercava di raddrizzarlo rischiò di perdere l’equilibrio almeno un paio di volte. Quando raggiunse il vialetto riuscì finalmente a raddrizzare l’ombrello, ma il vento dispettoso pensò bene di capovolgerglielo un’altra volta. Al culmine della frustrazione lo gettò in un cespuglio vicino, poi alzò lo sguardo verso Laura. Ormai era fradicio da capo a piedi e alla pallida luce di un lampione, Laura vide che il vestito gli si era praticamente appiccicato addosso. Era un uomo enorme, forte come un toro, ma era stato messo in difficoltà da piccole cose come una pozzanghera, una folata di vento e in tutto ciò c’era qualcosa di ridicolo. Laura sapeva che non avrebbe dovuto ridere, che non avrebbe dovuto osare, ma alla fine non seppe trattenersi e scoppiò in una risata.
«Sei dannatamente bella, Laura Shane!» le gridò Daniel. «Che Dio mi assista, sei semplicemente troppo bella!» Poi si allontanò velocemente.
Sentendosi in colpa per essersi messa a ridere, ma incapace di trattenersi, entrò in casa, si cambiò e indossò un pigiama. Erano solo le otto e quaranta.
O Daniel era matto da legare e senza speranza, oppure si trattava dell’uomo più dolce che avesse conosciuto da quando suo padre era morto.
Alle nove e mezzo il telefono squillò. Era Daniel. «Uscirai ancora con me?»
«Pensavo che non avresti più chiamato.»
«Allora lo farai?»
«Certo.»
«Una cenetta e un film?» propose Daniel.
«Mi sembra un’ottima idea.»
«Sì, ma non torneremo in quell’orribile ristorante francese. Mi dispiace che sia accaduto, davvero.»
«Senti, non m’interessa dove andiamo», esclamò Laura, «ma una volta che ci saremo seduti al ristorante devi promettermi che ci rimarremo.»
«Lo so, sono un testone per certe cose. E, come ti avevo già detto… non sono mai stato abile con le belle donne.»
«Tua madre, immagino.»
«Giusto. Ha rifiutato me e anche mio padre. Non ho mai avuto calore umano da quella donna. Ci abbandonò quando avevo undici anni.»
«Dev’essere stato tremendo.»
«Ma tu sei molto più bella di lei e mi spaventi a morte.»
«Ehi, mi stai adulando.»
«Be’, scusa, ma avevo proprio intenzione di farlo. Il problema è che, per quanto tu sia bellissima, i tuoi scritti sono più belli ancora, almeno una volta e mezzo, e questo mi spaventa ancora di più. Mi chiedo, che cosa può trovare un genio come te in un uomo come me. Forse un passatempo divertente?»
«Solo una domanda, Daniel.»
«Danny.»
«Solo una domanda, Danny. Che razza di agente di cambio sei? Conti qualcosa?»
«Prima categoria», disse con orgoglio genuino e Laura fu certa che stava dicendo la verità. «I miei clienti credono ciecamente in me e ho un portfolio tutto mio che ha superato l’andamento del mercato per tre anni consecutivi. Come analista, mediatore ed esperto finanziario, non lascio mai al vento la possibilità di capovolgermi l’ombrello.»
Il pomeriggio successivo alla sistemazione degli esplosivi nei sotterranei dell’istituto, Stefan intraprese quello che riteneva essere il suo penultimo viaggio lungo la Via del Lampo. Era una puntata illegale al 10 gennaio 1988, non figurava sulla tabella ufficiale e i suoi colleghi ne erano all’oscuro.
Quando arrivò una neve leggera stava scendendo sulle San Bernardino Mountains, ma il suo abbigliamento era adeguato al tempo: stivali di gomma, guanti di pelle e un giaccone da marinaio. Trovò riparo sotto una fitta macchia di pini, con l’intenzione di attendere finché i lampi non fossero cessati.
Guardò l’orologio alla tremula luce celeste e rimase sbigottito quando si accorse di essere arrivato tanto tardi. Aveva meno di quaranta minuti per raggiungere Laura prima che fosse uccisa. Se avesse commesso un errore, se fosse arrivato troppo tardi, non ci sarebbe stata una seconda possibilità.
Anche se gli ultimi lampi squarciavano il cielo tetro e il boato secco dei tuoni echeggiava ancora dietro di lui, lasciò frettolosamente il suo riparo e s’incamminò a passo sostenuto giù per un campo scosceso, dove la neve accumulatasi durante le precedenti bufere era alta fino al ginocchio. In superficie si era formato un sottile strato di ghiaccio che a ogni passo Stefan doveva rompere. Procedere era difficile come guadare un profondo corso d’acqua. Cadde due volte e la neve gli entrò negli stivali; il vento lo colpiva e l’ostacolava con tale furia che sembrava animato dalla volontà di annientarlo. Arrivò in fondo alla collina, superò un cumulo di neve e quando si ritrovò sul ciglio della statale a due corsie che portava ad Arrowhead e a Big Bear, aveva i pantaloni e il cappotto incrostati di ghiaccio, i piedi congelati e aveva perso più di cinque minuti.
La strada, sgombrata di recente dalla neve, era pulita. Ma l’intensità della tormenta era già aumentata. I fiocchi si erano fatti molto più piccoli e fitti da quando era arrivato. Presto la strada sarebbe diventata pericolosa.
Notò un cartello a lato della strada: «LAGO ARROWHEAD 1,5 KM». Fu sconvolto quando scoprì di essere molto più lontano da Laura di quanto pensasse.
Socchiuse gli occhi e guardando verso nord vide il caldo bagliore di una lampada elettrica in quel desolato e grigio pomeriggio: un edificio a un piano e delle auto parcheggiate a circa trecento metri, sulla destra. Puntò immediatamente in quella direzione, tenendo il capo chino per proteggersi il volto dalle gelide sferzate del vento.
Doveva trovare un’auto. Laura aveva meno di mezz’ora da vivere ed era a quindici chilometri di distanza.
Cinque mesi dopo quel primo appuntamento, sabato 16 luglio 1977, sei settimane dopo essersi laureata, Laura sposò Danny Packard con rito civile di fronte a un giudice. Gli unici ospiti, che fungevano anche da testimoni, erano il padre di Danny, Sam Packard, e Thelma Ackerson.
Sam era un bell’uomo, sulla cinquantina, con i capelli grigi, che sembrava minuto in confronto al figlio. Pianse per tutta la cerimonia e Danny non fece che voltarsi a chiedere: «Tutto bene, papà?» Sam annuiva, si soffiava il naso e diceva loro di andare avanti, ma un attimo dopo era di nuovo in lacrime. A un certo punto il giudice disse: «Figliolo, le lacrime di tuo padre sono lacrime di gioia, perciò se potessimo andare avanti… ho ancora tre cerimonie dopo questa».
Anche se il padre dello sposo non fosse stato un disastro dal punto di vista emotivo e anche se lo sposo non fosse stato un gigante dal cuore di cerbiatto, il loro matrimonio sarebbe comunque rimasto memorabile grazie a Thelma. Aveva un taglio di capelli strano, stile porcospino, con al centro una ciocca color rosso porpora. Era piena estate e aveva scelto per la cerimonia un paio di scarpe rosse con vertiginosi tacchi a spillo, pantacollant neri aderentissimi e un giubbotto nero tutto sbrindellato, accuratamente, deliberatamente sbrindellato, stretto in vita da una catena di ferro che fungeva da cintura. Gli occhi erano pesantemente truccati con un ombretto rosso porpora e le labbra dipinte con un rossetto rosso sangue. All’orecchio portava un orecchino a forma di amo.
Mentre Danny scambiava due parole a tu per tu con il padre, Thelma si appartò con Laura in un angolo del palazzo di Giustizia e le spiegò il suo nuovo look. «Questa è la moda punk, una supernovità che viene dall’Inghilterra. Qui da noi non c’è ancora nessuno che la segue e in Inghilterra sono pochissimi. Ma nel giro di qualche anno si vestiranno tutti così. Per il mio lavoro poi è una bomba. Do subito l’impressione di una stramba, perciò appena metto piede sul palcoscenico alla gente viene da ridere. Ed è perfetto anche per me. Siamo onesti, non si può certo dire che con l’età io stia sbocciando. Per la miseria, se la bruttezza fosse riconosciuta come malattia e avesse un’organizzazione caritatevole alle spalle io potrei essere l’immagine perfetta per i loro manifesti. Comunque, lo stile punk ha due grandi qualità: primo, ti puoi nascondere dietro un trucco e una capigliatura appariscenti e nessuno potrà dire che sei scialba; secondo, è scontato che risulti sempre originale. Accidenti, Shane, Danny è gigantesco! Mi hai raccontato tante cose di lui al telefono, ma non mi hai mai detto neppure una volta che era così enorme. Mettigli addosso un costume da Godzilla, lascialo libero a New York, filma quello che succede e vedrai che viene fuori uno di quei film senza dover allestire delle costose scene in miniatura. E così lo ami, eh?»
«Lo adoro», confessò Laura. «La sua delicatezza è pari alla sua mole, forse a causa di tutta la violenza che ha visto e a cui ha preso parte in prima persona in Vietnam, o forse perché è sempre stato così di natura. È dolce, Thelma, premuroso e pensa che io sia una delle migliori scrittrici che abbia mai avuto occasione di leggere.»
«E pensare che quando all’inizio ha cominciato a regalarti i rospi, pensavi che fosse uno psicopatico!»
«Errore!»
Due poliziotti in uniforme, che scortavano un giovane ammanettato, attraversarono il corridoio diretti a una delle aule. Quando furono all’altezza di Thelma, il prigioniero le lanciò un’occhiata e disse: «Ehi, pupa, andiamo a spassarcela!»
«Ah, il fascino Ackerson», commentò Thelma. «Tu ti sei trovata un uomo che è una combinazione fra un dio greco, un orsacchiotto e Bennett Cerf, mentre a me toccano le avance dei rifiuti della società. Ma se ci penso bene, non ho mai ricevuto neanche quelle, perciò forse è arrivato il mio momento.»
«Ti sottovaluti, Thelma. L’hai sempre fatto. Ma qualcuno di veramente speciale scoprirà il tesoro che c’è in te…»
«Sì. Charles Manson quando verrà rilasciato sulla parola.»
«No. Un giorno anche tu potrai vivere attimo per attimo la felicità che sto assaporando io. Lo sento. È destino, Thelma.»
«Santi numi, Shane, sei diventata un’ottimista scatenata! E che cosa mi dici dei lampi? E di tutti quei discorsi così profondi che facevamo al Caswell, ricordi? Arrivammo alla conclusione che la vita non è che un’assurda commedia, che di tanto in tanto viene interrotta dai fulmini della tragedia per equilibrare la storia, per far sì che la farsa grottesca delle torte in faccia, al confronto, sembri più buffa.»
«Forse ha colpito per l’ultima volta nella mia vita», disse Laura.
Thelma la fissò duramente. «Ti conosco, Shane, e so che conosci perfettamente qual è il rischio emotivo in cui ti stai cacciando solo per il semplice fatto di voler essere così felice. Spero tu abbia ragione, amica mia, e scommetto che è così. Scommetto che non ci saranno più lampi per te.»
«Grazie, Thelma.»
«E penso che il tuo Danny sia un tesoro, un gioiello. Ma ti dirò di più. Anche a Ruthie sarebbe piaciuto. Ruthie avrebbe pensato che è perfetto.»
Si strinsero in un forte abbraccio e per un attimo furono di nuovo due ragazzine, provocatorie e vulnerabili, assurdamente fiduciose e al contempo terrorizzate dal cieco destino che aveva segnato così profondamente l’adolescenza che avevano condiviso.
Domenica 24 luglio, di ritorno dalla luna di miele a Santa Barbara, andarono a fare la spesa e poi prepararono insieme la cena nel loro appartamento di Tustin: spaghetti saltati in padella, pane integrale, polpettine al forno e insalata. Laura aveva lasciato il suo appartamento e si era trasferita da Daniel qualche giorno prima del matrimonio. Secondo il piano che avevano elaborato sarebbero rimasti in quell’appartamento per due anni, forse tre. (Avevano parlato così spesso del loro futuro e in termini così dettagliati che nelle loro menti avevano riassunto il tutto in due sole parole, Il Piano.) Perciò dopo due, forse tre anni, avrebbero potuto permettersi di versare un anticipo in contanti per una casa che rispondesse meglio alle loro esigenze, senza intaccare il rispettabile portafolio di azioni che Danny si stava creando, e solo allora avrebbero potuto spostarsi.
La cucina si apriva sul pergolato del giardino, dove cenarono godendo dello spettacolo delle palme giganti nella luce dorata del tramonto. Discussero la parte centrale del Piano, che prevedeva che Danny provvedesse al mantenimento, mentre Laura sarebbe rimasta a casa a scrivere il suo primo romanzo. «E quando diventerai ricca e famosa», disse Danny, mentre arrotolava gli spaghetti sulla forchetta, «allora io lascerò il mio lavoro per dedicarmi completamente ad amministrare i tuoi guadagni.»
«E che cosa succederà se non diventerò né ricca né famosa?»
«Ah, lo diventerai di sicuro.»
«E che cosa succederà se non riuscirò a pubblicare neppure un romanzo?»
«Chiederò il divorzio.»
Laura gli gettò un pezzo di pane. «Porco!»
«Bisbetica.»
«Vuoi un’altra polpetta?»
«No, se hai intenzione di tirarmela dietro!»
«No, mi è già sbollita la collera. Sono buone le mie polpettine, vero?»
«Eccellenti», confermò Danny.
«Allora, non credi che valga la pena di festeggiare, visto che hai una moglie che prepara delle ottime polpette?»
«Ne vale decisamente la pena.»
«Allora facciamo l’amore.»
«Nel bel mezzo della cena?»
«No, a letto.» Laura spinse indietro la sedia e si alzò. «Su, vieni, la cena si può sempre riscaldare.»
Durante quel primo anno fecero spesso l’amore e nell’intimità Laura trovò qualcosa che andava al di là del semplice sfogo sessuale, qualcosa che superava di gran lunga le sue aspettative. Quando era con Danny, quando lo teneva dentro di sé, si sentiva così vicina a lui che a volte sembrava quasi che fossero una sola persona, un solo corpo e una mente, uno spirito, un sogno. Lo amava immensamente, sì, ma quella sensazione di unicità era molto più che amore. Quando arrivò Natale, il loro primo Natale insieme, Laura capì che quello che provava era una sensazione di possesso, la sensazione di essere di nuovo una famiglia; perché Danny era suo marito e lei era sua moglie e un giorno dalla loro unione sarebbero nati dei bambini, dopo due o tre anni, secondo il Piano, e nel guscio familiare c’era una pace che non aveva trovato altrove.
Laura aveva pensato che lavorare e vivere in continua felicità, armonia e sicurezza, giorno dopo giorno, avrebbe reso pigra la sua mente, che l’ispirazione avrebbe sofferto di quell’eccessiva felicità, che avrebbe avuto bisogno di una vita più equilibrata, con alti e bassi, per continuare a essere creativa. Ma l’idea che un artista avesse bisogno di soffrire per produrre le sue opere migliori era un luogo comune. Più era felice e meglio scriveva.
Sei settimane prima del loro primo anniversario di matrimonio, Laura mise la parola fine a Jericho Nights e ne inviò una copia a Spencer Keene, l’agente letterario di New York che aveva risposto favorevolmente a una sua lettera. Due settimane più tardi Keene la chiamò per annunciarle che avrebbe proposto il libro a varie case editrici e che si aspettava di venderlo in breve tempo. Con una rapidità che stupì persino l’agente, vendette il libro alla Viking, la prima casa editrice a cui l’aveva sottoposto, per un modesto ma rispettabile anticipo di quindicimila dollari e il contratto venne definito venerdì 14 luglio 1978, due giorni prima del loro anniversario.
Il posto che aveva intravisto dalla strada, trecento metri più a monte, era una taverna ristorante celata sotto enormi pini gialli. Gli alberi si elevavano per più di sessanta metri, erano carichi di grandi pigne e avevano le cortecce spesse e piene di fessure. Alcuni rami erano ricurvi sotto il peso della neve delle precedenti bufere. L’edificio a un piano era fatto di tronchi d’albero. Era così nascosto fra gli alberi su tre lati che il tetto d’ardesia era ricoperto più dagli aghi dei pini che dalla neve. Le finestre erano appannate e la luce proveniente dall’interno veniva piacevolmente diffusa da quella pellicola semitrasparente che si era formata sul vetro.
Nel parcheggio di fronte si erano fermate due jeep, due autocarri e una Thunderbird. Tranquillizzato dal fatto che nessuno poteva vederlo dalle finestre della taverna, Stefan si diresse immediatamente verso una delle jeep e dopo essersi accertato che fosse aperta si sistemò al posto di guida e chiuse la portiera.
Estrasse la Walther PPK/S.380 dalla fondina legata alla spalla e la posò sul sedile di fianco.
I piedi gli dolevano dal freddo e avrebbe voluto fermarsi un attimo per togliere la neve che si era infiltrata negli stivali. Ma era arrivato troppo tardi, la sua tabella di marcia era saltata e non osò perdere neppure un minuto. Anche se gli facevano male i piedi, non erano ancora gelati e per il momento non c’era pericolo di un congelamento.
Le chiavi non erano nel quadro. Tirò indietro il sedile, si chinò e cercò a tastoni sotto il cruscotto. Individuò i fili dell’accensione e in un attimo mise in moto.
Stefan si sollevò proprio nel momento in cui il proprietario della jeep aprì la portiera. «Ehi, che diavolo stai facendo qui, amico?»
Il parcheggio spazzato dalla neve era ancora deserto. Erano soli.
Laura sarebbe morta fra venticinque minuti.
Il proprietario della jeep si avventò su di lui e Stefan si lasciò tirare. Afferrò la pistola che aveva posato sul sedile accanto e si abbandonò letteralmente alla presa dell’altro, cogliendo il momento adatto per farlo barcollare all’indietro sul selciato scivoloso. Caddero. Appena toccarono terra, Stefan gli fu sopra e gli puntò la pistola alla gola.
«Dio mio, no! Non spari!»
«Adesso ci alziamo. Presto, dannazione e non faccia scherzi!»
Quando furono in piedi Stefan si mise alle spalle dell’uomo e afferrata la Walther per la canna, la usò come una mazza e lo colpì una sola volta, ma abbastanza forte da tramortirlo. Il proprietario della jeep cadde a terra, privo di sensi.
Stefan lanciò un’occhiata verso la taverna. Non era uscito nessuno.
Dalla strada non si udiva rumore di macchine, ma l’ululato del vento avrebbe potuto coprire il rumore di un motore.
Cominciò a nevicare più forte. Stefan ripose la pistola nella tasca interna del cappotto e trascinò l’uomo privo di sensi verso la macchina più vicina, la Thunderbird, che era aperta. Sollevò il corpo e lo adagiò sul sedile posteriore, chiuse la portiera e si affrettò verso la jeep.
Il motore si era spento. Mise in moto un’altra volta, inserì la marcia e sterzò per portarsi sulla strada. La neve cominciò a cadere a larghe falde, fitta, e da terra si alzavano mulinelli di neve sfavillanti. Gli enormi pini avvolti dall’oscurità ondeggiavano e fremevano sotto la furia del vento.
Laura aveva poco più di venti minuti di vita.
Festeggiarono il contratto per la pubblicazione di Jericho Nights e il primo anno di matrimonio a Disneyland, il loro luogo preferito. Il cielo era azzurro e limpido; l’aria asciutta e calda. Incuranti della folla che li circondava, si divertirono con i Pirati dei Caraibi, si fecero fotografare con Topolino, si fecero venire le vertigini girando nelle grandi tazze del Cappellaio Matto, si fecero fare le caricature, mangiarono hot dog, gelati, banane ghiacciate ricoperte di cioccolata e la sera danzarono alla musica di una Dixieland band nella New Orleans Square.
L’atmosfera del parco si fece ancora più magica dopo il tramonto; presero il mitico vaporetto di Mark Twain e navigarono intorno all’isola di Huck Finn per la terza volta, appoggiati al parapetto sul ponte più alto, vicino alla prua, teneramente abbracciati. «Sai perché questo posto ci piace tanto?» esordì Danny. «Perché fa parte di un mondo non ancora contaminato dal mondo. Come il nostro matrimonio.»
Più tardi, seduti a un tavolo del Carnation Pavilion, sotto alberi addobbati di bianche luci natalizie e davanti a un’enorme coppa di gelato con le fragole, Laura disse: «Quindicimila dollari per un anno di lavoro… non sono esattamente una fortuna».
«Ma non è neppure il salario di uno schiavo.» Danny spinse da parte il suo gelato, si allungò e spostò anche quello di Laura, poi, prendendole le mani fra le sue le disse: «Prima o poi il denaro arriverà perché hai talento, ma non è il denaro la cosa che m’interessa. Ciò che m’interessa è che tu hai qualcosa di speciale da condividere. No, non è esattamente ciò che voglio dire. Non solo hai qualcosa di speciale, tu sei qualcosa di speciale. È un concetto che ho ben chiaro nella mente ma che non riesco a spiegare. Io so che la tua interiorità, quando viene espressa e quindi condivisa, infonde nelle persone, in qualunque persona, la stessa speranza e la stessa gioia che infonde a me che vivo al tuo fianco».
Trattenendo le lacrime, Laura sussurrò: «Ti amo».
Jericho Nights fu pubblicato dieci mesi più tardi, nel maggio del 1979. Danny aveva insistito perché Laura usasse il suo nome da ragazza perché sapeva che durante i tristi anni trascorsi all’Istituto McIlroy e alla Caswell aveva resistito in parte anche perché voleva realizzare qualcosa di cui suo padre potesse essere fiero e anche sua madre, che non aveva mai conosciuto. Il romanzo vendette poche copie, non fu scelto da nessun club del libro e fu ceduto dalla Viking a un editore di tascabili per un modesto anticipo.
«Non ha importanza», la consolò Danny. «A tempo debito arriverà il successo. Tutto arriverà a tempo debito. Proprio in virtù di ciò che sei.»
Laura stava già lavorando alacremente al suo secondo romanzo, Shadrach. Impegnandosi dieci ore al giorno per sei giorni la settimana, lo terminò quello stesso luglio.
Un venerdì inviò una copia a Spencer Keene, a New York, e diede l’originale a Danny. Sarebbe stato il primo in assoluto a leggerlo. Uscì presto dall’ufficio e all’una di venerdì pomeriggio iniziò a leggere il romanzo, seduto nella sua poltrona del salotto. Andò a letto e dormì solo quattro ore, alle dieci di sabato mattina era nuovamente in poltrona e aveva già letto i due terzi del manoscritto. Non fece alcun commento, non una parola. «Prima devo terminarlo. Non sarebbe giusto nei tuoi confronti iniziare ad analizzare e a replicare finché non ho finito, finché non ho colto tutta l’essenza di questo lavoro; e non sarebbe giusto neppure nei miei confronti, perché se lo discutessimo ora andrebbe a finire che mi sveleresti prima o poi un punto cruciale della storia.»
Laura gli tenne gli occhi incollati addosso per cercare di scoprire un qualsiasi cenno di disapprovazione o di assenso, per vedere se reagiva in qualche modo alla storia, ma anche quando coglieva una reazione temeva che fosse negativa. Alle dieci e mezzo di sabato non resistette più e dovette uscire. Prese la macchina e andò a South Coast Plaza, bighellonò per qualche libreria, fece colazione molto presto, anche se non aveva fame, poi si diresse verso Westminster Mall, mangiò un gelato allo yogurt, poi andò all’Orange Mall, entrò in qualche negozio, comprò un bel pezzo di croccante e ne mangiò quasi la metà. «Shane», si disse, «torna a casa, altrimenti per l’ora di cena sarai diventata il doppio di Orson Welles.»
Mentre parcheggiava l’auto sotto la tettoia del condominio, si accorse che quella di Danny non c’era. Entrò in casa e lo chiamò ad alta voce, ma non ricevette alcuna risposta.
Il manoscritto di Shadrach era sul tavolo del tinello.
Guardò se c’era un biglietto. Nulla.
«Oh Cristo!»
Il libro era brutto. Faceva schifo. Era nauseante. Carta straccia. Povero Danny! Era sicuramente andato da qualche parte a bersi una birra per trovare il coraggio di dirle che avrebbe fatto meglio a imparare a fare l’idraulico mentre era ancora abbastanza giovane per lanciarsi in una nuova carriera.
Le venne da vomitare. Corse in bagno, ma la nausea passò. Si rinfrescò il viso con un po’ d’acqua fresca.
Il libro era orribile.
Okay, avrebbe dovuto accettarlo. Aveva pensato che Shadrach fosse un buon lavoro, di gran lunga migliore di Jericho Nights, ma evidentemente si era sbagliata. Ne avrebbe scritto un altro.
Andò in cucina e si stappò una birra. Aveva appena bevuto un paio di sorsi quando Danny rientrò con una confezione regalo, grossa come un pallone da calcio. L’appoggiò sul tavolo del tinello accanto al manoscritto, poi guardò Laura con aria solenne. «È per te.»
Ignorando completamente la scatola, Laura disse concitata: «Dimmi».
«Prima apri il tuo regalo.»
«Oh, Cristo, ma è così brutto? È così brutto che per addolcirmi la pillola mi hai comprato un regalo? Dimmi. Sono pronta. Anzi no, aspetta! Fammi sedere.» Prese una sedia e vi si lasciò cadere. «Forza, colpisci! Sopravviverò anche a questo.»
«Laura, sei un tantino melodrammatica!»
«Che cosa stai dicendo? Il libro è melodrammatico?»
«Non il libro, tu. Ma ora, per favore, vuoi smetterla di fare la giovane artista distrutta e deciderti ad aprire il tuo regalo?»
«Va bene, va bene. Se devo aprire il regalo prima che parli, allora aprirò questo stramaledettissimo regalo.»
Prese la scatola, che era alquanto pesante, e cominciò a disfare il pacco mentre Danny prendeva una sedia e andava a mettersi di fronte a lei, a osservarla.
La scatola proveniva da un negozio piuttosto costoso, ma Laura non era preparata al suo contenuto: un grande, splendido vaso di Lalique. Era trasparente con i manici, in parte dipinti di verde chiaro e in parte in cristallo smerigliato; ogni manico era formato da due rospi nell’atto di saltare.
Guardò Danny con gli occhi spalancati: «Danny, non ho mai visto niente di simile. È il pezzo più fantastico che abbia mai visto».
«Allora ti piace?»
«Buon Dio, ma quanto ti è costato?»
«Trecento.»
«Danny, ma non possiamo permettercelo!»
«Oh, sì che possiamo.»
«No, non possiamo, veramente non possiamo. Solo perché ho scritto un pessimo libro e vuoi che non mi deprima troppo…»
«Non hai scritto un pessimo libro. Hai scritto un libro che vale un rospo, anzi un libro da quattro rospi in una scala da uno a quattro. Noi possiamo permetterci questo vaso proprio perché hai scritto Shadrach. È bellissimo, Laura, infinitamente migliore dell’ultimo, ed è splendido proprio perché in quel libro hai messo tutta se stessa. Sei tu e risplende come te.»
In preda all’eccitazione gli gettò le braccia al collo e poco ci mancò che facesse cadere il vaso da trecento dollari.
Ora la strada era coperta da un sottile strato di neve fresca. Sulla jeep erano già montate le catene, perciò Stefan fu in grado di mantenere una velocità abbastanza sostenuta nonostante le condizioni della strada.
Ma non era sufficiente.
La taverna dove aveva rubato la jeep era a circa quindici chilometri dalla casa dei Packard, che era appena fuori della Statale 330, qualche chilometro a sud di Big Bear. Le strade di montagna erano strette, tortuose, piene di salite e la neve non gli consentiva una buona visibilità, perciò la sua velocità media era sui sessanta chilometri l’ora. Accelerare sarebbe stato rischioso. Non sarebbe stato di alcun aiuto a Laura, Danny e Chris se avesse perso il controllo della jeep e fosse piombato su un terrapieno trovandovi la morte. A quella velocità, però, sarebbe arrivato sul posto almeno dieci minuti dopo la loro partenza.
La sua prima intenzione era stata di farli aspettare a casa finché il pericolo non fosse passato, ma ormai non era più possibile.
Il cielo invernale sembrava essersi abbassato sotto il peso della bufera tanto da non superare le cime dei sempreverdi che costeggiavano in file serrate i lati della strada. Il vento agitò gli alberi e fece ondeggiare la jeep. La neve cominciò ad accumularsi sui tergicristalli del parabrezza e presto si ghiacciò. Dopo aver acceso lo sbrinatore, Stefan dovette protendersi sul volante per riuscire a vedere qualcosa. La bufera incombeva.
Controllò l’ora. Aveva meno di quindici minuti. Laura, Danny e Chris stavano per salire sulla Chevy Blazer. Forse stavano già uscendo dal vialetto di casa.
Avrebbe dovuto intercettarli sulla strada. Aveva solo una manciata di secondi di anticipo sulla Morte.
Premette leggermente il piede sull’acceleratore cercando di guadagnare terreno e stando bene attento a non perdere il controllo della jeep.
Il 15 agosto 1979, cinque settimane dopo il giorno in cui Danny le aveva regalato il vaso di Lalique, Laura era in cucina a scaldarsi una minestra in scatola per pranzo, quando ricevette una telefonata da Spencer Keene, l’agente letterario di New York.
«Alla Viking è piaciuto molto Shadrach e hanno offerto centomila.»
«Dollari?» chiese Laura.
«Ma certo, dollari», rispose Spencer. «Che cosa pensavi? Rubli? Che cosa potresti comprarti con quelli? Un cappello, forse.»
«Oh, Cristo!» Laura dovette appoggiarsi al bancone della cucina per non perdere l’equilibrio.
Spencer continuò: «Laura, dolcezza, solo tu sai ciò che è meglio per te, ma, a meno che non considerino i centomila come offerta minima di base, io vorrei che tu pensassi alla possibilità di rifiutare».
«Rifiutare centomila dollari?» domandò incredula.
«Senti, io voglio mandare questo manoscritto a sette, forse otto editori, fissare una data per l’asta e vedere che cosa succede. Io credo di sapere che cosa succederà, Laura, credo che tutti ameranno questo libro quanto lo amo io. Ma, d’altro canto… forse no. Lo so, è una decisione difficile, devi prendere tempo e pensarci prima di darmi una risposta.»
Appena Spencer riappese, Laura telefonò a Danny e gli spiegò dell’offerta.
«Se non accetteranno di considerarla come offerta minima, rifiuta», suggerì il marito.
«Ma, Danny, possiamo permettercelo? Voglio dire, la mia auto ha undici anni e sta cadendo a pezzi, la tua ha quasi quattro anni…»
«Che cosa ti avevo detto di questo libro? Non ti avevo detto che eri tu, un riflesso di ciò che tu sei?»
«Sei un tesoro, ma…»
«Rifiuta. Dammi retta, Laura. Tu stai pensando che rifiutare centomila dollari sia come sputare in faccia alla fortuna; è come invitare quel lampo di cui mi hai parlato tante volte. Ma tu questa ricompensa te la sei guadagnata e il fato non te la porterà via.»
Chiamò Spencer Keene e lo informò della sua decisione.
Eccitata, nervosa, pensando già di aver perduto quei centomila dollari, tornò nel suo studio, si sedette davanti alla macchina per scrivere e per qualche minuto fissò il breve racconto non ancora terminato, finché non avvertì l’odore di zuppa di pollo e si ricordò di averla lasciata sul fuoco. Corse in cucina e non trovò che mezzo dito di zuppa e la pasta, bruciata, attaccata sul fondo del pentolino.
Alle due e dieci, le cinque e dieci di New York, Spencer richiamò per comunicarle che la Viking aveva accettato di fissare i centomila dollari come offerta minima. «Ora, questa è veramente la cifra minima che realizzerai con Shadrach, centomila dollari. La data dell’asta dovrebbe essere il 26 settembre. E sarà un portento, Laura, lo sento.»
Trascorse il resto del pomeriggio cercando di sentirsi soddisfatta, ma non riuscì a scrollarsi di dosso l’ansia. Shadrach era già un grande successo, indipendentemente da ciò che sarebbe accaduto all’asta. Non c’era ragione di agitarsi, eppure non riuscì a calmarsi.
Quel giorno Danny rientrò con una bottiglia di champagne, un mazzo di rose e una scatola di cioccolatini. Si sedettero sul sofà e tra un cioccolatino e un sorso di champagne, parlarono del loro futuro, un futuro che sembrava luminoso; tuttavia l’ansia non l’abbandonò.
Alla fine Laura disse: «Non voglio né cioccolatini né champagne né rose. E neanche centomila dollari. Voglio te. Portami a letto».
Fecero l’amore a lungo. Il sole di fine estate calò lentamente e le ombre della sera sopraggiunsero prima che con riluttanza i loro corpi si separassero. Disteso al suo fianco, al buio, Danny le baciò teneramente i seni, la gola, gli occhi e le labbra. Laura si rese conto che la sua ansia si era dissolta. Non era stato il sesso a scacciare la sua paura, ma l’intimità. Abbandonarsi totalmente e quella sensazione di speranze, sogni e destini condivisi era stata la vera medicina. Quella grande e meravigliosa sensazione di famiglia che Laura provava quando era vicino a lui, era un talismano che teneva lontano il gelido destino.
Mercoledì 26 settembre, Danny rimase a casa dal lavoro per essere vicino a Laura quando sarebbero arrivate le notizie da New York.
Alle sette e mezzo del mattino, le dieci e mezzo di New York, Spencer Keene chiamò per annunciare che la Random House aveva fatto la prima offerta. «Centoventicinquemila. E siamo sulla buona strada.»
Due ore più tardi chiamò di nuovo. «Sono tutti fuori a pranzo, perciò ci sarà un momento di calma. Ora come ora siamo arrivati a trecentocinquantamila e sei case devono ancora fare la loro offerta.»
«Trecentocinquantamila?» ripetè Laura.
Danny, che era in cucina a risciacquare le stoviglie della colazione, lasciò cadere un piatto.
Quando riappese, Laura guardò Danny che sorrise e disse: «Sbaglio, o questo è quel libro che tu avevi paura che fosse carta straccia?»
Quattro ore e mezzo più tardi, mentre erano seduti al tavolo del tinello, fingendo di giocare a carte, squillò il telefono. Danny seguì Laura in cucina per ascoltare la conversazione.
Spencer salutò: «Sei seduta, dolcezza?»
«Sono pronta, Spencer. Non ho bisogno di una sedia. Dimmi.»
«È fatta. Simon and Schuster. Un milione duecentoventicinquemila dollari.»
Tremante per lo choc, Laura parlò con Spencer per altri dieci minuti e quando riagganciò non ricordava praticamente nulla di quanto si erano detti dopo che Spencer le aveva rivelato la cifra.
Danny la stava fissando con aria interrogativa e Laura si rese conto di non ricordare nulla di ciò che era accaduto. Gli riferì il nome della casa editrice che aveva comprato il libro e la cifra.
Per un momento si fissarono intensamente, in silenzio.
Poi Laura concluse: «Credo che forse ora potremo permetterci di avere un bambino».
Stefan superò una collina e scrutò attentamente il tratto di strada spazzato dalla neve dove «il fatto» sarebbe accaduto. Alla sua sinistra, al di là della carreggiata che correva in direzione sud, i tre versanti boscosi della montagna scendevano ripidi fino al ciglio della strada. Alla sua destra, la corsia che andava verso nord era costeggiata da una dolce cunetta, larga poco più di un metro, al di là della quale il fianco della montagna cadeva a strapiombo in una profonda gola. Non c’erano guard-rail a proteggere gli automobilisti da quel volo mortale.
In fondo al pendio la strada svoltava a sinistra e non era più visibile. Fra quella curva più in basso e la cima della collina, che aveva appena superato, le due corsie asfaltate erano deserte.
Secondo il suo orologio, Laura sarebbe morta fra un minuto, due al massimo.
Si rese improvvisamente conto che non avrebbe mai dovuto cercare di recarsi alla casa dei Packard, visto che era arrivato così tardi. Avrebbe dovuto subito scartare l’idea di fermare i Packard, tentando invece di identificare e fermare il veicolo dei Robertson molto più a monte, sulla strada per Arrowhead. E quella sarebbe stata una soluzione altrettanto buona.
Ma ora era troppo tardi.
Stefan non aveva tempo per tornare indietro, né poteva correre il rischio di spingersi più a nord incontro ai Packard. Non conosceva il momento esatto della loro morte, non al secondo perlomeno, ma quella catastrofe si stava avvicinando rapidissimamente. Se avesse cercato di percorrere anche solo un chilometro in più, nel tentativo di fermarli prima che giungessero al punto fatale, forse sarebbe anche riuscito a raggiungere la cima del pendio, ma poi, svoltando, li avrebbe visti sfrecciare in direzione opposta e a quel punto non sarebbe stato più in grado di tornare indietro, raggiungerli e fermarli prima che il camion dei Robertson si scontrasse frontalmente con la loro auto.
Frenò delicatamente e svoltò all’angolo, mettendosi sull’altra corsia, quella in direzione sud, fermò la jeep sulla parte più spaziosa della banchina, a metà circa del pendio, così vicino al terrapieno che non poté aprire la portiera. Il cuore gli batteva forte, fino a fargli male, mentre parcheggiava la jeep, inseriva il freno a mano, spegneva il motore e scivolava sull’altro sedile per poter scendere dall’altra parte.
La neve e l’aria gelida gli sferzarono il volto e lungo il versante della montagna il vento ululava e fischiava come fossero tante voci, forse le voci delle tre sorelle della mitologia greca, le Parche, che si prendevano gioco di lui per il suo tentativo disperato di evitare ciò che loro avevano deciso.
Dopo aver ricevuto dei consigli dalla casa editrice, Laura iniziò una revisione di Shadrach, consegnando la versione finale del manoscritto a metà dicembre del 1979. Simon and Schuster fissò la pubblicazione del libro per il settembre del 1980.
Fu un anno molto intenso per la coppia tanto che Laura fu solo marginalmente consapevole della crisi degli ostaggi iraniani e della campagna presidenziale e anche meno informata riguardo agli innumerevoli conflitti, disastri aerei, incidenti nucleari, omicidi di massa, alluvioni, terremoti e altre tragedie che riempivano le prime pagine dei giornali. Quello fu l’anno in cui Laura rimase incinta. Fu l’anno in cui lei e Danny acquistarono la loro prima casa (quattro stanze più doppi servizi in stile spagnolo a Orange Park Acres) e lasciarono l’appartemento di Tustin. Laura iniziò il suo terzo romanzo, The Golden Edge, e un giorno, quando Danny le chiese come stesse andando, Laura rispose: «Carta straccia». Al che Danny replicò: «Magnifico!» Il primo settembre, in seguito all’arrivo di un cospicuo assegno per i diritti cinematografici di Shadrach, che era stato venduto alla MGM, Danny lasciò il suo lavoro come agente di cambio e divenne il consulente finanziario di Laura a tempo pieno. Domenica 21 settembre, tre settimane dopo la prima distribuzione, Shadrach fece la sua comparsa nella lista dei best seller sul New York Times, al dodicesimo posto. Il 5 ottobre 1980, quando Laura diede alla luce Christopher Robert Packard, Shadrach era alla terza ristampa; si trovava all’ottavo posto nella classifica del Times e ricevette ciò che Spencer Keene definì una recensione «strepitosamente buona» a pagina cinque di quella stessa rubrica letteraria.
Il bambino venne alla luce nel pomeriggio, alle due e ventitré minuti, e durante il parto Laura perse molto sangue, più di quanto di solito avvenga. Indebolita dallo sforzo e dall’emorragia, ebbe bisogno di tre trasfusioni nel pomeriggio e nella serata. Tuttavia trascorse una notte migliore del previsto e al mattino, dolorante e stanca, era decisamente fuori pericolo.
Il giorno seguente, durante l’orario di visita, Thelma Ackerson venne a vedere il bambino e la neomamma. Sempre vestita da punk in anticipo sui tempi, capelli lunghi sul lato sinistro, con una ciocca bianca come la sposa di Frankenstein, e corti a destra ma senza mèches, entrò nella stanza privata di Laura, andò direttamente verso Danny, gli gettò le braccia al collo e abbracciandolo forte, esclamò: «Gesù, quanto sei grosso. Ma tu sei un mutante. Ammettilo, Packard, tua madre sarà anche stata umana, ma tuo padre era un orso bruno». Si avvicinò al letto e baciò Laura sulle guance. «Prima di venire qui sono andata nella nursery e ho dato un’occhiata a Christopher Robert attraverso il vetro: è adorabile. Ma credo che avrai bisogno di tutti i milioni che guadagni con i tuoi libri, ragazza mia, perché quel bambino seguirà le orme di suo padre e i conti della spesa ogni mese saliranno alle stelle. Se non ti sbrighi a educarlo ti farà a pezzi i mobili.»
Laura disse: «Sono felice che tu sia venuta, Thelma».
«Come potevo mancare? Certo che se fossi stata impegnata in uno spettacolo in un club mafioso nel New Jersey, e per venire qui avessi dovuto cancellare parte delle serate, allora, in quel caso non mi avresti proprio visto! Se rompi un contratto con quei tipi, ti tagliano i pollici e te li fanno usare come supposte. Ma quando ho ricevuto la notizia, l’altra notte, mi trovavo a ovest del Mississippi e solo una guerra nucleare o un appuntamento con Paul McCartney avrebbero potuto tenermi lontano.»
Da circa due anni Thelma era riuscita a guadagnarsi uno spazio sul palcoscenico all’Improv, e aveva un certo successo. Si era trovata un agente e aveva cominciato a ottenere delle scritture in locali di terza categoria, e qualche volta anche di seconda, in tutto il paese. Laura e Danny erano andati un paio di volte a Los Angeles a vedere il suo spettacolo e l’avevano trovata veramente spassosa; scriveva lei stessa i testi e riusciva sempre a scegliere il momento migliore per le battute più comiche, come faceva anche nell’infanzia. Ma con gli anni si era raffinata. Il suo spettacolo era alquanto insolito: avrebbe potuto fare di lei o un fenomeno nazionale oppure lasciarla per sempre nell’ombra. In tutte le sue battute serpeggiavano una vena malinconica, un senso della tragedia della vita e allo stesso tempo la meraviglia e la comicità della vita stessa. Era simile allo stile delle novelle di Laura, ma ciò che piaceva ai lettori del libro era meno probabile che piacesse al pubblico che aveva pagato per farsi solo delle risate.
Thelma si chinò su Laura e la guardò più attentamente. «Ehi, sei pallida. E che cosa sono quelle occhiaie…» esclamò.
«Thelma cara, mi dispiace distruggere le tue illusioni, ma i bambini non li porta la cicogna. È la madre che deve fare tutto. E non è certo come bere un bicchier d’acqua.»
Thelma la guardò con durezza poi diresse lo stesso sguardo a Danny che si era avvicinato all’altro fianco del letto e stringeva la mano di Laura. «Ehi, che cos’è che non va qui?»
Laura sospirò e trasalendo per il dolore cambiò leggermente posizione. A Danny disse: «Vedi? Te l’avevo detto che era un segugio».
«Non è stata una gravidanza facile, vero?» domandò Thelma.
«La gravidanza è andata abbastanza bene», rispose Laura. «È stato il parto che ha dato qualche problema.»
«Non è che… hai quasi rischiato di morire, o qualcosa del genere, Shane?»
«No, no, no», la rassicurò Laura mentre Danny le stringeva affettuosamente la mano. «Nulla di così drammatico. Sapevamo fin dall’inizio che ci sarebbero state delle difficoltà lungo il cammino, ma abbiamo trovato un medico eccezionale che mi ha sempre seguito attentamente. Solo che… non potrò più avere bambini. Christopher sarà l’ultimo.»
Thelma guardò Danny e Laura e sussurrò sommessamente: «Mi dispiace».
«Non importa», si consolò Laura costringendosi a sorridere. «Abbiamo il piccolo Chris ed è una meraviglia.»
Rimasero per qualche secondo in un silenzio imbarazzante, poi Danny commentò: «Non ho ancora pranzato e sto morendo di fame. Farò un salto al bar e starò via più o meno una mezz’oretta».
Uscito Danny, Thelma disse: «Non ha veramente fame, vero? Ma ha capito che volevamo fare quattro chiacchiere da sole».
Laura sorrise. «È un uomo adorabile.»
Thelma abbassò la sbarra sul fianco del letto e chiese: «Se mi siedo accanto a te, non è che ti combino qualche guaio? Non mi riempirai improvvisamente di sangue da capo a piedi, vero Shane?»
«Cercherò di non farlo.»
Thelma si arrampicò sul letto dell’ospedale e prese una mano di Laura fra le sue. «Ascolta, ho letto Shadrach ed è semplicemente fantastico. È esattamente quello che ogni scrittore cerca di fare, ma sono pochi quelli che ci riescono.»
«Sei molto cara, Thelma.»
«Io sono una donna dura, cinica e ribelle. Senti, parlo sul serio; il libro è veramente geniale. Ci sono tutti. Dalla Bowmaine a Tammy. E anche Boone, lo psicologo dell’assistenza sociale. Con nomi diversi, certo, ma li ho riconosciuti. Li hai colti perfettamente, Shane. Accidenti, ci sono stati momenti in cui mi hai fatto tornare indietro negli anni, momenti in cui ho avvertito i brividi nella schiena e ho dovuto mettere via il libro e andare a fare una passeggiata sotto il sole caldo. E altri momenti in cui ho riso come una matta.»
Laura si sentiva dolere ogni singolo muscolo, ogni singola giuntura. Non ebbe la forza per sollevarsi dai cuscini e abbracciare l’amica. Disse semplicemente: «Ti voglio un bene dell’anima, Thelma».
«L’Anguilla non c’era, ovviamente.»
«Lo riservo per un altro libro.»
«E io? Dannazione! Io non sono nel libro, anche se sono la figura più caratteristica che tu abbia mai conosciuto!»
«Ho in mente un libro tutto per te», le confidò Laura.
«Dici sul serio, vero?»
«Certo. Non quello a cui sto lavorando ora, ma quello successivo.»
«Senti, Shane, sarà meglio che tu mi faccia bellissima, altrimenti ti spacco il culo. Chiaro?»
«Chiarissimo.»
Thelma si inumidì le labbra e poi disse: «Metterai…»
«Sì. Metterò anche Ruthie.»
Rimasero in silenzio per un po’, mano nella mano.
Le lacrime annebbiarono la vista di Laura, ma si accorse che anche Thelma era commossa. «No, non farlo. Altrimenti il trucco punk va a farsi friggere», le disse.
Thelma sollevò una gamba. «Guarda qui, sono poco belli? Pelle nera, belli appuntiti, tacchi con tanto di borchie. Mi fa sembrare una dannata dominatrice, non è vero?»
«Quando sei entrata, la prima cosa che mi sono chiesta è stata quanti uomini avessi frustato negli ultimi tempi.»
Thelma sospirò e si schiarì la voce. «Shane, ascolta e ascolta bene. Questo talento che hai è forse molto più prezioso di quanto tu pensi. Sei in grado di fermare la vita delle persone su un foglio e quando le persone non ci sono più, le pagine sono ancora lì, la vita è ancora lì. Su una pagina puoi mettere per iscritto i sentimenti e tutti, ovunque, possono leggere quel libro e provare quegli stessi sentimenti; tu puoi toccare i cuori, puoi ricordarci che cosa significa essere umani, in un mondo dove si sta rapidamente perdendo il senso di ciò che è umano. Questo è un talento e una ragione per vivere, che è molto di più di ciò che la maggior parte della gente potrà mai sperare di avere. Perciò… ecco, io so quanto tu abbia desiderato avere una famiglia… tre o quattro bambini, così avevi detto… perciò so qual è la tua sofferenza in questo momento. Ma hai Danny e Christopher e questo talento sorprendente, e questo significa avere moltissimo.»
La voce di Laura tremò. «A volte… ho così paura.»
«Paura di che cosa, bambina?»
«Desideravo una famiglia numerosa perché… così era meno probabile che mi venissero tolti tutti insieme.»
«Ma nessuno verrà a toglierti nulla.»
«Ho solo Danny e il piccolo Chris… solo due… qualcosa potrebbe accadere.»
«Non accadrà nulla.»
«E allora rimarrò sola.»
«Non accadrà nulla», ripetè Thelma.
«È come se dovesse sempre succedere qualcosa. Questa è la vita.»
Thelma si avvicinò ancor di più a Laura, si allungò e le appoggiò la testa sulla spalla. «Quando hai detto che era stato un parto difficile… e ti ho vista così pallida… ho avuto paura. A Los Angeles ho degli amici, certo, ma fanno tutti parte del mondo dello spettacolo. Tu sei la sola vera persona a cui sia legata, anche se non ci vediamo spesso, e l’idea che tu saresti quasi…»
«Ma sono ancora qui.»
«Sarebbe potuto accadere.» Thelma rise amaramente. «Accidenti, Shane, un orfano rimane sempre un orfano, eh?»
Laura la strinse a sé e le arruffò i capelli.
Poco tempo dopo il primo compleanno di Chris, Laura consegnò The Golden Edge. Fu pubblicato dieci mesi più tardi e quando il bimbo compì due anni, il libro era il più venduto secondo la classifica di Times. Per Laura era la prima volta.
Danny amministrava i guadagni della moglie con tanta diligenza, prudenza e intelligenza, che nel giro di pochi anni, nonostante le tasse fossero piuttosto alte, sarebbero stati davvero ricchissimi. Laura non aveva un’opinione chiara in merito. Non si era mai aspettata di diventare ricca. Quando considerava la sua situazione, pensava che forse avrebbe dovuto sentirsi felice e soddisfatta, oppure spaventata, ma il denaro non le suscitava nessuna di queste due emozioni. La sicurezza che le veniva dal denaro le faceva piacere, le dava fiducia, ma non avevano nessuna intenzione di lasciare la loro casa, anche se avrebbero potuto permettersi una proprietà. Il denaro era là, e questo era tutto; Laura gli dava poca importanza. La vita non era il denaro; la vita era Danny e Chris e, in misura minore, i suoi libri.
Con un bambino piccolo in casa, non ebbe più la forza di lavorare sessanta ore la settimana davanti al suo computer. Chris parlava, camminava, e il suo comportamento non corrispondeva a quello dei bambini dai due ai tre anni descritto dai testi specializzati. Non faceva capricci né si ribellava in maniera irrazionale. La maggior parte delle volte era un vero piacere stare con lui; era un bambino intelligente e curioso. Passava con lui ogni momento libero, attenta a non viziarlo.
The Amazing Appleby Twins, il suo quarto romanzo, fu pubblicato solo nell’ottobre del 1984, due anni dopo The Golden Edge, e fu accolto con entusiasmo dal pubblico.
Il primo ottobre Laura, Danny e Chris erano riuniti davanti al televisore a guardare un vecchio cartone animato di Willy Coyote mangiando pop corn, quando Thelma chiamò da Chicago, in lacrime.
Da quando era nato Chris, quattro anni prima, Thelma aveva fatto carriera. Era stata scritturata in un paio di casinò di Las Vegas. («Ehi, Shane, non devo essere niente male visto che le cameriere che lavorano qui sono praticamente nude, culi e tette al vento, e a volte i ragazzi del pubblico guardano me invece che loro. Ma forse sono solo delle checche.») Un anno prima era stata scritturata dalla MGM come attrice esordiente accanto a Dean Martin e aveva partecipato quattro volte a Tonight, lo spettacolo di Johnny Carson. Si parlava già di un film e persino di una serie televisiva imperniata sul suo personaggio e, grazie alla celebrità, sembrava aver acquisito un maggior equilibrio. Ora si trovava a Chicago e avrebbe presto debuttato come attrazione principale in uno dei principali locali della città.
Forse era proprio quel susseguirsi di eventi positivi che terrorizzò Laura quando sentì Thelma piangere. Già da qualche tempo temeva l’arrivo di un capovolgimento repentino che le avrebbe colte impreparate. Si lasciò cadere nella poltrona del suo studio e alzò il ricevitore. «Thelma? Che cosa è successo?»
«Ho appena letto… il tuo nuovo libro.»
Laura non riusciva a capire che cosa ci fosse nel suo ultimo romanzo che avesse potuto colpire Thelma così profondamente. Poi le venne il dubbio che qualcosa nella descrizione di Carrie e Sandra Appleby l’avesse offesa. Sebbene nessuno degli avvenimenti principali del romanzo rispecchiasse la vita reale di Ruthie e Thelma, ovviamente per le gemelle Appleby si era ispirata alle Ackerson. I due personaggi, però, erano stati descritti con grande affetto e simpatia e certo non in modo da offendere Thelma. Presa dal panico, Laura cercò di spiegarglielo.
«No, no, Shane, sei pazza da legare. Non hai capito niente!» replicò Thelma con la voce rotta dal pianto. «Non sono offesa, non riesco a smettere di piangere perché hai fatto una cosa meravigliosa. Carrie Appleby è Ruthie, così come non l’ho mai conosciuta, ma nel tuo libro hai lasciato che Ruthie vivesse a lungo. L’hai lasciata vivere, Shane, e questo è di gran lunga meglio di ciò che Dio ha fatto nella realtà.» Parlarono per un’ora, quasi sempre di Ruthie, ricordando i giorni passati più con affetto che con tristezza. Danny e Chris si presentarono sulla porta un paio di volte con aria sconsolata e Laura mandò loro dei baci, ma rimase al telefono con Thelma perché era uno di quei rari momenti in cui ricordare i morti era molto più importante che occuparsi dei bisogni dei vivi.
Mancavano due settimane al Natale del 1985 e Chris aveva già cinque anni. La stagione delle piogge nella California del sud iniziò con un acquazzone che piegò le fronde delle palme, distrasse gli ultimi fiori rimasti e allagò le strade. Chris non poteva giocare fuori. Suo padre era uscito per ispezionare un immobile che aveva in progetto di acquistare e il bambino non aveva voglia di giocare da solo. Continuò a trovare delle scuse per disturbare la madre e alle undici Laura smise di lavorare al suo nuovo libro. Gli disse di andare in cucina e di tirare fuori le teglie dal mobiletto, promettendogli di preparare con lui i biscotti al cioccolato.
Prima di raggiungerlo, Laura andò in camera da letto e dal cassettone tirò fuori gli oggettini di Sir Tommy Rospo gli stivaletti, il piccolo ombrello e la minuscola sciarpa, che aveva tenuto in serbo proprio per un’occasione come quella. Nel ritornare in cucina, sistemò gli oggettini accanto alla porta d’entrata.
Più tardi, mentre infornava la prima teglia di biscotti, Laura pregò Chris di andare a controllare se il postino avesse lasciato un pacchetto che stava aspettando. Chris ritornò tutto rosso per l’eccitazione. «Mamma, mamma, vieni a vedere.»
All’entrata le mostrò i tre oggetti in miniatura e Laura disse: «Suppongo che appartengano a Sir Tommy Rospo. Oh, mi sono dimenticata di dirti che abbiamo un nuovo ospite. Un raffinato lord inglese che è qui per affari per conto della regina».
Quando suo padre aveva inventato Sir Rospo, Laura aveva otto anni e aveva accettato il leggendario rospo come una buffa fantasticheria, ma Chris ne aveva solo cinque e lo prese molto più seriamente. «Dove dormirà? Nella stanza degli ospiti? Ma poi che cosa facciamo quando viene il nonno?»
«Abbiamo affittato a Sir Rospo una stanza nell’attico», spiegò Laura. «E non dobbiamo disturbarlo. E non dobbiamo dire a nessuno che lui è qui, tranne che a papà, perché Sir Tommy Rospo è in missione segreta per sua maestà.»
Chris la guardò con gli occhi spalancati e a Laura venne da ridere, ma non osò. Il bambino aveva capelli e occhi castani, come i genitori, ma i suoi lineamenti erano delicati, come quelli di Laura. Nonostante fosse minuto, c’era qualcosa in lui che faceva pensare che un giorno sarebbe diventato alto e robusto come Danny. Si fece più vicino a Laura e le sussurrò: «Sir Tommy è una spia?»
Per tutto il pomeriggio, mentre erano impegnati a far cuocere i biscotti, a pulire e a giocare, Chris non fece che porre domande su Sir Tommy. Laura scoprì che raccontare fiabe ai bambini era in un certo senso più impegnativo che scrivere romanzi per gli adulti.
Quando Danny tornò a casa, alle quattro e mezzo, li salutò a gran voce lungo il corridoio che dal box portava in casa.
Chris saltò giù dal tavolo, dove stava giocando a carte con Laura, e fece subito segno al padre di stare zitto. «Ssst, papà, Sir Tommy starà dormendo adesso. Ha fatto un lungo viaggio. Lui è la regina d’Inghilterra e sta spiando nel nostro attico!»
Danny aggrottò le sopracciglia. «Esco per qualche ora e mentre sono fuori che cosa succede? Veniamo invasi da spie inglesi.»
Quella notte a letto, dopo aver fatto l’amore con una passione così intensa che sorprese persino Laura, Danny le chiese: «Ma che cos’hai oggi? È tutta la sera che sei così… effervescente, così eccitata!»
Sotto le coperte, godendo il contatto di quel corpo nudo contro il suo, Laura spiegò: «Oh, non so, è semplicemente il fatto che sono viva, che Chris è vivo, che tu sei vivo e siamo tutti insieme. E poi c’è la storia di Tommy Rospo».
«Ti eccita?»
«Sì. Mi eccita. Ma è più di questo. È… be’, in un certo senso mi fa sentire che la vita va avanti, che va sempre avanti, che il ciclo si rinnova — sembrano tutte sciocchezze? — che la vita andrà avanti anche per noi, per tutti noi, per tanto tempo.»
«Be’, sì, credo che tu abbia ragione», disse Daniel. «Sempre che tu non abbia intenzione di essere così energica ogni volta che fai l’amore, perché in questo caso mi farai fuori nel giro di tre mesi.»
Nell’ottobre del 1986, quando Chris aveva ormai sei anni, fu pubblicato il quinto romanzo di Laura, Endless River. Ottenne grandi consensi dalla critica e le vendite superarono quelle dei volumi precedenti. Il suo editore aveva previsto che sarebbe stato un grande successo. «In questo libro c’è umorismo, tensione, drammaticità, ci sono tutte le componenti magiche di un romanzo di Laura Shane, ma a differenza degli altri non è così tenebroso e questo lo rende particolarmente affascinante.»
Negli ultimi due anni, Laura e Danny avevano preso l’abitudine di portare Chris sulle San Bernardino Mountains, al lago Arrowhead e a Big Bear, almeno un week end al mese, sia d’estate sia d’inverno, e questo perché il bambino si rendesse conto che il mondo non si limitava al piacevole, seppure affollato, regno di Orange County. Il successo ormai consolidato di Laura, gli intelligenti e redditizi investimenti di Danny, nonché la recente volontà di Laura non solo di nutrire ottimismo nei confronti della vita, ma di viverlo, li convinsero che era tempo di concedersi qualcosa di più e fu così che acquistarono una seconda casa in montagna.
Era una casa di undici stanze, in pietra e legno, circondata da trenta acri di terreno, non lontana dalla Statale 330, qualche chilometro più a sud di Big Bear. Una casa molto più costosa di quella in cui vivevano a Orange Park Acres. La proprietà era seminascosta fra grandi aceri, pini e ginepri e la casa più vicina non era visibile a occhio nudo. In occasione del loro primo week end in montagna, mentre stavano facendo un pupazzo di neve, sul limitare della foresta, a circa venti metri di distanza, spuntarono tre cervi che rimasero a guardarli incuriositi.
Chris rimase elettrizzato alla vista dei cervi e quando la sera andò a letto, era sicuro che i cervi fossero quelli di Babbo Natale. Quello era il posto dove andava a ritirarsi dopo il Natale e non al Polo Nord, come voleva la leggenda. Wind and Stars venne pubblicato nell’ottobre del 1987: un ennesimo grande successo. Il film tratto da Endless River uscì il Giorno del Ringraziamento, facendo registrare, nella prima settimana, incassi altissimi, più di qualsiasi altro film uscito quell’anno.
Venerdì 8 gennaio 1988, elettrizzati dalla notizia che Wind and Stars era per la quinta settimana consecutiva al primo posto nella lista dei best seller di Times, partirono alla volta di Big Bear appena Chris tornò da scuola. Il martedì successivo Laura avrebbe compiuto trentatré anni e avevano deciso di festeggiare il compleanno in anticipo, lassù in montagna, con la neve come glassa su una torta e il vento che cantava per lei.
Sabato mattina i cervi, abituati ormai alla loro presenza, arrivarono a pochi metri dalla loro casa. Ma Chris aveva ormai sette anni e a scuola aveva sentito dire che Babbo Natale non esisteva, perciò cominciava a dubitare che non fossero altro che dei comuni cervi.
Fu un week end meraviglioso, forse il più bello che avessero trascorso in montagna, ma dovettero interrompere prima del previsto il loro soggiorno. Secondo il programma iniziale sarebbero dovuti partire lunedì mattina alle sei e ritornare a Orange County in tempo per portare a scuola Chris. Domenica pomeriggio, però un’improvvisa bufera investì la zona e, nonostante fossero a soli novanta minuti dalle temperature miti della costa, il bollettino meteorologico annunciava che durante la notte sarebbero caduti circa sessanta centimetri di neve. Non volevano rischiare di rimanere bloccati dalla neve e fare perdere a Chris un giorno di scuola. Chiusero la grande casa e qualche minuto dopo le quattro erano già in viaggio verso sud, sulla Statale 330.
La California del sud è uno di quei rari posti al mondo dove si può passare da un paesaggio invernale a un caldo subtropicale in meno di due ore e per Laura quel viaggio era sempre una gioia e motivo di meraviglia. Tutti e tre indossavano calzettoni di lana, pantaloni, maglioni pesanti e giacche a vento, ma in meno di un’ora e un quarto avrebbero raggiunto climi più miti e nel giro di due ore non avrebbero indossato altro che una maglietta a maniche corte.
Laura era alla guida, mentre Danny, seduto davanti, e Chris, seduto dietro, stavano facendo un gioco che avevano inventato durante un viaggio precedente. La neve ricoprì rapidamente anche i tratti in gran parte protetti dagli alberi e negli spazi aperti la neve, che scendeva fitta fitta, vorticando sospinta dalle correnti capricciose dei venti montani, riduceva parzialmente la visibilità. Laura guidava con prudenza. Non aveva importanza se il viaggio invece delle solite due ore ne avesse richieste tre o quattro. Del resto erano partiti presto, perciò avevano tutto il tempo che volevano, tutto il tempo di questa terra.
Quando uscì dalla grande curva, qualche chilometro a sud della loro casa, e imboccò il pendio, vide una jeep rossa sul bordo e un uomo in mezzo alla strada. Stava scendendo dalla collina e si sbracciava per indicare loro di fermarsi.
Danny si sporse in avanti per cercare di vedere meglio. «Ha tutta l’aria di essere in panne. Ha bisogno di aiuto» disse.
«Squadra Packard in soccorso!» gridò Chris dal sedile posteriore.
Laura rallentò e l’uomo cominciò freneticamente a far segno di portarsi sulla banchina.
Con una certa apprensione Danny disse: «C’è qualcosa di strano in lui…»
Sì, qualcosa di decisamente strano. Era il suo Custode speciale. La vista di quell’uomo, dopo tanti anni, sconvolse e terrorizzò Laura.
Era appena sceso dalla jeep rubata quando la Blazer uscì dalla curva in fondo alla collina. Mentre si affrettava verso l’auto, vide che Laura aveva cominciato a rallentare ma era ancora al centro della strada. Allora cominciò a farle cenno di fermarsi sulla banchina, il più vicino possibile al terrapieno. Dapprima continuò ad avanzare, come se pensasse che si trattava solo di un automobilista nei guai o di una persona pericolosa, ma quando fu più vicina, tanto da poter vedere il suo volto e forse riconoscerlo, obbedì immediatamente.
Mentre lo sorpassava e si portava velocemente sul tratto più ampio della banchina, a pochi metri dalla jeep, Stefan fece dietrofront, le corse incontro e spalancò la portiera. «Non so se qui è sufficientemente sicuro. Uscite. Dobbiamo allontanarci. Presto. Adesso!»
Danny obiettò: «Ehi, aspetti…»
«Fai quello che dice!» gridò Laura. «Chris, avanti, esci!»
Stefan afferrò la mano di Laura e l’aiutò a scendere. Mentre Danny e Chris si precipitavano a loro volta fuori dall’auto, Stefan udì il rumore di un motore che si stava avvicinando. Guardò verso la collina e vide che un grosso autocarro aveva superato la cima e stava scendendo verso di loro. Trascinando Laura dietro di sé, corse davanti alla Blazer.
Il suo Custode ordinò: «Sul terrapieno, avanti». E cominciò ad arrampicarsi sul cumulo di neve dura e ghiacciata, ammassata dagli spazzaneve.
Laura guardò verso la strada e vide che il camion, a meno di mezzo chilometro da loro, appena superato il dosso cominciava a sbandare paurosamente sul selciato insidioso, per proseguire la sua corsa trasversalmente. Se non fossero stati fermati, se il suo Custode non li avesse trattenuti, si sarebbero trovati proprio nel punto in cui l’autocarro aveva cominciato a perdere il controllo. E sarebbero stati travolti.
Accanto a lei, Danny, che stava prendendo Chris sulle spalle, aveva ovviamente visto il pericolo. L’autocarro avrebbe potuto proseguire nella sua folle corsa senza che l’autista riuscisse a controllarlo, avrebbe potuto schiantarsi contro la jeep e la Blazer. Trascinando Chris, balzò sul terrapieno innevato, gridando a Laura di muoversi.
Laura cominciò a salire, cercando dei punti d’appoggio a cui aggrapparsi. Ma la neve non era semplicemente ricoperta di ghiaccio, era dura come il marmo e in alcuni punti si sfaldava a blocchi tanto che Laura rischiò di cadere all’indietro sulla strada sottostante. Quando raggiunse il suo Custode, Danny e Chris, a cinque metri dalla strada, su un tratto di roccia stretto ma senza neve, vicino agli alberi, Laura ebbe l’impressione che quella salita fosse durata un’eternità. Il suo senso del tempo, in realtà, doveva essere stato distorto dalla paura, perché quando guardò di nuovo verso la strada, vide che l’autocarro stava ancora sbandando verso di loro, ed era a una sessantina di metri di distanza. Dopo aver compiuto un giro completo su se stesso si stava nuovamente mettendo di traverso.
L’autocarro trasportava un gatto delle nevi che apparentemente non era bloccato né assicurato in altro modo. Il guidatore aveva assurdamente fatto affidamento sulla forza d’inerzia per mantenerlo fermo. Adesso però il veicolo aveva cominciato a sbattere contro le pareti dell’autocarro e contro la cabina di guida. Per tutto il tratto di discesa i violenti colpi contribuirono a destabilizzare il veicolo, finché sembrò che l’autocarro, completamente inclinato, potesse rotolare su se stesso da un momento all’altro.
Laura vide l’autista lottare con il volante, vide la donna accanto a lui che urlava, e pensò:
Oh, mio Dio, quella povera gente!
Come se le avesse letto nel pensiero, il suo Custode le gridò: «Sono tutti e due ubriachi e non hanno le catene».
Se conosci tante cose di loro, pensò Laura, devi anche sapere chi sono. Perché non li hai fermati, perché non hai salvato anche loro?
Con uno schianto tremendo la parte anteriore dell’autocarro cozzò contro la fiancata della jeep e la donna, priva di cintura di sicurezza, fu proiettata all’esterno e sfondò il parabrezza. Rimase ciondolante con il corpo per metà fuori della cabina. Laura gridò: «Chris!» ma vide che Danny aveva già fatto scendere il bambino e lo teneva stretto a sé, impedendogli di vedere ,ciò che stava accadendo.
Il violento urto non fermò l’autocarro; aveva ormai acquistato troppa velocità e il terreno era troppo scivoloso perché i battistrada senza catene potessero aderire al fondo stradale. Il tremendo impatto fece, invece, invertire la direzione dell’autocarro, che improvvisamente si rigirò. Il gatto delle nevi fu letteralmente proiettato fuori e andò a schiantarsi sul cofano della Blazer parcheggiata. Subito dopo il retro dell’autocarro cozzò violentemente contro la Blazer tanto da farla slittare di qualche metro nonostante fosse bloccata dal freno di emergenza.
Anche se si trovava in una posizione sicura, Laura, vedendo quella scena, si aggrappò al braccio di Danny, atterrita al pensiero che sarebbero sicuramente rimasti feriti o addirittura uccisi se fossero rimasti vicino all’auto.
L’autocarro rimbalzò dopo l’urto con la Blazer e la donna ferita ricadde all’interno della cabina. Sbandando più lentamente, il veicolo disegnò un angolo di trecentosessanta gradi, come se stesse eseguendo un raccapricciante balletto della morte, poi scese lungo il pendio, proseguendo di traverso sul selciato innevato, oltre la banchina, oltre il bordo della strada non protetto, giù, nel vuoto, non più visibile.
Nonostante non vi fosse più nulla di terrificante da vedere, Laura si coprì il volto con le mani, forse per cercare di scacciare dalla mente l’immagine dell’autocarro con i suoi occupanti che precipitava lungo la parete rocciosa, giù, per centinaia di metri. Il guidatore e la sua compagna sarebbero morti prima di schiantarsi al suolo. Nonostante l’ululato del vento, sentì l’autocarro colpire una sporgenza della roccia, poi un’altra. Ma dopo qualche secondo il rumore svanì e si udì solo il sibilo rabbioso della tormenta.
Ancora sconvolti, scivolando e barcollando presero a discendere lungo il terrapieno per ritornare sulla banchina, dove schegge di vetro e di metallo erano sparse ovunque sulla superficie innevata. Da sotto la Blazer usciva del vapore perché il liquido caldo del radiatore gocciolava sul terreno ghiacciato; il veicolo distrutto scricchiolava sotto il peso del gatto delle nevi incastratosi nel suo cofano.
Chris stava piangendo. Laura si avvicinò e gli gettò le braccia al collo, lo sollevò e lo tenne stretto a sé, mentre singhiozzava contro la sua spalla.
Sconvolto, Danny si voltò verso il loro salvatore. «Chi… chi è lei, in nome del cielo?»
Laura fissò il suo Custode e trovò difficile affrontare il fatto che lui fosse veramente lì. Non lo vedeva da più di vent’anni, da quando ne aveva dodici, da quel giorno nel cimitero, quando l’aveva scoperto mentre osservava la sepoltura di suo padre. Non lo vedeva da vicino da quasi venticinque anni, dal giorno in cui aveva ucciso il drogato nel negozio di suo padre. Quando non si era preoccupato di salvarla dall’Anguilla, quando l’aveva lasciata sola ad affrontare quella situazione, era nata in lei una sorta di sfiducia e il dubbio si era fatto certezza quando non aveva fatto nulla per salvare Nina Dockweiler o Ruthie. Dopo tutti quegli anni era diventato un sogno, più un mito che una realtà, e negli ultimi due anni non aveva affatto pensato a lui, aveva smesso di credere in lui proprio come Chris aveva smesso di credere in Babbo Natale. Conservava ancora il biglietto che le aveva lasciato sulla scrivania dopo il funerale di suo padre, ma già da lungo tempo si era convinta che non fosse stato scritto da un Custode ma forse da Cora o Tom Lance, gli amici di suo padre. Ora l’aveva salvata ancora una volta, miracolosamente, e Danny voleva sapere chi fosse. E anche Laura voleva saperlo.
La cosa più strana era che il suo aspetto non era assolutamente mutato da quando aveva sparato al drogato. Esattamente lo stesso. L’aveva riconosciuto all’istante, dopo tutti quegli anni, perché non era invecchiato. Sembrava avesse trentacinque anni al massimo. Incredibilmente, il tempo non aveva lasciato alcun segno su di lui, nessun filo grigio tra i capelli biondi, nessuna ruga sul volto. Sebbene all’epoca di quel sanguinoso evento avesse la stessa età di suo padre, ora apparteneva alla sua stessa generazione o quasi.
Prima che l’uomo potesse rispondere alla domanda di Danny, o trovare un modo per eludere una risposta, un’auto superò la collina e iniziò a scendere verso di loro. Era una Pontiac ultimo modello, munita di catene che scricchiolavano sul selciato. L’autista parve accorgersi dei due veicoli danneggiati e notò le tracce ancora fresche dell’autocarro che non erano ancora state cancellate dal vento e dalla neve; rallentò e si spostò sulla corsia opposta. Invece di proseguire verso la banchina e lasciare libero il passaggio, l’auto continuò il suo viaggio verso nord sulla corsia sbagliata, arrestandosi a pochissimi metri da loro. Quando spalancò la portiera e saltò fuori dalla Pontiac, l’uomo, alto e vestito di scuro, imbracciava un oggetto che Laura, troppo tardi, riconobbe come un fucile mitragliatore.
Il suo Custode esclamò: «Kokoschka!»
Proprio mentre il suo nome veniva pronunciato, Kokoschka aprì il fuoco.
Sebbene fossero trascorsi quindici anni dalla guerra del Vietnam, Danny reagì con l’istinto di un soldato. Mentre le pallottole rimbalzavano dalla jeep rossa di fronte a loro e dalla Blazer dietro di loro, Danny afferrò Laura e spinse lei e Chris a terra fra i due veicoli.
Mentre si buttava a terra, vide che Danny era stato colpito alla schiena almeno una volta, forse due e Laura sobbalzò come se i proiettili avessero colpito lei. Danny cadde contro il muso della Blazer, piegandosi sulle ginocchia.
Laura urlò e tenendo Chris per un braccio raggiunse il marito.
Era ancora vivo e si trascinava sulle ginocchia verso di lei. Il suo volto era bianco come la neve che stava cadendo attorno a loro e Laura ebbe la tremenda sensazione che l’uomo che stava guardando fosse un fantasma. «Nasconditi sotto la jeep», disse Danny, allontanandole la mano. La sua voce era roca e debole. «Presto!»
Una delle pallottole lo aveva trapassato da parte a parte. Il piumino era macchiato di sangue.
Laura esitò e Danny si mosse verso di lei a carponi, sospingendola verso la jeep, a qualche metro di distanza.
Un’altra raffica crepitò nell’aria gelida.
L’uomo armato avrebbe senza dubbio raggiunto la parte anteriore della jeep e li avrebbe sterminati mentre stavano rannicchiati là sotto. Del resto non c’era altro posto dove rifugiarsi. Se avessero risalito il terrapieno, li avrebbe falciati molto prima che potessero raggiungere un posto sicuro nella foresta; se avessero attraversato la strada, li avrebbe colpiti prima che potessero raggiungere l’altro lato; se fossero scappati a monte, gli sarebbero andati incontro; se fossero fuggiti a valle, gli avrebbero voltato le spalle, diventando così dei bersagli ancora più facili.
La mitragliatrice crepitò i finestrini esplosero. Le pallottole perforarono la lamiera di metallo con un rumore secco.
Mentre strisciava davanti alla jeep, trascinando con sé Chris, Laura vide il suo Custode infilarsi nello stretto spazio tra il veicolo e il terrapieno innevato. Si era rannicchiato sotto il parafango, nascosto alla vista dell’uomo che aveva chiamato Kokoschka.
In preda alla paura non era più un Angelo Custode ma semplicemente un uomo. E non era più un salvatore, perché la sua presenza lì aveva attirato il killer.
A una nuova, pressante richiesta di Danny, Laura si contorse freneticamente sotto la jeep. Lo stesse fece Chris, senza piangere per mostrarsi coraggioso di fronte a suo padre. Non si era accorto che era stato colpito, perché aveva il volto premuto contro il petto di sua madre, nascosto nel suo piumino. Sembrava inutile nascondersi sotto la jeep, perché Kokoschka li avrebbe comunque trovati. Non poteva essere così ottuso da non guardare proprio lì, l’unico nascondiglio possibile. Stavano solo guadagnando tempo, qualche minuto in più di vita.
Quando fu completamente sotto la jeep, strinse a sé Chris, per offrirgli con il suo corpo un minimo di protezione in più. Udì la voce di Danny: «Ti amo». L’angoscia s’impadronì di lei, perché comprese che quelle parole erano anche un addio.
Stefan si infilò fra la jeep e il cumulo di neve ammassata lungo il terrapieno. C’era poco spazio, ma sufficiente per procedere strisciando verso il paraurti posteriore, dove Kokoschka non si sarebbe aspettato di vederlo comparire, dove poteva sparare un buon colpo prima che Kokoschka si girasse e gli scaricasse addosso la mitragliatrice.
Kokoschka. Mai era rimasto tanto sorpreso come quando lo aveva visto uscire dalla Pontiac. Significava che all’istituto erano al corrente del suo tradimento ed erano anche al corrente che si era intromesso tra Laura e il suo vero destino. Kokoschka aveva preso la Via del Lampo con l’intenzione di eliminare il traditore ed evidentemente anche Laura.
A testa bassa Stefan si fece strada fra la jeep e il terrapieno. La mitragliatrice crepitò nuovamente e i finestrini sopra di lui andarono in frantumi. Il cumulo di neve alle sue spalle in molti punti era incrostato di ghiaccio che lo trafiggeva con un dolore tremendo; sopportò il dolore e con tutto il peso si addossò contro la parete. Il ghiaccio si spaccò e la neve sottostante si fece abbastanza compatta da consentirgli di passare. Il vento si insinuava attraverso l’angusto spazio in cui si trovava, sibilando, ed ebbe la sensazione di non essere solo ma in compagnia di una creatura invisibile che lo scherniva. Aveva visto Laura e Chris infilarsi sotto la jeep, ma sapeva che quel nascondiglio avrebbe offerto loro solo qualche minuto in più di vita. Una volta arrivato davanti alla jeep, non vedendoli, Kokoschka avrebbe guardato sotto il veicolo e avrebbe aperto il fuoco.
Che cosa ne era stato di Danny? Un uomo così robusto, troppo grosso per infilarsi sotto la jeep? Era già stato colpito. Doveva essere da qualche parte immobilizzato dal dolore. Danny non era il tipo di uomo che si nascondeva di fronte al pericolo, nemmeno di fronte a un pericolo come quello.
Finalmente Stefan raggiunse il paraurti posteriore. Si sporse con circospezione e vide la Pontiac parcheggiata a qualche metro di distanza, con la portiera spalancata e il motore acceso. Di Kokoschka nessuna traccia. Impugnando la Walther si scostò con cautela dal cumulo di neve e si mosse verso la jeep. Si rannicchiò contro il portellone e scrutò attentamente intorno.
Kokoschka era in mezzo alla strada e stava avanzando verso la jeep, dove pensava fossero nascosti tutti. Imbracciava un fucile mitragliatore Uzi. Quando fu in prossimità del varco fra la jeep e la Blazer aprì il fuoco nuovamente, sventagliando il mitra da sinistra a destra. I proiettili rimbalzarono sibilando sulla lamiera, bucarono le gomme e si conficcarono nel terrapieno innevato.
Stefan sparò a Kokoschka. Lo mancò.
Improvvisamente, Danny Packard si lanciò verso Kokoschka, uscendo dal suo nascondiglio contro la griglia del radiatore. Nonostante la ferita era ancora veloce e scattante e per un attimo sembrò che riuscisse persino a raggiungere l’uomo e a disarmarlo. Kokoschka continuava a sventagliare l’Uzi da sinistra a destra e si stava già spostando dal suo obiettivo quando vide Danny venirgli incontro. Fu costretto a girarsi e a spostare anche l’arma. Se fosse stato solo qualche metro più vicino alla jeep invece che in mezzo alla strada, non avrebbe scorto Danny in tempo.
«Danny, no!» gridò Stefan, mentre faceva partire tre colpi in direzione di Kokoschka, anche se Packard stava per avventarsi su di lui.
Kokoschka però aveva tenuto una distanza di sicurezza. Deviò l’arma e la puntò direttamente contro Danny, quando erano a poco più di un metro di distanza. Danny rimbalzò all’indietro colpito da numerosi proiettili.
Stefan non trovò alcuna consolazione nel fatto che, proprio mentre Danny veniva colpito, anche Kokoschka veniva ferito. Due pallottole l’avevano raggiunto, una nella coscia e l’altra nella spalla sinistra. Si accasciò a terra. Nella caduta lasciò andare il mitra, che scivolò sul selciato.
Laura stava urlando sotto la jeep.
Stefan uscì dal suo nascondiglio e corse verso Kokoschka, disteso a terra accanto alla Blazer. Scivolò e lottò per rimanere in equilibrio.
Gravemente ferito, senza dubbio sotto choc, Kokoschka riuscì ad accorgersi comunque che Stefan stava arrivando. Rotolò verso il suo fucile che era andato a finire accanto alla ruota posteriore della Blazer.
Stefan sparò tre volte mentre correva, ma non aveva la stabilità necessaria per una buona mira e per di più Kokoschka si stava allontanando da lui, perciò mancò quel figlio di puttana. Poi Stefan scivolò di nuovo e cadde su un ginocchio in mezzo alla strada. Sentì una fitta lancinante salirgli dalla coscia fino all’anca.
Rotolando, Kokoschka raggiunse il fucile mitragliatore.
Stefan capì che non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo in tempo. Piegò anche l’altro ginocchio e in quella posizione sollevò la Walther, impugnandola con tutt’e due le mani. Era a sei metri da Kokoschka, non di più. Ma anche un buon tiratore avrebbe potuto mancare il bersaglio a sei metri, in circostanze così sfavorevoli.
Sempre disteso a terra, Kokoschka aprì il fuoco nell’attimo in cui riuscì ad afferrare l’Uzi, prima di riuscire a rigirare l’arma, e perdendo così i primi venti colpi sotto la Blazer, facendo scoppiare i pneumatici anteriori.
Mentre Kokoschka si apprestava a puntare l’arma contro di lui, Stefan fece partire gli ultimi tre colpi. Nonostante il vento e l’angolazione, doveva farne buon uso, perché se avesse fallito non avrebbe avuto il tempo per ricaricare l’arma.
Il primo colpo andò a vuoto.
Kokoschka continuava a sventagliare il fucile mitragliatore e l’arco di fuoco raggiunse la parte anteriore della jeep. Laura era sotto la jeep con Chris, e Kokoschka stava sparando rasoterra. Sicuramente un paio di colpi arrivarono sotto il veicolo.
Stefan sparò di nuovo. La pallottola colpì Kokoschka al petto. Il fucile mitragliatore tacque. Stefan fece partire un altro colpo, l’ultimo, che colpì Kokoschka alla testa. Era tutto finito.
Da sotto la jeep, Laura vide il gesto coraggioso di Danny, lo vide cadere nuovamente, riverso sulla schiena, immobile, e capì che era morto. Nessuna possibilità di proroga, questa volta. Una scintilla di disperazione divampò in lei, come il bagliore accecante di un’esplosione. Intravide il suo futuro senza Danny, una visione così spietatamente vivida e terribile che quasi svenne.
Poi pensò a Chris, ancora vivo e nascosto fra le sue braccia. Si fece forza. La cosa più importante ora era tenere Chris in vita e, se possibile, evitargli la vista del corpo crivellato di suo padre.
Il corpo di Danny le impediva in parte la visuale, ma vide che Kokoschka era stato colpito. Vide il suo Custode avvicinarsi all’uomo accasciato e per un attimo sembrò che il peggio fosse passato. Poi il suo Custode cadde su un ginocchio e Kokoschka rotolò verso il fucile mitragliatore che aveva lasciato cadere. Di nuovo degli spari. Tantissimi in pochi secondi. Udì un paio di colpi sibilare sotto la jeep, paurosamente vicini.
Il silenzio che seguì fu dapprima totale. All’inizio non riuscì a sentire né il vento né i singhiozzi soffocati di suo figlio. Poi, gradualmente, quei suoni la colpirono.
Vide che il suo Custode era vivo. In parte si sentì sollevata, in parte irrazionalmente irritata che fosse sopravvissuto. Lo odiava perché aveva portato con sé Kokoschka e Kokoschka aveva ucciso Danny. D’altro canto, sarebbero sicuramente rimasti uccisi nella collisione con l’autocarro se il suo Custode non fosse intervenuto. Ma chi diavolo era? Da dove veniva? Perché era così interessato a lei? Laura era spaventata, sconvolta, disperata nel profondo dell’anima e terribilmente confusa.
Dolorante, il suo Custode si alzò in piedi e zoppicando si diresse verso Kokoschka. Laura si rigirò spostandosi più avanti per vedere giù dalla collina, oltre la testa immobile di Danny. Riusciva a malapena a vedere ciò che il suo Custode stava facendo, ma le sembrò che stesse aprendo la giacca di Kokoschka.
Dopo poco risalì zoppicando la collina, portando con sé qualcosa che aveva preso dal corpo.
Quando raggiunse la jeep, si chinò e guardò sotto. «Vieni fuori. È tutto finito.» Il suo volto era pallido e improvvisamente le sembrò più vecchio. Si schiarì la voce e con tono sincero, profondamente commosso, disse: «Mi dispiace, Laura. Mi dispiace tanto».
Laura strisciò verso il retro della jeep, sbattendo la testa sul telaio. Invitò Chris a seguirla, perché se fossero usciti dall’altra parte il bambino avrebbe visto il padre. Il suo Custode li tirò fuori dal loro nascondiglio. Laura si accasciò contro il paraurti posteriore e strinse a sé Chris.
Con voce tremante il bambino disse: «Voglio papà».
Anch’io lo voglio, pensò Laura. Oh, piccolo mio, anch’io lo voglio. Lo voglio tanto. L’unica cosa al mondo che vorrei è il tuo papà.
La bufera si era trasformata in una vera e propria tormenta di neve. Il pomeriggio stava morendo; la luce si stava affievolendo e tutt’intorno il tetro, grigio giorno stava soccombendo all’oscurità fosforescente di una notte nevosa.
Con quel tempo pochi avrebbero viaggiato, ma Stefan era sicuro che di lì a poco sarebbe arrivato qualcuno. Non erano trascorsi più di dieci minuti da quando aveva fermato Laura a bordo della Blazer, ma anche su quella strada di montagna, sotto la tormenta, l’assenza di traffico non sarebbe durata a lungo. Doveva parlare con Laura e partire prima di rimanere intrappolato lì.
Accovacciandosi davanti a Laura e al bambino in lacrime, Stefan disse: «Laura, devo andare via di qui, ma tornerò presto, tra un paio di giorni…»
«Chi sei?» chiese Laura in tono rabbioso.
«Non c’è tempo per le spiegazioni, ora.»
«Voglio sapere, dannazione! Ho il diritto di sapere.»
«Sì, è un tuo diritto e ti spiegherò tutto fra qualche giorno. Ma ora dobbiamo subito decidere che cosa raccontare, come facemmo quel giorno nel negozio. Ricordi?»
«Vai all’inferno.»
Impassibile, Stefan proseguì: «È per il tuo bene, Laura. Non puoi raccontare alle autorità la verità perché ha dell’incredibile. Non trovi? Penseranno che ti sei inventata tutto. Soprattutto se dirai che me ne sono andato… Penseranno sicuramente che sei in qualche modo implicata nell’omicidio, oppure che sei pazza».
Lo guardò con aria ostile e rimase in silenzio. Non la biasimava per il suo stato d’animo. Forse desiderava persino che fosse morto, ma comprendeva anche quello. Le sole emozioni che suscitava in lui erano amore, pietà e profondo rispetto.
Stefan continuò: «Dirai loro che quando tu e Danny avete superato la curva e avete imboccato la salita, c’erano tre auto sulla strada: la jeep parcheggiata qui, addossata al terrapieno, la Pontiac sulla corsia sbagliata, proprio dove si trova adesso, e un’altra auto ferma sulla corsia in direzione nord. C’erano… quattro uomini, due di loro armati, che avevano tutta l’aria di aver costretto la jeep ad accostare. Voi siete arrivati proprio nel momento sbagliato. Questo è tutto. Minacciandovi con un fucile vi hanno obbligato ad accostare e vi hanno fatto scendere dalla macchina. A un certo punto hai sentito parlare di cocaina… stavano discutendo di droga e avevano l’aria di aver inseguito l’uomo nella jeep…»
«Trafficanti di droga qui?» replicò Laura sprezzante.
«Potrebbero esserci delle raffinerie qui intorno, una capanna nella foresta dove magari trattano il PCP. Ascolta, se la storia ha un senso qualsiasi la berranno. La storia vera non ha né capo né coda, perciò non contarci. Allora, dirai che dalla cima della collina a un certo punto sono spuntati i Robertson, di cui ovviamente non conosci il nome, a bordo del loro autocarro.
La strada era bloccata da tutte queste auto e quando l’autista ha frenato il veicolo ha cominciato a sbandare…»
«Hai un accento», disse Laura in preda alla collera, «leggero, ma… lo sento. Da dove vieni?»
«Ti spiegherò tutto fra qualche giorno», rispose Stefan spazientito, scrutando la strada in entrambe le direzioni. «Lo farò, ma ora devi promettermi che racconterai questa storia, arricchendola come puoi, ma non dirai la verità.»
«Non ho altra scelta. Non è vero?»
«No», rispose Stefan, sollevato che avesse compreso la sua posizione.
Laura si strinse a suo figlio e non disse più nulla.
Stefan aveva cominciato nuovamente ad accusare un forte dolore al piede semicongelato.
La sensazione di calore prodotta dal movimento era svanita e ora era scosso dai brividi. Le porse la cintura che aveva tolto a Kokoschka. «Infilala sotto la giacca. Non deve vederla nessuno. Quando arrivi a casa, nascondila da qualche parte.»
«Che cos’è?»
«Più tardi lo saprai. Cercherò di ritornare fra qualche ora. Ma ora promettimi che la nasconderai. Non essere curiosa. Non indossarla. E per l’amore del cielo non premere il pulsante giallo!»
«Perché no?»
«Perché tu non vorresti andare dove ti porterebbe.»
Lo fissò confusa. «Portarmi?»
«Ti spiegherò tutto. Ma non ora.»
«Perché non puoi portarla con te, qualunque cosa sia?»
«Due cinture su un corpo è anomalo, provocherebbe una sorta di rottura nel campo energetico e Dio solo sa dove potrei finire o in quali condizioni.»
«Non capisco. Di che cosa stai parlando?»
«Più tardi. Ma se per qualche ragione non fossi in grado di ritornare, faresti meglio a prendere delle precauzioni.»
«Che genere di precauzioni?»
«Armati. Stai all’erta. Non c’è ragione che vengano a cercarti se prendono me, ma non possiamo escluderlo. Giusto per darmi una lezione, per umiliarmi. Vivono per la vendetta. E se verranno a cercarti… saranno una squadra. Armati fino ai denti.»
«Ma chi diavolo sono toro?»
Senza rispondere, Stefan si alzò in piedi, trasalendo per il dolore al ginocchio destro. Indietreggiò e la guardò intensamente per l’ultima volta. Poi si voltò, lasciandola lì, nel freddo e nella neve, appoggiata contro la jeep crivellata di proiettili, con suo figlio terrorizzato e suo marito morto.
Si diresse lentamente verso il centro della strada, dove dal selciato innevato sembrava provenire più luce che dal cielo sovrastante. Laura lo chiamò. Ma Stefan la ignorò.
Nascose l’arma scarica sotto il cappotto. Infilò una mano nella camicia, cercò per un attimo e trovò il pulsante giallo sulla sua cintura del tempo. Esitò per un istante.
Avevano inviato Kokoschka per fermarlo. Ora stavano di certo aspettando ansiosamente all’istituto per conoscere l’esito. Al suo arrivo sarebbe stato arrestato. Probabilmente non avrebbe mai più avuto la possibilità di riprendere la Via del Lampo, per ritornare da lei, come le aveva promesso.
La tentazione di rimanere fu grande.
Se fosse rimasto, loro avrebbero mandato qualcun altro a ucciderlo e avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a fuggire mentre osservava il mondo cambiare così tragicamente che gli sarebbe stato impossibile sopportarlo. D’altro canto, se fosse tornato, c’era una minima possibilità che potesse ancora distruggere l’istituto. Il dottor Penlovski e gli altri erano ovviamente al corrente della sua ingerenza nel flusso naturale degli eventi nella vita di questa donna, ma forse non sapevano che aveva sistemato gli esplosivi nel solaio e nel seminterrato dell’istituto. In tal caso, se avesse avuto la possibilità di entrare nel suo ufficio anche solo per un momento avrebbe potuto azionare l’interruttore nascosto e far saltare l’edificio, con tutti i suoi archivi, ricacciandoli all’inferno a cui appartenevano. Più probabilmente avevano già trovato le cariche esplosive e le avevano rimosse. Ma finché rimaneva una qualsiasi possibilità che potesse porre fine per sempre al progetto e chiudere la Via del Lampo, era moralmente obbligato a tornare all’istituto, anche se ciò poteva significare che non avrebbe mai più rivisto Laura.
Mentre il giorno moriva, la bufera sembrava farsi più violenta. Sul versante della montagna sopra la strada, il vento sibilava fra gli enormi pini e i rami frusciavano con rumore sinistro, come se una creatura gigante dai mille piedi stesse scendendo precipitosamente giù dal pendio. I fiocchi di neve erano diventati piccoli pezzetti di ghiaccio che sembravano voler raschiare il mondo, levigandolo come la cartavetrata leviga il legno, finché alla fine non ci sarebbero più state cime e vallate, nulla, tranne una monotona pianura che si perdeva all’infinito.
Stefan premette il pulsante giallo tre volte in rapida successione, accendendo i segnali luminosi. Con rammarico e paura rientrò nel suo tempo.
Stringendo a sé Chris, ora più calmo, Laura si sedette per terra accanto alla jeep e guardò il suo Custode allontanarsi nella neve.
Si fermò in mezzo alla strada e per un lungo momento rimase lì, immobile. Poi avvenne un fatto incredibile. Dapprima l’aria si fece pesante, carica di una strana pressione, qualcosa che non aveva mai avvertito prima, come se l’atmosfera della terra si stesse condensando in qualche cataclisma cosmico, e improvvisamente le riuscì difficile respirare. Nell’aria si diffuse un odore singolare ma familiare e dopo qualche secondo si rese conto che era un odore di cavi elettrici incandescenti e di guarnizioni bruciacchiate, simile a quello che aveva sentito in cucina quando la spina del tostapane era andata in cortocircuito qualche settimana prima; quel puzzo venne coperto dall’odore pungente ma non sgradevole dell’ozono, quello stesso odore che riempiva l’aria durante un violento temporale. La pressione si fece più opprimente, finché non si sentì quasi schiacciare a terra e l’aria scintillò e s’increspò come se fosse acqua. Con un suono simile a un enorme tappo che salta dalla bottiglia, il suo Custode svanì dalla luce grigio purpurea del crepuscolo invernale e nello stesso istante si creò un vortice tremendo, come se una massa gigantesca d’aria stesse precipitando in quel punto per riempire un vuoto. Per un istante si sentì veramente intrappolata in un baratro, incapace di respirare. Poi la pressione svanì e nell’aria si sentì solo il profumo di neve e di pini, tutto era di nuovo normale.
Ma dopo quanto aveva visto, nulla poteva più essere normale per lei.
Calarono le tenebre. Senza Danny le parve la notte più nera della sua vita. Solo una luce rimaneva a illuminare la sua lotta verso una lontana speranza di felicità: Chris. Era l’ultima luce che brillava nella sua oscurità.
Più tardi, in cima alla collina apparve una macchina. I fari spezzavano le tenebre.
Si alzò a fatica e con Chris si mise in mezzo alla strada. Agitò le braccia in segno di aiuto.
Quando la macchina rallentò, Laura si chiese improvvisamente se ne sarebbe uscito un altro uomo con un fucile mitragliatore. Non si sarebbe mai più sentita al sicuro.
Sabato, 13 agosto 1988, sette mesi dopo che Danny era stato ucciso, Thelma Ackerson arrivò alla casa di montagna dove si sarebbe fermata per quattro giorni.
Laura era sul retro e si stava esercitando con la sua Smith Wesson calibro 38. L’aveva appena ricaricata e stava per infilarsi la cuffia quando udì un’auto risalire lungo il sentiero ghiaioso che partiva dalla statale. Si chinò a prendere il binocolo che si trovava ai suoi piedi ed esaminò il veicolo per assicurarsi che non fosse un visitatore indesiderato. Quando riconobbe Thelma, ripose il binocolo e continuò a colpire il bersaglio, la sagoma di un uomo a mezzo busto, legato a un muro di protezione costituito da balle di fieno.
Seduto sul prato vicino, Chris prese altre sei cartucce dalla scatola e si preparò a porgerle alla madre.
Il giorno era caldo, limpido e asciutto. I fiori di campo risplendevano a centinaia lungo il bordo del cortile, dove il campo falciato cedeva il posto a una vegetazione selvaggia che cresceva fino al limitare della foresta. Sino a qualche momento prima sul prato c’erano gli scoiattoli e gli uccelli cantavano, ma ora, a causa del frastuono, erano scappati via.
Ci si poteva aspettare che Laura, associando la morte del marito a quel luogo se ne sarebbe sbarazzata. E invece quattro mesi prima aveva venduto la casa di Orange County e si era trasferita lì con Chris.
Era sicura che ciò che era successo quel giorno di gennaio sulla Statale 330 sarebbe potuto accadere ovunque. Il posto non c’entrava affatto; era tutta colpa del suo destino, delle forze misteriose che operavano nella sua vita insolitamente tormentata. Intuitivamente sapeva che se il suo Custode non fosse intervenuto per salvarla, sarebbe entrato nella sua vita in qualche altro posto, in un altro momento di crisi. In quel luogo Kokoschka sarebbe spuntato con il suo fucile mitragliatore e si sarebbe svolta la stessa sequenza di eventi violenti e tragici.
Nell’altra casa c’erano molti più ricordi di Danny che non nel rustico di pietra e legno rosso a sud di Big Bear. Ma in montagna Laura riusciva meglio ad affrontare il suo dolore che non a Orange Park Acres.
Inoltre, in montagna si sentiva stranamente più sicura. Nei sobborghi densamente popolati di Orange County, dove le strade e le arterie erano percorse da più di due milioni di persone, sarebbe stato difficile scorgere il nemico tra la folla finché non avesse scelto il momento per agire. In montagna, invece, gli estranei si notavano subito, tanto più che la casa era situata quasi al centro della loro proprietà di trenta acri.
Laura non aveva dimenticato l’avvertimento del suo Custode: Armati. Stai all’erta. Se verranno a cercarti… saranno una squadra.
Quando Laura sparò l’ultimo colpo e si sfilò la cuffia, Chris le porse altre sei cartucce e poi corse al bersaglio per controllare la precisione della madre.
Il muro di protezione di balle di fieno era alto due metri, profondo uno e largo circa quattro. Dietro si estendeva una pineta di sua proprietà; un simile muro di protezione era eccessivo, ma Laura non voleva sparare a nessuno. Perlomeno non accidentalmente.
Chris sistemò il nuovo bersaglio e tornò da Laura con quello vecchio. «Quattro centri su sei, mamma. Due mortali e due belle ferite, ma sembra che tu tenda ad andare a sinistra.»
«Vediamo se riesco a correggermi.»
«Sei solo stanca, ecco tutto», replicò Chris.
Sul prato attorno c’erano centinaia di bossoli. I polsi, le braccia, le spalle e il collo cominciavano a dolerle per la tensione accumulata, ma voleva ricaricare un’ultima volta il tamburo, prima di abbandonare l’esercitazione.
Dall’altro lato della casa giunse il rumore della portiera dell’auto di Thelma che si chiudeva.
Chris si rimise la cuffia e prese il binocolo per guardare il bersaglio mentre sua madre sparava.
Si fermò un attimo a guardare il figlio e provò una grande tristezza, non solo perché era orfano di padre, ma perché sembrava così ingiusto che un bambino, che fra due mesi avrebbe compiuto otto anni, dovesse già conoscere quanto fosse pericolosa la vita e dovesse vivere con la paura di una nuova violenza. Faceva del suo meglio perché la sua vita fosse il più possibile allegra: si divertivano ancora con il personaggio di Sir Rospo, anche se Chris aveva smesso di credere che esistesse veramente; grazie a una ricca biblioteca personale di classici per bambini, Laura gli mostrava come nei libri si potesse trovare il piacere e la fuga dalla realtà. Si sforzò persino di fare delle sue esercitazioni di tiro al bersaglio un gioco. La loro vita, tuttavia, era dominata dall’incertezza e dal pericolo, dalla paura dell’ignoto. Questa realtà non poteva essere celata al bambino e quasi certamente lo avrebbe segnato profondamente e per lungo tempo.
Chris abbassò il binocolo e la guardò per vedere perché non stesse sparando. Laura gli sorrise e Chris ricambiò il sorriso. Era così dolce che si sentì spezzare il cuore.
Ritornò al bersaglio, impugnò la Smith Wesson con entrambe le mani e sparò il primo colpo della nuova serie.
Aveva appena sparato il quarto colpo, quando Thelma le si affiancò. Rimase lì, con le dita premute sulle orecchie, trasalendo agli spari.
Laura fece partire gli ultimi due colpi, poi si tolse la cuffia e Chris andò a ritirare il bersaglio. Il rumore degli spari echeggiava ancora sulle montagne quando si voltò verso Thelma e l’abbracciò. «Che cos’è tutto questo armamentario?» chiese Thelma. «Stai scrivendo delle nuove sceneggiature per Clint Eastwood? No, ancora meglio, scrivi l’equivalente femminile del ruolo di Clint, Dirty Harriet, e io sono proprio la persona adatta a interpretare questo ruolo: dura, fredda e con un ghigno che farebbe impallidire persino Bogart.»
«Ti terrò presente per la parte», le promise Laura. «Sai che cosa mi piacerebbe vedere? Clint che recita la parte travestito da donna.»
«Ehi, hai ancora il senso dell’umorismo, Shane.»
«Pensavi il contrario?»
Thelma si fece pensierosa. «Non sapevo che cosa pensare quando ti ho visto sparare con quell’aria così infida da serpente velenoso.»
«Autodifesa», spiegò Laura. «Ogni brava ragazza dovrebbe sapersi difendere.»
«Stavi sparando come una professionista.» Thelma notò i bossoli disseminati sul prato. «Ti eserciti spesso?»
«Tre volte la settimana, per un paio d’ore.»
Chris ritornò con il bersaglio. «Ciao, zia Thelma. Questa volta quattro colpi mortali su sei, una bella ferita e uno l’hai mancato.»
«Mortali?» chiese Thelma.
«Sono ancora spostati a sinistra?» chiese Laura al figlio.
Chris le mostrò il bersaglio. «Non tanto come prima.»
«Ehi, Christopher Robert», lo rimproverò Thelma, «questo è tutto ciò che ricevo, un pidocchioso ‘Ciao, zia Thelma’?»
Chris depose il bersaglio su quelli che aveva precedentemente tolto, corse da Thelma e le diede un bacio. Avendo notato che aveva abbandonato lo stile punk, Chris le disse: «Accidenti, che cosa ti è successo zia Thelma? Hai un aspetto normale».
«Io ho un aspetto normale? Che cos’è? Un complimento o un insulto? Comunque, ricorda, figliolo, anche se la tua vecchia zia Thelma ha un aspetto normale, non è ciò che sembra. Rimane una comica geniale, una persona con uno spirito sorprendente, insomma una leggenda nel suo piccolo. E comunque, ho deciso che lo stile punk è superato.»
Si fecero aiutare da Thelma a raccogliere i bossoli.
«La mamma è una tiratrice eccezionale», commentò Chris orgoglioso.
«Farà bene a essere eccezionale con tutte queste esercitazioni. C’è tanto di quell’ottone qui da far pallottole per un intero esercito di amazzoni.»
Chris domandò a sua madre: «Che cosa significa?»
«Richiedimelo fra dieci anni», propose Laura.
Quando entrarono in casa, Laura chiuse la porta della cucina a doppia mandata. Poi chiuse le persiane in modo che nessuno potesse vederli.
Thelma osservò questi rituali con interesse, ma non disse nulla.
Chris andò in salotto, infilò la cassetta de I predatori dell’arca perduta nel videoregistratore e si sistemò davanti al televisore con un sacchetto di pop corn e una coca. Laura e Thelma si ritirarono in cucina e mentre sorseggiavano un caffè Laura smontò e pulì il suo revolver.
La cucina era grande e accogliente, con rivestimenti di legno di quercia e vecchie pietre sulle pareti; c’era una cucina economica con la cappa di rame e pentole di rame appese a dei ganci. Il pavimento era in ceramica blu scuro. Persino a Laura sembrava un posto strano per mettersi a pulire un’arma destinata principalmente a uccidere altri esseri umani.
«Hai veramente paura?» chiese Thelma.
«Ci puoi giurare.»
«Ma Danny è stato ucciso perché siete stati tanto sfortunati da capitare nel bel mezzo di un affare di droga. Quelle persone sono lontane ormai, giusto?»
«Forse no.»
«Be’, se avessero temuto che tu potessi riconoscerli, sarebbero già venuti.»
«Non voglio correre rischi.»
«Devi cercare di rilassarti, piccola, non puoi vivere il resto dei tuoi giorni aspettando che qualcuno spunti fuori dal primo cespuglio e ti aggredisca. D’accordo, fai bene a tenere un’arma in casa. Probabilmente è una cosa saggia. Ma hai intenzione di non mettere più il naso fuori? Non puoi portarti un’arma ovunque vai!»
«Certo che posso. Ho un regolare permesso.»
«Un permesso per portare in giro quel cannone?»
«Lo porto in borsa ovunque vada.»
«Cristo, ma come hai fatto a ottenere un porto d’armi?»
«Mio marito è stato ucciso in circostanze misteriose da persone ignote. Quegli assassini hanno cercato di uccidere mio figlio e me, e sono ancora in circolazione. A tutto questo aggiungi che sono una donna ricca e relativamente famosa. E sarebbe decisamente strano se non fossi riuscita a ottenere un porto d’armi.»
Thelma rimase in silenzio per un attimo, mentre sorseggiava il caffè e guardava Laura che puliva il revolver. Alla fine incalzò: «Questa situazione è assurda. Voglio dire, sono passati sette mesi… da quando Danny è morto. Ma sei nervosa e spaventata come se ti avessero sparato ieri. Non puoi vivere costantemente in tensione. Finirai per diventare pazza. È paranoia pura. Devi convincerti che non puoi stare in guardia per il resto dei tuoi giorni, ogni singolo minuto».
«Posso farlo, se ci sono costretta.»
«Ah sì? Facciamo un esempio. In questo momento il tuo cannone è smontato. Che cosa succede se qualche barbaro criminale comincia a buttare giù a calci la porta della cucina?»
Le sedie della cucina erano munite di rotelle di gomma, così quando Laura si spostò dal tavolo arrivò velocemente al bancone accanto al frigorifero. Aprì un cassetto e tirò fuori un’altra Smith Wesson.
Thelma esclamò: «Che cosa… Sono seduta nel bel mezzo di un arsenale!»
Laura ripose il secondo revolver nel cassetto. «Vieni. Ti faccio fare un giro.»
Thelma la seguì nella dispensa. Appesa alla parte interna della porta c’era un fucile mitragliatore Uzi automatico.
«Ma questa è una mitragliatrice! È legale possederne una?»
«Con l’approvazione federale puoi comprarle nei negozi di armi, anche se puoi ottenere soltanto una semiautomatica; è illegale averle quando sono armi completamente automatiche.»
Thelma la studiò per un attimo, poi disse sospirando: «Questa è stata modificata?»
«Sì. È completamente automatica. L’ho acquistata così da un trafficante d’armi, non in un negozio normale.»
«Questo è troppo, Shane, è veramente troppo!»
Portò Thelma nella sala da pranzo e le mostrò la rivoltella che era agganciata sul fondo della credenza. Nel salotto un quarto revolver era agganciato sotto il tavolo vicino a uno dei divani. Un secondo Uzi modificato era appeso dietro la porta dell’anticamera che dava sull’entrata principale della casa. Altre pistole erano nascoste nel cassetto della scrivania nello studio, nel suo ufficio al piano superiore, nel bagno principale e nel comodino della sua stanza. Per finire, teneva un terzo Uzi nella camera da letto più grande.
Fissando il fucile mitragliatore che Laura tirò fuori da sotto il letto, Thelma gemette: «Pazzesco, è sempre più pazzesco! Se non ti conoscessi bene, Shane, penserei che ti ha dato di volta il cervello. Mi sembri una paranoica fanatica di armi. Ma, conoscendoti, se sei veramente tanto spaventata, devi avere le tue buone ragioni. Come fai con Chris, con tutte queste armi in giro?»
«Sa che non deve toccarle e so che di lui posso fidarmi. La maggior parte delle famiglie svizzere ha dei parenti nell’esercito. Lì quasi tutti i cittadini di sesso maschile sono preparati a difendere il loro paese, lo sapevi? Ci sono armi in quasi tutte le case, ma hanno il più basso tasso di incidenti del mondo perché le armi sono una parte della vita. Ai bambini viene insegnato a rispettarle fin dalla più tenera età. Chris non avrà problemi.»
Mentre Laura riponeva l’Uzi sotto il letto, Thelma chiese: «Ma come diavolo hai fatto a trovare un trafficante d’armi?»
«Sono ricca, ricordi?»
«E il denaro può comprare qualsiasi cosa? D’accordo, forse questo è vero. Ma come fa una ragazza come te a trovare un trafficante d’armi? Presumo che non mettano gli annunci sulle bacheche delle lavanderie.»
«Ho bazzicato gli ambienti più incredibili per scrivere numerosi romanzi, Thelma, e ho imparato come trovare le persone e le cose di cui ho bisogno.»
Thelma rimase in silenzio mentre ritornavano in cucina. Dal salotto proveniva la musica che accompagna le gesta di Indiana Jones. Laura si sedette al tavolo e continuò a pulire la sua rivoltella, mentre Thelma versava dell’altro caffè.
«Parliamoci francamente, Shane. Se c’è veramente qualche pericolo là fuori che giustifica tutto questo armamentario, allora è qualcosa di così grosso che non puoi affrontarlo da sola. Perché non assumi delle guardie del corpo?»
«Non mi fido di nessuno. Di nessuno a parte te e Chris. Questo è tutto. E del padre di Danny, ma purtroppo è in Florida.»
«Ma non puoi andare avanti così, sola, spaventata…»
Infilando uno spazzolino a spirale nella canna della pistola, Laura replicò: «Sono spaventata, è vero, ma sono preparata. Per tutta la vita sono rimasta ferma, mentre le persone che amavo mi sono state tolte. Non ho fatto altro che sopportare. Bene, al diavolo tutto quanto. D’ora in avanti combatterò. Se qualcuno vorrà portarmi via Chris, dovrà prima passare sul mio cadavere. Dovrà combattere una guerra».
«Laura, so che cosa stai passando, ma lasciami fare per un attimo l’analista e lasciati dire che non stai tanto reagendo a una minaccia reale, ma piuttosto iperreagendo a un senso di impotenza di fronte al destino. Non puoi sfidare la Provvidenza, amica mia. Non puoi giocare a poker con Dio e aspettarti di vincere solo perché hai una pistola nella borsetta. Voglio dire, hai perso Danny in una circostanza tragica, d’accordo, e forse potresti dire che Nina Dockweiler sarebbe vissuta se qualcuno avesse regalato una pallottola all’Anguilla alla prima occasione, ma quelli sono gli unici casi in cui la vita delle persone che tu amavi avrebbe potuto essere salvata grazie alle armi. Tua madre è morta dandoti alla luce. Tuo padre è morto d’infarto. Abbiamo perso Ruthie in un incendio. Imparare a difenderti con le armi va bene, ma è fondamentale che tu abbia delle prospettive, devi accettare la nostra vulnerabilità, o finirai in un manicomio insieme con persone che parlano alle gambe dei tavoli e mangiano vestiti a colazione. Facciamo le corna, ma che succederebbe se Chris si ammalasse di cancro? Tu sei pronta a far saltare in aria chiunque osi toccarlo, ma non puoi uccidere il cancro con una pistola e temo che tu sia così follemente determinata a proteggerlo, che cadrai a pezzi se qualcosa del genere succedesse, qualcosa che non puoi controllare, che nessuno può controllare. Sono preoccupata per te, Laura.»
Laura scosse la testa e provò un moto di tenerezza per l’amica. «Lo so, Thelma, ma puoi stare tranquilla. Per trentatré anni ho solo sopportato, ora reagisco come meglio posso. Se il cancro dovesse colpire me o Chris, mi rivolgerò ai migliori specialisti, tenterò ogni cura possibile. Ma se tutto questo non dovesse servire a nulla, se per esempio Chris dovesse morire di cancro, allora accetterò la sconfitta. La lotta non esclude la sopportazione. Io posso lottare e, se perdo, posso ancora resistere.»
Thelma la fissò a lungo. Poi, scuotendo il capo in segno di approvazione concluse: «Questo è ciò che speravo di sentirti dire. Okay. Fine della discussione. Parliamo d’altro. Quando hai intenzione di comprarti un carro armato, Shane?» .
«Oh, me lo consegneranno lunedì.»
«Obici, granate, bazooca?»
«Martedì. Ma che mi dici del film con Eddie Murphy?»
«Abbiamo concluso il contratto due giorni fa.»
«Non mi dire! La mia Thelma sarà la protagonista di un film con Eddie Murphy?»
«La tua Thelma apparirà in un film con Eddie Murphy. Non credo di potermi ancora qualificare come protagonista.»
«Hai avuto un ruolo come quarta protagonista nel film con Steve Martin e terza in un film con Chevy Chase. E adesso come seconda, giusto? Quante volte sei stata ospite nello show Tonight? Otto volte, mi pare, non è così? Sii sincera, sei una star.»
«Forse di scarsa grandezza. Non è curioso, Shane? Due come noi che vengono dal nulla, dal McIlroy, e sono arrivate in alto. Strano no?»
«Non così strano», replicò Laura. «Le avversità rendono un uomo forte e la forza ha successo. E sopravvive.»
Stefan aveva lasciato la neve sulle San Bernardino Mountains e un istante più tardi era nel tunnel all’altro capo della Via del Lampo. Il tunnel somigliava a una grande botte rovesciata, simile a quelle che si trovano nei luna park, a parte il fatto che la superficie interna era di rame invece che di legno e non girava sotto i suoi piedi. Aveva un diametro di circa tre metri e mezzo ed era lungo circa quattro. Compiuti pochi passi raggiunse il laboratorio principale dell’istituto, dove era sicuro che uomini armati stavano aspettandolo.
Il laboratorio era deserto.
Stupito, si arrestò per un momento guardandosi attorno incredulo. Tre pareti della stanza erano occupate, dal pavimento al soffitto, da apparecchi che ronzavano e ticchettavano, incustoditi. Gran parte delle lampade erano spente, e la stanza risultava illuminata da una debole luce, quasi soprannaturale. Il macchinario alimentava il tunnel e metteva in evidenza i segnali dei quadranti e degli indicatori, che si accendevano di verde pallido e arancione perché l’attività del tunnel — che era una breccia nel tempo, un tunnel per ogni dove — non veniva mai interrotta; una volta chiuso, poteva infatti essere riaperto solo con grande difficoltà e un enorme dispendio di energia.
In quel periodo, poiché il lavoro di ricerca non era più focalizzato sullo sviluppo del tunnel in sé, il laboratorio principale era frequentato dal personale dell’istituto solo per la manutenzione ordinaria delle macchine e, ovviamente, quando era in corso una spedizione. In caso contrario, Stefan non sarebbe mai stato in grado di fare i numerosi viaggi segreti e non autorizzati che aveva intrapreso per controllare, e a volte correggere, gli eventi della vita di Laura.
Non era insolito trovare il laboratorio deserto per la maggior parte della giornata, ma ora era piuttosto strano, perché avevano mandato Kokoschka a fermarlo e sicuramente stavano aspettando di sapere come se la fosse cavata sulle gelide montagne della California. Dovevano aver considerato la possibilità che Kokoschka fallisse e che dal 1988 ritornasse l’uomo sbagliato, e quindi il tunnel avrebbe dovuto essere sorvegliato finché la situazione non si fosse risolta. Dov’era la polizia segreta? Dov’erano i fucili con cui si era aspettato di essere accolto?
Guardò il grande orologio sulla parete e vide che erano le undici e sei minuti, ora locale. Era come sarebbe dovuto essere. Il suo viaggio aveva avuto inizio alle undici meno cinque del mattino e ogni spostamento terminava esattamente undici minuti dopo la partenza. Nessuno sapeva il perché, ma indipendentemente dalla permanenza del viaggiatore del tempo nel luogo di destinazione, alla base passavano solo undici minuti. Era rimasto sulle San Bernardino Mountains per circa un’ora e mezzo, ma nella sua vita del suo tempo erano trascorsi solo undici minuti. Se fosse rimasto con Laura per mesi prima di premere il pulsante giallo sulla cintura, attivando il segnale, sarebbe comunque ritornato all’istituto undici minuti dopo la sua partenza.
Ma dov’erano le autorità, le armi, i colleghi furiosi che esprimevano la loro indignazione? Dopo aver scoperto la sua ingerenza nella vita di Laura, dopo aver mandato Kokoschka a sorprendere lui e Laura, perché se n’erano andati dal tunnel quando dovevano attendere solo undici minuti per sapere il risultato di quel confronto?
Stefan si tolse gli scarponi, il cappotto, la fondina e li nascose in un angolo dietro delle attrezzature. Lì aveva lasciato il camice bianco quando era partito per il viaggio. Lo indossò. Perplesso, ancora preoccupato nonostante non avesse trovato comitati ostili ad accoglierlo, uscì nel corridoio e andò in cerca di guai.
Alle due e mezzo di domenica, Laura era davanti allo schermo del computer nello studio accanto alla camera da letto padronale. Indossava il pigiama e una vestaglia e fra un sorso e l’altro di succo di mela lavorava al nuovo libro. L’unica luce nella stanza proveniva dalle lettere verdi sullo schermo e da una piccola lampada da tavolo puntata su alcune pagine che erano state stampate il giorno precedente. Accanto al manoscritto era posata una rivoltella.
La porta che dava sul corridoio era aperta. Laura non chiudeva mai le porte, tranne quella del bagno, perché una porta chiusa avrebbe potuto impedirle di sentire i passi furtivi di un estraneo in un’altra parte della casa. La casa aveva un sistema d’allarme sofisticato, ma lei teneva comunque le porte interne aperte, per sicurezza.
Udì i passi di Thelma nel corridoio e si voltò proprio quando l’amica fece capolino dalla porta. «Scusa se ho fatto rumore e ti ho svegliato», le disse.
«No. Noi artisti lavoriamo fino a tardi. Però dormo fino a mezzogiorno. E tu? Di solito sei in piedi a quest’ora?»
«Non riesco più a dormire bene. Quattro o cinque ore per notte mi sono sufficienti. Invece di stare a letto, a rimuginare, mi alzo e scrivo.»
Thelma prese una sedia, si sedette e appoggiò i piedi sulla scrivania di Laura. Il suo gusto per la biancheria intima era ancora più eccentrico di quando era bambina: un pigiama di seta molto ampio con un disegno astratto di quadrati e cerchi rossi, verdi, blu e gialli.
«Mi fa piacere vedere che porti ancora le pantofole con il coniglietto», notò Laura. «Dimostra una certa costanza nella personalità.»
«Questa sono io. Solida come una roccia. Però adesso non trovo più pantofole così della mia misura, perciò compro un paio di pantofole di pelo per adulti e un paio di pantofole per bambini, stacco gli occhi e le orecchie da quelle piccole e le attacco a quelle grandi. Che cosa stai scrivendo?»
«Un libro sulla morte.»
«Proprio la cosa giusta per un divertente week end al mare.»
Laura sospirò e si rilassò nella poltrona dallo schienale molleggiato.
«È un romanzo sulla morte, sull’ingiustizia della morte. È un progetto folle, perché sto cercando di spiegare l’inspiegabile. Sto cercando di spiegare la morte al mio lettore immaginario, perché così forse alla fine riuscirò a capire qualcosa io stessa. È un libro sul perché dobbiamo lottare e andare avanti nonostante siamo perfettamente coscienti della nostra mortalità, sul perché dobbiamo lottare per esistere. È un libro triste, tetro, macabro, deprimente e amaro. Un libro profondamente preoccupante.»
«C’è un grosso mercato per questo genere?»
Laura rise. «Probabilmente non c’è affatto un mercato. Ma una volta che un’idea per un romanzo cattura lo scrittore… be’, è come un fuoco interiore che dapprima ti riscalda e ti fa sentire bene, ma poi comincia a mangiarti viva, ti consuma dall’interno. Non hai possibilità di fuggire dal fuoco; continua a bruciare. L’unico modo per liberarti è scrivere il dannato libro. E comunque, quando non riesco ad andare avanti con questo, mi dedico a un libro per bambini che sto scrivendo e che racconta la storia di Sir Tommy Rospo.»
«Sei proprio svitata, Shane.»
«Chi indossa le pantofole da coniglietto?»
Parlarono del più e del meno con quello spirito cameratesco che avevano condiviso per vent’anni. Forse fu a causa della solitudine di Laura, più acuta rispetto ai giorni immediatamente successivi all’uccisione di Danny, o forse la paura dell’ignoto, ma qualunque fosse la ragione iniziò a parlare del suo Custode. In tutto il mondo solo Thelma poteva credere a quel racconto. Infatti rimase subito affascinata, tirò giù i piedi dalla scrivania e si sedette composta sulla sedia, senza mai esprimere incredulità, mentre Laura raccontava la storia dal giorno in cui il tossicomane era stato ucciso fino a quando il Custode era svanito sulla strada di montagna.
Quando Laura ebbe domato quel fuoco interiore, Thelma chiese: «Perché non mi hai raccontato di questo… Custode anni fa? Quando eravamo al McIlroy?»
«Non so. Sembrava qualcosa di… magico. Qualcosa che dovevo tenere per me, perché se l’avessi condiviso con qualcun altro avrei spezzato l’incantesimo e non l’avrei mai più rivisto. Poi, quando mi lasciò sola ad affrontare l’Anguilla, quando non fece nulla per salvare Ruthie, credo che smisi semplicemente di credere in lui. Neanche a Danny ne feci parola. Quando lo incontrai, per me quella figura era ormai diventata irreale come quella di Babbo Natale. Poi, improvvisamente… eccolo di nuovo su quella strada.»
«Ma quella notte, in montagna, ti disse che sarebbe tornato dopo qualche giorno per spiegarti tutto…»
«Ma da allora non l’ho più visto. Sono sette mesi che aspetto e immagino che quando qualcuno improvvisamente si materializzerà davanti a me, potrebbe essere il mio Custode, oppure un altro Kokoschka con un fucile mitragliatore.»
Il racconto aveva elettrizzato Thelma tanto che cominciò ad agitarsi sulla sedia come se fosse percorsa da una corrente elettrica. Alla fine si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro. «Che cosa si sa di questo Kokoschka? I poliziotti hanno scoperto qualcosa su di lui?»
«Nulla. Non aveva con sé nessun documento. La Pontiac che guidava era rubata, esattamente come la jeep rossa. Hanno controllato le sue impronte digitali in tutti gli archivi a loro disposizione, ma senza alcun risultato. E del resto non possono interrogare un cadavere. Non sanno chi fosse o da dove venisse, né perché volesse ucciderci.»
«Hai avuto parecchio tempo per pensare a questa faccenda? Hai qualche idea? Chi è questo Custode? Da dove viene?»
«Non so.» Laura aveva un’idea sulla quale aveva concentrato la sua attenzione, ma era troppo folle e inoltre non aveva prove a sostegno della sua teoria. Preferì non esporla a Thelma. «Proprio non saprei che cosa pensare.»
«Dov’è la cintura che ti ha lasciato?»
«Nella cassaforte», rispose Laura, indicando con un cenno del capo una cassaforte ricavata nel pavimento e nascosta sotto il tappeto.
Insieme sollevarono il grosso tappeto, scoprendo la cassaforte, un cilindro con un diametro di trenta centimetri e profondo quaranta. All’interno c’era solo un oggetto e Laura lo prese.
Ritornarono alla scrivania per osservare l’oggetto misterioso sotto una luce migliore.
La cintura, alta dieci centimetri, era di un tessuto nero, elastico, forse nylon, in cui erano intrecciati dei fili di rame che formavano una trama intricata e molto particolare. Data l’altezza, la cintura era dotata di due piccoli occhielli, anch’essi in rame. Inoltre, cucita sulla cintura, proprio alla sinistra degli occhielli, c’era una scatolina grande come un portasigarette — circa dieci centimetri per sette e mezzo e meno di due centimetri di spessore — anch’essa in rame. Non si riusciva a capire come si potesse aprire la scatolina; l’unica caratteristica era un pulsante giallo situato verso l’angolo inferiore sinistro.
Thelma tastò lo strano materiale. «Dimmi ancora quello che ti ha detto sarebbe potuto succederti se avessi schiacciato il pulsante giallo.»
«Mi disse semplicemente di non premerlo e quando gli chiesi perché, mi rispose: ‘Tu non vorresti andare dove ti porterebbe’.»
Rimasero lì, fianco a fianco, gli occhi fissi sulla cintura che Thelma teneva in mano. Erano già passate le quattro e nella casa regnava un silenzio totale.
«Non sei mai stata tentata di premere il pulsante?» domandò Thelma incuriosita.
«No, mai», affermò Laura senza esitazione. «Quando menzionò il luogo in cui avrebbe potuto portarmi… nel suo sguardo lessi il terrore. E io so che vi ha fatto ritorno controvoglia. Non so da dove viene, Thelma, ma non ho frainteso ciò che ho visto nei suoi occhi. Quel posto è a un solo passo dall’inferno.»
Domenica pomeriggio indossarono dei pantaloncini corti e una maglietta, stesero un paio di coperte sul prato dietro la casa e fecero un lungo, ozioso pic nic a base di patate in insalata, polpettine di carne fredda, formaggio, frutta fresca, patatine e dolcetti alla cannella ricoperti di nocciole croccanti. Giocarono con Chris, che si divertì un mondo quel giorno, anche perché Thelma si esibì in una produzione adatta a bambini di otto anni.
Quando Chris vide gli scoiattoli che saltellavano allegramente in fondo al prato, vicino al bosco, volle andare a dargli da mangiare. Laura gli diede un dolcetto e disse: «Fallo a pezzettini e tiraglieli. Non si lasceranno avvicinare troppo. E tu non ti allontanare, capito?»
«Sì, mamma.»
«Non andare fino al bosco. Solo a metà strada.»
Corse via e si allontanò di una decina di metri, un po’ di più di quanto gli aveva ordinato sua madre, poi s’inginocchiò. Staccò dei pezzettini dal dolce e li lanciò agli scoiattoli cercando di farli avvicinare.
«È un bravo bambino», disse Thelma.
«Il migliore», replicò Laura mentre spostava accanto a sé l’Uzi.
«Ma sarà a meno di venti metri da noi», esclamò Thelma.
«Sì, ma è più vicino al bosco che a me.» Laura scrutò le ombre sotto i fitti pini.
Prendendo una manciata di patatine dal sacchetto, Thelma disse: «Non ho mai fatto un pic nic con qualcuno che aveva con sé un fucile mitraglialore. In un certo senso mi piace. Non hai nulla da temere se salta fuori un orso».
«Ed è un inferno anche per le formiche.»
Thelma si distese su un fianco, con la testa appoggiata a una mano, mentre Laura rimase seduta a gambe incrociate, come gli indiani. Le farfalle arancioni, luminose come tanti soli in miniatura, volteggiavano nell’aria calda di agosto.
«Il bambino sembra affrontare abbastanza bene la situazione», commentò Thelma.
«Più o meno», confermò Laura. «Ha passalo un periodo molto brullo. Piangeva sempre ed era inquieto. Ma è passalo. A questa età si adattano e accettano ogni cosa molto velocemente. Ma nonostante le apparenze… ho l’impressione che ci sia in lui una tristezza di fondo che prima non c’era. E che rimarrà sempre.»
«È vero», disse Thelma, «È come un’ombra sul cuore. Ma vivrà e sarà felice e ci saranno momenti in cui non si accorgerà affatto di quell’ombra.»
Mentre Thelma osservava Chris che attirava a sé gli scoiattoli, Laura studiò l’amica. «Ruth ti manca sempre, non è vero?»
«In ogni istante, da vent’anni a questa parte. E a te non manca sempre tuo padre?»
«Certo», rispose Laura. «Ma quando penso a lui, non credo che ciò che sento sia simile a ciò che provi tu. Perché noi ci aspettiamo che i nostri genitori muoiano prima di noi e anche se essi se ne vanno prematuramente, possiamo accettare questo fatto perché abbiamo sempre saputo che prima o poi sarebbe successo. È diverso quando muore una moglie, un marito, un figlio… o una sorella. Non ci aspettiamo che muoiano prima di noi, che muoiano in giovane età. Perciò è più difficile da accettare. Soprattutto, credo, se si tralla di una sorella gemella.»
«Quando ricevo delle buone notizie, intendo delle notizie che riguardano la mia professione, la prima cosa che penso è quanto sarebbe stata felice Ruthie per me. E tu, Shane? Come le la cavi?»
«La notte piango.»
«Questo è salutare ora. Non lo sarà più fra un anno.»
«La notte, mentre sono sveglia, ascolto i battiti del mio cuore e il suono è così triste. Grazie a Dio c’è Chris. Lui dà uno scopo alla mia vita. E poi ci sei tu. Ho te e Chris e siamo una specie di famiglia, non credi?»
«Non solo una specie, noi siamo una famiglia. Tu e io, sorelle.»
Laura sorrise, allungò una mano e scompigliò i capelli di Thelma.
«Ma», disse Thelma, «essere sorelle non significa che puoi prendere in prestito i miei vestiti.»
Nei corridoi e attraverso le porte aperte dei laboratori e degli uffici dell’istituto, Stefan vide i suoi colleghi al lavoro e nessuno di loro mostrò particolare interesse per lui. Prese l’ascensore fino al terzo piano e proprio fuori del suo ufficio incontrò il dottor Wladyslaw Januskaya, pupillo del dottor Vladimir Penlovski e la seconda persona responsabile della ricerca sul viaggio nel tempo, che originariamente era stata chiamata Progetto Falce, ma che ormai già da diverso tempo era conosciuta sotto il nome di Via del Lampo, un nome in codice più appropriato.
Januskaya aveva quarant’anni, dieci anni meno del suo insegnante, ma sembrava più vecchio del vitale ed energico Penlovski. Basso, grasso, quasi calvo, con la pelle chiazzata, due denti d’oro davanti e un paio di occhiali così spessi che i suoi occhi sembravano uova dipinte, Januskaya sarebbe stata una figura comica. Ma la sua fede smodata nello Stato e la dedizione che dimostrava nel lavorare per la causa totalitaria erano sufficienti a neutralizzare il suo potenziale comico; era veramente uno degli uomini più pericolosi coinvolti nel progetto.
«Stefan, caro Stefan», esclamò Januskaya, «già da tempo volevo dirti quanto ti siamo grati per il tuo suggerimento provvidenziale, lo scorso ottobre, che l’energia elettrica che alimenta il tunnel venisse fornita da un generatore autonomo. La tua lungimiranza ha salvato il progetto. Se avessimo continuato ad attingere energia dalle linee elettriche municipali… be’, a quest’ora il tunnel si sarebbe disattivato almeno una dozzina di volte e saremmo rimasti indietro rispetto al programma.»
Stefan, che era tornato all’istituto sicuro che lo avrebbero arrestato, si sentì confuso rendendosi conto che il suo tradimento non era stato scoperto e sbigottito nel sentirsi addirittura elogiare da quel verme disgustoso. Aveva suggerito di collegare il tunnel a un generatore autonomo non perché volesse vedere il loro vile progetto trionfare, ma perché non voleva che le sue escursioni nella vita di Laura fossero interrotte dall’insufficiente fornitura di energia elettrica.
«Lo scorso ottobre non avrei mai pensato che si potesse arrivare a una situazione come quella odierna, dove non ci si può più fidare dei normali servizi pubblici», proseguì Januskaya, scuotendo la testa tristemente, «l’ordine sociale è così totalmente turbato. Che cosa non deve sopportare il popolo per vedere lo stato socialista trionfare, non è vero?»
«Questi sono tempi oscuri», rispose Stefan, intendendo cose molto diverse da quelle che aveva voluto dire Januskaya.
«Ma trionferemo», esclamò Januskaya in tono energico e con un lampo di follia negli occhi. «Attraverso la Via del Lampo, noi trionferemo.»
Gli diede un colpetto sulla spalla e proseguì lungo il corridoio.
Stefan lasciò che lo scienziato arrivasse in prossimità degli ascensori, poi disse: «Oh, dottor Januskaya?»
Il grosso verme bianco si voltò e lo guardò. «Sì?»
«Ha visto Kokoschka oggi?»
«Oggi? No, non l’ho ancora visto.»
«Ma è qui, non è vero?»
«Oh, immagino di sì. Di solito è qui finché c’è qualcuno che lavora, questo lo sa. È un uomo diligente. Se avessimo più Kokoschka non avremmo dubbi sul trionfo finale. Ha bisogno di parlargli? Se lo vedo, devo mandarlo da lei?»
«No, no», rispose Stefan. «Non è urgente. Non voglio distoglierlo da altri lavori. Sono sicuro che prima o poi lo vedrò.»
Januskaya arrivò agli ascensori e Stefan entrò nel suo ufficio, chiudendo la porta dietro di sé.
Si rannicchiò accanto allo schedario che aveva spostato leggermente per celare un terzo della grata del condotto di aerazione nell’angolo. Nello stretto spazio retrostante era a malapena visibile un fascio di cavi di rame che fuoriuscivano dall’ultima feritoia della grata. I cavi erano collegati a un semplice timer del tipo a disco combinatore, che a sua volta era collegato con una presa a muro che si trovava dietro lo schedario. Nulla era stato disattivato. Avrebbe potuto infilare un braccio dietro l’armadio, fissare il timer e nel giro di pochissimi minuti, l’istituto sarebbe stato distrutto.
Che diavolo stava succedendo? si chiese.
Rimase seduto per un po’ alla sua scrivania, fissando lo squarcio di cielo che poteva vedere da una delle due finestre: qua e là nuvole grigiastre si spostavano pigramente su uno sfondo azzurro.
Alla fine lasciò l’ufficio, si diresse verso le scale nord e salì rapidamente fino al solaio. La porta si aprì con un leggero scricchiolio. Alzò l’interruttore della luce ed entrò nella lunga stanza, camminando con circospezione sul pavimento di assi di legno. Controllò tre delle cariche al plastico che aveva nascosto fra le travi due notti prima. Gli esplosivi non erano stati toccati.
Non aveva bisogno di controllare le cariche che aveva sistemato nello scantinato. Lasciò il solaio e tornò nel suo ufficio.
Ovviamente nessuno conosceva né la sua intenzione di distruggere l’istituto né i suoi tentativi di modificare la vita di Laura. Nessuno a parte Kokoschka. Dannazione! Kokoschka doveva sapere, perché era spuntato su quella strada di montagna con un Uzi.
Perché Kokoschka non l’aveva detto a nessun altro?
Kokoschka era un funzionario della polizia segreta, un vero fanatico, un obbediente e avido servo del governo, personalmente responsabile della sicurezza della Via del Lampo. Scoprendo un traditore nell’istituto, Kokoschka non avrebbe esitato a chiamare squadre di agenti per circondare l’edificio, sorvegliare il tunnel e interrogare tutti.
Sicuramente non avrebbe permesso a Stefan di correre in aiuto di Laura su quella strada di montagna, per poi seguirlo e uccidere entrambi. E ciò per una semplice ragione: avrebbe trattenuto Stefan per interrogarlo e stabilire se aveva dei compiici nell’istituto.
Kokoschka aveva scoperto che Stefan si era intromesso nel flusso prestabilito di eventi nella vita di una donna. E aveva anche scoperto, o forse no, gli esplosivi nell’istituto. Probabilmente no, altrimenti li avrebbe perlomeno disinnescati. Poi, per ragioni personali, non si era comportato da poliziotto ma come individuo. Quella mattina aveva seguito Stefan attraverso il tunnel, in quel pomeriggio gelido del gennaio del 1988, con intenzioni che Stefan non comprendeva affatto.
Non aveva senso. Tuttavia questo era ciò che era accaduto.
Che cosa aveva in mente Kokoschka? Probabilmente non l’avrebbe mai saputo. Ora Kokoschka era morto su una strada nell’anno 1988 e presto qualcuno all’istituto si sarebbe accorto della sua assenza.
Quel pomeriggio, alle due, Stefan doveva intraprendere, come da programma, un viaggio autorizzato sotto la direzione di Penlovski e Januskaya. Stefan aveva intenzione di far saltare l’istituto all’una, un’ora prima dell’evento previsto. Ora, erano le undici e quarantatré e decise che doveva agire più rapidamente rispetto ai piani originali, prima che la scomparsa di Kokoschka mettesse tutti in allarme.
Si avvicinò a uno degli schedari più alti, aprì l’ultimo cassetto, che era vuoto, e staccandolo dalle guide lo estrasse completamente. Legata con un filo metallico alla parte posteriore del cassetto, c’era una pistola, una Colt Commander 9 millimetri Parabellum, con un caricatore a nove colpi acquistato durante una delle sue escursioni illegali e che aveva riportato all’istituto in tutta segretezza. Da sotto un altro cassetto estrasse due silenziatori ad alta precisione e altri quattro caricatori.
Ritornato alla scrivania, lavorò velocemente per paura che qualcuno potesse entrare senza bussare; avvitò uno dei silenziatori sulla pistola, tolse la sicura e sistemò l’altro silenziatore e i caricatori nelle tasche del suo camice.
Quando, per l’ultima volta, avrebbe lasciato l’istituto attraverso il tunnel, non avrebbe potuto contare sugli esplosivi per uccidere Penlovski, Januskaya e alcuni altri scienziati. L’esplosione avrebbe abbattuto l’edificio distruggendo tutte le macchine e i documenti, ma che cosa sarebbe successo se anche solo uno dei ricercatori chiave fosse sopravvissuto? Le informazioni necessarie per ricostruire il tunnel erano nelle menti di Penlovski e Januskaya, perciò Stefan progettò di uccidere loro e un altro uomo, Volkaw, prima di programmare il timer ed entrare nel tunnel per ritornare da Laura.
Con il silenziatore montato, la Commander era troppo lunga per entrare completamente nella tasca del suo camice, perciò rivoltò la tasca e ne tagliò il fondo. Con il dito sul grilletto, infilò l’arma nella tasca e la tenne lì, mentre apriva la porta del suo ufficio e si inoltrava nel corridoio.
Il cuore gli batteva all’impazzata. Quella era la parte più pericolosa del piano, l’omicidio, perché erano molte le possibilità che qualcosa andasse storto prima che avesse terminato quel «lavoro» e fosse ritornato nel suo ufficio per programmare il timer sugli esplosivi.
Laura era molto lontana e forse non l’avrebbe mai più rivista.
Lunedì pomeriggio Laura e Chris indossarono una tuta grigia, e dopo che Thelma li ebbe aiutati a srotolare uno spesso materassino da ginnastica nel patio sul retro della casa, si sedettero uno accanto all’altro e cominciarono a fare degli esercizi di respirazione.
«Quando arriva Bruce Lee?» chiese Thelma.
«Alle due», rispose Laura.
«Non è Bruce Lee, zia Thelma», esclamò Chris in tono esasperato. «Continui a chiamarlo Bruce Lee, ma Bruce Lee è morto.»
Il signor Takahami arrivò puntuale alle due. Indossava una tuta blu scuro sulla quale era stampato il nome della sua scuola di arti marziali: Forza Silenziosa. Quando venne presentato a Thelma, le disse: «Lei è una donna veramente simpatica. Mi piace molto il suo disco».
Arrossendo per il complimento, Thelma rispose: «E io le posso dire onestamente che avrei sinceramente desiderato che il Giappone vincesse la guerra».
Henry rise. «Io penso che l’abbiamo vinta.»
Thelma si sedette su una sdraio e rimase a osservare Henry che istruiva Laura e Chris nell’autodifesa, sorseggiando un tè freddo.
L’uomo aveva circa quarant’anni, la parte superiore del corpo ben sviluppata e gambe robuste. Era un maestro di judo e karaté e un esperto di boxe e insegnava una forma di autodifesa basata su diverse arti marziali, un sistema che aveva elaborato lui stesso. Due volte la settimana lasciava Riverside e trascorreva tre ore con Laura e Chris.
Il combattimento, che consisteva in calci, pugni, urla, colpi, giravolte, cadute e improvvisi rotolamenti, era condotto in modo da non fare del male. Le lezioni di Chris erano meno faticose e meno elaborate di quelle di Laura ed Henry lasciava al bambino molte pause per riposarsi e recuperare le forze, ma alla fine di ogni lezione Laura era sempre madida di sudore ed esausta.
Quando Henry se ne fu andato, Laura mandò Chris a farsi una doccia, mentre lei e Thelma arrotolavano il materassino.
«Veramente carino», commentò Thelma.
«Chi? Henry? Direi proprio di sì.»
«Magari prenderò qualche lezione di judo o karaté.»
«Oh, ultimamente il tuo pubblico è stato così scontento?»
«Un colpo basso, Shane.»
«Qualsiasi mezzo è giustificato quando il nemico è terribile e spietato.»
Il pomeriggio seguente, mentre Thelma stava sistemando la valigia nel bagagliaio della sua Camaro per far ritorno a Beverly Hills, disse: «Ehi, Shane, ricordi quella prima famiglia in cui fosti mandata dal McIlroy?»
«I Teagel», rispose Laura. «Flora, Hazel e Mike.»
Thelma si appoggiò contro la fiancata della macchina, calda per il sole, vicino a Laura. «Ti ricordi quando ci raccontasti della passione di Mike per giornali come il National Enquirer?»
«Ricordo i Teagel come fosse ieri.»
«Be’», disse Thelma, «ho pensato molto a quanto ti è successo: questo Custode, il fatto che non invecchi mai, il modo in cui scompare nel nulla e, di riflesso, ho pensato ai Teagel. In un certo senso mi sembra tutto così ironico. Quante volte al McIlroy abbiamo riso alle spalle di quel vecchio pazzo di Mike Teagel. E adesso dove ti ritrovi? Sei la protagonista principale di una storia pazzesca!»
Laura ridacchiò. «Forse farei bene a riconsiderare tutte quelle storie di alieni che vivono nascosti a Cleveland. Che cosa ne dici?»
«Ciò che sto cercando di dire è che… la vita è piena di meraviglie e di sorprese, non tutte piacevoli certamente, e alcuni giorni sono neri come i pensieri della maggior parte degli uomini politici. Ma allo stesso tempo ci sono momenti in cui mi rendo conto che noi tutti siamo qui per una qualche ragione, per quanto enigmatica possa essere. La vita non è priva di senso. Se lo fosse, non vi sarebbe il mistero. Sarebbe monotona, limpida e priva di enigmi come il meccanismo di una macchinetta del caffè.»
Laura scosse la testa.
«Accidenti, ascoltami! Tutto questo discorso complicato per formulare un banale concetto filosofico che, in parole povere, non significa altro che: ‘Coraggio, amica mia’.»
«Tu non sei banale.»
«Mistero», disse Thelma. «Meraviglia. Ci sei in mezzo, Shane, e questa è la vita. Se proprio adesso non c’è altro che oscurità… be’, anche questo passerà.»
Rimasero abbracciate, senza bisogno di dire di più, finché Chris uscì correndo dalla casa con un disegno fatto a matita che aveva preparato per Thelma e che voleva che portasse con sé a Los Angeles. Era una scenetta in cui Tommy Rospo, fermo davanti a un cinema, fissava un cartellone sul quale il nome di Thelma era scritto a caratteri cubitali.
Chris aveva gli occhi pieni di lacrime. «Devi veramente andar via, zia Thelma? Non puoi fermarti un altro giorno?»
Thelma lo abbracciò, poi arrotolò attentamente il disegno come se fosse un’opera d’arte di valore inestimabile. «Mi piacerebbe molto rimanere, Christopher, ma non posso. I miei ammiratori mi stanno reclamando per fare questo film.»
Thelma gli diede un ultimo bacio, entrò in macchina, avviò il motore, abbassò il finestrino e strizzò l’occhio a Laura. «Notizie esotiche, Shane.»
«Mistero.»
«Meraviglia.»
Laura la salutò facendole il segno delle tre dita come nel film Star Trek.
Thelma rise. «Ce la farai, Shane. Nonostante tutte le armi e tutto quello che ho sentito in questi giorni, sono molto meno preoccupata di quanto non lo fossi prima.»
Chris rimase accanto a Laura e guardarono l’auto di Thelma allontanarsi lungo il sentiero finché non scomparve sulla statale.
Il grande ufficio del dottor Vladimir Penlovski si trovava al quarto piano dell’istituto. Quando Stefan entrò nella sala d’aspetto, la trovò deserta, ma udì delle voci provenire dalla stanza accanto. La porta che collegava le due stanze era socchiusa, Stefan la spalancò completamente e vide Penlovski che stava dando istruzioni ad Anna Kaspar, la sua segretaria.
Penlovski alzò lo sguardo, leggermente sorpreso di vedere Stefan. Dovette percepire la tensione sul volto di Stefan, perché si fece cupo e chiese: «C’è qualcosa che non va?»
«È da molto tempo che qualcosa non va», rispose Stefan, «ma ora credo che andrà tutto a posto.» Poi, mentre Penlovski si faceva sempre più serio, Stefan sfilò dalla tasca del camice la Colt Commander con il silenziatore e colpì due volte lo scienziato al petto.
Anna Kaspar saltò in piedi, lasciando cadere la matita e il blocco degli appunti.
Non gli piaceva uccidere le donne, non gli piaceva uccidere nessuno, ma ora non aveva altra scelta. La colpì tre volte. Crollò all’indietro sulla scrivania.
Priva di vita, scivolò giù dalla scrivania e stramazzò sul pavimento. Gli spari non erano stati più rumorosi del sibilo di un gatto arrabbiato e il tonfo del corpo non era stato tale da poter attirare l’attenzione.
Penlovski era accasciato sulla poltrona, gli occhi spalancati e la bocca aperta. Una delle pallottole doveva avergli trapassato il cuore e sulla camicia c’era solo una macchiolina di sangue; la circolazione doveva essersi interrotta in meno di un istante.
Stefan indietreggiò e uscì dalla stanza richiudendo la porta. Attraversò la sala d’aspetto e arrivò sul corridoio.
Il cuore gli batteva all’impazzata. Con quei due omicidi aveva tagliato per sempre i ponti con il suo tempo, con la sua gente. D’ora in poi, l’unica vita che gli era possibile vivere era nella dimensione temporale di Laura. Ora non c’era più ritorno.
Con le mani, e la pistola, sprofondate nelle tasche, s’incamminò nel corridoio verso l’ufficio di Januskaya. In prossimità della porta, vide uscire due colleghi che passandogli accanto lo salutarono. Stefan si fermò per vedere se fossero diretti nell’ufficio di Penlovski. Se così fosse stato, avrebbe dovuto uccidere anche loro.
Quando si fermarono davanti agli ascensori tirò un sospiro di sollievo. Più cadaveri lasciava in giro e maggiori erano le possibilità che qualcuno vi si imbattesse facendo scattare l’allarme che gli avrebbe impedito di puntare il timer sugli esplosivi e di fuggire attraverso la Via del Lampo.
Entrò nell’ufficio di Januskaya, anch’esso preceduto da una sala d’aspetto. Seduta alla scrivania, c’era la segretaria che, come Anna Kaspar, era stata imposta dalla polizia segreta. Alzò lo sguardo e sorrise.
«Il dottor Januskaya è qui?» domandò Stefan.
«No. È in archivio con il dottor Volkaw.»
Volkaw era il terzo uomo che doveva eliminare. Il fatto che lui e Januskaya si trovassero nello stesso luogo semplificava le cose.
Nell’archivio venivano raccolti e studiati tutti i libri, i giornali, le riviste e ogni materiale che i viaggiatori del tempo avevano riportato dai loro viaggi programmati. In quei giorni gli uomini che avevano concepito la Via del Lampo erano impegnati in una analisi dei punti chiave in cui le alterazioni del flusso naturale degli eventi potevano provocare i cambiamenti nel corso della storia che loro desideravano.
Mentre scendeva con l’ascensore, Stefan sostituì il silenziatore della pistola con quello di ricambio. Il primo avrebbe smorzato il suono di un’altra dozzina di colpi, prima che gli schermi acustici fossero seriamente danneggiati, ma Stefan non voleva sfruttarlo. Il secondo silenziatore era una sicurezza in più. Cambiò velocemente anche il caricatore con uno completo.
Il corridoio al primo piano era sempre pieno di gente che andava e veniva da un laboratorio all’altro. Sempre con le mani in tasca, si recò direttamente nell’archivio.
Quando Stefan entrò, Januskaya e Volkaw si trovavano accanto a un tavolo di legno chini sulla copia di una rivista, e stavano discutendo animatamente, ma a bassa voce. Gli diedero un’occhiata frettolosa, poi ripresero immediatamente la loro discussione, dando per scontato che Stefan fosse lì per consultare dei documenti.
Stefan infilò due pallottole nella schiena di Volkaw.
Januskaya reagì in preda allo choc quando vide Volkaw accasciarsi sul tavolo.
Stefan sparò a Januskaya in faccia, poi si voltò e lasciò la stanza, richiudendo la porta dietro di sé. Temendo di non riuscire a nascondere la propria agitazione ai colleghi, si finse perso nei suoi pensieri, con la speranza che non avrebbero osato avvicinarlo. Si diresse rapidamente verso gli ascensori, senza correre, andò nel suo ufficio al terzo piano, infilò un braccio dietro lo schedario e girò al massimo il disco del timer, dandosi cinque minuti di tempo per raggiungere il tunnel e lasciare l’istituto prima che fosse ridotto in macerie.
Con l’apertura dell’anno scolastico Laura ottenne l’autorizzazione che Chris fosse educato a casa, da un’insegnante autorizzata dallo Stato. Si chiamava Ida Palomar e a Laura ricordava Marjorie Main, l’ultima attrice che aveva interpretato i film di Ma e Pa Kettle. Ida era un donnone dall’aria burbera, ma d’animo generoso, ed era un brava insegnante.
Il Giorno del Ringraziamento Thelma chiamò da Beverly Hills per far loro gli auguri. Laura prese la chiamata in cucina, dove aleggiava il profumo del tacchino arrosto. Chris era nel salone e stava leggendo Shel Silverstein.
«Oltre che per farti gli auguri», disse Thelma, «ti ho chiamato per invitarti a trascorrere la settimana di Natale con me e Jason.»
«Jason?» chiese Laura.
«Jason Gaines», proseguì Thelma, «è quello che dirige il film che sto facendo. Mi sono trasferita da lui.»
«Ma lui lo sa?»
«Ascolta, Shane, sono io che faccio le battute spiritose.»
«Oh, scusa.»
«Dice che mi ama. Ma è pazzesco, o che cosa? Voglio dire, siamo di fronte a un uomo abbastanza piacevole, che ha solo cinque anni più di me, che non dimostra alcuna alterazione visibile, un regista cinematografico di enorme successo, che vale un sacco di milioni, che poteva avere quasi tutte le attricette che voleva e invece l’unica che vuole sono io. Inutile dire che è pazzo, anche se non si direbbe quando gli parli. Passa per uno del tutto normale. Dice che ciò che ama di me è il mio cervello…»
«Ma lui lo sa quanto sia ‘malato’?»
«Rieccoti, Shane. Dice che ama il mio ingegno e il mio umorismo. E persino eccitato dal mio corpo, oppure, se non è eccitato, è il primo uomo nella storia che riesce a simulare un’erezione.»
«Tu hai un corpo desiderabile.»
«Be’, sto cominciando a considerare la possibilità che non sia poi tanto brutto come pensavo. Cioè, se consideriamo la secchezza come requisito della bellezza femminile. Ma anche se adesso riesco persino a guardare il mio corpo allo specchio, c’è sempre questa faccia che ci sta sopra.»
«Tu hai un volto molto grazioso, soprattutto ora, senza l’aureola di capelli verdi o rossi.»
«Sì, ma non è la tua faccia, Shane. E questo vuol dire che io sono pazza da legare a invitarti qui per Natale. Jason ti vedrà e un attimo dopo mi ritroverò seduta su un sacco di spazzatura sul bordo della strada. Ma che cosa ne dici? Verrai? Stiamo girando il film a Los Angeles e nei dintorni e termineremo le scene principali verso il 10 di dicembre. Poi Jason sarà occupatissimo, fra il montaggio e le altre mille cose che ci sono da fare, ma per la settimana di Natale ci fermeremo e basta. Ci piacerebbe averti qui con noi. Dimmi di sì.»
«Mi piacerebbe incontrare l’uomo tanto intelligente da essersi innamorato di te, Thelma, ma non so. Mi sento… più sicura qui.»
«Ma che cosa credi, che siamo pericolosi?»
«Sai che cosa voglio dire.»
«Ma puoi portarti un Uzi.»
«E che cosa ne penserà Jason?»
«Be’, gli dirò che sei una comunista sfegatata, che sei a favore della conservazione dello sperma delle balene, che sei per l’eliminazione dei conservanti, che ti batti contro lo sterminio dei parrocchetti e che tieni sempre con te un Uzi, nel caso scoppiasse la rivoluzione. Si berrà tutto. Questa è Hollywood, ragazza mia. La maggior parte degli attori con cui lavora sono anche più pazzi.»
Attraverso la volta del salone, Laura poteva vedere Chris, raggomitolato nella poltrona con il suo libro.
Sospirò. «Forse è ora che usciamo nel mondo una volta tanto. E ho l’impressione che sarà un Natale difficile. Io e lui da soli. Questo è il primo senza Danny. Mi sento così inquieta…»
«Sono passati dieci mesi, Laura», replicò Thelma dolcemente.
«Ma non ho nessuna intenzione di abbassare la guardia.»
«E non devi. Dicevo sul serio a proposito dell’Uzi. Portati l’intero arsenale, se questo ti farà sentire meglio. Ma vieni.»
«Be’… d’accordo.»
«Fantastico! Non vedo l’ora che tu incontri Jason!»
«Sbaglio o il sentimento che questo svitato hollywoodiano prova per te è contraccambiato?»
«Sono pazza di lui», ammise Thelma.
«Sono felice per te, Thelma. In questo istante, infatti, sono qui con un sorriso che non finisce più e da mesi nulla mi aveva fatto sentire così bene.»
Ciò che aveva detto era vero. Ma quando riagganciò, avvertì più che mai la mancanza di Danny.
Non appena ebbe caricato il timer, Stefan lasciò il suo ufficio al terzo piano e andò nel laboratorio principale al pianterreno. Erano le dodici e quattordici minuti e dato che, come da programma, il viaggio era stato progettato per le due del pomeriggio, il laboratorio principale era deserto. Le finestre erano chiuse ermeticamente e molte lampade erano ancora spente, come poco più di un’ora prima, quando era tornato dalle San Bernardino Mountains. I numerosi quadranti, indicatori e grafici delle macchine lampeggiavano. Più avvolto dall’ombra che dalla luce, il tunnel lo stava attendendo.
Quattro minuti alla detonazione.
Andò direttamente al quadro principale di programmazione e regolò attentamente i quadranti, gli interruttori e le leve, programmando il tunnel per la destinazione desiderata, California del sud, vicino a Big Bear, alle otto di sera del 10 gennaio 1988, solo qualche ora dopo che Danny Packard era stato ucciso. Aveva fatto i calcoli giorni addietro e li aveva annotati su un foglio di carta. Fu perciò in grado di riprogrammare la macchina in un solo minuto. Se fosse potuto arrivare nel pomeriggio del 10, prima dell’incidente e dello scontro a fuoco con Kokoschka, l’avrebbe fatto, nella speranza di salvare Danny. Invece avevano scoperto che un viaggiatore del tempo non poteva rivisitare lo stesso luogo se il suo secondo arrivo veniva programmato leggermente prima del precedente. C’era un meccanismo naturale che impediva a un viaggiatore di trovarsi nel luogo in cui avrebbe potuto incontrare un altro se stesso nel viaggio precedente. Poteva ritornare a Big Bear dopo che aveva lasciato Laura in quella sera di gennaio, poiché, essendo già partito da quella strada, non correva più il rischio di incontrare se stesso in quel luogo. Ma se avesse programmato un’ora di arrivo che gli avesse consentito di incontrare se stesso, sarebbe semplicemente rimbalzato indietro nell’istituto, senza andare da nessuna parte. Questo era uno dei tanti aspetti misteriosi del viaggio nel tempo che avevano appreso e attorno al quale stavano lavorando, ma che non comprendevano.
Quando ebbe finito di programmare il tunnel, controllò l’indicatore di latitudine e longitudine per assicurarsi che sarebbe arrivato approssimativamente nell’area di Big Bear. Quando guardò l’orologio che indicava il tempo di arrivo, rimase sbigottito nel vedere che segnava le otto di sera del 10 gennaio 1989, invece del 1988. Ora il tunnel lo avrebbe trasportato a Big Bear non qualche ora dopo la morte di Danny, ma un anno dopo.
Era sicuro che i suoi calcoli fossero corretti. Aveva avuto tempo a disposizione per farli e ricontrollarli, durante le due precedenti settimane. Evidentemente, nervoso com’era, aveva commesso un errore nell’introdurre i dati. Avrebbe dovuto riprogrammare il tunnel.
Meno di tre minuti all’esplosione.
Studiò i numeri sul foglio di carta, il prodotto finale dei suoi lunghi calcoli. Mentre stava per azionare una manopola di regolazione per cancellare l’attuale programma e reinserire nuovamente i dati, nel corridoio al pianterreno echeggiò un grido di allarme. Sembravano provenire dall’ala nord dell’edificio, più o meno dalla zona in cui si trovava la stanza dell’archivio.
Qualcuno aveva trovato i corpi di Januskaya e Volkaw.
Udì altre grida. Gente che correva.
Guardò nervosamente la porta chiusa che dava sul corridoio e decise che non c’era tempo per riprogrammare. Si sarebbe dovuto accontentare di ritornare da Laura un anno dopo che l’aveva lasciata.
Con la Colt Commander munita di silenziatore nella mano destra, puntò verso il tunnel. Non volle rischiare di perdere tempo per recuperare il cappotto nell’angolo dove l’aveva lasciato un’ora prima.
Il rumore nel corridoio si fece più vicino.
Era a due passi dall’entrata del tunnel, quando la porta del laboratorio fu spalancata con una tale forza che colpì il muro con uno schianto.
«Fermo dove sei!»
Stefan riconobbe la voce, ma gli parve impossibile che potesse essere vero. Alzò la pistola mentre si girava per affrontare l’uomo che aveva fatto irruzione nel laboratorio: Kokoschka.
Impossibile. Kokoschka era morto. Kokoschka lo aveva seguito a Big Bear la notte del 10 gennaio 1988 e lui aveva ucciso Kokoschka su quella strada.
Sbigottito, Stefan sparò due colpi, entrambi a vuoto.
Kokoschka rispose al fuoco. Una pallottola colpì Stefan al petto, in alto a sinistra, mandandolo a sbattere contro il bordo del tunnel. Rimase in piedi e sparò altri tre colpi, obbligando Kokoschka a tuffarsi a terra per ripararsi e a rotolare dietro un bancone del laboratorio.
Mancavano meno di due minuti all’esplosione.
Stefan non sentì dolore perché era sotto choc. Ma il suo braccio sinistro era inutilizzabile, ciondolava inerte. Una macchia nera, oleosa, insistente, cominciò a farsi strada nel suo campo visivo.
Solo qualche luce era stata lasciata accesa, ma all’improvviso e in modo uguale tutte tremolarono e si spensero, lasciando la stanza vagamente illuminata dal debole luccichio dei quadranti e degli indicatori. Per un istante Stefan pensò che la luce che si stava estinguendo fosse un ulteriore segno che la sua coscienza lo stava abbandonando. Poi capì che era venuta nuovamente a mancare l’energia elettrica, evidentemente in seguito all’opera di sabotatori perché non si erano udite le sirene che avvertivano l’imminenza di un attacco aereo.
Kokoschka sparò due volte dall’oscurità e le scintille che uscirono dalla bocca dell’arma indicarono la sua posizione. Stefan sprecò gli ultimi tre colpi che aveva in canna, sebbene non avesse alcuna speranza di colpire Kokoschka attraverso il marmo del bancone.
Fortunatamente il tunnel era ancora in funzione perché alimentato da un generatore autonomo. Stefan gettò la pistola e con la mano destra si afferrò al bordo del tunnel. Si spinse dentro e strisciò freneticamente verso un punto a tre quarti del passaggio, dove avrebbe attraversato il campo energetico per giungere a Big Bear, nell’anno 1989.
Mentre si addentrava carponi nell’oscuro passaggio, realizzò improvvisamente che il timer era collegato alla rete di distribuzione pubblica. Il conto alla rovescia era stato interrotto quando le luci si erano spente.
Con sgomento capì perché Kokoschka non era morto a Big Bear, nel 1988. Kokoschka non aveva ancora fatto quel viaggio. Solo ora Kokoschka era venuto a conoscenza della sua perfidia, quando aveva scoperto i corpi di Januskaya e Volkaw. Prima che l’energia elettrica fosse ripristinata, Kokoschka avrebbe perquisito l’ufficio di Stefan, trovato il detonatore e disinnescato gli esplosivi. L’istituto non sarebbe stato distrutto.
Stefan esitò, chiedendosi se fosse il caso di tornare indietro.
Dietro di sé udì altre voci nel laboratorio. Altri uomini della polizia segreta erano accorsi in aiuto di Kokoschka.
Continuò ad avanzare.
Che cosa ne sarebbe stato di Kokoschka? Il capo della polizia segreta evidentemente si sarebbe trasferito al 10 gennaio 1988 per cercare di uccidere Stefan sulla Statale 330. Ma sarebbe riuscito solo a uccidere Danny, prima di soccombere a sua volta. Stefan era abbastanza sicuro che la morte di Kokoschka fosse un destino immutabile. Ma aveva bisogno di pensare in modo più approfondito ai paradossi del viaggio nel tempo, per capire se vi fosse una qualche possibilità che Kokoschka potesse evitare di essere ucciso nel 1988, una morte a cui Stefan aveva già assistito.
Le complicazioni legate al viaggio nel tempo creavano una certa confusione anche quando venivano esaminate a mente lucida. Nelle sue condizioni, ferito e concentrato nello sforzo di rimanere cosciente, questo pensiero non fece che stordirlo ancora di più.
Più tardi. Ci avrebbe pensato più tardi. Dietro di lui, nel laboratorio avvolto nell’oscurità, qualcuno cominciò a sparare contro l’ingresso del tunnel, nella speranza di colpirlo prima che potesse raggiungere il punto di partenza.
Superò strisciando gli ultimi centimetri. Verso Laura, verso una nuova vita in un’epoca lontana. Ma aveva sperato di chiudere per sempre il tunnel fra l’era in cui viveva e quella in cui stava per calarsi. Invece il tunnel sarebbe rimasto aperto e loro potevano viaggiare attraverso il tempo per venire a prendere lui… e Laura.
Laura e Chris trascorsero il Natale con Thelma nella casa di Jason Gaines a Beverly Hills. Era una villa di venti stanze, stile Tudor, circondata da sei acri di terreno cintati. Era una proprietà incredibilmente grande dove il costo del terreno al metro quadro aveva già da tempo raggiunto cifre incredibili. Durante la costruzione, negli anni Quaranta, il proprietario era un produttore di commedie brillanti e film di guerra, non si era certo badato a spese. C’erano soffitti a cassettoni molto elaborati, alcuni in legno di quercia e altri in rame; le modanature erano minutamente intarsiate; le finestre avevano vetri a piombo colorati o in cristallo molato e penetravano così a fondo negli spessi muri che ci si poteva comodamente sedere sugli ampi davanzali. Gli architravi interni erano decorati con pannelli scolpiti a mano: tralci di vite e rose, putti e stendardi, cervi in corsa, uccelli; gli architravi esterni erano di granito scolpito e su due erano incastonati grappoli di coloratissimi frutti in ceramica, stile della Robbia. Il terreno che circondava la casa era un parco curato in modo molto meticoloso. Dei sentieri in pietra serpeggiavano in un paesaggio tropicale abitato da uccelli del paradiso e ricco di palme, fichi, azalee cariche di fiori di un rosso vivido, felci e fiori stagionali di ogni specie.
Laura e Chris arrivarono nel pruno pomeriggio di sabato, la vigilia di Natale, e Thelma li portò a fare un giro della casa e dei dintorni, dopo di che si sedettero a bere una cioccolata calda e mangiare dei dolcetti preparati dal cuoco e serviti da una cameriera sotto il portico che dava sulla piscina.
«Non trovi che sia pazzesco tutto questo, Shane? Chi avrebbe mai detto che la stessa ragazza che ha trascorso quasi dieci anni in topaie come il McIlroy e Caswell, potesse finire a vivere qui, senza dover prima attendere di reincarnarsi in una principessa?»
La casa era così lussuosa e imponente che avrebbe indotto chiunque la possedesse a sentirsi un vip e a mostrarsi un po’ presuntuoso. Ma quando Jason Gaines rientrò a casa, alle quattro, si rivelò molto alla mano, più di chiunque altro Laura conoscesse, ed era straordinario in una persona che da diciassette anni viveva nel mondo dello spettacolo. Aveva trentotto anni, cinque più di Thelma, e assomigliava a Robert Vaughn da giovane. Era molto più che «piacente», come l’aveva descritto Thelma. Non era trascorsa neanche mezz’ora dal suo rientro che lui e Chris si ritirarono in una delle tre stanze adibite ai suoi hobby a giocare con un trenino elettrico che correva su una piattaforma grande quattro metri e mezzo per sei, con tanto di villaggi ricostruiti minuziosamente, paesaggi, mulini a vento, cascatelle, gallerie e ponti.
Quella sera, quando Chris si era già addormentato nella stanza accanto a quella di Laura, Thelma andò a trovarla. In pigiama si sedettero a gambe incrociate sul letto, come se fossero ancora ragazzine, mangiando pistacchi tostati e bevendo champagne.
«La cosa più strana di tutte, Shane, è che nonostante le mie origini io sento di appartenere a questo posto. Non mi sento fuori luogo.»
E neanche il suo aspetto sembrava fuori luogo. Sebbene fosse sempre lei, Thelma Ackerson, negli ultimi mesi era cambiata. I capelli erano tagliati e pettinati con maggior cura, per la prima volta nella sua vita era abbronzata e inoltre aveva un atteggiamento molto più femminile. Indossava un pigiama meno vistoso e più sexy del solito: aderente, senza disegni, di seta color pesca. Tuttavia portava ancora le pantofole da coniglietto.
«Le pantofole da coniglietto», disse, «mi ricordano chi sono. Non puoi montarti la testa se porti un paio di babbucce così. Non puoi perdere il senso della realtà e cominciare ad atteggiarti a star o a ricca signora se continui a indossare delle pantofole da coniglietto. Inoltre mi danno un senso di sicurezza, perché sono allegre. È come se dicessero: ‘Nulla al mondo potrà deprimerti a tal punto da impedirti di essere stupida e frivola’. Se morissi e dovessi ritrovarmi all’inferno, potrei sopportare quel posto se avessi con me le mie pantofole.»
Il giorno di Natale fu come un sogno meraviglioso. Jason si rivelò un sentimentale tradizionalista. Insistè perché si radunassero intorno all’albero di Natale in pigiama, che aprissero i loro doni in allegria, che cantassero le filastrocche di Natale e che mentre aprivano i pacchetti abbandonassero l’idea di una sana colazione preferendo mangiare biscotti, dolci, nocciole, gelatine e pop corn caramellati. Dimostrò anche che il giorno prima non aveva giocato con Chris solo per dimostrare di essere un bravo padrone di casa. Tutto il giorno di Natale lo trascorse infatti con il bambino, facendogli fare tanti giochi diversi, sia in casa sia fuori ed era chiaro che amava i bambini e aveva con loro un rapporto naturale. Quando furono a cena Laura si rese conto che Chris aveva riso più in un giorno che negli ultimi undici mesi.
Quando lo mise a letto, Chris le disse: «È stato un giorno fantastico, vero mamma?»
«Uno dei più belli in assoluto», concordò Laura.
«Tutto ciò che vorrei», mormorò Chris scivolando nel sonno, «è che papà fosse qui a giocare con noi.»
«Io vorrei la stessa cosa, dolcezza mia.»
«Ma in un certo modo era qui, perché ho pensato molto a lui. Lo ricorderò sempre, mamma, voglio dire com’era, anche dopo tanti e tanti anni? Me lo ricorderò?»
«Io ti aiuterò a ricordarlo, bambino mio.»
«A volte già mi succede di non ricordare alcune cose di lui. E ci devo pensare parecchio per ricordarle. Ma io non voglio dimenticare perché era il mio papà.»
Quando si fu addormentato, Laura andò nella sua stanza. Si sentì sollevata quando, pochi minuti dopo, Thelma arrivò per fare un’altra chiacchierata. Senza di lei avrebbe dovuto sicuramente lottare per non lasciarsi sopraffare dalla tristezza.
«Se dovessi avere dei bambini, Shane», disse Thelma salendo sul letto di Laura, «pensi che ci sarà qualche possibilità che siano ammessi a vivere nella società, oppure sarebbero rinchiusi in qualche istituto per bambini mostruosi, tipo lebbrosario?»
«Non fare la stupida.»
«Oh, be’, certamente potrei permettermi di sottoporli a qualche operazione di chirurgia plastica. Voglio dire, anche se venisse fuori che la loro specie è ambigua, potrei permettermi di farla diventare passabilmente umana.»
«A volte il modo in cui ti umili mi fa veramente incazzare.»
«Scusa. Ma è dovuto al fatto che non ho mai potuto godere del sostegno di una madre o di un padre. Ho la sicurezza e nello stesso tempo il dubbio di un orfano.» Rimase in silenzio per un attimo, poi disse: «Ehi, sai una cosa? Jason mi vuole sposare. Al principio ho pensato che fosse posseduto da un demonio e fosse incapace di controllare la lingua, ma mi ha assicurato che non abbiamo bisogno di un esorcista, anche se evidentemente deve aver sofferto di un leggero colpo apoplettico. Che cosa ne pensi?»
«Che cosa ne penso io? Ma che cosa importa? Be’, direi che è un tipo veramente giusto. Te lo terrai ben stretto, non è vero?»
«Ho paura che sia troppo buono per me.»
«Nessuno è troppo buono per te. Sposalo.»
«Ho paura che non funzionerà e allora finirò per essere distrutta.»
«E se non ci provi», replicò Laura, «sarai ben più che distrutta. Sarai sola.»
Stefan sentì il familiare, spiacevole formicolio che accompagnava il viaggio nel tempo, una strana vibrazione che passava internamente dalla pelle, attraverso la carne, nel midollo delle ossa, poi ritornava velocemente dalle ossa alla carne, alla pelle. Lasciò il tunnel e nello stesso istante eccolo avanzare a passo incerto lungo un ripido pendio ricoperto di neve nelle montagne della California, la notte del 10 gennaio 1989.
Inciampò, cadde sul lato in cui era stato ferito, rotolò fino in fondo al pendio, dove si fermò contro un tronco d’albero marcio. Per la prima volta da quando era stato ferito avvertì il dolore. Urlò e cadde sulla schiena, mordendosi la lingua per rimanere cosciente, socchiudendo gli occhi di fronte a quella notte tumultuosa.
Un’altra saetta lacerò le tenebre e la luce sembrò pulsare da quello squarcio. Nel riverbero spettrale della terra ricoperta di neve, al bagliore dei lampi, Stefan vide che si trovava in una radura nella foresta. Le sagome nere degli alberi spogli protendevano i loro rami scheletrici verso il cielo lampeggiante, come se fossero fanatici seguaci in adorazione di un dio brutale. I sempreverdi, i rami ripiegati sotto la pesante coltre della neve, si ergevano solenni.
Arrivando in un’epoca diversa dalla propria, un viaggiatore infrangeva le forze della natura in modo tale che era necessaria la dispersione di una incredibile quantità di energia. Indipendentemente dalle condizioni atmosferiche presenti nel punto di arrivo, lo squilibrio veniva compensato da una straordinaria manifestazione di lampi nel cielo, e questo era il motivo per cui la strada eterica che i viaggiatori del tempo percorrevano veniva chiamata la Via del Lampo. Per motivi che nessuno era stato in grado di appurare, un ritorno all’istituto, ovvero nell’era a cui apparteneva il viaggiatore, non era contrassegnato da nessuno spettacolo pirotecnico celeste.
I lampi, come sempre accadeva, da fulmini degni dell’apocalisse si trasformarono in lontani tremolii. In un minuto la notte fu di nuovo buia e calma.
Con l’affievolirsi dei lampi, il dolore si era fatto più acuto. Sembrò quasi che la saetta che aveva squarciato la volta celeste fosse penetrata nel suo petto, nella sua spalla e nel suo braccio sinistro.
Si mise in ginocchio, poi si alzò in piedi tremante, turbato dal pensiero che aveva poche possibilità di uscire vivo dal bosco. Il cielo nuvoloso era nero come la pece, impenetrabile. Sebbene non ci fosse vento, l’aria invernale era gelida e lui indossava soltanto un leggero camice sopra una camicia e un paio di pantaloni.
Inoltre, forse era distante chilometri da una strada o da un qualsiasi punto di riferimento attraverso il quale potesse riconoscere la sua posizione. Quanto al tunnel, la sua precisione era notevole per quanto riguardava la distanza temporale ma non altrettanto per quanto riguardava il punto di arrivo.
Solitamente il viaggiatore atterrava entro un raggio di novanta metri rispetto alla destinazione scelta, ma in altre occasioni poteva arrivare anche a quindici, venti chilometri di distanza, com’era successo il 10 gennaio 1988, quando era andato per salvare Laura, Danny e Chris dal mortale autocarro dei Robertson.
Nei viaggi precedenti aveva sempre portato con sé una cartina della zona in cui si trovava il suo obiettivo e una bussola, in modo da potersi orientare nel caso si fosse ritrovato in un posto completamente isolato, proprio com’era accaduto adesso. Ma questa volta, avendo lasciato il cappotto nel laboratorio, non aveva né bussola né cartina geografica e il cielo nuvoloso non gli permetteva di trovare la strada per uscire dalla foresta con l’aiuto delle stelle.
Immerso nella neve quasi fino al ginocchio, con indosso un paio di scarpe normali, capì che avrebbe dovuto muoversi immediatamente, altrimenti non sarebbe più riuscito a staccarsi dal terreno a causa del gelo. Si guardò attorno, sperando in un’ispirazione, ma alla fine scelse una direzione a caso e si diresse a sinistra, cercando le orme di un cervo o un altro sentiero naturale che lo aiutassero a trovare un passaggio attraverso la foresta.
Tutta la parte sinistra, dal collo fino alla cintola, pulsava per il dolore. Si augurò che la pallottola non avesse colpito un’arteria e che la perdita di sangue fosse abbastanza lenta da consentirgli di raggiungere Laura e di vedere il suo volto, il volto che amava, un’ultima volta prima di morire.
Il primo anniversario della morte di Danny cadde di martedì e nonostante Chris non avesse fatto menzione del significato di quella data, ne era cosciente. Il bambino fu insolitamente tranquillo. Trascorse gran parte di quella triste giornata giocando silenziosamente ai Dominatori dell’Universo, un genere di gioco che solitamente era accompagnato da vocalizzi che imitavano gli spari delle armi laser, le spade che cozzavano e i motori delle navi spaziali. Più tardi si distese sul letto a leggere dei fumetti. Resistette agli sforzi di Laura di farlo uscire da quell’isolamento che si era autoimposto, e probabilmente fu la cosa migliore. Qualsiasi tentativo di dimostrarsi allegra non avrebbe fatto che deprimerlo ulteriormente, consapevole com’era che anche lei stava lottando con tutte le sue forze per non pensare.
Thelma, che aveva chiamato qualche giorno prima per annunciare che si era decisa a sposare Jason Gaines, telefonò ancora quella sera alle sette e un quarto, giusto per chiacchierare un po’. Laura prese la chiamata nel suo studio, dov’era sempre impegnata in una strenua lotta con il libro che l’aveva occupata nell’ultimo anno.
«Ehi, Shane, sai che cosa mi è successo? Ho conosciuto Paul McCartney! Era a Los Angeles per un contratto di registrazione ed eravamo allo stesso party venerdì sera. Quando l’ho visto si stava infilando una tartina in bocca. Mi ha salutato. Aveva le labbra sporche di briciole ed era semplicemente uno schianto. Mi ha detto che aveva visto i miei film e che pensava che fossero veramente belli. Poi abbiamo parlato, ma ci credi? Dobbiamo aver parlato almeno una ventina di minuti, poi è successa la cosa più strana.»
«Hai scoperto che mentre gli stavi parlando l’hai spogliato.»
«Be’, è sempre molto bello, sai, con quel viso da angioletto per cui abbiamo perso la testa più di vent’anni fa, ma ora è segnato dall’esperienza, molto sofisticato e con un velo estremamente affascinante di tristezza negli occhi. Era pazzescamente divertente e fascinoso. Al principio forse ho desiderato spogliarlo, sì, e vivere una volta per tutte quella fantasia. Ma poi, più parlava e meno mi appariva come un dio, mi sembrava sempre più una persona e nel giro di qualche minuto, Shane, il mito è svanito. Non è niente di più che un semplice uomo attraente, di mezza età. Che cosa ne pensi?»
«Scusa, ma che cosa dovrei pensare?»
«Non so», disse Thelma. «Sono un po’ confusa. Ma un mito vivente non dovrebbe continuare a incutere soggezione anche dopo che ci hai parlato per venti minuti? Voglio dire, finora ho incontrato un sacco di divi e tutti hanno perso i loro aspetto divino, ma questo era McCartney.»
«Be’, se proprio vuoi sapere la mia opinione, il fatto che abbia perso così improvvisamente il suo alone divino non è certo un fatto negativo per lui, ma mi sembra invece molto positivo per quanto ti riguarda. Hai raggiunto una nuova maturità, Ackerson.»
«Questo vuol dire che devo smettere di vedere i vecchi film degli Stooges, ogni sabato mattina?»
«Quelli ti sono permessi, ma le lotte per il cibo sono qualcosa che appartengono definitivamente al passato per te.»
Quando Thelma riappese, alle otto meno dieci, Laura si sentiva leggermente meglio, perciò dal libro passò alla fiaba di Sir Tommy Rospo. Aveva scritto solo due frasi quando l’oscurità al di là dei vetri fu squarciata da un improvviso lampo, tanto luminoso da far nascere pensieri sinistri di un olocausto nucleare. Il tuono che seguì scosse la casa fino alle fondamenta, come se la palla d’acciaio di un demolitore fosse stata lanciata contro uno dei muri. Si alzò in piedi di scatto. Una seconda saetta illuminò le finestre come se fossero gli schermi di un televisore e il tuono che seguì fu ancora più forte del precedente.
«Mamma!»
Laura si voltò e vide Chris sulla porta. «Va tutto bene», disse. Chris corse da lei. Laura si sedette sulla poltrona e lo prese sulle ginocchia. «Va tutto bene. Non avere paura.»
«Ma non sta piovendo», esclamò Chris. «Perché ci sono questi tuoni così forti se non piove neppure?»
Fuori, la serie di lampi e di tuoni continuò per circa un minuto, poi si affievolì. La potenza era stata tale che Laura immaginò che al mattino avrebbero trovato il cielo a pezzi, enormi frammenti come quelli di un gigantesco guscio.
Non erano trascorsi cinque minuti da quando aveva lasciato la radura in cui era arrivato, che Stefan fu costretto a fermarsi e ad appoggiarsi contro l’enorme tronco di un pino. Il dolore per la ferita lo faceva sudare, anche se allo stesso tempo tremava per il freddo intenso, troppo debole per rimanere in piedi, ma terrorizzato all’idea di sedersi e di cadere in un sonno senza fine. Con i rami del pino ripiegati su di lui, ebbe la sensazione di essersi rifugiato sotto il manto nero della Morte, da cui poteva non riemergere.
Prima di mettere a letto Chris, Laura preparò due coppe di gelato al gusto di nocciola e cocco. Mangiarono il gelato in cucina e il bambino parve più sollevato e sereno. Forse lo strano fenomeno atmosferico lo aveva distolto dal pensiero della morte. Continuò infatti a parlare di fulmini e saette, di quello che aveva spezzato la corda dell’aquilone ed era finito nel laboratorio del dottor Frankenstein, nel vecchio film di James Whale che aveva visto per la prima volta una settimana prima, del fulmine che aveva spaventato Paperino in un cartone animato di Walt Disney e della notte tempestosa nella Carica dei 101, durante la quale Crudelia Demon aveva minacciato la vita dei cuccioli.
Quando lo mise a letto e gli ebbe dato il bacio della buonanotte, Laura si accorse che sul viso di Chris era scomparsa l’espressione pensierosa che per tutto il giorno non l’aveva abbandonato. Si addormentò con un sorriso sulle labbra, un mezzo sorriso. Lei si sedette in una poltrona accanto al letto e attese finché non fu completamente addormentato, anche se non aveva più paura e la sua presenza non era necessaria. Rimase semplicemente perché aveva bisogno di guardarlo per un po’.
Ritornò nel suo studio alle nove e un quarto, ma prima di sedersi di nuovo al computer, si fermò davanti a una finestra e rimase a guardare il prato innevato, la striscia nera del sentiero ghiaioso che conduceva alla lontana statale, poi rivolse lo sguardo al cupo cielo senza stelle. Qualcosa in quel temporale l’aveva profondamente turbata. Non tanto perché era stato così insolito, né per la sua carica potenzialmente distruttiva, ma perché la sua potenza senza precedenti e quasi soprannaturale le era in un certo senso… familiare. Le sembrava di ricordare di aver assistito a una simile manifestazione in un’altra occasione, ma non riusciva a ricordare quando. Era una sensazione strana, simile a un dejà vu.
Andò nella camera da letto principale e controllò il pannello del sistema di sicurezza per assicurarsi che l’allarme fosse inserito. Da sotto il letto tirò fuori l’Uzi e lo portò nel suo studio. Lo mise per terra accanto alla poltrona.
Stava per sedersi quando un lampo squarciò di nuovo la notte, seguito immediatamente dal boato di un tuono. Un altro lampo, poi un altro e un altro ancora si rifletterono nei vetri come una serie di facce spettrali che sbirciavano, fatte di luce ectoplasmica. Mentre il cielo era percorso da fremiti scintillanti, Laura si precipitò nella stanza di Chris per calmarlo. Con sorpresa si accorse che il bambino non si era svegliato, forse perché il frastuono sembrava parte di un sogno che stava facendo sui cuccioli dalmata in una tempestosa notte di avventura.
Di nuovo, non una goccia di pioggia. I lampi e i tuoni svanirono rapidamente, ma non la sua angoscia.
Stefan vide strane sagome nere agitarsi nell’oscurità, esseri che scivolavano fra gli alberi e lo spiavano con i loro occhi più neri dei loro corpi, e anche se lo spaventavano, sapeva che non erano reali, solo dei fantasmi creati dalla sua mente sempre più disorientata. Continuava ad avanzare faticosamente nonostante il freddo, le punture degli aghi dei pini, le spine taglienti dei rovi, il terreno ghiacciato che sotto i suoi piedi scricchiolava come il piatto di un fonografo. Il dolore che avvertiva al petto, alla spalla e al braccio era così intenso che gli sembrava di avere dei ratti dentro il corpo che gli stavano divorando le carni, anche se non riusciva a immaginare come avessero fatto a entrare.
Dopo aver vagato, per circa un’ora — ma a lui parvero ore, forse giorni — arrivò al limitare della foresta e lontano, in fondo al prato ammantato di neve, vide la casa. S’intravedevano delle luci filtrare dalle persiane chiuse delle finestre.
Si fermò, incredulo, dapprima convinto che la casa non fosse più reale delle figure sinistre che l’avevano accompagnato attraverso il bosco. Poi s’incamminò verso quel miraggio. Forse non era un’allucinazione, dopotutto.
Aveva fatto solo qualche passo, quando una serie di lampi squarciò la notte.
L’ombra di Stefan sussultava e si contorceva sulla neve, anche se momentaneamente era paralizzato dalla paura. A volte aveva due ombre perché i lampi lo illuminavano simultaneamente da due direzioni diverse. Cacciatori ben addestrati lo avevano già seguito lungo la Via del Lampo, decisi a fermarlo prima che avesse una possibilità di avvisare Laura.
Si voltò a guardare il bosco da cui era appena uscito. Sotto il cielo, i sempreverdi sembravano scagliarsi contro di lui, poi ritrarsi, poi lanciarglisi di nuovo contro. Non vide nessun cacciatore. Mentre i lampi andavano attenuandosi, riprese ad avanzare verso la casa. Cadde due volte, si rialzò faticosamente, continuò ad avanzare, anche se temeva che se fosse nuovamente caduto non sarebbe più stato in grado di rialzarsi o di gridare abbastanza forte da essere udito.
Lo sguardo fisso sullo schermo del computer, cercando di concentrarsi su Sir Tommy Rospo e pensando invece al temporale, Laura si ricordò improvvisamente di quando aveva visto per la prima volta quel cielo tempestoso così soprannaturale: il giorno in cui suo padre per la prima volta le aveva raccontato di Sir Tommy, il giorno che il tossicomane era entrato nella drogheria, il giorno in cui aveva visto il suo Custode per la prima volta, l’estate in cui aveva otto anni.
Si raddrizzò istantaneamente sulla poltrona.
Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata.
Un temporale di una tale potenza significava guai di una natura particolare, guai per lei. Non riuscì a ricordare se ci fosse stato un temporale il giorno in cui Danny era morto o quando il suo Custode era apparso al cimitero, durante il servizio funebre di suo padre. Ma con un’assoluta certezza che non poteva spiegarsi, sapeva che il fenomeno a cui aveva assistito quella notte era carico di un significato tremendo per lei; era un segno premonitore e di certo non uno di quelli buoni.
Afferrò l’Uzi e fece il giro di tutte le stanze, controllando tutte le finestre, guardando nella stanza dove dormiva Chris, assicurandosi che ogni cosa fosse come doveva essere. Poi corse al piano di sotto a ispezionare le altre stanze.
Mentre entrava in cucina, qualcosa cadde con un tonfo contro la porta sul retro. Con un sussulto di sorpresa e di paura, si voltò in quella direzione impugnando l’Uzi e poco ci mancò che aprisse il fuoco.
Ma non era il rumore di qualcuno che sta per fare irruzione. Era un rumore che non aveva nulla di minaccioso, appena più forte di un semplice colpo dato alla porta, ripetuto due volte. Credette persino di sentire una voce, che debolmente chiamava il suo nome.
Silenzio.
Andò vicino alla porta e rimase in ascolto per mezzo minuto.
Nulla.
La porta era blindata, con un’anima in acciaio rivestita da due spessissimi pannelli in legno di quercia. Non era perciò possibile che qualcuno armato dall’altra parte potesse colpirla. Tuttavia esitò ad avvicinarsi di più e a sbirciare attraverso lo spioncino perché temeva di vedere l’occhio di qualcuno che dall’altra parte la stava spiando. Quando alla fine trovò il coraggio per farlo, lo spioncino le consentì di avere una visione piuttosto ampia del patio e vide un uomo disteso sul cemento, le braccia spalancate, come se fosse caduto all’indietro dopo aver bussato alla porta.
Una trappola, pensò. Una trappola.
Accese la luce esterna e si mosse lentamente verso la finestra oscurata dalla veneziana. Sollevò con la massima cautela una delle stecche. L’uomo disteso nel patio era il suo Custode. Le scarpe e i pantaloni erano incrostati di neve. Indossava un camice bianco, macchiato di sangue sul davanti.
Per quanto riuscì a vedere, non c’era nessuno nel patio o nel prato retrostante, ma doveva comunque considerare la possibilità che qualcuno avesse scaricato il corpo in quel punto per attirarla fuori di casa. Aprire la porta di notte, in quelle circostanze, era da incoscienti.
Nonostante ciò non poteva lasciarlo lì fuori. Non il suo Custode. Non in quelle condizioni, ferito e in fin di vita.
Disattivò l’allarme, premendo un pulsante che si trovava vicino alla porta, aprì la porta girando i chiavistelli e con riluttanza uscì nella gelida notte imbracciando l’Uzi. Nessuno le sparò. Sul prato debolmente illuminato dal riverbero della neve, fino in fondo alla foresta, nulla si muoveva.
Si avvicinò al suo Custode, si inginocchiò di fianco a lui e gli sentì il polso. Era vivo. Gli sollevò una palpebra. Era svenuto. La ferita al torace era brutta, anche se non sembrava sanguinare per il momento.
Il suo addestramento con Henry Takahami e gli esercizi a cui regolarmente si sottoponeva avevano incredibilmente aumentato la sua forza, ma non abbastanza da sollevare l’uomo ferito con un braccio solo. Appoggiò l’Uzi alla porta e si accorse che non riusciva a sollevarlo neppure con due braccia. Era pericoloso muovere un uomo ferito così gravemente, ma ancora più pericoloso sarebbe stato lasciarlo lì fuori, nella notte gelida, soprattutto se qualcuno, come sembrava, lo stava inseguendo. Riuscì a sollevarlo per le braccia e a trascinarlo nella cucina, dove lo allungò sul pavimento. Con sollievo riprese l’Uzi, richiuse la porta e inserì nuovamente l’allarme.
Era spaventosamente pallido e freddo al tatto, perciò decise di togliergli le scarpe e le calze, che erano incrostate di neve. Dopo avergli liberato il piede sinistro, mentre gli stava slacciando la scarpa destra, Stefan cominciò a balbettare qualcosa in una strana lingua, parole pronunciate in modo troppo indistinto perché fosse in grado di identificare che lingua fosse e in inglese si mise a farfugliare qualcosa a proposito di esplosivi, di tunnel e di «spettri fra gli alberi».
Sebbene sapesse che stava delirando e che molto probabilmente non l’avrebbe compresa più di quanto non riuscisse lei a comprenderlo, gli parlò in tono rassicurante. «Calmati ora. Rilassati. Andrà tutto bene. Non appena riesco a liberarti i piedi da questo blocco di ghiaccio, chiamerò un dottore.»
La parola dottore lo scosse per un attimo dal suo stato confusionale. Le afferrò debolmente il braccio e la fissò con uno sguardo intenso, impaurilo. «Niente dottori. Usciamo… dobbiamo uscire…»
«Non sei in condizioni di andare da nessuna parte», gli disse Laura. «Tranne che su un’ambulanza e all’ospedale.»
«Dobbiamo uscire. Alla svelta. Stanno arrivando… saranno qui fra poco…»
Laura lanciò uno sguardo all’Uzi. «Chi sta per arrivare?»
«Assassini», disse lui in tono concitato. «Mi uccideranno per vendetta. Ti uccideranno. Uccideranno Chris. Stanno arrivando. Adesso.»
In quel momento nei suoi occhi e nella sua voce non c’era nulla di delirante. Il suo volto pallido, madido di sudore, non era più segnato dalla debolezza, ma teso dal terrore.
Tutto il suo allenamento con le armi e nelle arti marziali non sembravano più precauzioni isteriche. «Okay», disse Laura, «usciremo non appena avrò dato un’occhiata a questa ferita, per vedere se c’è bisogno di medicarla.»
«No! Ora. Usciamo ora.»
«Ma…»
«Ora», insistè Stefan. Nei suoi occhi c’era un’espressione talmente terrorizzata, che fu quasi propensa a pensare che gli assassini di cui stava parlando non fossero uomini normali, ma creature provenienti da altri mondi, demoni spietati e implacabili, esseri senz’anima.
«Okay», disse Laura. «Usciremo subito.»
Il suo sguardo si fece nuovamente sfuocato e cominciò a farfugliare parole indistinte, senza senso.
Mentre attraversava di corsa la cucina, con l’intenzione di salire al piano di sopra e svegliare Chris, udì il suo Custode vaneggiare, ma sempre con tono ansioso, di una «grande, nera macchina di morte». Quelle parole non significavano nulla per lei, ma nonostante ciò si sentì percorrere da un brivido di terrore.