PARTE SECONDA L’inseguimento

L’abitudine a vivere non ci fa accettare la morte.

SIR THOMAS BROWNE

5 Un esercito di ombre

1

Laura accese una lampada e svegliò Chris. «Vestiti, amore. Alla svelta.»

«Che cosa succede?» chiese lui con voce assonnata, sfregandosi gli occhi.

«Degli uomini cattivi stanno venendo e dobbiamo uscire di qui prima che arrivino. Ora sbrigati.»

Chris aveva trascorso un anno non solo rimpiangendo suo padre, ma preparandosi per il momento in cui gli eventi solo apparentemente tranquilli della vita quotidiana sarebbero stati sconvolti da un’altra improvvisa esplosione di quel caos che giaceva nella profondità dell’esistenza umana. Il caos che di tanto in tanto eruttava come un vulcano attivo, com’era successo la notte in cui suo padre era stato assassinato. Chris aveva osservato sua madre diventare una tiratrice di prim’ordine con le armi, l’aveva vista raccogliere un arsenale, con lei aveva seguito delle lezioni di autodifesa e, nonostante ciò, aveva mantenuto gli atteggiamenti e i punti di vista di un bambino, assomigliava più o meno a qualsiasi altro bambino, anche se era comprensibilmente malinconico da quando suo padre era morto.

Ma in quel momento di crisi non reagì come un bambino di otto anni; non piagnucolò né fece domande a sproposito. Tirò indietro le coperte, saltò giù dal letto e corse all’armadio.

«Raggiungimi in cucina», gli disse Laura.

«Okay, mamma.»

Era orgogliosa della sua reazione responsabile, ma era anche rattristata che a otto anni fosse in grado di cogliere la brevità e l’asprezza della vita tanto da reagire con la rapidità e la calma di un adulto.

Laura indossava un paio di jeans e una camicia di flanella a quadrettoni blu. Andò nella sua camera, si infilò un maglione, si tolse le scarpe e mise un paio di stivali di gomma.

Si era disfatta degli abiti di Danny, perciò non aveva un cappotto per l’uomo ferito in cucina. Però aveva molte coperte e ne tirò fuori un paio dall’armadio della biancheria nel corridoio.

Presa da un ripensamento, corse nel suo studio, aprì la cassaforte, prese la strana cintura nera che il suo Custode le aveva consegnato un anno prima, la infilò nella borsa a tracolla e scese.

Al piano di sotto si fermò davanti all’armadietto dell’anticamera e prese una giacca a vento blu e una carabina Uzi che era appesa sul retro della porta. Mentre si muoveva prestava la massima attenzione a qualsiasi rumore insolito: voci nella notte o il rumore di un motore. Ma tutto rimase silenzioso.

In cucina posò l’arma sul tavolo accanto all’altra, poi si chinò sul suo Custode, che era ancora svenuto. Gli sbottonò il camice, poi la camicia e diede un’occhiata alla ferita d’arma da fuoco che aveva al petto. Era in alto sulla spalla sinistra, molto al di sopra del cuore per fortuna, ma aveva perso molto sangue; i suoi vestiti ne erano inzuppati.

«Mamma?» Chris era sulla porta, vestito di tutto punto.

«Prendi uno di quegli Uzi che sono sul tavolo e il terzo che è appeso dietro la porta della dispensa e mettili nella jeep.»

«È lui», disse Chris con gli occhi spalancati per lo stupore.

«Sì. Si è presentato in questo modo, ferito gravemente. Prendi anche due dei revolver, quello che c’è nel cassetto e quello nella sala da pranzo. E stai attento a non…»

«Non ti preoccupare, mamma», replicò Chris, apprestandosi a eseguire l’incarico che gli aveva affidato.

Laura girò Stefan su un fianco il più delicatamente possibile per vedere se c’era un foro di uscita sulla schiena. Sì. La pallottola l’aveva trapassato, uscendo sotto la scapola. Anche dietro era tutto macchiato di sangue, ma per il momento l’emorragia sembrava essersi fermata. Forse era interna e in quel caso non c’era modo né di scoprirla né eventualmente di arrestarla.

Sotto i vestiti indossava la cintura. Laura la slacciò. La cintura non stava nel comparto centrale della sua borsa, perciò dovette infilarla in uno degli scomparti laterali dopo aver tirato fuori tutti gli oggetti che solitamente teneva dentro.

Gli riallacciò la camicia e fu in dubbio se togliergli o meno il camice. Alla fine decise che era troppo complicato sfilargli le maniche. Girandolo delicatamente su un fianco e poi sull’altro lo avvolse in una coperta di lana grigia.

Mentre Laura si occupava del ferito, Chris fece un paio di viaggi alla jeep con le armi, usando la porta interna che collegava la lavanderia al box. Poi ritornò con un carrello piatto, largo sessanta centimetri e lungo un metro e venti, in pratica una piattaforma di legno su rotelle, che era stato dimenticato lì da quelli che si erano occupati del trasloco, quasi un anno e mezzo prima. Guidandolo come uno skateboard si diresse verso la dispensa e disse: «Dobbiamo prendere la scatola delle munizioni, ma è troppo pesante per me. La metterò su questo carrello».

Compiaciuta di fronte a tanta iniziativa, Laura disse: «Abbiamo dodici cartucce nei due revolver e centoventi cartucce nei tre Uzi, perciò penso che non avremo bisogno di altro, indipendentemente da quello che succederà. Spingi fin qui quel carrello, presto. Stavo proprio cercando il sistema per portarlo fino alla jeep senza troppi scossoni. Questo mi sembra proprio che faccia al caso nostro».

I loro movimenti erano rapidi, come se si fossero esercitati per quella particolare emergenza, tuttavia Laura intuì che stavano perdendo troppo tempo.

Si aspettava che da un momento all’altro qualcuno cominciasse a colpire con violenza la porta.

Chris tenne fermo il carrello mentre Laura sollevava il ferito e lo adagiava sulla piattaforma. Una volta adagiata la testa, le spalle, la schiena e le natiche, Laura riuscì a sollevargli le gambe e a spingerlo come se fosse stata una carriola. Chris corse sul davanti per tenere una mano sulla spalla destra dell’uomo in modo che non scivolasse giù e per impedire che il carrello slittasse via da sotto il corpo. Ebbero qualche difficoltà a superare la soglia della porta in fondo alla lavanderia, ma alla fine riuscirono a portarlo nel box.

La Mercedes era sulla sinistra mentre la jeep si trovava sul lato destro e in mezzo c’era un passaggio libero. Trasportarono l’uomo fino alla jeep.

Chris aveva già aperto il portellone e aveva anche srotolato un tappetino da ginnastica per usarlo come materassino.

«Sei fantastico», gli disse Laura.

Insieme riuscirono a trasferire il ferito dal carrello nell’abitacolo della jeep attraverso il portellone aperto.

«Vai a prendere l’altra coperta e le sue scarpe che sono in cucina», ordinò a Chris.

Quando il bimbo tornò, Laura aveva finito di sistemare Stefan sul materassino. Gli coprirono i piedi nudi con l’altra coperta.

Mentre chiudeva il portellone, disse: «Chris, vai a sederti davanti e allaccia la cintura di sicurezza».

Ritornò di corsa in casa. La borsa con tutte le sue carte di credito era sul tavolo. La prese e se la mise a tracolla. Afferrò il terzo Uzi e fece per ritornare verso la lavanderia, ma non aveva fatto tre passi, che qualcosa colpì la porta del retro con una forza tremenda.

Laura si voltò di scatto alzando il fucile. Qualcosa colpì nuovamente la porta, ma l’anima di acciaio e i chiavistelli non potevano essere abbattuti con tanta facilità.

Poi l’incubo iniziò a ritmo incalzante.

Ci fu una raffica di mitra e Laura si gettò contro la parete del frigorifero, nascondendosi.

Stavano cercando di far saltare la porta, che però resistette anche a questo assalto. Le pallottole trapassarono le pareti ai lati del telaio rinforzato, forando il muro.

Le finestre del tinello esplosero, quando un secondo mitragliatore aprì il fuoco. Le veneziane di metallo oscillarono. Alcune stecche si spezzarono sotto le pallottole, ma i vetri frantumati rimasero in gran parte dietro le tende, rimbalzando sul davanzale e da lì a terra. Le porte del ripostiglio si scheggiarono e spaccarono sotto la pioggia di colpi. Pezzi di mattoni saltarono via da un muro. Le pallottole rimbalzarono sulla cappa di rame della cucina. Le pentole e i tegami di rame furono crivellati di colpi. La veneziana sopra la scrivania venne definitivamente strappata dal telaio e una mezza dozzina di stecche si abbattè contro la porta del frigorifero a pochi centimetri da dove si trovava Laura.

Il cuore le batteva all’impazzata e un fiotto di adrenalina aveva reso i suoi sensi quasi dolorosamente acuti. Voleva correre alla jeep e cercare di uscire prima che si rendessero conto che si stava preparando a partire, ma un istinto primitivo le impose di rimanere dov’era. Si schiacciò contro la parete del frigorifero, fuori tiro, sperando di non essere colpita da una pallottola di rimbalzo.

Chi diavolo siete? si chiese furiosa. Il fuoco cessò, ed ebbe la riprova che il suo istinto non si era sbagliato. Arrivarono gli uomini armati e presero d’assalto la casa. Il primo si arrampicò attraverso la finestra sventrata, sopra il tavolo della cucina. Laura si allontanò di qualche passo dal frigorifero e aprì il fuoco, scaraventandolo sul patio. Un secondo uomo, vestito di nero come il primo, entrò attraverso ciò che rimaneva della porta scorrevole del salone. Laura lo intravide attraverso l’arcata un attimo prima che lui la scorgesse. Puntò l’Uzi in quella direzione, sparando all’impazzata, distruggendo la macchinetta del caffè e polverizzando tutto ciò che si trovava sulla parete della cucina, poi lo falciò prima che lui puntasse la sua arma contro di lei.

Si era esercitata con l’Uzi, ma non di recente, e si stupì di quanto fosse maneggevole. Si stupì anche del disgusto che provava nel doverli uccidere, nonostante stessero cercando di massacrare lei e il suo bambino. Un’ondata di nausea la investì. Un terzo uomo si fece avanti nel salone ma Laura era pronta a uccidere anche lui, cento come lui. L’uomo però scattò all’indietro, fuori tiro, quando vide che i suoi compagni erano rimasti uccisi.

Ora la jeep.

Laura non sapeva quanti killer ci fossero fuori, forse solo quei tre, due morti e uno ancora vivo, o forse erano quattro, dieci, o un centinaio. Ma indipendentemente dal numero, non avevano certo previsto di ricevere una simile accoglienza e, soprattutto, una tale pioggia di fuoco. Perlomeno non da una donna e un bambino. E loro sapevano che il suo Custode era ferito e disarmato. Ora dovevano certo essere confusi, avrebbero cercato un nascondiglio per fare il punto della situazione e decidere la prossima mossa. Questa poteva essere la sua prima e ultima chance per scappare via con la jeep. Si precipitò nel box passando per la lavanderia.

Vide che Chris aveva acceso il motore della jeep quando aveva udito gli spari; dai tubi di scappamento fuoriusciva la nube bluastra dei gas di scarico. Mentre correva verso la jeep, la saracinesca del box cominciò ad alzarsi; evidentemente Chris aveva azionato il telecomando nell’istante in cui l’aveva vista.

Quando si sedette al volante, la saracinesca era aperta per un terzo. Inserì la marcia. «Stai giù!» gridò.

Mentre Chris obbediva prontamente, scivolando al di sotto del livello del finestrino, Laura lasciò il pedale del freno, premette l’acceleratore a tavoletta, lasciando il segno dei copertoni sul cemento e schizzò fuori. Schivò la saracinesca del box ancora in fase di apertura solo di qualche centimetro, scardinando l’antenna della radio.

I grandi pneumatici della jeep avevano un battistrada invernale. Avanzarono nella fanghiglia ghiacciata e nella ghiaia che costituivano il fondo del viale d’accesso, aderendo senza problemi e facendo schizzare proiettili di pietra e ghiaccio.

Alla sua sinistra vide sgusciare una figura scura, un uomo vestito di nero che stava attraversando il prato correndo, sollevando nuvole di neve, a una ventina di metri di distanza; una sagoma così indefinita che sarebbe potuta essere solo un’ombra, ma il rumore del motore venne coperto da quello di una raffica di arma da fuoco automatica. I proiettili colpirono la fiancata della jeep e il finestrino dietro di lei andò in mille pezzi, quello al suo fianco rimase intatto. Stava ormai viaggiando a tutta velocità, era fuori tiro, solo pochi secondi dalla salvezza, con il vento che fischiava attraverso il finestrino rotto. Laura pregò che nessuno dei pneumatici fosse stato colpito. Poi altre pallottole colpirono la lamiera o forse erano la ghiaia e il ghiaccio sollevati dalla jeep.

Quando raggiunse la statale alla fine del viale, Laura era certa di essere in salvo. Mentre frenava per svoltare a sinistra, guardò nello specchietto retrovisore e in lontananza vide un paio di fari nel box aperto. I killer erano arrivati alla sua casa senza un mezzo — Dio solo sapeva come avevano viaggiato, forse utilizzando quelle strane cinture — e ora stavano prendendo la sua Mercedes per seguirla.

La sua intenzione era di girare a sinistra sulla statale, scendere verso Running Springs, superare la deviazione per il lago Arrowhead, raggiungere la superstrada e arrivare nella città di San Bernardino, dove c’erano gente e sicurezza, dove gli uomini vestiti di nero con le loro armi automatiche non avrebbero potuto darle la caccia così apertamente e dove poteva ottenere le cure necessarie per il suo Custode. Ma quando vide i fari dietro di sé, girò a destra, in direzione est-nordest verso il lago Big Bear.

Se avessero girato a sinistra sarebbero arrivati a quel fatale mezzo miglio di strada in cui Danny era stato ucciso un anno prima. E Laura percepì intuitivamente, quasi in modo superstizioso, che il luogo più pericoloso per loro in quel momento era quel tratto di asfalto in discesa a due corsie. Lei e Chris avevano rischiato di morire due volte su quella collina: quando l’autocarro dei Robertson aveva sbandato e quando Kokoschka aveva aperto il fuoco su di loro. A volte aveva la sensazione che nella vita ci fosse una successione di eventi, sia fortunati sia nefasti, e se questi venivano contrastati, il destino lottava per riaffermare quei disegni predeterminati. Sebbene dal punto di vista razionale non avesse nessuna ragione valida per credere che sarebbero morti se si fossero diretti verso Running Springs, in cuor suo sapeva che la morte, di fatto, li stava aspettando là.

Mentre avanzavano sulla statale in direzione di Big Bear, con gli alti sempreverdi che si ergevano sinistramente ai bordi della strada, Chris si sollevò e guardò indietro.

«Stanno arrivando», gli disse Laura, «ma noi li semineremo.»

«Sono quelli che hanno ucciso papà?»

«Sì. Credo di sì. Ma allora non sapevamo nulla di loro e non eravamo preparati.»

La Mercedes ora era sulla statale, fuori visuale per la maggior parte del tempo perché la strada saliva e scendeva e serpeggiava, interponendo fra i due veicoli colline e curve. La macchina sembrava essere a circa duecento metri, ma probabilmente stava accorciando le distanze perché aveva un motore più grosso e molta più potenza della jeep.

«Chi sono?» chiese Chris.

«Non ho ancora ben capito, tesoro. E non so neppure perché vogliano farci del male. Ma so che cosa sono. Sono dei criminali. Ho imparato tutto sui tipi come loro all’istituto Caswell e so che l’unica cosa che puoi fare con gente come questa è di tenergli testa e di contrattaccare, perché rispettano solo la violenza.»

«Sei stata fantastica, mamma.»

«E tu sei stato dannatamente bravo. È stata una mossa molto intelligente quella di mettere in moto la jeep quando hai sentito la sparatoria e di azionare il dispositivo di apertura del box proprio mentre stavo arrivando. Probabilmente ci ha salvati.»

Dietro di loro la Mercedes stava accorciando le distanze. Era una 420 SEL, che teneva la strada meglio della jeep.

«Mamma, si stanno avvicinando rapidamente.»

«Lo so.»

«Molto rapidamente.»

In prossimità della punta orientale del lago, Laura dovette rallentare dietro un vecchio e rumoroso camioncino Dodge, con un fanalino di posizione rotto e un paraurti tutto arrugginito, che sembrava essere tenuto insieme da degli adesivi. Avanzava scoppiettando a quaranta chilometri l’ora, sotto il limite di velocità. Se Laura avesse esitato, la Mercedes l’avrebbe raggiunta e i killer avrebbero usato nuovamente le loro armi. Si trovavano in una zona in cui il sorpasso era vietato, ma riusciva a vedere un tratto di strada sufficientemente libero davanti a sé per rischiare la manovra. Schiacciò l’acceleratore, superò il camioncino e ritornò sulla corsia di destra. Immediatamente davanti c’era una Buick che andava a una sessantina di chilometri l’ora. Superò anche quella, un attimo prima che la strada diventasse troppo tortuosa per consentire alla Mercedes di superare il vecchio macinino.

«Sono rimasti incastrati là dietro!» esclamò Chris.

Laura lanciò la jeep a più di ottanta chilometri l’ora, una velocità eccessiva per alcune curve, ma riuscì a tenere bene la strada e cominciò a pensare che sarebbero riusciti a fuggire. Ma in prossimità del lago la strada si divideva e né la Buick né il vecchio camioncino la seguirono lungo la costa sud verso Big Bear City. Entrambi svoltarono verso Fawnskin, lungo la costa nord, lasciando la strada vuota fra lei e la Mercedes, che immediatamente cominciò ad accorciare le distanze.

Ora si potevano vedere case ovunque, sia in alto sulla destra, sia più in basso, sulla sinistra, verso il lago. Alcune sembravano chiuse, probabilmente residenze di villeggiatura che venivano usate solo durante i week end invernali è in estate, ma le luci di altre case erano visibili fra gli alberi.

Sapeva che avrebbe potuto imboccare uno qualsiasi di quei sentieri e viali d’accesso. Lei e Chris sarebbero stati accolti in quelle case. Le persone avrebbero aperto la porta senza esitazione. Quella non era la città. Lì la gente non era subito sospettosa di fronte a inattesi visitatori notturni.

La Mercedes giunse a un centinaio di metri e il guidatore cominciò a lampeggiare ripetutamente, come se volesse dire: Ehi, eccoci Laura, stiamo per agguantarti, siamo gli orchi neri, in carne e ossa, nessuno può sfuggirci. Eccoci, stiamo arrivando. Stiamo arrivando.

Se avesse cercato rifugio in una delle case vicine, i killer probabilmente l’avrebbero seguita, uccidendo non solo lei e Chris, ma anche le persone che le offrivano protezione. Probabilmente non avrebbero rischiato di eliminarla nel cuore di San Bernardino o Riverside o persino Redlands, dove con tutta probabilità avrebbero incontrato la polizia, ma non si sarebbero certo fatti intimidire da un pugno di individui, perché, indipendentemente dal numero di persone che avrebbero massacrato, potevano senza dubbio sfuggire alla cattura premendo i pulsanti gialli sulle loro cinture e svanire nel nulla, come aveva fatto il suo Custode un anno prima. Non aveva idea di dove sarebbero svaniti, ma aveva il sospetto che si trattasse di un luogo dove la polizia non avrebbe mai potuto prenderli. Non avrebbe messo a repentaglio la vita di innocenti, perciò superò casa dopo casa senza rallentare.

La Mercedes ora era a solo una cinquantina di metri e si stava avvicinando rapidamente.

«Mamma…»

«Li vedo.»

Era diretta a Big Bear City, ma sfortunatamente quella denominazione non corrispondeva alla realtà. Non solo non era una città, ma non la si poteva definire neppure un villaggio, a malapena un paesino. Non c’erano abbastanza strade perché potesse sperare di seminare i suoi inseguitori e la presenza della polizia era inadeguata per far fronte a un paio di fanatici armati di fucili mitragliatori.

Il traffico era scarso nell’altra direzione. Laura si trovò davanti un’altra macchina, una Volvo grigia, che superò in un tratto di strada praticamente cieco. Non aveva altra scelta, perché la Mercedes ormai era solo a una quarantina di metri di distanza. Anche i killer superarono la Volvo.

«Come sta il nostro passeggero?» chiese Laura.

Senza slacciare la cintura di sicurezza, Chris si voltò per controllare. «Mi sembra a posto. Solo che è un po’ sballottato.»

«Non ci posso fare nulla.»

«Chi è, mamma?»

«Non so molto di lui», replicò Laura. «Ma quando usciremo da questo pasticcio, ti dirò ciò che so. Non ti ho detto nulla prima perché… per il semplice fatto, credo, che non sapevo bene neppure io quello che stava succedendo e credevo che in qualche modo potesse essere pericoloso per te sapere qualche cosa di lui. Ma a questo punto è bene che tu sappia. Ti dirò tutto dopo.»

Dando per scontato che ci sarebbe stato un dopo.

Quando fu a due terzi della strada, lungo la costa sud del lago — la jeep lanciata al massimo, con la Mercedes che la tallonava — Laura vide la deviazione per la strada provinciale. La strada si arrampicava su per i monti, oltre il passo di Clark, una scorciatoia di una quindicina di chilometri che tagliava il raccordo orientale della Statale 38, ricongiungendosi più a sud, vicino a Barton Flats, con la superstrada a doppia corsia. Per quanto ricordava, la strada, sia all’inizio sia alla fine, era lastricata per tre o quattro chilometri, ma per i rimanenti dieci o undici chilometri non era che un sentiero di terra battuta. Contrariamente alla jeep, la Mercedes non aveva la trazione a quattro ruote motrici; aveva pneumatici invernali, che però non erano muniti di catene. Era improbabile che l’uomo al volante della Mercedes fosse al corrente che la strada si sarebbe presto trasformata in un tracciato pieno di solchi, ghiacciato e in alcuni punti impraticabile per i cumuli di neve.

«Tieniti forte!» disse a Chris.

Non usò i freni fino all’ultimo momento, svoltando a destra a una tale velocità che la jeep sbandò facendo stridere le gomme e sobbalzando paurosamente.

La Mercedes affrontò meglio la curva, anche se il guidatore non aveva intuito ciò che Laura aveva intenzione di fare. Mentre cominciavano a salire e ad addentrarsi in un paesaggio molto più selvaggio, l’auto accorciò la distanza a circa trenta metri.

Venticinque. Venti.

La sagoma di un lampo si stagliò improvvisamente nel cielo. Non era così vicino come qualche ora prima, a casa, ma abbastanza vicino da illuminare la zona. Riuscì persino a udire, sopra il rumore del motore, il boato del tuono.

Guardando a bocca aperta il cielo, Chris domandò: «Mamma, ma che cosa sta succedendo?»

«Non lo so», rispose Laura e dovette gridare per farsi udire.

Non sentì i colpi d’arma da fuoco, ma sentì le pallottole rimbalzare contro la jeep. Una pallottola forò il vetro del portellone e si conficcò nel sedile su cui lei e Chris erano seduti. Avvertì l’impatto oltre che udirlo. Cominciò a zigzagare da un lato all’altro della strada, cercando di essere un bersaglio meno facile. L’uomo armato aveva smesso di sparare oppure aveva mancato tutti i colpi, perché non avvertì il rumore di altre pallottole. Tuttavia aveva dovuto rallentare e la Mercedes si stava avvicinando sempre più rapidamente.

Dovette usare gli specchietti laterali perché in seguito all’urto sul vetro di sicurezza si era formata una ragnatela di crepe che rendevano inutilizzabile lo specchietto retrovisore.

A sud, lampi e tuoni avevano smesso di scuotere il cielo.

Giunse in cima a una salita. L’asfalto terminava più o meno a metà strada lungo la discesa davanti a loro. Smise di zigzagare e accelerò. Quando la jeep lasciò l’asfalto, per un attimo cominciò a sbandare, ma poi si mosse a grande velocità sul fondo ghiacciato e innevato. Superarono sobbalzando una serie di profondi solchi, un breve avvallamento dove gli alberi formavano un arco sopra di loro e poi si inerpicarono su, verso la collina.

Dagli specchietti vide la Mercedes superare l’avvallamento e poi avviarsi su per il pendio dietro di lei. Ma come raggiunse la cima, l’auto cominciò a sprofondare nei solchi. Scivolò su un fianco e i fari puntarono in un’altra direzione. Il guidatore, invece di girare dolcemente il volante mentre la macchina sbandava, sterzò eccessivamente. Le gomme cominciarono a girare a vuoto. La macchina cominciò a scivolare all’indietro di circa una ventina di metri, finché la ruota posteriore non finì dentro il fosso che fiancheggiava la strada; le luci dei fari puntavano ora verso l’alto, di traverso sul sentiero.

«Si sono impantanati!» gridò Chris.

«Ci metteranno almeno mezz’ora per uscire di lì.» Laura continuò a salire, superò la cima, poi si lanciò lungo il pendio successivo dell’oscuro sentiero.

Anche se era riuscita a fermarli, la sua paura non era diminuita. Aveva il presentimento di non essere ancora in salvo. E aveva imparato a fidarsi delle sue sensazioni più di vent’anni prima, quando aveva sospettato che l’Anguilla sarebbe venuta a cercarla la notte in cui al McIlroy sarebbe stata sola nell’ultima stanza vicino alle scale. La notte in cui, infatti, le aveva lasciato sotto il guanciale una delle sue caramelline. Dopotutto, i presentimenti erano solo dei messaggi dell’inconscio, che lavorava alacremente e incessantemente ed elaborava informazioni che lei non aveva assimilato consciamente.

Qualcosa non andava. Ma che cosa?


Procedevano a meno di trenta chilometri l’ora su quella pista stretta, accidentata e ghiacciata. Per un po’ la strada seguì il dorsale roccioso della montagna, dove non c’erano alberi, poi arrivarono al fondo di una valle, dove gli alberi erano così fitti su entrambi i lati da sembrare pareti di legno.

Nel vano posteriore della jeep, il suo Custode, febbricitante, si lamentava nel sonno. Laura era preoccupata e avrebbe voluto andare più forte, ma non osava.

Per i primi quattro chilometri Chris rimase in silenzio. Infine chiese: «A casa… hai ucciso qualcuno di loro?»

«Sì. Due.»

«Bene.»

Turbata dalla nota sinistra di piacere che aveva avvertito in quella parola, Laura disse: «No, Chris. Non è bello uccidere. È una cosa che mi ha fatto rivoltare lo stomaco».

«Ma se lo sono meritato», ribattè Chris.

«Sì, certo, ma questo non significa che sia stato piacevole ucciderli. Non lo è stato. Non c’è alcuna soddisfazione. Solo… disgusto di fronte alla necessità di doverlo fare. E tristezza.»

«Avrei voluto ucciderne uno», esclamò con una collera determinata, fredda, allarmante in un bambino della sua età.

Laura gli lanciò un’occhiata di sottecchi. Con il volto scavato dalle ombre e illuminato dalla pallida luce giallognola che proveniva dal cruscotto, sembrava più vecchio della sua età e Laura intravide l’uomo che sarebbe diventato.

Quando il fondo della gola divenne troppo roccioso per consentire il passaggio, la strada riprese a risalire, seguendo una sporgenza sulla parete della montagna.

Laura teneva gli occhi puntati sulla pista impervia. «Tesoro, potremo parlare in modo più approfondito di questo più tardi. Ora voglio che tu ascolti attentamente e cerchi di comprendere ciò che sto per dirti. Ci sono molte filosofie cattive nel mondo. Sai che cos’è una filosofia?»

«Più o meno. No… non esattamente.»

«Be’, allora diciamo semplicemente che le persone credono a tante cose che sono negative per loro. Ma vi sono due modi di pensare che sono i peggiori, i più pericolosi, i più sbagliati in assoluto. Alcune persone ritengono che il modo migliore per risolvere un problema sia quello di usare la violenza. Picchiano o uccidono chiunque sia in disaccordo con loro.»

«Come quei tipi che ci stanno inseguendo.»

«Sì. Evidentemente appartengono proprio a questa categoria. Ed è un modo di pensare veramente sbagliato, perché la violenza porta altra violenza. Inoltre, se le divergenze vengono risolte con le armi, non c’è giustizia, non un momento di pace, nessuna speranza. Mi segui?»

«Credo di sì. Ma qual è l’altro modo di pensare sbagliato?»

«Il pacifismo», rispose Laura. «Ed è esattamente l’opposto del primo modo di pensare. I pacifisti credono che non si dovrebbe mai alzare una mano contro un altro essere umano, indipendentemente da ciò che ha fatto o da ciò che sta per fare. Supponiamo che un pacifista sia accanto a suo fratello e veda arrivare un uomo che vuole ucciderlo. Lo spronerebbe a fuggire, ma non prenderebbe mai in mano un’arma per fermare l’assassino di suo fratello.»

«E lascerebbe che quel tizio inseguisse suo fratello?» chiese Chris stupefatto.

«Sì. E nella peggiore delle ipotesi, lascerebbe che il fratello venisse assassinato, piuttosto che violare i suoi principi e diventare lui stesso un assassino.»

«Pazzesco.»

Aggirarono l’estremità della costa e la strada riprese a scendere in un’altra vallata. I rami dei pini che sporgevano erano così bassi che raschiavano il tetto; blocchi di neve caddero sul cofano e sul parabrezza.

Laura azionò i tergicristalli e si chinò sul volante. Approfittò del cambiamento del terreno per tacere, per avere il tempo di pensare a come rendere quel concetto più chiaro. In quell’ultima ora avevano subito molta violenza; una violenza anche maggiore probabilmente li attendeva, e voleva che Chris assumesse il giusto atteggiamento di fronte a questa realtà.

Non voleva che si facesse strada in lui l’idea che le armi e i muscoli fossero sostituti accettabili della ragione. D’altro canto, non voleva che fosse traumatizzato dalla violenza e che imparasse a temerla, rinunciando alla dignità personale e rischiando la vita.

Alla fine riprese a parlare. «Alcuni pacifisti sono dei codardi camuffati, ma alcuni di loro credono veramente che sia giusto permettere l’omicidio di un innocente piuttosto che uccidere per impedirlo. Sbagliano perché evitando di combattere il male ne sono diventati parte integrante. Fanno del male quanto coloro che premono il grilletto. Forse questo è un concetto troppo complicato per te e probabilmente dovrai pensarci a lungo prima di comprenderlo, ma è importante che tu capisca che c’è una via di mezzo. Si deve cercare di evitare la violenza, di non essere mai i primi a farla esplodere, ma se qualcun altro inizia, bisogna difendere se stessi, gli amici, la famiglia, tutti coloro che si trovano in pericolo. Quando ho dovuto sparare a quegli uomini, mi è venuto un senso di nausea. Non sono un eroe. Non sono orgogliosa di averli uccisi, ma nemmeno me ne vergogno. Non voglio che tu sia orgoglioso di me per questo, né voglio che tu pensi che il fatto di averli uccisi sia stata una soddisfazione, che la vendetta in qualche modo mi faccia sentire meglio. Non è così.»

Chris rimase silenzioso.

«È troppo difficile da capire?» chiese Laura.

«No. Solo che ci devo pensare un po’», rispose Chris. «Immagino che in questo momento io stia pensando in un modo sbagliato, perché li voglio tutti morti, tutti quelli che hanno avuto qualcosa a che fare con… con ciò che è successo a papà. Ma ci penserò, mamma. Cercherò di essere una persona migliore.»

Laura sorrise. «So che lo farai, Chris.»


Durante la conversazione con Chris e nei minuti di silenzio che seguirono, Laura continuò a essere tormentata dalla sensazione di un pericolo imminente. Avevano percorso forse una decina di chilometri e ne restava un altro sul terreno accidentato e ancora tre o quattro di strada asfaltata prima di ricongiungersi alla Statale 38. Più andava avanti più era sicura che ci fosse qualcosa che aveva trascurato e che ulteriori problemi si stavano avvicinando.

Si fermò improvvisamente sul dorsale di un’altura, appena prima che la strada scendesse nuovamente e per l’ultima volta verso una vallata, e spense il motore e le luci.

«Che cosa succede?» chiese Chris.

«Nulla. Ho solo bisogno di pensare. E poi voglio dare un’occhiata al nostro passeggero.»

Scese dalla jeep e andò ad aprire il portellone, dove una pallottola era penetrata attraverso il finestrino. Pezzi di vetro si staccarono e caddero sul terreno ai suoi piedi. Si arrampicò nel vano e, chinandosi sul suo Custode, gli controllò il polso. Era ancora debole, forse persino più debole di prima, ma era regolare. Gli posò una mano sulla fronte e si accorse che non era più freddo; sembrava ardere all’interno. Dietro sua richiesta Chris le passò la torcia che si trovava nel vano portaoggetti. Scostò le coperte per vedere se l’uomo stesse sanguinando più di quando l’avevano caricato sulla jeep. La ferita era sempre brutta, ma non notò tracce di sangue fresco nonostante tutti gli scossoni che aveva subito. Sistemò di nuovo le coperte, restituì la torcia a Chris, scese dalla jeep e chiuse il portellone.

Tolse i pezzi di vetro dal finestrino del portellone e da quello anteriore dalla parte del guidatore. In questo modo il danno era meno evidente e non avrebbe attirato l’attenzione di un poliziotto o di qualsiasi altra persona.

Per un po’ rimase appoggiata contro la jeep nell’aria fredda, a osservare il paesaggio selvaggio immerso nell’oscurità, cercando di mettere d’accordo l’istinto e la ragione. Perché era così sicura che stava dirigendosi verso una situazione pericolosa e che la violenza di quella notte non era ancora giunta al termine?

Le nubi si sfilacciavano nel vento di alta quota che le faceva correre verso est, un vento che non aveva ancora raggiunto terra, dove l’aria era quasi stranamente ferma. La luna fece capolino fra quegli spiragli e illuminò di una luce soprannaturale il paesaggio ondulato ammantato di neve, i sempreverde privati del loro colore dall’oscurità e gli ammassi di formazioni rocciose.

Laura guardò verso sud dove, a pochi chilometri, il sentiero si ricongiungeva con la Statale 38 e tutto in quella direzione sembrava sereno. Guardò a est, a ovest, poi dietro di sé, a nord, da dove erano arrivati. Ovunque guardasse, sulle San Bernardino Mountains non c’era segno di abitazione umana, non una singola luce e tutto sembrava esistere nella sua purezza e pace primordiale.

Si pose le stesse domande e si diede le stesse risposte che avevano fatto parte di un dialogo interiore durante quell’ultimo anno. Da dove venivano gli uomini con le cinture? Da un altro pianeta? Da un’altra galassia? No. Erano esseri umani come lei. Perciò, forse venivano dalla Russia. Forse le cinture funzionavano come trasmettitori di materia, dispositivi simili alla camera di teletrasferimento che aveva visto nel film La mosca. Questo poteva spiegare l’accento del suo Custode nel caso fosse stato teletrasferito dalla Russia ma non spiegava perché non fosse invecchiato in quel quarto di secolo; inoltre, non credeva sul serio che l’Unione Sovietica o qualsiasi altra nazione fosse riuscita a perfezionare i trasmettitori di materia. Rimaneva il viaggio nel tempo.

Aveva considerato quella possibilità per alcuni mesi, anche se non si era sentita abbastanza sicura della sua analisi da farne menzione a Thelma. Ma se il suo Custode era entrato nella sua vita nei momenti cruciali attraverso il viaggio nel tempo, poteva aver compiuto tutti i suoi viaggi nello spazio di un singolo mese o di una settimana corrispondente alla sua era mentre per lei erano passati molti anni, perciò questa era la ragione per cui egli non sembrava invecchiato. Finché non avesse potuto fargli delle domande e sapere la verità, la teoria del viaggio nel tempo era l’unica sulla quale potesse operare: il suo Custode veniva da qualche mondo futuro ed evidentemente era un futuro spiacevole, perché quando aveva parlato della cintura le aveva detto: «Tu non vorresti andare dove ti porterebbe». E ricordava l’espressione terrorizzata dei suoi occhi. Non aveva idea del perché un viaggiatore del tempo tornasse indietro dal futuro per proteggere lei, fra tante persone, da tossicomani armati e incidenti. Non aveva tempo per esaminare le possibilità.

La notte era tranquilla, scura e fredda.

Stavano dirigendosi direttamente in una situazione pericolosa.

Lei lo sapeva, ma non sapeva di che cosa si trattasse né da dove sarebbe arrivata.

Quando ritornò nella jeep, Chris chiese: «Che cosa c’è che non va ora?»

«Senti, tu vai pazzo per film come Star Trek e Guerre stellari, perciò forse sei proprio il genere di esperto di ambientazioni di cui ho bisogno. Tu sei il mio esperto in materia arcana.»

Il motore era spento e l’interno della jeep era illuminato solo dalla luce della luna nascosta fra le nubi. Ma poteva vedere il viso di Chris abbastanza bene, perché in quei minuti che aveva trascorso fuori i suoi occhi si erano abituati all’oscurità. Lui la guardò un po’ sorpreso. «Di che cosa stai parlando?»

«Chris, come ti ho detto prima, ti racconterò tutto di quell’uomo che è sdraiato là dietro e delle altre strane apparizioni che ha fatto nella mia vita, ma ora non abbiamo tempo. Perciò non mi bombardare di domande, okay? Ma, supponiamo che il mio Custode — lo chiamo Custode visto che mi ha protetto da eventi terribili quando gli è stato possibile — sia un viaggiatore del tempo che provenga dal futuro. Supponiamo che non usi uno di quei marchingegni strani, supponiamo che sia tutto contenuto in una cintura che porta attorno alla vita, sotto i vestiti, e che si materializzi dall’aria quando arriva qui dal futuro. Mi segui fino adesso?»

Chris la guardava con gli occhi spalancati.

«È così?»

«Potrebbe essere, sì.»

Il bambino si liberò dalla cintura di sicurezza, si mise in ginocchio sul sedile e guardò l’uomo che giaceva nel vano.

«Cazzo!» esclamò.

«Date le circostanze insolite», disse Laura, «chiuderò un occhio sul tuo linguaggio.»

Chris la guardò timidamente. «Scusa. Ma un viaggiatore del tempo

Anche se fosse stata arrabbiata con lui la sua collera non sarebbe durata a lungo, vedendo la sua eccitazione e l’entusiasmo che non aveva mostrato in un anno, neppure a Natale quando si era immensamente divertito con Jason Gaines. La prospettiva di un incontro con un viaggiatore del tempo aveva risvegliato in lui il senso dell’avventura. Questo era l’aspetto splendido della vita: sebbene fosse crudele, era anche misteriosa, piena di meraviglia e di sorprese; a volte le sorprese erano così incredibili che si qualificavano come miracoli e nell’assistere a tali miracoli una persona scoraggiata poteva scoprire una ragione di vita e un bambino profondamente ferito vi poteva trovare la volontà di curarsi e una medicina contro la malinconia.

Laura disse: «Okay, supponiamo che quando vuole lasciare il nostro tempo e ritornare nel suo, egli prema un pulsante su una cintura speciale che indossa».

«Posso vedere la cintura?»

«Più tardi. Ricorda, hai appena promesso di non farmi tante domande.»

«Va bene.» Guardò ancora l’uomo, poi si voltò e si sedette, puntando la sua attenzione sulla madre. «Quando preme il pulsante, che cosa succede?»

«Semplicemente svanisce.»

«Wow! E quando arriva dal futuro, appare proprio dall’aria?»

«Questo non lo so. Non l’ho mai visto arrivare. Anche se penso che per qualche ragione sconosciuta ci siano i lampi e i tuoni…»

«I lampi di stanotte!»

«Sì, ma non ci sono soltanto i lampi. Va bene, supponiamo che sia tornato in tempo per aiutarci, per proteggerci da certi pericoli…»

«Come quel camion…»

«Noi non sappiamo perché vuole proteggerci. Non possiamo sapere il perché finché non ce lo dirà lui. Comunque, supponiamo che altre persone dal futuro non vogliano proteggerci. E noi non riusciamo a comprendere neppure le loro motivazioni. Ma uno di loro era Kokoschka, l’uomo che ha ucciso tuo padre…»

«E quei tizi che si sono presentati stanotte a casa nostra», chiese Chris, «anche loro vengono dal futuro?»

«Credo di sì. Avevano intenzione di uccidere il mio Custode, te e me. Invece noi abbiamo ucciso alcuni di loro e due li abbiamo lasciati nei guai con la Mercedes. Perciò… quale sarà la loro prossima mossa, Chris? Tu sei l’esperto in materia. Hai qualche idea?»

«Lasciami pensare.»

La luna si specchiava debolmente sul cofano sporco della jeep. All’interno faceva sempre più freddo. Il loro fiato si condensava e i finestrini stavano cominciando ad appannarsi. Laura accese il motore, il riscaldamento, lo sbrinatore, ma non le luci.

Chris disse: «Be’, vediamo, la loro missione è fallita, perciò non staranno certo in giro. Torneranno nel futuro da cui sono venuti».

«Quei due tizi sulla nostra automobile?»

«Sì. Probabilmente avevano già premuto i pulsanti sulle cinture di quei due tizi che hai ucciso, rimandando i loro corpi al futuro, perciò in casa non c’è nessun morto, nessuna prova che i viaggiatori del tempo siano mai stati là. A parte un po’ di sangue. Così, quando gli altri si sono impantanati, probabilmente hanno lasciato perdere e sono tornati a casa.»

«Perciò tu dici che non sono là dietro adesso? Che non torneranno a piedi verso Big Bear, magari per rubare un’automobile e cercare di trovarci?»

«No. Quello è troppo complicato. Voglio dire, hanno un modo più semplice per trovarci che non vagare qua attorno, come farebbero dei criminali comuni.»

«Che modo?»

Il bambino si sfregò la faccia e guardò fuori del finestrino la neve, il luccichio della luna e l’oscurità davanti a loro. «Vedi, mamma, non appena ci hanno persi, avranno pigiato i bottoni delle loro cinture per tornare al futuro e poi rifare un nuovo viaggio nel nostro tempo per sistemare un’altra trappola per noi. Sanno che abbiamo preso questa strada, perciò probabilmente hanno fatto un altro viaggio nel nostro tempo e hanno sistemato una trappola alla fine di questa strada e ora ci stanno aspettando là. Sì, ecco dove sono! Scommetto che è proprio là che ci stanno aspettando.»

«Ma allora perché non sono tornati indietro anche prima? Voglio dire, anche prima del loro primo viaggio a casa nostra e non ci hanno attaccati prima che il mio Custode si presentasse ad avvisarci?»

«Paradosso», disse il bambino. «Sai che cosa significa?»

La parola sembrava troppo complessa per un bambino della sua età, ma Laura rispose: «Sì, so che cos’è un paradosso. Qualcosa che in sé è una contraddizione, ma che è possibilmente vera.»

«Vedi, mamma, la cosa chiara è che il viaggio nel tempo è pieno di tutti questi possibili paradossi. Cose che non potrebbero essere vere, che non dovrebbero essere vere… ma che poi potrebbero anche esserlo.» Ora stava parlando con quel tono eccitato con cui descriveva i suoi film di avventura preferiti e i libri di fumetti, ma con più intensità di quanto non avesse mai fatto prima, probabilmente perché questa non era una storia fantastica, ma una realtà anche più sorprendente di un romanzo. «Supponiamo che tu sia tornata indietro nel tempo e abbia sposato tuo nonno. Allora saresti tu stessa tua nonna. Se il viaggio nel tempo fosse stato possibile, allora forse avresti potuto fare questo, ma allora come avresti mai potuto nascere se la tua nonna reale non avesse mai sposato tuo nonno la prima volta? Paradosso! O che cosa sarebbe successo se tu fossi tornata indietro nel tempo e avessi incontrato tua madre quando era bambina e l’avessi uccisa accidentalmente? Avresti semplicemente cessato di esistere — pop! come se tu non fossi mai nata? Ma se tu avessi cessato di esistere, allora come avresti potuto tornare indietro nel tempo la prima volta? Paradosso! Paradosso!»

Mentre lo fissava nella pallida luce lunare, Laura ebbe la sensazione di guardare un bambino diverso da quello che era solita conoscere. Ovviamente era al corrente della sua grande passione per i racconti di fantascienza, che attualmente sembravano affascinare la maggior parte dei bambini, indipendentemente dall’età. Ma finora non si era resa conto di quale influenza avessero esercitato sulla loro mente. Evidentemente, i bambini americani degli ultimi anni del ventesimo secolo, non solo vivevano una vita fantastica interiore più ricca di quella dei bambini di qualsiasi altra epoca storica, ma sembravano aver acquisito qualcosa che non era trasmesso da elfi, fate, fantasmi con cui le generazioni precedenti si erano divertiti: la capacità di pensare concetti astratti come lo spazio e il tempo in un modo che andava al di là della loro età intellettuale. Aveva la strana sensazione di parlare a un bambino e a uno scienziato spaziale che coesistevano nello stesso corpo.

Sconcertata, Laura disse: «Perciò… quando questi uomini non sono riusciti a ucciderci nel loro primo viaggio stanotte, perché non hanno fatto un secondo viaggio in anticipo rispetto al primo, per ucciderci prima che il mio Custode ci avvertisse che stavano arrivando?»

«Vedi, il tuo Custode si era già presentato nella corrente temporale per avvertirci. Perciò sé fossero tornati indietro prima che ci avvertisse, allora come avrebbe potuto avvertirci la prima volta e come potremmo noi essere qui dove siamo ora, vivi? Paradosso!»

Rise e battè le mani come uno gnomo che esulta di fronte all’effetto particolarmente divertente di una parola magica.

A Laura venne invece il mal di testa nel tentativo di capire le complessità di simili concetti.

Chris disse: «Alcune persone credono che il viaggio nel tempo non sia neppure possibile, proprio per tutti questi paradossi. Alcuni invece ritengono che sia possibile fintanto che il viaggio che fai nel passato non crea un paradosso. Ora, se questo è vero, allora i killer non potevano fare un secondo viaggio in anticipo, perché due di loro erano già stati uccisi nel primo viaggio. Non potevano farlo perché erano già morti ed era un paradosso. Ma gli uomini che non hai ucciso e forse dei nuovi viaggiatori del tempo potrebbero fare un altro viaggio per tenderci una trappola mortale alla fine di questa strada». Si sporse in avanti per sbirciare di nuovo attraverso il parabrezza. «Ecco che cos’era tutto quel lampeggiare a sud, quando stavamo zigzagando per impedire loro di spararci. Degli altri uomini dal futuro stavano arrivando. Sì, scommetto che ci stanno aspettando laggiù, in qualche punto. Laggiù nel buio.»

Massaggiandosi le tempie, Laura disse: «Ma se noi torniamo indietro, se non cadiamo nella trappola che ci hanno teso più avanti, allora capiranno che noi siamo stati più furbi di loro, perciò faranno un terzo viaggio indietro nel tempo, torneranno alla Mercedes e ci uccideranno mentre cerchiamo di ritornare per quella strada. Ci prenderanno comunque, qualunque sia la strada che decidiamo di fare».

Chris scosse la testa energicamente. «No. Perché quando intuiranno che abbiamo capito i loro piani, forse fra una mezz’oretta, noi saremo già sulla via del ritorno e avremo già oltrepassato la Mercedes.» Il bambino ora stava saltando sul sedile in preda all’eccitazione. «Perciò, se cercano di fare un terzo viaggio nel tempo per ritornare all’inizio di questa strada e tenderci una trappola proprio in quel punto, non possono farlo perché noi saremo già tornati indietro e avremo già oltrepassato il pericolo. Saremo già in salvo. Paradosso! Vedi, devono giocare secondo regole precise, mamma, non sono dei maghi. Devono giocare secondo regole ben precise e possono essere battuti!»

In trentatré anni non aveva mai avuto un mal di testa così martellante. Più cercava di risolvere le difficoltà per evitare quel branco di assassini provenienti da chissà dove, più il dolore si faceva lancinante.

Alla fine disse: «Cedo. Immagino che avrei dovuto guardare Star Trek e leggere Robert Heinlein in questi anni, invece di fare la parte dell’adulta seria; ti confesso che non ci capisco proprio niente. Anzi, confiderò su di te per superarli in astuzia. Dovrai cercare di anticiparli. Ci vogliono morti. Perciò come potranno ucciderci senza creare uno di questi paradossi? Dove si presenteranno la prossima volta… e la volta dopo ancora? Adesso torneremo da dove siamo venuti, supereremo la Mercedes e, se hai ragione, non troveremo nessuno ad attenderci. Perciò, quale sarà la loro prossima mossa? Li vedremo ancora stanotte? Pensa a tutte queste cose e quando ti viene qualche idea fammela sapere».

«D’accordo, mamma.» Sprofondò nel sedile e per un attimo sul suo volto si disegnò un ampio sorriso, poi leccandosi le labbra si immerse nel suo gioco.

Ma ovviamente non era un gioco. Le loro vite erano in pericolo. Dovevano eludere i killer con un’abilità quasi sovrumana e le loro speranze di sopravvivenza erano affidate all’immaginazione di un bambino di otto anni.

Laura mise in moto la jeep, inserì la retromarcia e fece circa duecento metri finché trovò un punto della strada abbastanza ampio per poter girare. Poi ripercorsero a ritroso la stessa strada, diretti verso la Mercedes impantanata nel fosso, verso Big Bear.

Laura era terrorizzata. Il terrore non era come la felicità e la depressione, era una condizione acuta che per la sua natura stessa non poteva durare a lungo. Il terrore si spegneva con grande rapidità, oppure cresceva finché l’individuo non sveniva o moriva, spaventato a morte. Spaventato a tal punto da urlare finché un vaso sanguigno non esplodeva nel cervello. Ma Laura non stava urlando e nonostante l’emicrania pensava che nessun vaso sarebbe scoppiato. Si adattò a una paura cronica, sommessa, appena superiore all’ansia.

Che giornata. Che anno. Che vita.

2

Superarono la Mercedes impantanata e percorsero tutta la strada fino all’estremità nord senza incontrare uomini armati. In prossimità dell’incrocio con la superstrada che costeggiava il lago, Laura si fermò e guardò Chris. «Allora?»

«Finché giriamo intorno», disse, «e finché andiamo in un posto dove non siamo mai stati prima e in cui solitamente non andiamo, siamo abbastanza al sicuro. Non possono trovarci se non hanno alcuna idea di dove possiamo essere. Proprio come i tirapiedi dei tuoi romanzi.»

Tirapiedi? pensò Laura.

Chris continuò: «Vedi, ora che gli siamo sfuggiti, quei tipi torneranno nel futuro e scartabelleranno nei registri, dove c’è tutta la tua storia e vedranno qual è il posto in cui farai la tua comparsa, per esempio quando deciderai di andare nuovamente a vivere nella tua casa. Oppure se ti sei nascosta per un anno a scrivere un altro libro e poi hai deciso di andare in giro per pubblicizzarlo. A quel punto si faranno vivi nel negozio in cui stai firmando autografi perché ci sarà una documentazione di tutto questo nel futuro; sapranno che potranno trovarti in quella libreria a una certa ora e in un certo giorno».

Laura si accigliò. «Vuoi dire che l’unico modo che ho per evitarli per il resto della mia vita è quello di cambiare nome, fuggire per sempre e non lasciare traccia di me nei registri pubblici; svanire semplicemente dalla storia da ora in poi?»

«Sì, credo che forse questo è ciò che dovrai fare», concluse Chris in tono eccitato.

Era stato sufficientemente intelligente da capire come sconfiggere un branco di assassini venuti dal futuro, ma non era abbastanza adulto da intuire come sarebbe stato difficile per loro rinunciare a tutto ciò che possedevano e ricominciare da capo con i quattro soldi che avevano in tasca. In un certo senso era come un sapiente sciocco, dotato di un grande intuito e talento in un campo ristretto, ma ingenuo e tremendamente limitato per tutto il resto. Per quanto riguardava la teoria del viaggio nel tempo Chris poteva avere mille anni, ma per altri aspetti era un bambino di otto anni.

Laura replicò: «Non potrò più scrivere libri perché dovrei avere dei contatti con gli editori, gli agenti, anche se solo per telefono. Ci sarà una documentazione delle telefonate che potrà essere rintracciata. E non potrò ritirare i diritti d’autore perché indipendentemente da quanti nascondigli utilizzerò, indipendentemente dal numero di conti correnti su cui farò depositare i miei soldi, prima o poi dovrò andare a ritirarli io stessa e ciò significa che rimarrà una traccia di questo. Perciò nel futuro avranno questo dato registrato e arriveranno nella banca in cui io mi presenterò per uccidermi. Come diavolo faccio a mettere le mani sui soldi che già abbiamo? Come posso incassare un assegno senza lasciare una traccia che venga riportata nel futuro?» Laura lo guardò di sottecchi. «Santo Dio, Chris, siamo in un vicolo cieco!»

Adesso era il bambino a essere confuso. La guardò senza capire bene da dove venisse il denaro, come venisse messo da parte per un utilizzo futuro o come fosse difficile ottenerlo. «Be’, per un paio di giorni potremo semplicemente continuare a girare intorno, dormire nei motel…»

«Possiamo dormire nei motel solo se pago in contanti. Una carta di credito potrebbe essere sufficiente a farci rintracciare. Dopo di che non faranno che ritornare indietro nel tempo, alla notte in cui ho usato la carta di credito e ci uccideranno nel motel.»

«Allora usiamo i contanti. Ehi, possiamo sempre mangiare da McDonald. Non costa tanto e poi è buono.»


Lasciarono dietro di sé le montagne e la neve e si diressero a San Bernardino, una città di circa trecentomila abitanti, senza incontrare assassini. Doveva portare il suo Custode da un medico, non solo perché era in debito con lui per averle salvato la vita, ma anche perché senza di lui non avrebbe mai potuto sapere che cosa stava succedendo e probabilmente non avrebbe mai trovato una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si trovavano.

Non poteva portarlo all’ospedale, perché gli ospedali tenevano dei registri attraverso i quali i suoi nemici del futuro avrebbero potuto rintracciarla. Avrebbe dovuto ottenere le cure mediche in segreto, da qualcuno a cui non avrebbe dovuto dire il suo nome o fornire spiegazioni riguardo al paziente. Poco prima di mezzanotte si fermò a una cabina telefonica vicino a una stazione di servizio. La cabina si trovava in un angolo abbastanza appartato della stazione. Era l’ideale, perché non poteva rischiare che un addetto notasse i vetri rotti della jeep o l’uomo svenuto.

Nonostante il pisolino di un’oretta che aveva avuto modo di fare a casa e nonostante l’eccitazione, Chris si era addormentato. Nel vano posteriore anche il suo Custode stava dormendo, ma il suo sonno non era né riposante né naturale. Per un lungo momento il suo respiro si fece ansimante.

Lasciò la jeep nel parcheggio, con il motore acceso, e andò nella cabina telefonica per consultare la guida. Dalle Pagine Gialle strappò l’elenco dei nominativi dei medici.

Dopo essersi fatta dare una piantina di San Bernardino dall’addetto alla stazione di servizio, iniziò a cercare un dottore che non svolgesse la sua attività in un ambulatorio o in una clinica, ma in uno studio collegato all’abitazione, una soluzione che fino a qualche anno prima era adottata dalla maggior parte dei medici nelle piccole città e nei villaggi. Ma adesso ormai pochi continuavano a tenere l’abitazione e lo studio insieme. Era perfettamente cosciente che più tempo impiegava a trovare aiuto, minori erano le possibilità che il suo Custode potesse sopravvivere.

All’una e un quarto, in un tranquillo quartiere residenziale di vecchie case, Laura arrivò davanti a una villetta bianca di due piani, in stile vittoriano, costruita in un’altra epoca, in una California ormai lontana, prima che tutto fosse costruito con lo stucco. Era situata ad angolo, con un box che poteva tenere un paio di macchine, seminascosta da ontani che erano spogli in quella stagione invernale. Quello era l’indirizzo del dottor Carter Brenkshaw, e sul limitare del vialetto d’accesso un piccolo cartello sospeso fra due paletti in ferro battuto le confermò di non avere sbagliato.

Proseguì fino alla fine dell’isolato e parcheggiò sul bordo della strada. Scese dalla jeep, prese una manciata di terra umida da un’aiuola davanti a una casa attigua e imbrattò le targhe meglio che poté.

Si pulì le mani nell’erba e quando tornò nella jeep trovò Chris sveglio, ma ancora intontito e confuso dopo aver dormito per più di due ore. Gli diede dei buffetti sulla guancia, gli ravviò i capelli e continuò a parlargli per svegliarlo. In suo aiuto venne l’aria fredda della notte che entrava dai finestrini rotti.

«Okay», disse Laura quando fu sicura che fosse sveglio, «ascolta attentamente, socio. Ho trovato un dottore. Puoi fingerti malato?»

«Certo.» Fece una smorfia come se stesse per vomitare da un momento all’altro e cominciò a lamentarsi.

«Non esagerare.» Laura gli spiegò ciò che aveva intenzione di fare.

«Un ottimo piano, mamma.»

«No, è una sciocchezza, ma è l’unico piano che ho in questo momento.»

Girò la jeep e tornò davanti alla casa di Brenkshaw. Parcheggiò nel vialetto d’accesso davanti al box chiuso che era più arretrato rispetto alla casa. Chris scese dalla jeep e Laura lo afferrò e lo tenne stretto contro di sé, alla sua sinistra, la testa sulla sua spalla. Chris si appoggiò a lei così che Laura poté sostenerlo solo con il braccio sinistro, anche se era abbastanza pesante. Il suo bambino non era più un bambino. Nell’altra mano stringeva il revolver.

Mentre trascinava Chris lungo il vialetto debolmente illuminato dalla luce che veniva da uno dei grandi lampioni sul ciglio della strada, Laura si augurò che nessuno dalle case adiacenti stesse osservando la scena. D’altra parte, non era poi così insolito che qualcuno si presentasse a casa di un dottore nel cuore della notte per chiedere aiuto.

Salì i gradini, attraversò il portico e suonò il campanello tre volte, in rapida successione, come avrebbe fatto una madre disperata. Attese solo qualche secondo prima di suonare ancora.

Dopo qualche minuto, quando ormai stava cominciando a pensare che non ci fosse nessuno in casa, le luci del portico si accesero. Vide un uomo che la stava osservando attraverso una finestrella a forma di ventaglio che si trovava nella parte superiore della porta. «Per favore», disse in tono disperato, tenendoli revolver di lato, dove non poteva essere visto. «Il mio bambino. Veleno! Ha ingerito del veleno!»

L’uomo aprì la porta verso l’interno. C’era una doppia porta di vetro che si apriva verso l’esterno e perciò Laura si spostò.

Era un uomo di circa sessantacinque anni, con i capelli bianchi, un volto dai tratti irlandesi, a eccezione del naso e degli occhi scuri che ricordavano un latino. Indossava una vestaglia marrone, un pigiama bianco e le pantofole. La scrutò attentamente da sopra gli occhiali e chiese: «Che cosa c’è signora?»

«Vivo a due isolati da qui. Voi eravate così vicino. E il mio bambino… veleno!» A questo punto, Laura mollò Chris che sgusciò via mentre lei puntava la canna della pistola contro la pancia dell’uomo. «Le farò saltare le budella se chiama aiuto.»

Non aveva intenzione di ucciderlo, ma il tono della sua voce suonò convincente, perché l’uomo annuì e non disse nulla.

«Lei è il dottor Brenkshaw?» L’uomo annuì di nuovo. «Chi c’è in casa, dottore?»

«Nessuno. Sono solo qui.»

«Sua moglie?»

«Sono vedovo.»

«Figli?»

«Sono tutti grandi e non abitano più qui.»

«Non menta.»

«Ho fatto della sincerità un’abitudine di vita», rispose lui. «In qualche occasione mi ha procurato dei guai, ma in generale dire la verità rende la vita più semplice. Senta, qui fa un freddo cane e la mia vestaglia è leggera. Lei può continuare a minacciarmi anche se entra in casa.»

Laura varcò la soglia e con la pistola sempre puntata contro il medico lo spinse dentro. Chris la seguì. «Tesoro», gli sussurrò, «dai un’occhiata a tutta la casa. Senza far rumore. Vai prima di sopra e non saltare nessuna stanza. Se c’è qualcuno, di’ che il dottore ha un’emergenza e ha bisogno del loro aiuto.»

Chris si diresse verso le scale e Laura tenne Carter Brenkshaw sotto tiro. Si udiva il ticchettio leggero di una pendola poco distante.

«Sa», disse il dottore, «sono sempre stato un grande appassionato di gialli.»

Laura corrugò la fronte. «Che cosa vuol dire?»

«Be’, più di una volta mi è capitato di leggere una di quelle scene in cui c’è una bellissima canaglia che tiene prigioniero l’eroe contro la sua volontà e, come accade il più delle volte, quando la situazione alla fine si ritorce verso di lei, soccombe all’inevitabile trionfo mascolino e finiscono per fare l’amore in modo selvaggio e appassionato. E ora che sono io il protagonista, perché devo essere troppo vecchio per godere del lato più piacevole di questa avventura?»

Laura trattenne un sorriso perché non poteva pretendere di avere un’aria minacciosa una volta che avesse sorriso. «Stia zitto.»

«Sicuramente lei può fare molto meglio di questo.»

«Senta, mi faccia il piacere di tacere. Ha capito?»

Non diventò pallido e non cominciò a tremare. Sorrise.

Chris ridiscese.

«Nessuno, mamma.»

Brenkshaw disse: «Mi chiedo quanti criminali pericolosi abbiano dei compiici di taglia così ridotta che li chiamano mamma».

«Non mi sottovaluti dottore. Sono disperata.»

Chris scomparve nelle altre stanze a pianterreno, accendendo le luci al suo passaggio.

Laura disse: «Ho un ferito nell’auto…»

«Ovviamente una ferita d’arma da fuoco.»

«Voglio che lei lo curi e che tenga la bocca chiusa, perché se non lo fa, una di queste sere torneremo indietro e le faremo saltare le cervella!»

«Questo», disse lui in tono quasi divertito, «è delizioso.»

Mentre tornava sui suoi passi, Chris spense le luci che aveva acceso qualche istante prima. «Nessuno, mamma.»

«Ha una barella?» chiese Laura al dottore.

Brenkshaw la fissò. «Avete veramente un ferito?»

«Che cosa diavolo crede che ci faccia qui?»

«Che strano. Be’, d’accordo. Sta perdendo molto sangue?»

«Parecchio fino a qualche tempo fa, ora non più. Ma è svenuto.»

«Se non sta perdendo tanto sangue possiamo trasportarlo con la carrozzella pieghevole che ho nel mio studio. Posso prendere il cappotto?» chiese il dottore, indicando il guardaroba ih anticamera. «Oppure degli ossi duri come lei si eccitano davanti a dei vecchietti tremanti nei loro pigiami?»

«Prenda il cappotto, dottore, ma dannazione, non mi sottovaluti!»

«Proprio così», disse Chris. «Ha già ammazzato due uomini questa notte.» E imitò il suono di un Uzi. «Li ha falciati senza lasciare loro il tempo di alzare un dito.»

Il tono del bambino fu così convincente che Brenkshaw guardò Laura con preoccupazione. «Nel guardaroba non c’è nulla tranne dei cappotti, degli ombrelli e un paio di calosce. Non ho armi.»

«Stia attento, dottore. Nessuna mossa falsa.»

«Nessuna mossa falsa… sì, sapevo che avrebbe detto questo.»

Anche se sembrava che continuasse a trovare la situazione in un certo senso divertente, non era più allegro come prima.

Quando ebbe indossato il cappotto, si avviarono con lui verso la porta che si trovava a sinistra nell’anticamera. Senza accendere le luci, contando solo su quella che filtrava dall’anticamera e sulla sua conoscenza del luogo, il dottor Brenkshaw li guidò attraverso la sala d’attesa. Un’altra porta conduceva nel suo studio. Accese la luce e da lì proseguirono fino all’ambulatorio.

Laura si era aspettata di vedere un lettino e delle attrezzature ben tenute ma ormai superate. Invece tutto sembrava nuovo. C’era persino un apparecchio per l’elettrocardiogramma e in fondo alla stanza una porta su cui spiccava la scritta: «RAGGI X: TENERE CHIUSO DURANTE L’USO».

«Ha un apparecchio per fare le radiografie?» chiese Laura.

«Certo. Non è più costoso come una volta. Ogni clinica ha un apparecchio radiologico oggigiorno.»

«Sì, ogni clinica, ma questo è solo…»

«Mi rendo conto che posso sembrare Barry Fitzgerald che recita la parte del dottore in un vecchio film e che preferisco la comodità di uno studio in casa mia, ma ai miei pazienti non offro cure antiquate solo per il gusto di essere antiquato. Oserei dire che sono un medico molto più serio di quanto voi non siate disperata.»

«Se fossi in lei non ci giurerei», replicò Laura freddamente, anche se cominciava a essere stanca di quella finzione.

«Non si preoccupi», replicò Brenkshaw. «Collaborerò. Ho l’impressione che sarà più divertente se lo faccio.» A Chris disse: «Quando abbiamo attraversato il mio studio, hai notato un grande barattolo di ceramica rossa sulla mia scrivania? È pieno di caramelle all’arancia e di canditi, se ne vuoi un po’».

«Wow. Grazie!» esclamò Chris. «Posso prenderne una, mamma?»

«Una o due», rispose Laura, «ma non fare indigestione.»

Brenkshaw disse: «Quando mi succede di curare qualche giovane paziente, immagino di essere molto all’antica. Qui non ci sono chewing-gum. Che diavolo di roba è quella? Sa di plastica. E se si rompono i denti dopo essere stati da me, è un problema del loro dentista». Mentre parlava, tirò fuori una carrozzella ripiegata, l’aprì e la portò al centro della stanza.

Laura disse: «Tesoro, tu stai qui mentre noi andiamo alla jeep».

«Okay», rispose Chris dall’altra stanza, dove stava rovistando nel barattolo per scegliere il pezzo preferito.

«La jeep è nel vialetto d’accesso?» chiese Brenkshaw. «Allora usciamo dal retro. Daremo meno nell’occhio.»

Laura continuava a tenerlo sotto tiro, ma si sentiva sciocca. Usarono l’uscita secondaria del laboratorio, che dava su una rampa; non c’era perciò bisogno di scendere le scale.

«È l’entrata per gli handicappati», spiegò Brenkshaw tranquillamente, mentre spingeva la carrozzella lungo il sentiero che conduceva verso il retro della casa.

Contrariamente al prato davanti, dove crescevano gli ontani, il cortile laterale era abbellito di sempreverdi, fichi e pini. Ma, nonostante i folti rami degli alberi e l’oscurità, Laura riusciva a vedere le finestre della casa vicina, perciò suppose che avrebbe potuto essere vista se qualcuno si fosse affacciato.

Il mondo era immerso in quella quiete che regna solo da mezzanotte all’alba. Se non avesse saputo che erano quasi le due del mattino, lo avrebbe indovinato di lì a poco. Anche se da lontano giungeva la debole eco dei rumori della città, regnava un tale silenzio che anche se fosse uscita solo per portare la spazzatura, avrebbe avuto la sensazione di essere una donna impegnata in una missione segreta.

Il sentiero girava attorno alla casa, incrociandone un altro che si estendeva sul retro della proprietà. Oltrepassarono il portico posteriore attraverso un passaggio che si trovava fra la casa e il box e giunsero infine sul vialetto d’accesso.

Brenkshaw si fermò presso la jeep e sogghignò. «Fango sulle targhe», sussurrò, «un tocco convincente.»

Dopo che Laura ebbe aperto il portellone, il dottore entrò nel vano della jeep per dare un’occhiata al ferito.

Laura guardò verso la strada. Tutto era silenzioso, immobile.

Ma se una pattuglia della polizia fosse passata di lì in quel momento, durante il normale giro d’ispezione, l’agente si sarebbe sicuramente fermato per controllare che cosa fosse tutto quel movimento a casa del vecchio dottor Brenkshaw…

Il dottore stava già uscendo dalla jeep. «Per Dio! Ma qui c’è veramente un ferito!»

«Perché diavolo continua a sorprendersi? Secondo lei avrei allestito questa messa in scena solo per divertimento?»

«Portiamolo dentro. Presto», disse Brenkshaw.

Da solo non sarebbe riuscito a trasportare il suo Custode, perciò Laura, per aiutarlo, dovette infilare il revolver nella cintura dei pantaloni.

Brenkshaw non tentò né di scappare né di colpirla per cercare di toglierle l’arma. Al contrario, non appena ebbe sistemato il ferito sulla carrozzella, lo spinse fino all’entrata per gli handicappati dall’altra parte.

Laura afferrò l’Uzi dal sedile anteriore e seguì Brenkshaw. Pensava che non avrebbe avuto bisogno di un fucile mitragliatore, ma si sentiva meglio con quello fra le mani.


Quindici minuti più tardi Brenkshaw si allontanò dalle lastre che erano appese a una lavagna luminosa in un angolo del suo ambulatorio. «La pallottola non si è frammentata, è uscita direttamente dall’altra parte. Non ha intaccato le ossa perciò non dobbiamo preoccuparci di possibili schegge.»

«Fantastico», disse Chris che, seduto in un angolo, succhiava con grande soddisfazione una caramella. Nonostante in casa facesse caldo, Chris indossava ancora la sua giacca, come Laura del resto, che voleva essere pronta a uscire rapidamente in caso di necessità.

«È in coma?» chiese Laura al dottore.

«Sì, è in stato comatoso. Ma non a causa della febbre associata a una brutta infezione della ferita. Troppo presto per questo. E ora che è stato curato, probabilmente non ci sarà un’infezione. È un coma traumatico dovuto al fatto che è stato colpito, alla perdita di sangue, allo choc e a tutto il resto. Non avrebbe dovuto essere mosso, lo sa?»

«Non avevo altra scelta. Se la caverà?»

«Probabilmente sì. In questo caso il coma è una difesa che il corpo mette in atto, nel senso che si chiude per conservare l’energia e facilitare la guarigione. Non ha perso molto sangue; il polso è buono, perciò probabilmente questo stato non durerà a lungo. A giudicare dagli abiti, si sarebbe detto che si fosse quasi dissanguato, ma non è così. Deve aver passato dei brutti momenti. Nessun vaso sanguigno però è stato rotto, altrimenti le sue condizioni sarebbero state molto peggiori. Rimane il fatto che dovrebbe essere in ospedale.»

«Di questo abbiamo già parlato», replicò Laura spazientita. «Non possiamo andare in un ospedale.»

«Quale banca avete rapinato?» domandò il dottore in tono di scherno, ma i suoi occhi non erano maliziosi come quando aveva detto le altre battute.

Mentre attendeva che le radiografie si sviluppassero, pulì la ferita, la disinfettò con tintura di iodio, la cosparse di un antibiotico in polvere e preparò una benda. Poi, da un armadietto prese un ago, un altro strumento che Laura non riuscì a identificare e uno spago e li depose su un vassoio in acciaio inossidabile a lato del lettino. Il ferito giaceva lì, coricato sul lato destro con l’aiuto di diversi cuscini.

«Che cosa sta facendo?» chiese Laura.

«I fori provocati dal proiettile sono troppo grandi, soprattutto quello da dove è uscito. Se continua a mettere a repentaglio la sua vita impedendogli di andare in un ospedale, l’unica cosa che posso fare è dargli qualche punto.»

«D’accordo, ma faccia presto.»

«Si aspetta che da un momento all’altro gli agenti federali buttino giù la porta?»

«Molto peggio, dottore», disse Laura. «Mille volte peggio di questo.»

Da quando erano arrivati a casa del dottore, Laura si era aspettata di vedere all’improvviso il cielo squarciato dai lampi e i tuoni rimbombare come se giganteschi zoccoli di cavalieri apocalittici preannunciassero l’arrivo di viaggiatori del tempo ben armati. Quindici minuti prima, mentre il medico stava facendo le radiografie al suo Custode, a Laura era parso di sentire un tuono così distante che era appena udibile. Era corsa alla finestra più vicina per scrutare il cielo alla ricerca di un lampo lontano, ma non aveva visto nulla attraverso gli alberi, forse perché il cielo sopra San Bernardino era già avvolto dal bagliore rossastro delle luci della città o forse perché non c’era stato nessun tuono. Alla fine si convinse che si era trattato di un aereo e che, presa dal panico, lo aveva scambiato per un tuono.

Brenkshaw suturò la ferita, tagliò lo spago e fissò la fasciatura con dei grossi cerotti che avvolse ripetutamente attorno al petto e alla schiena di Stefan.

Nell’aria aleggiava un odore pungente di medicinali che nauseò leggermente Laura, ma che invece non infastidì affatto Chris. Sedeva in un angolo, succhiando un’altra caramella.

Mentre attendeva che fossero pronte le radiografie, Brenkshaw gli fece una iniezione di penicillina. Poi si diresse verso gli alti armadietti bianchi di metallo in fondo alla parete e da un grande vaso estrasse delle capsule che infilò in una boccetta, poi da un secondo recipiente ne estrasse altre che inserì in una seconda bottiglietta. «Qui tengo dei medicinali di base che vendo ai pazienti a prezzo di costo, così non devono ridursi al verde andando in farmacia.»

«Che cosa sono?» chiese Laura quando Brenkshaw ritornò vicino al lettino e le porse le due boccette. «In questa c’è penicillina, tre volte al giorno, ai pasti, se può mangiare. Io credo che si riprenderà presto. In caso contrario comincerà a disidratarsi e avrà bisogno di flebo. Non posso dargli nulla di liquido per bocca ora che è in coma, lo sputerebbe. Questo invece è un analgesico. Solo se è necessario, e non più di due al giorno.»

«Me ne dia di più. Anzi, mi dia tutte quelle che ha.» E indicò i due vasi che contenevano centinaia di capsule.

«Ma non avrà bisogno di tutte queste medicine, né di un tipo né dell’altro…»

«No, certo che no», replicò Laura. «Ma non so in quali altri guai potremmo finire. Potremmo aver bisogno sia di penicillina sia di analgesici. Per me o… per il mio bambino.»

Brenkshaw la fissò per un lungo momento. «Ma santo Dio, in che diavolo di situazione si è cacciata? C’è qualcosa di simile in uno dei suoi libri.»

«Mi dia…» Laura tacque, colpita da quanto aveva udito. «Qualcosa di simile in uno dei miei libri? In uno dei miei libri! Oh mio Dio, ma lei sa chi sono!»

«Ma certo. L’ho riconosciuta subito, quando l’ho vista sul portico. Come le ho detto, sono un appassionato di gialli e nonostante i suoi libri non possano essere considerati tali, sono carichi di suspence, perciò ho letto anche quelli. E poi c’è la sua fotografia sul retro della copertina… Mi creda, signora Shane, nessun uomo può dimenticare il suo volto una volta che l’ha visto, anche se solo in fotografia e anche se è un vecchio bacucco come me.»

«Ma perché non ha detto…»

«All’inizio ho pensato che fosse uno scherzo. Dopotutto, il modo melodrammatico in cui siete comparsi davanti a casa mia, nel cuore della notte, il revolver, quel dialogo un po’ scontato… sembrava tutto uno scherzo. Mi creda, ho certi amici che farebbero burle del genere e se la conoscessero sarebbero capaci di convincerla ad aggregarsi a loro.»

Indicando il suo Custode, Laura disse: «Quando ha visto lui…»

«Allora ho capito che non era uno scherzo», rispose il dottore.

Chris corse da sua madre e si tirò fuori la caramella dalla bocca. «Mamma, se dice qualcosa su di noi…»

Laura sfilò il revolver dalla cintola. Cominciò ad alzarlo, poi abbassò la mano, poiché comprese che l’arma non aveva alcun potere intimidatorio su Brenkshaw; di fatto non lo aveva mai intimorito. Non era il tipo d’uomo che poteva essere intimidito e lei non poteva certo recitare in modo convincente la parte della donna pericolosa e fuorilegge quando egli era a conoscenza della sua vera identità.

Sul lettino, il suo Custode si lamentò e cercò di girarsi nel suo sonno innaturale, ma Brenkshaw gli posò una mano sul petto e lo tenne fermo.

«Senta, dottore, se lei racconterà a qualcuno ciò che è successo questa notte, se non riesce a mantenere il segreto di questa mia visita per il resto della sua vita, sarà responsabile della morte mia e di mio figlio.»

«La legge richiede che un medico denunci qualsiasi ferita d’arma da fuoco che cura.»

«Ma questo è un caso speciale», replicò Laura. «Non sto sfuggendo alla legge, dottore.»

«Da chi sta scappando?»

«In un certo senso… dagli stessi uomini che hanno ucciso mio marito, il padre di Chris.»

Brenkshaw sembrò sorpreso e addolorato. «Suo marito è stato ucciso?»

«Avrà letto la notizia sui giornali», disse Laura amaramente. «Ha fatto notizia per un po’. Un genere di argomento che la stampa adora.»

«Mi dispiace, ma non leggo i giornali né guardo la televisione», rispose Brenkshaw. «Non ci sono che guerre, incidenti, terroristi impazziti. Non danno delle notizie reali, solo sangue, tragedie e politica. Sono desolato per suo marito. E se queste persone che lo hanno ucciso, chiunque esse siano, vogliono uccidere voi, dovreste andare subito alla polizia!»

A Laura piaceva quell’uomo e pensò che avessero molti punti di vista in comune. Sembrava ragionevole, gentile. Tuttavia aveva poca speranza di convincerlo a tenere la bocca chiusa. «La polizia non può proteggermi, dottore. Nessuno può proteggermi se non io stessa e forse quell’uomo che ha appena curato. Queste persone che ci inseguono… sono spietate, implacabili e sono al di là della legge.»

Brenkshaw scosse la testa. «Nessuno è al di là della legge.»

«Loro lo sono, dottore. Mi ci vorrebbe un’ora per spiegarle il perché, e poi, probabilmente non mi crederebbe. Ma la prego, se non vuole avere i nostri cadaveri sulla coscienza, tenga la bocca chiusa su quanto è successo. Ma non solo per qualche giorno, per sempre!»

«Be’…»

Laura lo stava studiando e comprese che non sarebbe servito a nulla. Ricordò ciò che le aveva detto prima nell’anticamera, quando lo aveva avvertito di non mentire sulla presenza di qualche altra persona nella casa: lui non mentiva, aveva detto, perché dire la verità rendeva sempre la vita più semplice. Dire la verità era un’abitudine di vita. E in quei pochi minuti si era resa conto che era veramente un uomo insolitamente sincero. Persino ora, mentre lei lo pregava di mantenere il segreto sulla loro visita, non era capace di dire quella bugia che l’avrebbe tranquillizzata e l’avrebbe fatta uscire dal suo ambulatorio. Lui la guardò con espressione colpevole e non riuscì a mentire. Avrebbe fatto il suo dovere quando lei sarebbe partita, avrebbe compilato un rapporto per la polizia. I poliziotti l’avrebbero cercata nella sua casa vicino a Big Bear, dove avrebbero scoperto le tracce di sangue, se non i corpi dei viaggiatori del tempo, e dove avrebbero trovato centinaia di bossoli, finestre infrante, muri segnati dai fori dei proiettili. Domani, o forse il giorno seguente, la notizia sarebbe apparsa su tutti i giornali… Il rumore che aveva sentito mezz’ora prima forse non era un aereo di passaggio. Forse era ciò che aveva pensato al momento: un tuono molto lontano, a venticinque o trenta chilometri di distanza.

Ancora dei tuoni in una notte senza pioggia.

«Dottore, mi aiuti a vestirlo», disse Laura, indicando il suo Custode sul lettino accanto. «Faccia almeno questo per me, visto che mi tradirà.»

Brenkshaw trasalì visibilmente alla parola tradire.

Prima aveva mandato Chris di sopra a prendere degli indumenti di Brenkshaw: camicie, magliette, giacche, pantaloni, un paio di calze e un paio di scarpe. Avevano più o meno la stessa taglia.

Al momento il ferito indossava solo un paio di slip sporchi di sangue, ma Laura sapeva che non c’era tempo per fargli indossare tutti i vestiti. «Mi aiuti solo a infilargli la giacca, dottore, porterò il resto con me e lo vestirò più tardi. La giacca sarà sufficiente per proteggerlo dal freddo.»

Con riluttanza, Brenkshaw sollevò il ferito e lo mise a sedere sul lettino. «Non dovrebbe essere mosso.»

Laura lo ignorò e mentre cercava di infilare il braccio destro di Stefan nella manica della giacca di velluto a coste, disse a Chris: «Vai nella sala d’attesa che dà sulla strada. Lì è buio. Non accendere le luci. Vai alla finestra e controlla la situazione. Per l’amor di Dio non farti vedere!»

«Pensi che siano qui?» chiese il bambino in tono spaventato.

«Se non sono ancora qui, lo saranno presto», rispose Laura, infilando l’altro braccio del suo Custode nella manica della giacca.

«Di che cosa state parlando?» chiese Brenkshaw, mentre Chris si precipitava nella camera accanto e da lì nella buia sala d’attesa.

Laura non rispose. «Forza, mettiamolo sulla carrozzella.»

Insieme sollevarono il ferito dal lettino e lo sistemarono nella carrozzella allacciandogli una cintura attorno alla vita.

Mentre Laura avvolgeva i due vasi di medicinali nei vestiti e ne faceva un fagotto, Chris ritornò indietro correndo. «Mamma, sono arrivati proprio ora, devono essere loro, due macchine piene di uomini dall’altra parte della strada. Sono in sette o otto. Che cosa facciamo?»

«Dannazione!» esclamò Laura. «Non possiamo raggiungere la jeep adesso e non possiamo neppure uscire dalla porta laterale perché potrebbero vederci!»

Brenkshaw fece per dirigersi verso il suo studio. «Chiamerò la polizia…»

«No!»

Mise il fagotto con gli abiti, le medicine e la sua borsa fra le gambe del suo Custode e afferrò il fucile mitragliatore. «Al diavolo, non c’è più tempo! Deve aiutarmi a fare uscire la carrozzella dal retro, giù per gli scalini del portico posteriore.»

Alla fine riuscì a convincere il dottore, che afferrò la carrozzella e la spinse rapidamente attraverso una porta che collegava l’ambulatorio al corridoio. Laura e Chris lo seguirono lungo il buio corridoio, poi attraverso la cucina illuminata solo dalla tenue luce che proveniva dagli orologi digitali del forno e del forno a microonde. La carrozzella urtò con violenza contro la soglia che divideva la cucina dal portico posteriore, facendo sballottare paurosamente il ferito.

Laura si mise l’Uzi sulla spalla, infilò il revolver nella cintura, corse davanti a Brenkshaw e scese gli scalini. Afferrò la carrozzella dal davanti, aiutandolo a farla scendere fino al sentiero.

Lanciò uno sguardo verso il passaggio fra la casa e il box, quasi certa di veder già spuntare un uomo armato. A Brenkshaw bisbigliò: «Deve venire con noi. Se rimane qui la uccideranno, sono sicura che lo faranno».

Il medico si astenne nuovamente da qualsiasi commento e seguì Chris. Laura arrivò per ultima, imbracciando il fucile mitragliatore, pronta a voltarsi e ad aprire il fuoco se avesse udito un rumore provenire dalla casa dietro di loro.

Quando Chris raggiunse il cancello, lo aprì, ma all’improvviso un uomo vestito di nero avanzò dal vicolo, più scuro della notte che li circondava, tranne per il biancore lunare del volto e delle mani, non meno sorpreso di vederseli davanti di quanto lo fossero loro. Veniva dalla strada accanto alla casa e stava imboccando il vialetto per offrire una copertura sul retro. Nella mano sinistra luccicò sinistramente un fucile mitragliatore. Non era in posizione di tiro, ma prontamente cominciò a sollevarlo. Laura non poteva sparargli, non senza falciare anche suo figlio. Poi Chris reagì come per mesi Henry Takahami gli aveva insegnato. Il bambino roteò e con un calcio colpì il braccio destro dell’assassino, facendogli saltare dalla mano il fucile, che cadde nel prato con un tonfo. Chris calciò nuovamente, ma questa volta mirò ai testicoli dell’avversario. Con un grido di dolore, l’uomo cadde all’indietro, contro il pilastro del cancello.

A quel punto Laura aveva già girato la carrozzella e si era messa fra Chris e il killer. Impugnò l’Uzi per la canna, lo sollevò e abbattè il calcio sul cranio dell’assassino, colpendo con tutte le sue forze. L’uomo cadde nel prato, lasciando libero il passaggio, senza aver avuto la possibilità di lanciare un grido.

Gli eventi stavano prendendo un ritmo veloce, troppo veloce. Si trovavano in un prato in discesa, Chris aveva già oltrepassato il cancello e Laura lo stava seguendo, quando sorpresero un secondo uomo vestito di nero, gli occhi come fessure nel volto cadaverico. Un vampiro. Non era possibile eliminarlo con un colpo di karaté, perciò Laura dovette aprire il fuoco prima che l’uomo usasse il suo fucile. Sparò al di sopra della testa di Chris, un colpo preciso che colpì l’assassino nel petto e nel collo, praticamente decapitandolo mentre veniva catapultato all’indietro sul selciato del vialetto.

Brenkshaw aveva oltrepassato il cancello dopo di loro, spingendo la carrozzella nel vialetto e Laura era desolata di averlo coinvolto in quella faccenda, ma ormai non poteva tornare indietro. La strada sul retro era stretta, fiancheggiata su entrambi i lati dai giardini recintati delle case, con qualche box e i bidoni della spazzatura ammassati dietro ogni proprietà, debolmente illuminata dai lampioni che si trovavano agli incroci delle strade, alla fine di ogni isolato.

Laura disse a Brenkshaw: «Attraversi il vialetto e vada un po’ avanti, di un paio di porte. Poi cerchi un cancello che sia aperto e si nasconda con lui nel giardino di qualcun altro. Chris, tu vai con loro».

«E tu?»

«Vi raggiungerò fra un attimo.»

«Mamma…»

«Vai, Chris!» gli ordinò Laura, perché il dottore si era già allontanato di una quindicina di metri, attraversando il vialetto.

Mentre il bambino seguiva con riluttanza Brenkshaw, Laura ritornò verso il cancello aperto sul retro della proprietà del dottore. Fece appena in tempo a vedere due figure scure sgusciare fuori dal passaggio fra la casa e il box, a una ventina di metri da lei, appena visibili, individuabili solo grazie al fatto che si stavano muovendo. Correvano rannicchiati, uno di loro diretto verso il portico e l’altro verso il prato, perché non erano ancora riusciti a comprendere esattamente da dove provenisse il fuoco.

Laura superò il cancello, entrò nel vialetto e aprì il fuoco su di loro prima che potessero vederla, mitragliando il retro della casa di pallottole. Anche se non era vicina ai suoi bersagli, venti metri non erano una grande distanza e le due figure si gettarono a terra per trovare riparo. Non era certa di averli colpiti e non continuò a sparare perché, anche con un caricatore di quattrocento colpi sparati in brevi raffiche, l’Uzi avrebbe potuto svuotarsi rapidamente. E ora era l’unica arma automatica che ancora possedesse. Arretrò oltre il cancello e corse per raggiungere Brenkshaw e Chris.

Avevano appena oltrepassato un cancello in ferro battuto sul retro di una proprietà che si trovava sull’altro lato del vialetto, due porte più in giù. Quando li raggiunse ed entrò nel giardino, si accorse che lungo il recinto di ferro, a sinistra e a destra del cancello, crescevano delle vecchie eugenie che si erano sviluppate a tal punto da formare una fitta siepe, perciò nessuno avrebbe potuto intravederla facilmente dal vialetto, a meno che non si trovasse davanti al cancello stesso.

Il dottore era già arrivato con la carrozzella in fondo al vialetto sul retro della casa. Al contrario di quella di Brenkshaw, questa era in stile Tudor, costruita circa quaranta o cinquant’anni prima. Il dottore stava per imboccare il vialetto d’accesso che conduceva sull’altra strada principale.

Delle luci si accesero nelle case attorno. Laura era sicura che ci fosse qualcuno dietro le finestre, anche dietro quelle che non si erano illuminate, ma pensò che comunque non avrebbe visto molto.

Raggiunse Brenkshaw e Chris davanti alla casa e li fermò nell’ombra, vicino a degli alti arbusti. «Dottore, mi aspetti qui con il suo paziente», sussurrò Laura.

Brenkshaw stava tremando e Laura pregò in cuor suo che non fosse colto da un attacco di cuore, ma nonostante tutto era ancora in forma. «Starò qui.»

Con Chris andò nella strada adiacente, dove c’erano alcune macchine parcheggiate, alcune vicine e alcune in fondo all’isolato. Sotto la luce livida dei lampioni, vide che il bambino sembrava esausto, ma le sue condizioni non erano tremende come aveva temuto, non era spaventato come il dottore. Si stava abituando al terrore. Gli disse: «Senti, cominciamo a provare le portiere delle auto. Tu inizi da questo lato e io dal fondo. Se trovi la portiera aperta, controlla se hanno lasciato dentro le chiavi».

«Capito.»

Una volta aveva svolto una ricerca per un libro in cui uno dei personaggi era un ladro d’auto e aveva imparato, fra le altre cose, che in media un guidatore su diciassette lasciava le chiavi nell’auto durante la notte. Si augurò di avere maggiori possibilità in un posto come San Bernardino; a New York, Chicago, Los Angeles e altre grandi città, nessuno era così stupido da lasciare le chiavi nella propria auto.

Cercò di tenere d’occhio Chris, mentre provava le portiere delle auto in fondo alla strada, ma presto perse ogni traccia di lui. Delle prime otto macchine, quattro erano aperte, ma in nessuna c’erano le chiavi.

In lontananza giunse il suono delle sirene.

Questo probabilmente avrebbe fatto allontanare gli uomini in nero. Tuttavia, la cosa più plausibile era che stessero ancora aggirandosi lungo il vialetto dietro la casa di Brenkshaw, aspettandosi da un momento all’altro di essere nuovamente colpiti.

Laura si muoveva senza preoccuparsi del fatto che gli abitanti delle case adiacenti potessero vederla. La strada era fiancheggiata da datteri adulti, ma un po’ rachitici e ripiegati su se stessi, che offrivano un buon riparo. Se qualcuno si fosse alzato a quell’ora della notte, probabilmente si sarebbe affacciato alle finestre del secondo piano, ma non avrebbe cercato di guardare giù in strada attraverso le palme, piuttosto avrebbe rivolto la sua attenzione più in là, verso l’altra strada, verso la casa di Brenkshaw da dove si erano uditi gli spari.

La nona vettura era una Oldsmobile Cutlass e sotto il sedile c’erano le chiavi. Aveva appena messo in moto e richiuso la portiera, quando Chris aprì l’altra e le mostrò un mazzo di chiavi che aveva trovato.

«Una Toyota nuova di zecca», disse.

«Questa andrà bene», replicò Laura.

Le sirene erano vicine.

Chris gettò le chiavi della Toyota, saltò sulla macchina e insieme si diressero verso la casa, sull’altro lato della strada, dove il dottore stava attendendo nell’ombra lungo il vialetto d’accesso di quella casa dove non si erano ancora accese delle luci. Forse erano fortunati. Forse non c’era nessuno in casa. Sollevarono il suo Custode dalla carrozzella e lo adagiarono sul sedile posteriore della Cutlass.

Ora le sirene erano molto vicine. In fondo all’isolato, videro sfrecciare una macchina della polizia, lungo la strada laterale, con le luci lampeggianti, che si dirigeva verso l’isolato in cui abitava Brenkshaw.

«Tutto bene, dottore?» chiese Laura, mentre richiudeva la portiera posteriore.

Brenkshaw si era accasciato nella carrozzella. «Non mi è venuto un colpo, se è di questo che ha paura. Ma che diavolo le sta succedendo, figliola?»

«Non c’è tempo, dottore. Devo andarmene di qui.»

«Senta», disse Brenkshaw. «Forse non dirò niente.»

«Sì che lo farà, invece», replicò Laura. «Può anche credere il contrario, ma racconterà tutto. Se non l’avesse fatto non ci sarebbe stato un rapporto della polizia o le notizie sui giornali e senza quel resoconto del futuro quegli uomini armati non sarebbero stati in grado di trovarmi.»

«Ma che cosa sta farneticando?»

Laura si chinò e gli diede un bacio sulla guancia. «Non c’è tempo per le spiegazioni, dottore. Grazie per il suo aiuto. Sarà meglio che io prenda anche la carrozzella.»

Brenkshaw la ripiegò e la mise nel bagagliaio.

Nella notte si sentiva solo l’ululato delle sirene.

Laura si mise al posto di guida, sbattendo la portiera dietro di sé. «Allacciati la cintura, Chris.»

«Fatto», rispose il bambino.

Alla fine del vialetto Laura girò a sinistra e si diresse in fondo all’isolato, all’incrocio, lontano dal quartiere di Brenkshaw, verso quella stessa strada sulla quale solo qualche minuto prima era passata lampeggiando una volante. Immaginò che se le auto della polizia stavano convergendo nella zona in seguito alla segnalazione di una sparatoria, sarebbero arrivate da punti diversi della città, da diverse stazioni di polizia, perciò forse nessun’altra auto sarebbe arrivata da quella stessa strada. La via era pressoché deserta e le uniche macchine che Laura vide non erano munite di luci lampeggianti. Svoltò a destra, allontanandosi velocemente da quel luogo, attraverso San Bernardino, chiedendosi dove avrebbe potuto trovare rifugio.

3

Laura raggiunse Riverside alle tre del mattino, rubò una Buick da una tranquilla strada residenziale, con la carrozzella trasferì il suo Custode da una macchina all’altra e abbandonò la Cutlass. Chris dormì durante l’intera operazione e dovette essere trasportato in braccio da una parte all’altra.

Mezz’ora dopo, in un altro quartiere, esausta e con un gran bisogno di riposare, utilizzò un cacciavite che aveva trovato in una cassetta per gli attrezzi che si trovava nel bagagliaio della Buick per rubare le targhe da una Nissan. Le sostituì a quelle della Buick, che infilò nel bagagliaio della macchina.

Sarebbero passati almeno un paio di giorni prima che il proprietario della Nissan si accorgesse della scomparsa delle targhe e anche quando l’avesse denunciata, la polizia non avrebbe prestato la stessa attenzione che dava ai furti delle auto. Solitamente le targhe venivano tolte da bambini che si divertivano a fare degli scherzi stupidi o da vandali e la polizia dava la precedenza a casi relativi a crimini molto più gravi. Questo era un altro dato molto utile che aveva appreso mentre svolgeva la ricerca per uno dei suoi libri, in cui un ladro di auto aveva giocato un ruolo secondario.

Si fermò tanto quanto bastava per coprire meglio il suo Custode e impedire che si prendesse un malanno. Gli infilò un paio di calzettoni di lana, le scarpe e un maglione. A un certo punto lui aprì gli occhi, la fissò e pronunciò il suo nome e Laura pensò che stesse uscendo dal suo torpore, ma poi scivolò nuovamente nel suo stato di incoscienza, farfugliando in una lingua che Laura non riuscì a comprendere, anche perché non riusciva a capire chiaramente le parole.

Da Riverside si diresse verso Yorba Linda, nella provincia di Orange, dove fermò l’auto in un angolo del parcheggio del supermercato Ralph, alle quattro e cinquanta del mattino. Spense il motore e le luci e slacciò la cintura di sicurezza. Chris invece era ancora assicurato alla sua cintura, appoggiato contro la portiera, profondamente addormentato. Sul sedile posteriore, il suo Custode giaceva ancora in stato di incoscienza, anche se il suo respiro era più regolare. Laura pensava che non sarebbe riuscita ad addormentarsi. Sperava semplicemente di raccogliere le idee e di chiudere gli occhi, ma nel giro di due minuti piombò nel sonno.

Dopo avere ucciso almeno tre uomini, dopo essere stata presa di mira ripetutamente, dopo aver rubato due auto, dopo essere sopravvissuta a una caccia che l’aveva fatta fuggire attraverso ben tre contee, si sarebbe aspettata di fare sogni orribili, di corpi dilaniati e di sangue, con il freddo suono metallico di un’arma automatica come musica di sottofondo per quell’incubo. Si sarebbe aspettata di sognare di perdere Chris, poiché era una delle ultime due luci che risplendevano ancora nella sua oscurità interiore — lui e Thelma — ed era terrorizzata al pensiero di andare avanti senza di lui. Invece sognò Danny e furono sogni bellissimi, non incubi. Danny era vivo e stavano festeggiando la vendita di Shadrach per più di un milione di dollari, ma c’era anche Chris e aveva otto anni, anche se in realtà Chris a quel tempo non era ancora nato. Erano a Disneyland, dove tutti e tre si facevano fotografare con Topolino e al Carnation Pavilion Danny le diceva che l’avrebbe amata per sempre, mentre Chris pretendeva di poter parlare come i maiali, un linguaggio tutto grugniti, che aveva imparato da Carl Dockweiler, che era seduto a un tavolo vicino con Nina e con il padre di Laura, mentre a un altro tavolo le fantastiche gemelle Ackerson stavano mangiando una coppa di gelato alla fragola…

Si svegliò tre ore più tardi, sentendosi riposata, soprattutto grazie a quella comunione familiare che il suo subconscio le aveva offerto. Il sole luminoso in un cielo senza nubi faceva scintillare le cromature dell’auto e dal finestrino posteriore penetrò un raggio splendente. Chris stava ancora dormendo. L’uomo ferito non aveva ancora ripreso conoscenza.

Si azzardò ad andare fino alla cabina telefonica che era accanto al supermercato, da dove poteva tenere d’occhio l’auto. Con delle monete che aveva in borsa, chiamò Ida Palomar, l’insegnante di Chris a Lake Arrowhead, per informarla che sarebbero mancati da casa per tutta la settimana. Non voleva che la povera Ida si recasse, ignara di tutto, nella casa di Big Bear, quella casa segnata dalle pallottole e macchiata di sangue, dove le squadre della polizia stavano senza dubbio lavorando alacremente. Non disse nemmeno da dove stava chiamando; e comunque non aveva intenzione di fermarsi a Yorba Linda molto tempo.

Dopo che fu ritornata all’auto, si sedette sbadigliando, stirandosi e massaggiandosi il collo, mentre osservava i primi acquirenti entrare nel supermercato poco distante. Aveva fame. Con gli occhi impastati di sonno e l’alito pesante, Chris si svegliò dopo una decina di minuti e Laura gli diede del denaro per andare al supermercato e comprare un pacco di dolcetti e due confezioni di succo d’arancia. Non era certo una colazione nutriente, ma almeno avrebbe dato loro un po’ di energia.

«E lui?» chiese Chris, indicando il suo Custode.

Si ricordò di quanto Brenkshaw le aveva detto a proposito del rischio che il paziente potesse disidratarsi. Ma sapeva anche che non poteva fargli ingerire dei liquidi mentre era ancora in stato comatoso. «Be’… prendi un succo d’arancia in più. Non è detto che non riesca a convincerlo a svegliarsi.» Mentre Chris stava per scendere dalla macchina, Laura aggiunse: «Forse è il caso di prendere qualcosa anche per pranzo, qualcosa che non vada a male… diciamo una pagnotta di pane e un vasetto di burro d’arachidi. Prendi anche un deodorante spray e una bottiglia di shampoo».

Chris fece un largo sorriso. «Perché non mi lasci mangiare così a casa?»

«Perché se non ti nutrì in un modo decente, finirai per avere un cervello ancora più svitato di quello che hai ora, ragazzo mio.»

«Persino ora che stiamo scappando da un branco di sicari, sono veramente sorpreso che tu non ti sia portata dietro un forno a microonde, delle verdure fresche e una bottiglia di vitamine.»

«Mi stai forse dicendo che sono una buona madre, ma pur sempre una scocciatrice? Complimento recepito, colpo incassato. E adesso vai.»

Stava per chiudere la portiera, quando Laura aggiunse: «Chris…»

«Lo so», disse il bambino. «Stai attento.»

Quando Chris se ne fu andato, avviò il motore e accese la radio per ascoltare il notiziario delle nove. Sentì due notizie che la interessavano: ciò che era accaduto nella sua casa a Big Bear e la sparatoria a San Bernardino. Come la maggior parte delle notizie, anche queste erano imprecise e non avevano molto senso. Ma confermavano che la polizia la stava cercando per tutta la California del sud. Secondo il radiocronista le autorità prevedevano di rintracciarla presto, soprattutto grazie al fatto che il suo volto era molto conosciuto.

Era rimasta molto sorpresa quando la notte prima Carter Brenkshaw aveva riconosciuto in lei Laura Shane, la famosa scrittrice. Non si reputava una celebrità, era solo una scrittrice di romanzi. Aveva fatto solo un giro di propaganda in occasione della pubblicazione di uno dei suoi primi romanzi, aveva detestato quel noiosissimo e faticoso viaggio e non aveva mai più ripetuto l’esperienza. Non era un’ospite regolare nei dibattiti televisivi. Non aveva mai sponsorizzato un prodotto in uno spot televisivo, né si era mai presentata in pubblico per sostenere un uomo politico. In linea generale aveva cercato di evitare di entrare nel circuito dei mass media. Non aveva mai avuto nulla in contrario a far pubblicare la propria fotografia sulla copertina dei libri, perché le sembrava una cosa innocua e all’età di trentatré anni poteva ammettere senza presunzione di essere una donna attraente, ma non avrebbe mai immaginato, come sosteneva la polizia, che il suo volto fosse molto conosciuto.

Ora si sentiva minacciata, non solo perché la perdita dell’anonimato la rendeva una preda più facile per la polizia, ma perché sapeva che diventare una celebrità, nella vita moderna, equivaleva a una perdita della capacità di autocritica personale e a un grave declino delle potenzialità artistiche. Pochi riuscivano a essere dei personaggi pubblici e nello stesso tempo degli scrittori di valore; la maggior parte sembrava essere corrotta dall’attenzione del pubblico. Laura temeva quella trappola tanto quanto temeva di essere scoperta dalla polizia.

Improvvisamente, e non senza una certa sorpresa, si rese conto che se riusciva a preoccuparsi del fatto di diventare una celebrità e di perdere la vena artistica, ciò significava che credeva ancora in un futuro positivo in cui avrebbe scritto altri libri. In alcuni momenti, durante gli avvenimenti che si erano succeduti in quella notte, aveva fatto voto di combattere fino alla morte, di lottare fino all’ultimo sangue per proteggere suo figlio, ma per tutto il tempo aveva avuto la sensazione che la loro situazione fosse disperata, che il loro nemico fosse troppo potente e irraggiungibile per essere distrutto. Adesso, invece, qualcosa in lei era cambiato, un debole, cauto ottimismo era rinato in lei.

Forse era stato il sogno.

Chris tornò con un grande pacco di dolcetti alla cannella, tre cartoni di succo d’arancia e le altre cose che Laura gli aveva chiesto.

Mangiarono i dolci e bevvero il succo con un piacere mai provato.

Terminata la colazione, Laura cercò di svegliare il suo Custode. Ma non ci fu nulla da fare.

Diede il terzo cartone di succo d’arancia a Chris e gli disse: «Tienilo per lui. Probabilmente si sveglierà presto».

«Se non può bere, non può prendere la penicillina», osservò Chris.

«Ancora per qualche ora non ne avrà bisogno. Ieri notte il dottor Brenkshaw gli ha somministrato una dose piuttosto potente.»

Ma Laura era preoccupata. Se non avesse ripreso conoscenza, non avrebbero forse mai conosciuto la vera natura del pericoloso labirinto in cui si erano persi e probabilmente non avrebbero mai trovato una via d’uscita.

«Che cosa facciamo adesso?» chiese Chris.

«Cerchiamo una stazione di servizio, utilizziamo le toilette, poi ci fermiamo in un’armeria per comprare le munizioni per l’Uzi e la pistola. Dopodiché… cominceremo a cercare un motel che faccia al caso nostro, un posto dove possiamo nasconderei.»

Una volta sistemati da qualche parte, sarebbero stati all’incirca a una settantina di chilometri di distanza dalla casa di Brenkshaw, dove per l’ultima volta i loro nemici li avevano trovati. Ma la distanza era importante per uomini che misuravano i loro viaggi esclusivamente in giorni e in anni piuttosto che in chilometri?


Alcune zone di Santa Ana, i sobborghi a sud di Anaheim e le zone adiacenti, offrivano il più alto numero di motel che rispondevano alle caratteristiche che Laura stava cercando. Non voleva un moderno, luccicante Red Lion Inn o un Motor Lodge, con televisione a colori, morbidi tappeti e una piscina riscaldata, perché in quei luoghi rispettabili venivano richiesti un documento di riconoscimento valido e una carta di credito. Non poteva rischiare di lasciare una traccia attraverso la quale la polizia o i suoi assassini potessero risalire fino a lei. Ciò che stava cercando era un motel che non avesse ormai più una parvenza di pulito e il cui aspetto non fosse più sufficientemente decoroso da attirare dei turisti, un luogo cadente dove sarebbero stati contenti di fare affari, avidi di denaro contante e disposti a non fare domande.

Sapeva che sarebbe stato molto difficile trovare una stanza e non si stupì di ricevere un rifiuto nei primi dodici posti che visitò, dove non erano in grado o forse non desideravano ospitarla. Le uniche persone che vedeva entrare e uscire da quei motel malfamati erano giovani donne messicane con in braccio i loro pargoli oppure che trascinavano bambini piccoli; giovani messicani o uomini di mezza età in scarpe da tennis, pantaloni di cotone e camicie di flanella, con cappelli di paglia o berretti da baseball. E tutti quanti con un’aria guardinga e sospettosa. Per la maggior parte, questi motel decrepiti erano diventati una sorta di casa-albergo per gli immigrati clandestini, e nella sola contea di Orange si contavano a migliaia. Intere famiglie vivevano in un’unica stanza, cinque, sei o sette persone ammassate in uno spazio minimo, dividendo un decrepito letto, due sedie e un bagno con l’impianto idraulico appena sufficiente. E per questo pagavano centocinquanta dollari la settimana o forse più, ma non veniva loro offerto il cambio giornaliero delle lenzuola né un servizio di pulizie né comodità di alcun genere, tranne la presenza di scarafaggi. Nonostante ciò, questa gente accettava di buon grado questa sistemazione e si lasciava sfruttare in modo vergognoso piuttosto che ritornare in patria e vivere sotto la regola del «governo rivoluzionario» che per decenni aveva offerto loro solo disperazione.

Nel tredicesimo motel, il Bluebird of Happiness, il proprietario non aveva ancora ceduto alla tentazione di arricchirsi alle spalle dei poveri immigrati. Alcune delle ventiquattro stanze erano ovviamente affittate a dei clandestini, ma la direzione forniva un cambio giornaliero di lenzuola, un servizio di pulizia, la televisione in camera, due cuscini di ricambio in ogni armadio. Tuttavia, il fatto che l’impiegato alla reception accettasse denaro in contanti, che non insistesse per avere un documento di identificazione e che evitasse di incontrare il suo sguardo era una triste riprova che nel giro di un anno il Bluebird of Happiness sarebbe stata una testimonianza in più della stupidità politica e dell’avarizia umana in un mondo saturo di questi monumenti tanto quanto un vecchio cimitero di città era affollato di lapidi.

Il motel era costituito da tre ali disposte a U, con il parcheggio nel centro. La loro stanza si trovava nell’angolo posteriore destro. Una grande palma a ventaglio cresceva accanto alla porta della loro stanza, apparentemente non intaccata dallo smog né limitata dal piccolo fazzoletto di terra in mezzo a tanto cemento e asfalto. Aveva foglie nuove anche in inverno, quasi che la natura l’avesse scelta come simbolo della sua intenzione di impadronirsi nuovamente di ogni angolo della terra quando il genere umano fosse scomparso.

Laura e Chris aprirono la carrozzella e vi misero a sedere il ferito, senza tentare di nascondere ciò che stavano facendo, come se stessero semplicemente prendendosi cura di un handicappato. Cornpletamente vestito, con la ferita nascosta, il suo Custode poteva passare per un paraplegico, se non fosse stato per il modo in cui la testa gli ciondolava sulla spalla.

La loro stanza era piccola ma abbastanza pulita. La moquette era logora ma doveva essere stata lavata di recente. La coperta marrone distesa sull’enorme letto matrimoniale era lisa sui bordi e il disegno non era abbastanza fitto da nascondere un paio di rattoppi, ma le lenzuola erano pulite e profumavano vagamente di detersivo. Adagiarono il ferito sul letto e gli misero due cuscini sotto la testa.

Il televisore a diciassette pollici era saldamente avvitato a un tavolino con il piano in laminato tutto graffiato; anche le gambe posteriori del tavolo erano avvitate al pavimento. Chris si sedette in una delle due poltrone spaiate, accese la televisione e cominciò a girare la manopola alla ricerca di un cartone animato oppure di una vecchia commedia. La scelta cadde su Get Smart, ma rammentò che era «troppo stupido per essere divertente» e Laura si chiese quanti bambini della sua età sarebbero riusciti a formulare un tale giudizio.

Si sedette anche lei nell’altra poltrona. «Perché non ti fai una doccia?»

«Per poi rimettermi gli stessi vestiti?» chiese Chris in tono dubbioso.

«So che sembra una follia, ma prova. Ti garantisco che ti sentirai più pulito anche senza cambiarti.»

«Tanta fatica per poi indossare i vestiti tutti stropicciati

«Da quando in qua sei diventato tanto schizzinoso da sentirti disturbato da qualche piega?»

Chris sorrise, si alzò dalla poltrona e si diresse tutto impettito verso il bagno, con l’aria di un damerino disperato. «Il re e la regina rimarrebbero sconvolti nel vedermi così disordinato.»

«Gli metteremo i paraocchi quando verranno a trovarci», disse Laura.

Tornò dal bagno in meno di un minuto. «C’è un insetto morto nel bagno, credo che sia uno scarafaggio, ma non ne sono sicuro.»

«La specie ha importanza? Dovremo notificarlo ai parenti più stretti?» Chris rise. Dio, quanto amava sentirlo ridere! Il bambino chiese: «Che cosa devo fare… tirare l’acqua?»

«A meno che tu non voglia pescarlo, metterlo in una scatola di fiammiferi e seppellirlo nell’aiuola qui fuori…»

Rise di nuovo. «No. La sepoltura avverrà in mare.»

Mentre il bambino stava facendo la doccia, Get Smart terminò e cominciò un film, The Harlem Globetrotters on Gilligan’s Island. Laura non stava realmente guardando la televisione; la lasciò in sottofondo, ma c’erano dei limiti di sopportazione anche per una donna in fuga, perciò cambiò velocemente sull’undicesimo canale dove stavano trasmettendo Hour Magazine.

Fissò il suo Custode per un po’, ma il suo sonno innaturale la depresse. Dalla poltrona allungò il braccio un paio di volte per spostare le tende quanto bastava per dare un’occhiata al parcheggio, ma nessuno sulla faccia della terra poteva sapere dove si trovasse; non era in pericolo. Tornò a fissare lo schermo del televisore, finché non ne fu ipnotizzata. Il presentatore stava intervistando un giovane attore che parlava con tono monotono di sé, a volte in modo sconclusionato, e dopo un po’ cominciò a percepire solo vagamente che stava parlando di qualcosa che aveva a che fare con l’acqua, ma ormai stava scivolando nel sonno e quell’insistente richiamo all’acqua era allo stesso tempo ipnotizzante e noioso.

«Mamma

Laura sbattè gli occhi, si alzò e vide Chris sulla porta del bagno. Era appena uscito dalla doccia. I capelli grondavano e indossava solo gli slip. La vista di quel corpo infantile, magro, tutt’ossa, le strinse il cuore. Le parve così innocente e vulnerabile. Era così piccolo e fragile che si chiese come avrebbe mai potuto proteggerlo e ciò le procurò una fitta di angoscia.

«Mamma, sta parlando», disse Chris indicando l’uomo sul letto, «Non hai sentito? Sta parlando.»

«Acqua», stava dicendo in modo indistinto il suo Custode. «Acqua.»

Si accostò subito al letto e si chinò su di lui. Non era più in coma. Stava cercando di sedersi, ma non ne aveva la forza. Gli occhi blu erano aperti e nonostante fossero iniettati di sangue, si fissarono su di lei, penetranti e attenti.

«Ho sete», disse.

«Chris…»

Ma il bambino era già lì con un bicchiere d’acqua che aveva preso in bagno. Laura si sedette sul letto accanto al suo Custode, gli sollevò la testa, prese il bicchiere che Chris gli porgeva e lo aiutò a bere. Gli permise di bere solo a piccoli sorsi, perché non voleva che soffocasse. Aveva le labbra screpolate e la lingua era rivestita da una patina bianca. Bevve più di un terzo del bicchiere d’acqua, poi fece segno che ne aveva a sufficienza.

Gli fece appoggiare nuovamente la testa al cuscino, poi gli sentì la fronte. «Non scotta come prima.»

Girava la testa da una parte all’altra cercando di capire dove si trovasse. La sua voce suonò stridula quando chiese: «Dove siamo?»

«Al sicuro», gli rispose Laura.

«Nessun luogo… è sicuro.»

«Credo che abbiamo capito molte più cose di questa assurda situazione di quanto tu non creda», gli disse.

«Sì», disse Chris, sedendosi sul letto accanto alla madre. «Sappiamo che sei un viaggiatore del tempo!»

L’uomo guardò il bambino e azzardò un debole sorriso, poi trasalì per il dolore.

«Ho delle medicine», gli propose Laura. «Un analgesico.»

«No», disse il suo Custode. «Non ora. Più tardi, forse. Ancora un po’ d’acqua.»

Laura gli sollevò la testa e questa volta Stefan bevve gran parte di ciò che rimaneva nel bicchiere. Si ricordò della penicillina e gli mise una capsula tra i denti. Lui la inghiottì con gli ultimi due sorsi.

«Da che anno vieni?» domandò Chris, profondamente interessato, incurante delle gocce d’acqua che dai capelli bagnati gli colavano sul viso. «Da che anno?»

«Tesoro», gli disse Laura, «è molto debole e credo sia meglio non assillarlo con troppe domande, almeno per il momento.»

«Ma ci può dire almeno questo, mamma.» E rivolgendosi all’uomo gli domandò nuovamente: «Da che anno vieni?»

Fissò Chris, poi Laura e il suo sguardo era ancora terrorizzato.

«Da che anno vieni? Dal 2100? Dal 3000?»

Con la sua voce stridula, l’uomo rispose: «1944».

Quel piccolo sforzo doveva averlo stancato, perché le sue palpebre sembravano pesanti e la voce si era fatta più debole di prima. Laura fu certa che stesse scivolando nuovamente in uno stato delirante.

«Quando?» ripetè Chris, sconcertato dalla risposta che gli aveva dato.

«1944.»

«Impossibile», disse Chris.

«Berlino», disse l’uomo.

«Sta delirando», spiegò Laura rivolta a Chris.

La sua voce suonava indistinta ora che la stanchezza si era impadronita di lui, ma ciò che aveva detto era chiaro: «Berlino».

«Berlino?» ripetè Chris. «Vuoi dire… Berlino, Germania?»

Il sonno lo reclamò di nuovo a sé, ma questa volta non era quello innaturale del coma, bensì un sonno riposante, perché subito iniziò a russare debolmente, anche se un attimo prima di abbandonarsi, disse: «Germania nazista».

4

Alla televisione stavano trasmettendo One Life to Live, ma né Laura né Chris vi prestavano molta attenzione. Avevano avvicinato le poltrone al letto, così da poter osservare meglio l’uomo addormentato. Chris si era vestito e aveva i capelli quasi asciutti. Laura si sentiva sporca e moriva dalla voglia di farsi una doccia, ma non voleva lasciare il suo Custode neppure per un attimo, nel caso si fosse svegliato e avesse avuto la forza di parlare. Lei e il bambino comunicavano a bassa voce.

«Chris, mi è appena venuta in mente una cosa. Se quelle persone fossero veramente venute dal futuro, perché mai non si sarebbero portate delle armi al laser o qualche cosa di simile quando sono venuti a cercarci?»

«Perché non avrebbero voluto che tutti sapessero che venivano dal futuro», rispose Chris. «Avrebbero deciso di portare delle armi e di indossare dei vestiti che non fossero fuori luogo. Ma, mamma, ha detto che viene dal…»

«So quello che ha detto. Ma non ha senso, non è vero? Se nel 1944 avessero fatto una tale scoperta, noi ne saremmo a conoscenza, non credi?»

All’una e mezzo il suo Custode si risvegliò e per un attimo sembrò non ricordarsi dove si trovava. Chiese ancora dell’acqua e Laura lo aiutò a bere. Disse che si sentiva un po’ meglio, anche se era molto debole e aveva ancora un gran bisogno di dormire. Chiese che lo sollevassero un po’ sul letto. Chris prese i due cuscini che si trovavano nell’armadio e aiutò sua madre ad alzare il ferito.

«Come ti chiami?» chiese Laura.

«Stefan. Stefan Krieger.»

Laura ripetè quel nome a bassa voce e le sembrò bello. Un nome maschile, forte. Non era un nome da Angelo Custode e fu quasi divertita al pensiero che dopo tanti anni, compresi i due decenni durante i quali non aveva più creduto in lui, si aspettava ancora che il suo nome fosse musicale e angelico.

«E vieni veramente dal…»

«1944», ripetè Stefan. Lo sforzo necessario per mettersi a sedere gli aveva imperlato le sopracciglia di sudore, o forse quella reazione era dovuta in parte ai pensieri che aveva rivolto all’era e al luogo in cui il suo lungo viaggio era iniziato. «Berlino, Germania. C’era uno scienziato polacco di grande talento, Vladimir Penlovski, considerato un folle da alcuni. Molto probabilmente era pazzo… decisamente pazzo credo… ma anche un genio. A Varsavia stava dedicandosi allo studio di certe teorie riguardo alla natura del tempo già prima che la Germania e la Russia si alleassero per invadere la Polonia, nel 1939…»

Penlovski, secondo Stefan Krieger, era un simpatizzante nazista e accolse di buon grado le truppe di Hitler. Forse sapeva che da Hitler avrebbe potuto ricevere il sostegno finanziario per le sue ricerche. Con l’approvazione di Hitler, Penlovski e il suo collaboratore più stretto, Wladyslaw Januskaya, si recarono a Berlino per fondare un istituto di ricerche temporali. Era un’iniziativa talmente segreta che non gli venne nemmeno dato un nome. Veniva semplicemente chiamato l’istituto. Lì, in collaborazione con scienziati tedeschi non meno impegnati e perspicaci di lui, finanziato da quella che sembrava una fonte inesauribile di fondi provenienti dal Terzo Reich, Penlovski aveva trovato un modo per penetrare l’arteria del tempo e muoversi a suo piacimento attraverso quella corrente fatta di giorni, mesi e anni.

«Blitzstrasse», disse Stefan.

«Blitz… questo significa lampo», disse Chris. «Come Blitzkrieg… guerra lampo… in tutti quei vecchi film.»

«Via del Lampo in questo caso», spiegò Stefan. «La strada attraverso il tempo, la strada verso il futuro.»

Avrebbe potuto essere chiamata Zukunftstrasse, o Strada del Futuro, spiegò Stefan, perché Vladimir Penlovski non era riuscito a scoprire il modo di mandare gli uomini a ritroso nel tempo attraverso il tunnel che aveva inventato. Potevano viaggiare solo nel futuro e tornare automaticamente nella loro epoca.

«Sembra esserci un qualche meccanismo cosmico che non consente ai viaggiatori del tempo di mescolarsi nel loro stesso passato per poter cambiare le circostanze della loro vita presente. Vedete, se potessero viaggiare a ritroso nel tempo, quindi nel loro passato, si creerebbero certi…»

«Paradossi!» esclamò Chris in tono eccitato.

Stefan sembrò sorpreso di udire il bambino pronunciare quella parola.

Sorridendo, Laura disse: «Come ti ho già detto, abbiamo discusso parecchio circa le tue possibili origini e il viaggio nel tempo è risultato essere la spiegazione più logica. È Chris il mio esperto in materia».

«Paradosso», convenne Stefan. «Se un viaggiatore del tempo potesse andare a ritroso nel suo passato e potesse influire su alcuni eventi della storia, quel cambiamento avrebbe tremende ramificazioni. Altererebbe il futuro da cui è venuto. Perciò non sarebbe più in grado di ritornare nel mondo che ha lasciato…»

«Paradosso!» esclamò Chris allegramente.

«Paradosso», ripetè Stefan. «Apparentemente la natura rifugge dal paradosso, in linea generale non permetterà mai a un viaggiatore del tempo di crearne uno. E di questo dobbiamo ringraziare il Signore. Perché… supponiamo per esempio che Hitler avesse inviato un assassino nel tempo a uccidere Franklin Roosevelt e Winston Churchill molto prima che questi uomini potessero ricoprire le loro alte cariche. Questo avrebbe portato all’elezione di uomini diversi, sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra, uomini magari meno intelligenti e con i quali si sarebbe potuto trattare più facilmente e questo avrebbe portato al trionfo di Hitler nel ’44 o anche prima.»

Ora stava parlando con una foga che le sue condizioni fisiche non gli avrebbero consentito di sostenere e Laura se ne rese conto. Il sudore che gli imperlava le sopracciglia era quasi scomparso, ma ora, sebbene non gesticolasse nemmeno, aveva tutta la fronte umida. Le occhiaie sembravano essersi fatte più profonde. Ma non poteva fermarlo o ordinargli di riposarsi, perché voleva e aveva bisogno di ascoltare tutto ciò che aveva da dire… e perché Stefan non le avrebbe consentito di fermarlo.

«Supponiamo che il Führer potesse inviare indietro nel tempo degli assassini per uccidere Dwight Eisenhower, George Patton, il maresciallo Montgomery, ucciderli nelle loro culle, quando erano ancora dei neonati, eliminando loro e altri, tutte le migliori menti militari che gli Alleati possedevano. A quel punto, verso il 1944, gran parte del mondo sarebbe stato nelle sue mani, nel qual caso i viaggiatori del tempo sarebbero andati nel passato a uccidere gli uomini che già da lungo tempo erano morti e non costituivano più una minaccia. Come vedete, un paradosso. E grazie a Dio la natura non permette tali paradossi, perché altrimenti Adolf Hitler sarebbe stato in grado di trasformare il mondo intero in un immenso campo di concentramento, un crematorio.»

Rimasero in silenzio per un po’, poiché la possibilità di un tale inferno sulla terra colpì ognuno di loro. Persino Chris reagì a quella visione del mondo che Stefan aveva descritto, perché era un bambino degli Anni Ottanta, anni in cui i cattivi nei film e nei melodrammi televisivi venivano rappresentati solitamente da alieni voraci provenienti da una galassia lontana, oppure da nazisti. La svastica, il simbolo del teschio, le uniformi nere delle SS e quello strano fanatico con i baffetti a Chris sembravano particolarmente terrificanti perché facevano parte della mitologia creata dai media e con la quale era cresciuto. Laura sapeva che le persone e gli eventi reali, una volta rientrati nel contesto della mitologia, erano in un certo senso più reali per un bambino del pane stesso che mangiava.

Stefan proseguì: «Perciò dall’istituto noi potevamo viaggiare solo in avanti nel tempo, ma anche questo aveva la sua utilità. Potevamo saltare qualche decennio per scoprire se la Germania aveva resistito ai giorni bui della guerra e in qualche modo era riuscita a risollevare le proprie sorti. Ovviamente scoprimmo che la Germania non era riuscita a fare nessuna di queste cose, che il Terzo Reich era stato sconfitto. Nonostante ciò, con tutte le conoscenze a cui potevamo attingere dal futuro, le sorti non avrebbero potuto essere rovesciate, dopotutto? Sicuramente c’erano cose che Hitler poteva fare per salvare il Reich, persino alla fine del ’44. E c’erano cose che potevano essere portate dal futuro e che avrebbero consentito di vincere la guerra…»

«Per esempio», disse Chris, «le bombe atomiche!»

«O le conoscenze che avevano permesso la loro costruzione», aggiunse Stefan. «Il Reich aveva già un programma di ricerca nucleare, sapete? E se avessero avuto in tempo le informazioni necessarie, avrebbero separato l’atomo e…»

«Avrebbero vinto la guerra», concluse Chris.

Stefan chiese dell’acqua e questa volta bevve metà bicchiere. Voleva reggere il bicchiere con la mano sana, ma tremava troppo; l’acqua gocciolò sulle coperte e Laura dovette aiutarlo.

Quando riprese a parlare, gli tremava la voce. «Poiché il viaggiatore del tempo esiste al di fuori del tempo durante il suo viaggio, egli non solo è in grado di muoversi nel tempo, ma anche geograficamente. Immaginatelo sospeso sopra la terra, immobile, mentre il globo gira sotto di lui. Questo non è quello che accade nella realtà, ovviamente, ma è più facile focalizzare questa immagine che non figurarselo mentre si libra in un’altra dimensione. Ora, mentre è lì, sospeso sopra il mondo che gira sotto di lui e se il suo viaggio nel futuro è stato programmato in modo appropriato, può viaggiare e ritrovarsi a un’ora precisa a Berlino, la città che ha lasciato anni prima. Ma i calcoli per ottenere un arrivo preciso sono incredibilmente difficili nella mia era, 1944.»

«Ma ai giorni nostri sarebbero molto facili», disse Chris, «con il computer.»

Stefan cominciò a muoversi, sentendosi a disagio contro i cuscini che lo sostenevano, si mise la mano destra tremante sulla spalla ferita, come se con il solo tocco potesse lenire il dolore, poi proseguì: «Squadre di fisici tedeschi, accompagnati da uomini della Gestapo, furono mandati in missione segreta in diverse città dell’Europa e degli Stati Uniti nel 1985, per accumulare informazioni di vitale importanza sulla fabbricazione delle armi nucleari. Il materiale che stavano cercando non era difficile da trovare. Con le informazioni già in loro possesso grazie alle loro stesse ricerche, riuscirono a ottenere ciò che gli mancava dai libri di testo e dalle pubblicazioni scientifiche facilmente reperibili in una qualsiasi delle principali biblioteche universitarie all’epoca. Quattro giorni prima che lasciassi l’istituto per l’ultima volta, quelle squadre tornarono dal 1985 al marzo 1944 con il materiale che avrebbe dato al Terzo Reich un arsenale nucleare prima dell’autunno di quell’anno. Avrebbero trascorso un paio di settimane all’istituto per studiare il materiale raccolto, prima di decidere come e dove introdurre quelle informazioni nel programma nucleare tedesco, senza rivelare come fossero state reperite. In quel momento seppi che dovevo distruggere l’istituto e tutto ciò che conteneva, gli uomini principali come gli archivi, per impedire che il futuro venisse plasmato da Adolf Hitler».

Mentre Laura e Chris lo ascoltavano con estrema attenzione, Stefan Krieger raccontò loro come aveva sistemato gli esplosivi nell’istituto, come l’ultimo giorno che aveva trascorso nel 1944 aveva sparato a Penlovski, Januskaya e Volkaw e in che modo aveva programmato il tunnel del tempo che lo avrebbe portato da Laura nell’America odierna.

Ma qualcosa era andato storto all’ultimo minuto, mentre Stefan stava per partire. L’energia elettrica era venuta a mancare. La RAF aveva bombardato Berlino per la prima volta nel gennaio di quell’anno e i bombardieri statunitensi avevano sferrato il primo attacco diurno il 6 marzo, perciò l’energia elettrica era stata spesso interrotta, non solo a causa dei danni provocati dalle bombe, ma anche per l’opera dei sabotatori. Per salvaguardarsi da quelle interruzioni il tunnel era stato collegato a un generatore autonomo. Stefan non aveva udito nessun bombardiere quel giorno quando, ferito da Kokoschka, si era trascinato nel tunnel, perciò, almeno apparentemente, la corrente era venuta a mancare in seguito all’opera dei sabotatori.

«E il timer che avevo collegato agli esplosivi si è fermato. Il tunnel non è stato distrutto. È ancora aperto laggiù e possono venire a cercarci. E… possono ancora vincere la guerra.»

A Laura stava venendo un’altra emicrania. Si massaggiò le tempie con la punta delle dita. «Aspetta. Hitler non può essere riuscito a costruire delle armi atomiche e a vincere la seconda guerra mondiale, perché noi non viviamo in un mondo dove tutto ciò è accaduto. Non devi preoccuparti. In qualche modo, nonostante tutte le informazioni che hanno riportato attraverso il tunnel, ovviamente non sono riusciti a sviluppare un arsenale nucleare.»

«No», disse Stefan. «Finora hanno fallito, ma non possiamo dire per certo che continueranno a fallire. Per gli uomini che sono all’istituto, nella Berlino del 1944, il loro passato è immutabile come ho già detto. Non possono viaggiare a ritroso nel tempo e cambiare il loro passato. Ma possono cambiare il loro futuro e il nostro, perché il futuro di un viaggiatore del tempo è mutabile; può prendere le misure necessarie per alterarlo.»

«Ma il suo futuro è il mio passato», disse Laura, «e se il passato non può essere cambiato, com’è possibile che possa cambiare il mio?»

«Sì», disse Chris. «Paradosso.»

Laura aggiunse: «Ascolta, io non ho passato gli ultimi trentaquattro anni in un mondo dominato da Adolf Hitler e dai suoi eroi, perciò, nonostante il tunnel, Hitler ha fallito».

Stefan aveva un’espressione lugubre. «Se il viaggio nel tempo fosse stato inventato adesso, nel 1989, il passato di cui tu parli, la seconda guerra mondiale e tutti gli eventi successivi sarebbero inalterabili. Non potresti cambiarli, perché la natura non permette viaggi a ritroso nel tempo. Ma il viaggio nel tempo non è stato scoperto qui, o riscoperto. I viaggiatori del tempo che si trovano nell’istituto, nella Berlino del ’44, sono liberi di cambiare il loro futuro, almeno apparentemente, e anche se simultaneamente stanno cambiando il tuo passato, nessuna legge della natura li fermerà. E qui hai il paradosso più grande in assoluto… l’unico che per ragioni che non conosciamo la natura sembra consentire.»

«Stai dicendo che possono ancora costruire armi nucleari laggiù con le informazioni che hanno ottenuto nell’85», chiese Laura, «e vincere la guerra?»

«Sì. A meno che l’istituto non venga prima distrutto.»

«E che cosa succederebbe? Ci ritroveremmo improvvisamente in un mondo completamente mutato? Ci ritroveremmo a vivere sotto il nazismo?»

«Sì. E non sapresti neppure che cos’è successo, perché saresti una persona diversa da quello che sei ora. Tutto il tuo passato non avrebbe mai avuto luogo. Avresti vissuto un passato diverso e non ricorderesti nient’altro, nulla di ciò che ti è accaduto in questa vita perché non sarebbe mai esistita. Penseresti che il mondo sia sempre stato così com’è, che non c’è mai stato un mondo in cui Hitler fosse perdente.»

Rimase atterrita e inorridita di fronte a quella visione che Stefan stava proponendo, perché faceva sembrare la vita ancora più fragile di quanto avesse sempre pensato. Il mondo improvvisamente le parve meno reale di un sogno; avrebbe potuto dissolversi senza preavviso, facendola precipitare in un grande, buio baratro.

Con angoscia sempre crescente, Laura disse: «Se cambiano il mondo in cui sono cresciuta, potrei non aver mai incontrato Danny e non essermi mai sposata».

«E io potrei non essere mai nato», esclamò Chris.

Laura allungò una mano e strinse il braccio di Chris, non solo per rassicurarlo, ma per provare a se stessa che fosse lì in carne e ossa. «Io stessa potrei non essere mai nata. Tutto ciò che ho visto, le cose belle e brutte del mondo dal 1944 a oggi… tutto sarebbe spazzato via come un elaborato castello di sabbia e al suo posto esisterebbe una nuova realtà.»

«Una nuova e ben più tremenda realtà», mormorò Stefan chiaramente esausto per lo sforzo.

«In quel nuovo mondo, probabilmente non avrei mai scritto i miei romanzi.»

«O se tu li avessi scritti», disse Stefan, «sarebbero diversi da quelli che hai creato in questa vita, lavori grotteschi prodotti da un’artista che è costretta a lavorare sotto il dominio di un governo oppressivo, sotto il pugno di ferro della censura nazista.»

«Se quei tipi costruiscono la bomba atomica nel 1944», commentò Chris, «allora finiremmo semplicemente per diventare polvere e saremmo spazzati via dal vento.»

«Senza lasciare traccia della nostra esistenza», concordò Stefan Krieger.

«Ma dobbiamo fermarli!» esclamò Chris. «Se possiamo», ammise Stefan. «Ma prima di tutto dobbiamo cercare di rimanere vivi in questa realtà e potrebbe anche non essere così facile.»


Stefan ebbe bisogno di andare in bagno e Laura lo accompagnò, occupandosi di lui come se fosse un’infermiera abituata ad assistere malati. Si preoccupò, rendendosi conto di quanto fosse debole e malfermo sulle gambe.

Laura gli fece un breve resoconto della sparatoria a casa del dottor Brenkshaw, durante la quale egli era rimasto in coma. «Se questi assassini vengono dal passato invece che dal futuro, come possono sapere dove trovarci? Come potevano sapere, nel 1944, che ci avrebbero trovati proprio dal dottor Brenkshaw, quarantacinque anni dopo?»

«Per trovarti», rispose Stefan, «hanno fatto due viaggi. Durante il primo, si sono recati un po’ più in là nel futuro, un paio di giorni dopo, probabilmente in questo week end che sta per arrivare, per vedere se ti eri fatta viva in qualche posto. Non trovandoti, e apparentemente sembra sia successo proprio questo, hanno cominciato a controllare i registri pubblici. Numeri arretrati dei giornali, tanto per cominciare. Hanno cercato gli articoli in cui si parlava della sparatoria a casa tua e negli stessi articoli hanno letto che avevi portato un uomo ferito a casa del dottor Brenkshaw, a San Bernardino, perciò non hanno fatto altro che ritornare nel ’44 e fare un secondo viaggio, questa volta dal dottor Brenkshaw, nelle prime ore del mattino di questo 11 gennaio.»

«Possono saltellarci intorno», disse Chris rivolto a Laura. «Possono fare una capatina nel futuro per vedere dove ci facciamo vivi, e poi scelgono il posto più semplice lungo il flusso del tempo dove tenderci una trappola!»


«Chi era Kokoschka?» volle sapere Chris. «Chi era l’uomo che ha ucciso il mio papà?»

«Era il capo dei servizi di sicurezza nell’istituto», rispose Stefan. «Sosteneva di essere un lontano parente di Oskar Kokoschka, il famoso pittore austriaco, ma dubito che fosse vero, perché nel nostro Kokoschka non c’era traccia della sensibilità di un artista. Standartenführer, che significa colonnello, Heinrich Kokoschka era un killer efficiente al servizio della Gestapo.»

«Gestapo», ripetè Chris, atterrito. «Polizia segreta?»

«Polizia di stato», precisò Stefan. «Ampiamente nota, autorizzata a operare nella massima segretezza. Quando Kokoschka si presentò su quella strada di montagna, nel 1988, rimasi sorpreso quanto voi. Non c’erano stati lampi. Doveva essere atterrato a una certa distanza da noi, almeno venticinque, trenta chilometri. Ecco perché non potemmo vedere i lampi.» Questa manifestazione, associata con i viaggi nel tempo, era infatti un fenomeno molto localizzato, spiegò Stefan. «Dopo che Kokoschka comparve in quel punto, sulle mie tracce, pensai che una volta tornato all’istituto avrei trovato tutti i miei colleghi furenti per il mio tradimento, ma quando arrivai nessuno si curò di me in modo particolare. Ero confuso. Poi, dopo aver ucciso Penlovski e gli altri, mentre mi trovavo nel laboratorio principale e stavo preparando il mio salto finale nel futuro, Heinrich Kokoschka irruppe nella stanza e mi sparò. Non era morto! Perlomeno non era morto su quella strada nel 1988. Allora realizzai che Kokoschka era venuto a conoscenza del mio tradimento solo quando aveva scoperto i corpi degli uomini che avevo ucciso. Mi avrebbe seguito nel 1988, per cercare di uccidere me, e tutti voi, in un momento successivo. Ciò significava che il tunnel sarebbe rimasto aperto per consentirgli di fare questo viaggio e che il mio piano per distruggerlo era destinato a fallire. Almeno in quel momento.»

«Oh, Dio, che mal di testa», esclamò Laura.

Chris sembrava non avere problemi a seguire il complicatissimo groviglio del viaggio nel tempo. «Così, dopo che tu sei arrivato a casa nostra, l’altra notte, Kokoschka ha viaggiato nel 1988 e ha ucciso mio padre. Per la miseria! In un certo senso tu hai ucciso Kokoschka quarantatré anni dopo che lui ti ha sparato in quel laboratorio. E nello stesso tempo tu gli hai sparato prima che lui ti colpisse. Questa è veramente una storia strana. Mamma, non è strano? Non è fantastico?»

«Ah, certo», concordò Laura. «E come ha fatto Kokoschka a trovarti su quella strada di montagna?»

«Dopo aver scoperto che avevo ucciso Penlovski e dopo la mia fuga attraverso il tunnel, Kokoschka deve aver trovato gli esplosivi nell’attico e nel seminterrato. Poi deve aver controllato nelle registrazioni automatiche che la macchina tiene di tutti i viaggi che si effettuano con il tunnel. Quella era una parte di ricerca dati di cui io ero responsabile, e nessuno prima si era mai accorto di tutti i viaggi che avevo fatto nella tua vita, Laura. Comunque, Kokoschka deve aver fatto diversi viaggi nel tempo di sua spontanea volontà; deve averli fatti per controllare ciò che stavo facendo, deve avermi osservato in segreto mentre io osservavo te, deve avermi osservato mentre io alteravo il tuo destino. Deve avermi sorvegliato il giorno in cui venni al cimitero quando tuo padre fu sepolto e lo stesso deve essere accaduto quando picchiai Sheener, ma io non lo vidi mai. Perciò, tra tutti i viaggi che feci nella tua vita, tra tutte le volte che rimasi lì semplicemente a osservarti e in cui agii per salvarti, egli scelse il luogo adatto per ucciderci. Voleva uccidermi perché ero un traditore e voleva uccidere te e la tua famiglia perché… be’, perché comprese che tu eri importante per me.»

Perché? si chiese Laura. Perché sono così importante per te, Stefan Krieger? Perché ti sei intromesso nel mio destino, cercando di offrirmi una vita migliore?

Avrebbe voluto rivolgergli queste domande, ma Stefan aveva altro da dire su Kokoschka. Sembrava che le forze lo stessero abbandonando e aveva difficoltà a mantenere il filo del ragionamento. Non volle interrompersi e confondersi.

Stefan proseguì: «Dagli orologi e dai grafici sul pannello di programmazione del tunnel, Kokoschka deve aver scoperto la mia destinazione finale: l’altra notte, a casa tua. Vedi, in realtà la mia intenzione era di ritornare la sera stessa in cui Danny era morto, come ti avevo promesso, e invece sono ritornato un anno dopo semplicemente perché commisi alcuni errori quando introdussi i dati che io stesso avevo calcolato nella macchina. Dopo che fui partito attraverso il tunnel, ferito, Kokoschka deve aver trovato quei dati. Deve aver individuato il mio errore, venendo quindi a conoscenza del luogo in cui avrebbe potuto trovarmi, non solo l’altra notte, ma anche la notte in cui Danny venne ucciso. In un certo senso, venendo a salvarti da quel camion l’anno scorso, portai con me il killer di Danny, per questo mi sento responsabile, anche se Danny sarebbe morto comunque nell’incidente. Perlomeno tu e Chris siete vivi. Per ora».

«Perché Kokoschka non ti ha seguito nel 1989, nella nostra casa, l’altra notte? Sapeva che eri ferito e quindi una facile preda.»

«Ma sapeva altrettanto bene che io mi aspettavo che mi seguisse e temeva che fossi armato e perciò preparato a riceverlo. Perciò andò al 1988, dove io non lo stavo aspettando, dove aveva il vantaggio della sorpresa. Inoltre, Kokoschka probabilmente pensò che se mi avesse seguito nel 1988 e ucciso in quel luogo, io non avrei mai potuto tornare all’istituto da quella strada di montagna e quindi non avrei mai avuto la possibilità di uccidere Penlovski. Senza dubbio pensò che avrebbe potuto giocare d’astuzia con il tempo ed evitare quegli omicidi, salvando di conseguenza il cervello del progetto. Ma ovviamente non poté fare quanto aveva pensato, perché in quel caso avrebbe alterato il suo stesso passato, una cosa impossibile. Penlovski e gli altri erano già morti, a quel punto, e lo sarebbero rimasti. Se Kokoschka avesse compreso meglio le leggi del viaggio nel tempo, avrebbe saputo che l’avrei ucciso nel 1988 quando era venuto sulle mie tracce, perché quando fece quel viaggio per vendicare Penlovski, io ero già tornato all’istituto da quella notte, salvo!»

«Ti senti bene, mamma?»

«Fanno per caso l’aspirina in compresse da mezzo chilo?» chiese Laura.

«So che è difficile da capire», disse Stefan, «ma Heinrich Kokoschka è tutto questo. O perlomeno era tutto questo. Disinnescò gli esplosivi che avevo piazzato. Per causa sua, e per l’improvvisa mancanza di energia elettrica, l’istituto è ancora in piedi, il tunnel è ancora aperto e gli agenti della Gestapo stanno cercando di seguire le nostre tracce qui, in quest’epoca… e di ucciderci.»

«Perché?» chiese Laura.

«Per vendetta», disse Chris.

«E loro si fanno un viaggio nel tempo di quarantacinque anni giusto per il gusto di ucciderci per vendetta?» chiese Laura, incredula. «Sicuramente dev’esserci qualcosa di più di questo.»

«C’è», confermò Stefan. «Vogliono ucciderci perché sono convinti che siamo le uniche persone esistenti che possono trovare un modo per chiudere il tunnel prima che vincano la guerra e quindi che possano alterare il loro futuro. E su questo hanno ragione.»

«Come?» chiese Laura, attonita. «Come possiamo distruggere l’istituto quarantacinque anni fa?»

«Non ne sono ancora sicuro», le rispose Stefan, «ma ci penserò.»

Laura cominciò a fargli altre domande, ma Stefan scosse la testa. Si dichiarò esausto e presto scivolò nuovamente nel sonno.


Il pranzo di Chris consistette in un panino con burro di arachidi farcito con altre ghiottonerie che aveva comperato al supermercato. Laura non aveva appetito.

Guardando Stefan, pensò che avrebbe dormito almeno per un paio d’ore, perciò decise di farsi la doccia. Dopo si sentì meglio, nonostante gli abiti sgualciti.

Per tutto il pomeriggio alla televisione non fecero che trasmettere programmi idioti: telenovele, giochi, ancora telenovele, l’ennesima edizione di Fantasilandia.

Riempì il caricatore dell’Uzi con le munizioni che aveva acquistato in un’armeria la mattina stessa.

Fuori, mentre il giorno volgeva alla fine, nubi minacciose andarono addensandosi finché non oscurarono completamente il cielo azzurro. Il dattero accanto alla Buick rubata sembrava richiudere le fronde in attesa del temporale.

Si sedette su una poltrona, appoggiò i piedi sul bordo del letto, chiuse gli occhi e schiacciò un pisolino. Si risvegliò da un brutto sogno. Chris stava dormendo, accoccolato nell’altra poltrona e Stefan continuava a russare lievemente sul letto.

Stava piovendo. La pioggia tamburellava cupamente sul tetto del motel, formando pozzanghere nel parcheggio. Era un temporale tipico della California del Sud e dei climi tropicali, accompagnato da una pioggia forte e incessante, ma senza tuoni e lampi. Di tanto in tanto questi fenomeni accompagnavano la pioggia anche in questa parte del mondo, ma meno spesso che altrove.

Laura si sentì meglio. Se ci fossero stati tuoni e lampi non avrebbe saputo se si trattava di un fenomeno naturale o se invece segnava l’arrivo degli agenti della Gestapo provenienti da un’altra era.

Chris si svegliò alle cinque e un quarto e Stefan Krieger dopo cinque minuti. Entrambi dissero di aver fame, ma oltre all’appetito Stefan mostrò altri segni di ripresa. Gli occhi, prima tutti arrossati e lacrimosi, ora erano limpidi. Riuscì a mettersi a sedere sul letto, aiutandosi con il braccio sano. La mano sinistra, in precedenza intorpidita e praticamente inservibile, ora sembrava di nuovo sensibile e Stefan fu in grado di fletterla, di piegare le dita e di stringerla leggermente a pugno.

Invece della cena Laura voleva avere delle risposte a tante domande, ma aveva imparato a essere paziente, fra le altre cose. La mattina, quando erano arrivati al motel, poco dopo le undici, aveva notato un ristorante cinese dall’altra parte della strada. Adesso, quantunque riluttante a lasciare Stefan e Chris, uscì nella pioggia per andare a comprare un po’ di viveri. Portò con sé la pistola sotto la giacca e lasciò l’Uzi sul letto accanto a Stefan. La mitragliatrice era troppo pesante e potente perché Chris potesse maneggiarla, mentre Stefan, reggendosi alla testiera del letto, sarebbe forse riuscito a far partire una raffica anche con la sola mano destra.

Quando Laura tornò, bagnata fradicia, depose i contenitori di cartone con il cibo sul letto, tranne le due zuppe all’uovo che erano per Stefan e che Laura appoggiò sul comodino accanto a lui. Quando era entrata nel ristorante aveva ritrovato l’appetito e così aveva ordinato troppo cibo: pollo al limone, manzo all’arancia, gamberetti al pepe, spaghetti di soia, maiale in agrodolce e due porzioni di riso.

Mentre lei e Chris assaggiavano un po’ di tutto e annaffiavano il cibo con la Coca-Cola che aveva preso dal distributore automatico del motel, Stefan bevve la zuppa. Aveva pensato che non sarebbe riuscito a trattenere del cibo solido, ma dopo che ebbe divorato la zuppa, cominciò con cautela ad assaggiare un po’ di manzo e di pollo al limone.

Su richiesta di Laura parlò di sé mentre mangiavano. Era nato nel 1909 in Germania, nella città di Gittelde sui monti Harz. Ciò significava che aveva trentacinque anni. («Be’», disse Chris, «se conti i quarantacinque anni che hai saltato quando hai viaggiato nel tempo dal ’44 all’89, adesso avresti in realtà ottant’anni.» Chris rise, compiaciuto di se stesso. «Ragazzo, per essere un matusa di ottant’anni hai proprio un bell’aspetto!») Dopo che la famiglia si trasferì a Monaco, in seguito alla prima guerra mondiale, il padre di Stefan, Franz Krieger, fu uno dei primi sostenitori di Hitler nel 1919 e divenne membro del partito Operaio Tedesco appena Hitler iniziò la carriera politica in quell’associazione. Collaborò persino con Hitler e Anton Drexler alla stesura della piattaforma con la quale il gruppo, che all’inizio era semplicemente un’associazione che organizzava dibattiti fra gli aderenti, fu alla fine trasformato in un potente partito politico, che prese il nome di partito Nazionalsocialista.

«Io fui uno dei primi membri della gioventù hitleriana nel 1926, quando avevo diciassette anni», raccontò Stefan. «Meno di un anno dopo entrai nelle fila delle Sturmabteilung, o SA, le camicie marroni, l’organizzazione paramilitare del partito, in pratica un esercito privato. Nel 1928, entrai a far parte delle Schutzstaffel…»

«Le SS!» esclamò Chris, con lo stesso tono di orrore misto ad attrazione che avrebbe usato se avesse parlato di vampiri o lupi mannari. «Eri un membro delle SS? Indossavi l’uniforme nera e portavi il pugnale?»

«Non ne sono certo orgoglioso», replicò Stefan Krieger. «Oh, certo, allora lo ero. Ero un pazzo. Mio padre era un pazzo. All’inizio le SS erano un piccolo gruppo e il nostro obiettivo era di proteggere il Führer anche a costo della vita, se fosse stato necessario. Eravamo tutti giovani, ignoranti e impulsivi. In mia difesa posso dire che non ero particolarmente fanatico, non come coloro che mi circondavano. Stavo facendo ciò che mio padre voleva, ma per ignoranza devo ammettere di aver condiviso molto più della semplice lealtà.»

La pioggia batteva contro la finestra e gorgogliava rumorosamente nella grondaia che correva lungo il muro esterno contro il quale era appoggiato il letto.

Da quando si era svegliato, Stefan aveva un aspetto più sano e aveva ripreso forza dopo la zuppa calda, ma ora, mentre ricordava la giovinezza trascorsa in un mondo pieno di odio e morte, ritornò pallido e gli occhi si fecero cupi. «Non lasciai mai le SS perché era una posizione ambita e poi non c’era modo di lasciare l’organizzazione senza far sorgere il sospetto che avessi perso fiducia nel nostro venerato leader. Ma anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, cominciai a provare nausea per tutto ciò che vedevo, per tutta quella follia, tutti quei morti.»

Né i gamberetti al pepe né il pollo al limone riuscivano più a essere gustosi ora, e la bocca di Laura era così secca che il riso le si incollò al palato. Spinse da parte il cibo e sorseggiò la Coca.

«Ma se non hai mai lasciato le SS… quando sei andato all’università, quando hai cominciato ad essere coinvolto nella ricerca scientifica?»

«Oh, non ero all’istituto in qualità di ricercatore, non ho un’istruzione universitaria. Ma… per due anni ho ricevuto un insegnamento intensivo di inglese, durante il quale ho cercato di imparare a parlare con un buon accento americano. Dovevo partecipare a un progetto in cui centinaia di agenti segreti venivano infiltrati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ma non riuscii mai a eliminare completamente il mio accento, perciò non venni mai inviato all’estero; inoltre, poiché mio padre era stato uno dei primi sostenitori di Hitler, ritenevano che fossi una persona affidabile, perciò venni assegnato allo staff del Führer, dove mi vennero affidati compiti piuttosto delicati, solitamente facevo da trait d’union fra le fazioni in lotta all’interno del governo. Era una posizione eccellente, grazie alla quale riuscii a ottenere informazioni utili agli inglesi, con cui collaborai dal 1938 in poi.»

«Eri una spia?» domandò Chris sempre più eccitato.

«In un certo senso. Dovevo fare quel che potevo per indebolire il Reich, dovevo in qualche modo espiare il fatto di essere entrato a far parte volontariamente di quella follia. Poi, nell’autunno del 1943, quando Penlovski cominciò ad avere qualche successo con il tunnel del tempo, spedendo le cavie Dio solo sa dove e riportandole indietro, fui assegnato all’istituto come osservatore, come rappresentante personale del Führer. Ma non solo, ero lì in qualità di cavia, il primo essere umano a essere inviato nel futuro. Quando furono pronti a inviare un uomo nel futuro, non potevano certo rischiare la vita di Penlovski o Januskaya o di Helmut Volkaw o di Mitter o di Shenck o di qualcuno degli altri scienziati la cui perdita avrebbe recato un grave danno a tutto il progetto. Nessuno poteva dire con certezza se un uomo sarebbe tornato indietro, com’era successo nel caso degli animali, o se sarebbe tornato indietro sano e salvo.»

Chris annuì in tono solenne. «Il viaggio nel tempo sarebbe potuto essere doloroso o avrebbe potuto provocare squilibri mentali o qualcosa del genere. Chi poteva saperlo?»

Chi poteva effettivamente saperlo? si chiese Laura.

Stefan proseguì: «Volevano anche che la persona prescelta per la missione, chiunque fosse stata, fosse affidabile e in grado di mantenere il segreto. Io ero l’uomo ideale».

«Un ufficiale delle SS, una spia e il primo crononauta», esclamò Chris. «Che vita affascinante!»

«Possa Dio concederti una vita molto meno densa di avvenimenti», gli augurò Stefan Krieger. Poi guardò direttamente Laura con quegli occhi di un azzurro bellissimo, cristallino, in cui si leggeva tanta tristezza. «Laura… che cosa pensi ora del tuo Custode? Non è certo un angelo, ma un assistente di Hitler, un criminale delle SS.»

«Nessun criminale», disse Laura. «Tuo padre, l’epoca in cui sei vissuto e la tua società hanno tentato di fare di te un criminale, ma c’era una forza interiore che non sono riusciti a piegare. Non sei un criminale, Stefan Krieger. Mai. Non tu.»

«Ma neanche un angelo», riprese Stefan. «Ben lungi dall’essere un angelo, Laura. Alla mia morte, quando la colpa che segna la mia anima verrà letta da Colui che siede in giudizio, mi verrà assegnato il mio piccolo posto all’inferno.»

La pioggia che scrosciava sul tetto sembrava come il tempo che fuggiva via. Milioni e milioni di preziosi minuti, ore, giorni e anni che si riversavano nei condotti e nei canali di scolo, che scorrevano via, persi per sempre.


Dopo aver radunato i rimasugli di cibo e averli gettati nella pattumiera che si trovava dietro il motel, presero altre tre lattine di Coca dal distributore automatico, una per ciascuno. Laura si decise a questo punto a porre al suo Custode la domanda che avrebbe voluto rivolgergli fin dal momento in cui era uscito dal coma. «Perché? Perché hai dedicato la tua attenzione a me, alla mia vita, e perché hai voluto aiutarmi? Perché mi hai salvato la vita? Per l’amor del cielo, in che modo il mio destino si lega ai nazisti, ai viaggiatori del tempo, al destino del mondo?»

Stefan spiegò che in occasione del terzo viaggio nel futuro, aveva viaggiato nella California del 1984. Proprio la California perché durante i primi due viaggi (due settimane nel 1954 e altre due nel 1964) aveva avuto l’impressione che la California fosse il centro culturale e il maggiore centro scientifico della nazione più progredita sulla terra. Ormai non era più il solo a viaggiare attraverso il tunnel; altri quattro uomini iniziarono a fare i loro viaggi appena si ebbe la prova che non c’era pericolo. In occasione del terzo viaggio Stefan aveva continuato a scandagliare il futuro e aveva appreso dettagliatamente che cos’era successo nel mondo durante e dopo la guerra. Aveva appreso anche quali scoperte scientifiche avrebbe con tutta probabilità riportato nella Berlino del ’44 e che sarebbero servite a far vincere la guerra a Hitler. Non perché intendesse dare un contributo a quel piano, ma perché sperava di sabotarlo. Le sue ricerche consistevano nella lettura di giornali, nell’osservazione dei programmi televisivi e della società americana, cogliendo l’atmosfera degli ultimi anni del ventesimo secolo.

Si era coricato sul cuscino e ricordando quel terzo viaggio la sua voce non aveva i toni tristi che avevano accompagnato la descrizione della vita tremenda che aveva condotto fino al 1944. Stefan proseguì: «Non potete immaginare che cosa fu per me camminare per le strade di Los Angeles la prima volta. Se avessi viaggiato mille anni più in là nel futuro, invece di quaranta, non sarebbe stato più bello. Le automobili! Automobili ovunque, e tante di marca tedesca, che sembravano indicare che gli orrori della guerra erano in un certo senso stati perdonati. Significava che la nuova Germania era stata accettata, e ne fui commosso».

«Noi abbiamo una Mercedes,» disse Chris. «È una macchina bellissima, ma io preferisco la jeep.»

«Le automobili», riprese Stefan, «gli stili, i sorprendenti progressi in tutti i campi: orologi digitali, personal computer, videoregistratori per guardare dei film in casa propria! Cinque giorni dopo il mio arrivo continuavo a essere in preda a una violenta e piacevole emozione e ogni mattina andavo alla ricerca di nuove meraviglie. Il sesto giorno, mentre passavo accanto a una libreria, vidi una fila di persone che attendevano di avere le copie di un romanzo firmate dall’autore. Entrai a curiosare e anche per vedere che genere di libro fosse così popolare, per comprendere un po’ di più la società americana. E tu eri là, Laura, seduta a un tavolo su cui erano ammassate pile di copie del tuo terzo romanzo e del tuo primo grande successo, Ledges.»

Laura si sporse automaticamente in avanti ed esclamò: «Ledges? Ma non ho mai scritto un libro con quel titolo».

Chris, anche questa volta comprese al volo. «Quello era un libro che tu hai scritto in una vita che avresti vissuto se il signor Krieger non l’avesse manipolata.»

«Avevi ventinove anni quando ti vidi per la prima volta in quella libreria di Westwood», disse Stefan. «Eri su una sedia a rotelle, perché le gambe erano paralizzate, inutili. Anche il braccio sinistro era in parte paralizzato.»

«Storpia?» disse Chris. «La mamma era storpia?»

Laura era finita sul bordo della sedia. Anche se quanto aveva detto il suo Custode poteva sembrare troppo fantastico per essere vero, lei sapeva che lo era. A un livello molto profondo, forse anche più primitivo dell’istinto, Laura percepì che l’immagine di sé in una carrozzella, le gambe paralizzate, inutilizzabili, era esatta. Forse ciò che percepì era la debole eco di un destino contrastato.

«Eri così dalla nascita», disse Stefan.

«Perché?»

«Lo appresi solo molto più tardi, dopo aver fatto molte ricerche nella tua vita. Il dottore Markwell, che si occupò del parto a Denver, Colorado, nel 1955, era alcolizzato. Comunque, il tuo parto era difficile…»

«Mia madre morì dandomi alla luce.»

«Sì, anche in quella realtà morì. Ma Markwell commise altri errori che ti procurarono una lesione alla colonna vertebrale che ti rese storpia per tutta la vita.»

Un brivido la percorse. Come per provare a se stessa che era veramente sfuggita alla vita che il destino le aveva originariamente riservato, si alzò e andò alla finestra, usando le gambe, le gambe sane, le gambe che, ringraziando il cielo, poteva usare.

A Chris, Stefan disse: «Quel giorno, quando la vidi seduta sulla sedia a rotelle, tua madre era splendida. Meravigliosa. Il volto, ovviamente, era lo stesso di ora. Ma non era solo il volto che la rendeva bellissima. Attorno a lei c’era un’aura di coraggio ed era di buonumore nonostante il suo handicap. Tutte le persone che andavano da lei per farsi firmare una copia di Ledges, andavano via non solo con un autografo, ma con un sorriso. Nonostante fosse condannata per tutta la vita su una sedia a rotelle, tua madre era serena. Rimasi a osservare da una certa distanza e fui affascinato e profondamente toccato, come non lo ero mai stato prima».

«Oh, lei è fantastica», disse Chris. «Nulla la spaventa.»

«Tutto spaventa tua madre», ribattè Laura. «Tutta questa conversazione folle sta spaventando a morte tua madre.»

«Ma tu non scappi mai di fronte a nulla, né ti nascondi», replicò Chris voltandosi a guardarla. Arrossì. «Forse hai paura, ma non ti comporti mai come se l’avessi.»

Laura aveva appreso fin dall’inizio che coloro che mostravano la propria paura erano considerati facili prede.

«Quel giorno acquistai una copia di Ledges», proseguì Stefan, «e lo portai nell’albergo in cui risiedevo. Lo lessi tutto durante la notte ed era così bello che in alcuni punti piansi… e anche divertente. Il giorno dopo comprai gli altri due libri, Silverlock e Fields of Night, che erano belli e commoventi come il libro che ti aveva reso famosa, Ledges.»

Era strano sentire commenti così favorevoli su libri che in questa vita non aveva mai scritto. Ma a Laura non interessava tanto conoscere la trama di quei romanzi, ma piuttosto la risposta a una domanda inquietante: «In questa vita ero destinata a vivere, ma nell’altro 1984… ero sposata?»

«No.»

«Ma ho incontrato Danny e…»

«No. Non hai mai incontrato Danny. Non ti sei mai sposata.»

«E io non sono mai venuto al mondo!» esclamò Chris.

Stefan disse: «Tutte queste cose sono accadute perché tornai a Denver, Colorado, nel 1955 e impedii al dottor Markwell di seguire il tuo parto. Il dottore che sostituì Markwell non riuscì a salvare tua madre, ma ti fece nascere sana. E da quel punto in poi ogni cosa nella tua vita cambiò. Era il tuo passato ciò che stavo cambiando, certo, ma era anche il mio futuro. E dobbiamo ringraziare Dio di quella particolarità del viaggio nel tempo, perché altrimenti non sarei mai stato in grado di risparmiarti una vita come paraplegica».

Il vento soffiò con violenza e un’altra raffica di pioggia si abbattè contro la finestra dietro la quale stava Laura.

Fu nuovamente tormentata dalla sensazione che la stanza in cui si trovava, la terra su cui era costruita e l’universo in cui girava fosse inconsistente come il fumo, soggetta a un’improvviso cambiamento.

«Da quel momento controllai la tua vita», proseguì Stefan. «Dal gennaio del 1944 a metà marzo, feci più di trenta viaggi segreti per vedere in che modo proseguiva la tua vita. Durante il quarto di quei viaggi, nel 1964, scoprii che eri già morta da un anno. Tu e tuo padre eravate stati uccisi da quel tossicomane che aveva rapinato il negozio. Perciò ritornai al 1963 e lo uccisi prima che lui potesse uccidere voi.»

«Tossicomane?» ripetè Chris, sconcertato.

«Ti racconterò tutto più tardi, tesoro.»

Stefan proseguì: «E fino a quella notte in cui Kokoschka si presentò su quella strada di montagna ero riuscito in modo abbastanza soddisfacente, almeno credo, a rendere la tua vita più semplice e migliore. La mia interferenza non ti privò tuttavia della tua arte, né scrivesti libri meno belli di quelli che avevi scritto nell’altra vita. Libri diversi, ma con la stessa carica interiore».

Laura si sentì le ginocchia deboli e tornò a sedersi in poltrona. «Ma perché? Perché hai voluto migliorare la mia vita?»

Stefan Krieger guardò Chris, poi si voltò verso Laura e infine chiuse gli occhi e parlò.

«Dopo averti vista su quella sedia a rotelle, mentre firmavi le copie di Ledges, e dopo aver letto i tuoi libri, mi innamorai di te… profondamente.»

Chris cominciò a dimenarsi nella poltrona, ovviamente imbarazzato nell’udire esternare quei sentimenti, soprattutto considerato che la persona in questione era sua madre.

«Il tuo animo era anche più bello del tuo volto», disse Stefan dolcemente, con gli occhi ancora chiusi. «M’innamorai del tuo grande coraggio, forse perché il vero coraggio era qualcosa che non avevo mai visto nel mio mondo di fanatici in uniforme. Commettevano atrocità in nome del popolo e le definivano coraggio. Erano disposti a morire per uno spregevole ideale totalitario e chiamavano coraggio ciò che in realtà non era che stupidità e follia. Mi innamorai della tua dignità perché in me non vi era né dignità né un rispetto simile a quello che vedevo risplendere in te. Mi innamorai della tua compassione, così viva nei tuoi libri, perché nel mio mondo ne avevo vista ben poca. Mi innamorai, Laura, e compresi che potevo fare per te ciò che tutti gli uomini farebbero per coloro che amano se avessero il potere di un dio: feci del mio meglio per risparmiarti la parte peggiore che il destino ti aveva riservato.»

Alla fine riaprì gli occhi.

Erano di un azzurro splendido. E tormentati.

Laura gli era immensamente grata. Non lo amava, certo, anche perché lo conosceva appena. Ma nel dichiarare la profondità del suo sentimento, una passione che lo aveva indotto a trasformare il suo destino e che lo aveva portato a solcare le vaste immensità del tempo per essere vicino a lei, io un certo senso Stefan aveva ricreato quell’aura magica nella quale Laura in passato lo aveva visto. Àncora una volta sembrava più prodigioso della vita stessa, un semidio, se non un dio, grazie a quell’altruismo che lo aveva portato a dedicarsi a lei.


Quella notte Chris divise il letto cigolante con Stefan Krieger. Laura cercò di dormire su una poltrona con le gambe appoggiate sull’altra.

La pioggia continuava a cadere con un ritmo incessante, monotono, che presto fece addormentare Chris. Laura poteva sentirne il respiro.

Rimase forse un’ora sdraiata nel buio, dopo di che sussurrò: «Dormi?»

«No», rispose prontamente Stefan.

«Danny», disse Laura. «Il mio Danny…»

«Sì?»

«Perché non…»

«Perché non ho fatto un secondo viaggio quella notte del 1988 e non ho soppresso Kokoschka prima che potesse uccidere Danny?»

«Sì. Perché non l’hai fatto?»

«Perché… vedi, Kokoschka veniva dal 1944, perciò il fatto che uccise Danny e la sua stessa morte facevano parte del mio passato, che non potevo manipolare. Se avessi cercato di tornare in quella notte dell’88, un attimo prima per fermare Kokoschkapwna che uccidesse Danny… sarei stato sbalzato immediatamente indietro attraverso il tunnel, sarei ritornato all’istituto, senza andare in nessun luogo; la legge della natura contro i paradossi mi avrebbe impedito di ritornare in quel punto.»

Laura rimase in silenzio.

Stefan le chiese: «Capisci?»

«Sì.»

«Riesci ad accettarlo?»

«Non accetterò mai la sua morte.»

«Ma… mi credi?»

«Penso di sì.»

«Laura, so perfettamente quanto amavi Danny Packard. Se avessi potuto salvarlo, anche a costo della mia stessa vita, l’avrei fatto. Non avrei esitato.»

«Ti credo», disse Laura. «Perché senza di te… non avrei mai avuto neppure Danny.»


«L’Anguilla», disse Laura.

«Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato», le spiegò Stefan nella stanza immersa nell’oscurità. «Quando avevi otto anni, uccisi quel tossicomane impedendogli così di violentarti e ucciderti, ma inevitabilmente il destino portò sulla tua strada un altro squilibrato, che era potenzialmente un omicida. Willy Sheener. L’Anguilla. Ma quello stesso destino determinò che tu fossi una scrittrice e per giunta di successo, stabilì che tu portassi lo stesso messaggio al mondo con i tuoi libri, indipendentemente da ciò che io feci per cambiare la tua vita. Questo è un disegno positivo. C’è qualcosa di spaventoso e nello stesso tempo rassicurante nel modo in cui un certo potere cerca di ristabilire i disegni del destino che sono stati interrotti… quasi come se ci fosse uno scopo nell’universo, qualcosa che nonostante infierisca sulla nostra sofferenza, potremmo persino chiamare Dio.»

Per un po’ rimasero ad ascoltare il rumore della pioggia e del vento che spazzava il mondo.

Laura chiese: «E l’Anguilla?»

«Una notte lo attesi nel suo appartamento…»

«Lo picchiasti duramente. Sì, ero certa che fossi stato tu.»

«Lo picchiai e lo avvertii di starti lontano. Gli dissi che la prossima volta l’avrei ucciso.»

«Ma quella lezione non fece che renderlo ancor più determinato. Perché non lo uccidesti subito?»

«Avrei dovuto farlo. Ma… non so. Forse perché avevo visto tanti omicidi ai quali io stesso avevo contribuito che… sperai semplicemente che per una volta non fosse necessario uccidere.»

Laura pensò al suo mondo di guerra, ai campi di concentramento, ai genocidi e riuscì a capire perché avesse sperato di evitare un omicidio, anche se Sheener non meritava di vivere.

«Ma quando Sheener venne a cercarmi nella casa dei Dockweiler, perché non eri là a fermarlo?»

«Quando controllai nuovamente la tua vita avevi tredici anni, avevi già ucciso Sheener da sola ed eri sopravvissuta, perciò decisi di non tornare indietro e di non intervenire di nuovo.»

«Io sopravvissi», disse Laura. «Ma Nina Dockweiler no. Forse, se non fosse tornata a casa quel giorno e non avesse visto tutto quel sangue, il corpo…»

«Forse», disse Stefan. «O forse no. Il destino lotta sempre per riaffermare il modello predestinato come meglio può. Forse sarebbe comunque morta. Inoltre, non potevo proteggerti da ogni trauma, Laura. Avrei dovuto compiere centinaia di viaggi attraverso il tempo per poter fare una cosa simile. E probabilmente se avessi interferito troppo nella tua vita non sarebbe stato positivo per te. Senza avversità, forse non saresti diventata la donna di cui mi sono innamorato.»

Fra di loro calò il silenzio.

Laura ascoltava il vento e la pioggia.

Ascoltava i battiti del suo cuore.

Alla fine disse: «Io non ti amo».

«Capisco.»

«È come se in un certo senso dovessi… almeno un po’.»

«In fondo non mi conosci neppure.»

«Forse non potrò mai amarti.»

«Lo so.»

«Nonostante tutto quello che hai fatto per me.»

«Lo so. Ma se riusciremo a sopravvivere a tutto questo… be’, c’è sempre tempo.»

«Sì», disse Laura, «suppongo che ci sia sempre tempo.»

6 Il compagno della notte

1

Sabato, 18 marzo 1944, nel laboratorio principale al pianterreno dell’istituto, Erich Klietmann, Obersturmführer delle SS, e la sua squadra composta da tre uomini ben addestrati erano pronti a viaggiare nel futuro per eliminare Krieger, la donna e il bambino. Indossavano abiti moderni, da giovani dirigenti californiani del 1989: un completo a righine di Yves St. Laurent, camicia bianca, cravatta scura, scarpe nere, calze nere e occhiali da sole Ray-Ban, nel caso il tempo lo richiedesse. Era stato detto loro che nel futuro questo tipo di abbigliamento veniva chiamato «power look», e anche se Klietmann non riusciva a comprenderne appieno il significato, gli piaceva il suono. I loro vestiti erano stati acquistati nel futuro da ricercatori dell’istituto in occasione di viaggi precedenti.

Tutt’e quattro portavano anche una borsa di Mark Cross, un modello elegante in cuoio con rifiniture dorate. Anche le borse erano state portate dal futuro, come i mitragliatori Uzi modificati e i caricatori di scorta che erano stati sistemati in ogni borsa.

Un gruppo di ricercatori dell’istituto era stato inviato in missione negli Stati Uniti proprio nell’anno e nel mese in cui John Hinckley aveva attentato alla vita di Ronald Reagan.

Mentre guardavano il filmato dell’attentato alla televisione, erano rimasti fortemente impressionati dalle compatte armi automatiche che gli agenti dei servizi segreti portavano nelle loro borse. Gli agenti erano stati in grado di estrarre quei mitragliatori e di portarli in posizione di tiro in meno di due secondi. Adesso, l’Uzi non solo era l’arma automatica in dotazione nella maggior parte dei distretti di polizia e dell’esercito, ma era l’arma preferita dei commandos della Schutzstaffel.

Klietmann si era esercitato con l’Uzi. Provava per quell’arma un affetto che non aveva mai provato per nessun essere umano. L’unica cosa che lo disturbava era il fatto che fosse di fabbricazione israeliana, il prodotto di un piccolo gruppo di ebrei. D’altra parte, fra pochi giorni i nuovi responsabili dell’istituto avrebbero probabilmente approvato l’integrazione dell’Uzi nel mondo del 1944 e i soldati tedeschi, grazie a quell’arma, sarebbero riusciti a respingere meglio le orde subumane che avrebbero voluto deporre il Führer.

Guardò l’orologio sul quadro di programmazione del tunnel e vide che erano passati sette minuti da quando il team di ricerca era partito alla volta della California, il 15 febbraio 1989. Dovevano ricercare fra gli annali pubblici, soprattutto nei numeri arretrati dei giornali, per scoprire se Krieger, la donna e il bambino erano stati scoperti dalla polizia e trattenuti per essere interrogati, nel mese successivo alle sparatorie che erano avvenute a Big Bear e alle San Bernardino Mountains. Dopo di che sarebbero tornati nel 1944, informando Klietmann del giorno, dell’ora e del luogo in cui Krieger e la donna potevano essere trovati. Poiché ogni viaggiatore del tempo ritornava da un viaggio esattamente undici minuti dopo la partenza, indipendentemente da quanto tempo trascorreva nel futuro, l’attesa di Klietmann e della squadra sarebbe durata solo altri quattro minuti.

2

Giovedì, 12 gennaio 1989, Laura compiva trentaquattro anni. Trascorsero quella giornata nella stessa stanza del Bluebird of Happiness Motel. Stefan aveva bisogno di riposare un’altra giornata per riacquistare le forze e lasciare che la penicillina facesse il suo corso. Aveva anche bisogno di pensare. Doveva escogitare un piano per distruggere l’istituto e quel problema era sufficientemente complicato da richiedere ore di intensa concentrazione.

Aveva smesso di piovere, ma il cielo era ancora livido e carico di nubi minacciose. Le previsioni meteorologiche annunciavano un altro temporale nel corso della notte.

Guardarono il notiziario delle cinque. Parlarono anche di lei, di Chris e di un misterioso uomo ferito che avevano portato dal dottor Brenkshaw. L’unica ipotesi plausibile che era stata fatta era che i trafficanti di droga che avevano ucciso suo marito ora stessero inseguendo lei e suo figlio, fórse perché temevano che potesse identificarli tra le foto segnaletiche della polizia o forse perché in qualche modo era anche lei coinvolta nel traffico di droga.

«Mia madre una trafficante di droga?» esclamò Chris offeso da quella insinuazione. «Che stronzi!»

Nonostante non fossero stati trovati corpi a Big Bear e alle San Bernardino Mountains, la vicenda era di grande attualità.

I giornalisti avevano appreso che sul posto erano state trovate numerose macchie di sangue e che la testa decapitata di un uomo era stata scoperta nel vialetto dietro la casa del dottor Brenkshaw, fra due bidoni della spazzatura.

Laura ricordò che mentre stava per superare il cancelletto di legno dietro la casa di Carter Brenkshaw, aveva sorpreso il secondo uomo armato e aveva aperto il fuoco su di lui con l’Uzi. La raffica lo aveva colpito alla gola e alla testa e in quel momento Laura aveva pensato che quelle raffiche avrebbero anche potuto decapitarlo.

«Gli uomini delle SS che sopravvissero premettero il pulsante di ritorno sulla cintura dell’uomo morto», spiegò Stefan, «e rimandarono indietro il corpo.»

«Ma perché non la testa?» chiese Laura, nauseata da quell’argomento, ma troppo curiosa per non porre quella domanda.

«Dev’essere rotolata via dal corpo e finita tra i due bidoni della spazzatura», rispose Stefan. «E probabilmente non sono riusciti a trovarla nel breve tempo che avevano a disposizione. Se l’avessero individuata, avrebbero potuto metterla sul corpo dell’uomo, incrociandogli attorno le braccia affinchè non cadesse. Qualsiasi cosa un viaggiatore del tempo indossi o porti con sé torna con lui durante il viaggio, ma con le sirene che si stavano avvicinando e il buio nel vialetto, non hanno avuto il tempo di trovare la testa.»

Chris, non parve eccitato da questi macabri particolari, si lasciò cadere sulla poltrona, si raggomitolò e rimase in silenzio. Forse l’immagine di una testa decapitata aveva reso la presenza della morte più reale di quanto non avesse fatto la sparatoria in cui era rimasto coinvolto.

Laura si affrettò a coccolarlo e a rassicurarlo dolcemente che sarebbero presto usciti sani e salvi da quella situazione. I discorsetti che gli fece non potevano però essere molto convincenti, poiché non era ancora riuscita a convincere se stessa che ce l’avrebbero fatta.

Per pranzo e per cena andò nuovamente a comprare il cibo al ristorante cinese dall’altro lato della strada. La sera prima nessuno del personale sembrava aver riconosciuto in lei l’autrice famosa o la fuggitiva, perciò si sentì abbastanza sicura. Era sciocco andare altrove e rischiare di essere scoperta.

Terminata la cena, mentre Laura stava raccogliendo i contenitori di cartone, Chris esibì due dolcetti al cioccolato con una candelina gialla su ognuno. Aveva comprato il pacchetto di dolci e una scatola di candeline al supermercato la mattina prima e li aveva tenuti nascosti fino a quel momento. Con aria compita uscì con i dolcetti dal bagno, dove aveva in segreto sistemato e acceso le candeline. Sorrise quando vide la sorpresa e la gioia di sua madre. Laura infatti dovette lottare per trattenere le lacrime. La commosse il fatto che nonostante fossero in pericolo, Chris avesse avuto ancora la presenza di spirito di pensare al suo compleanno e avesse avuto il desiderio di renderla felice.

Si divisero i due dolci e in più, con il cibo acquistato al ristorante cinese, avevano a disposizione cinque biscotti della fortuna.

Dall’alto della pila di cuscini, Stefan scartò il suo biscotto.

«Se solo fosse vero: ‘Vivrai in anni di pace e abbondanza’.»

«Oh, potrebbe anche esserlo», esclamò Laura. Anche Laura scartò il suo dolcetto ed estrasse il biglietto. «Be’, credo di averne avuto veramente abbastanza, grazie. ‘L’avventura sarà la tua compagna.’»

Nel dolcetto di Chris non c’erano biglietti, non c’era fortuna.

Un brivido di paura percorse Laura, come se la mancanza di un messaggio volesse in realtà dire che Chris non aveva futuro. Stupida superstizione, ma non riuscì a reprimere quell’improvvisa ansia.

«Ecco», disse, porgendogli subito gli altri due biscotti. «Il fatto che non hai trovato nulla nel primo, significa che avrai doppia fortuna.»

Chris aprì il primo, gli diede un’occhiata e rise. Poi lo lesse ad alta voce: «’Otterrai fama e fortuna’».

«Quando sarai ricco sfondato e io ormai vecchia, potrò contare su di te?» chiese Laura.

«Certo, mamma. Be’… fintanto che continuerai a cucinare per me, soprattutto la tua zuppa di verdura.»

«Ho capito, dovrò guadagnarmelo il tuo aiuto, eh?»

Sorridendo a quello scambio di battute, Stefan Krieger disse: «È un cliente difficile, non è così?»

«Probabilmente mi farà pulire i pavimenti quando avrò ottant’anni», commentò Laura.

Chris aprì il secondo biscotto. «’Avrai una vita serena fatta di piccoli piaceri: libri, musica, arte.’»

Né Chris né Stefan sembrarono notare che le due predizioni erano contrastanti e che di fatto si annullavano vicendevolmente, un fatto che in un certo senso confermava il sinistro significato del biscotto vuoto.

Ehi, stai uscendo di senno, Shane, si disse Laura. In fondo erano solo dei dolcetti della fortuna. Non predicono nulla sul serio.


Qualche ora più tardi, dopo che le luci furono spente e Chris si fu addormentato, Stefan parlò a Laura: «Ho architettato un piano».

«Un modo per distruggere l’istituto?»

«Sì. Ma è molto complicato e ci sono molte cose di cui avremo bisogno. Non lo so per certo… ma ho il sospetto che alcuni di questi articoli non possano essere acquistati da privati.»

«Io posso avere tutto ciò di cui hai bisogno», replicò Laura con sicurezza. «Ho i contatti. Qualsiasi cosa.»

«Avremo bisogno di molto denaro.»

«Questo è già più difficile. Mi sono rimasti solo quaranta dollari e non posso andare in banca a ritirare del denaro perché altrimenti lascerei una traccia…»

«Sì. Con quello ci scoprirebbero subito. C’è qualcuno di cui ti fidi e che si fida di te, qualcuno che sarebbe disposto a darti molto denaro senza dire a nessuno di averti vista?»

«Tu conosci tutto di me», disse Laura, «perciò sai di Thelma Ackerson. Ma, per l’amor del cielo, non voglio coinvolgerla in questa situazione. Se dovesse succedere qualcosa a Thelma…»

«Possiamo fare in modo che lei non corra alcun rischio», insistè Stefan.

Fuori, la pioggia preannunciata arrivò con un improvviso acquazzone. Laura disse: «No».

«Ma lei è la nostra unica speranza.»

«No.»

«Da chi altro potresti farti prestare dei soldi?»

«Troveremo un’altra soluzione che non richieda tanto denaro.»

«Che riusciamo o no a escogitare un altro piano, avremo bisogno di denaro. I tuoi quaranta dollari non dureranno un’altra giornata e io non ho nulla.»

«Non metterò a repentaglio la vita di Thelma», insistè Laura in tono deciso.

«Ma come ti ho già detto, possiamo fare tutto senza farle correre alcun rischio, senza…»

«No.»

«Allora siamo perduti», concluse Stefan in tono triste.

Laura ascoltò la pioggia, che nella sua mente si trasformò nel rombo dei bombardieri della seconda guerra mondiale e poi nel suono di una folla acclamante, impazzita.

Alla fine disse: «Ma anche se riusciamo a organizzare tutto senza che Thelma corra dei rischi, che cosa succederà se le SS la stanno controllando? Devono certamente sapere che è la mia migliore amica… la mia unica, vera amica. Chi mi dice che non abbiano già mandato una delle loro squadre nel futuro, giusto per tenerla d’occhio nella speranza che li porti sulle mie tracce?»

«Perché questo comporta un inutile spreco di tempo», replicò Stefan. «Loro manderanno semplicemente delle squadre nel futuro, nel mese di febbraio di quest’anno e poi in marzo e in aprile, mese dopo mese, per controllare i giornali, finché non trovano una notizia che li porti sulle nostre tracce. Ricordati che per ogni viaggio impiegano solo undici minuti nel loro tempo. Perciò è molto veloce. E questo sistema quasi certamente darà i suoi frutti prima o poi, perché dubito che potremo rimanere nascosti per il resto dei nostri giorni.»

«Be’…»

Stefan attese pazientemente, poi a un certo punto disse: «Voi due siete come sorelle, e se non puoi confidare nell’aiuto di una sorella in momenti come questi, a chi altri puoi rivolgerti, Laura?»

«Se possiamo ottenere l’aiuto di Thelma senza farle correre alcun rischio… credo che dovremmo provare.»

«Questa sarà la prima cosa che dovremo fare domani mattina», disse Stefan.

La pioggia continuò a cadere per tutta la notte e riempì anche i suoi sogni. Sogni tormentati da tremendi tuoni e lampi. Si svegliò in preda al panico, ma la notte piovosa a Santa Ana non era disturbata da quei luminosi e tonanti presagi di morte. Era un temporale relativamente tranquillo, senza tuoni, senza lampi e senza vento, anche se Laura sapeva che non sarebbe sempre stato così.

3

I macchinari ticchettavano e ronzavano.

Erich Klietmann guardò l’orologio. Fra tre minuti il gruppo di ricerca sarebbe tornato all’istituto.

Due scienziati, gli eredi di Penlovski, Januskaya e Volkaw, erano davanti alla consolle di programmazione, intenti a studiare le miriadi di grafici e di indicatori.

La luce nella stanza era innaturale, perché le finestre non erano state semplicemente oscurate per evitare che fornissero un’indicazione ai bombardieri nemici durante i voli notturni, ma erano murate all’interno per ragioni di sicurezza. L’aria era pesante.

Fermo in un angolo del laboratorio principale, accanto al tunnel, il tenente Klietmann pregustava il suo viaggio nel 1989 con grande eccitazione, non perché quel futuro fosse pieno di meraviglie, ma perché la missione gli dava l’opportunità, che pochi uomini avevano avuto, di servire il Führer. Se fosse riuscito a uccidere Krieger, la donna e il bambino, avrebbe avuto un incontro personale con Hitler, la possibilità di vedere quel grande uomo a faccia a faccia, toccare la sua mano e attraverso quel tocco sentire il potere, il tremendo potere dello Stato, del popolo, della storia e del destino tedesco. Il tenente avrebbe rischiato la vita dieci volte, mille volte, pur di poter attirare su di sé l’attenzione personale del Führer, pur di fare in modo che Hitler si accorgesse di lui, ma non semplicemente come uno degli ufficiali delle SS, bensì come individuo, come Erich Klietmann, l’uomo che salvò il Reich da un terribile destino.

Klietmann non era certo un perfetto esemplare della razza ariana ed era perfettamente consapevole dei suoi difetti fisici. Il nonno materno era polacco, un disgustoso incrocio slavo a causa del quale Klietmann era solo per tre quarti tedesco. Inoltre, anche se gli altri tre nonni e i genitori erano biondi, con gli occhi azzurri e con tratti nordici, Erich aveva occhi color nocciola, capelli scuri e i lineamenti marcati di quel selvaggio di suo nonno. Klietmann si detestava e per compensare i difetti fisici cercava di essere il nazista più vigile, il soldato più coraggioso e il più acceso sostenitore di Hitler in tutta la Schutzstaffel, compito assai arduo perché molti ambivano a quell’onore. A volte aveva persino disperato di poter conquistare la gloria. Ma non si era arreso mai e ora eccolo lì, a soli due passi dal successo.

Voleva uccidere Stefan Krieger personalmente, non solo perché si sarebbe guadagnato i favori del Führer, ma perché Krieger era il perfetto ariano, biondo, con gli occhi azzurri, i tratti nordici e di razza pura. Con tutti i vantaggi dalla sua parte l’odioso Krieger aveva scelto di tradire il suo Führer e questo faceva impazzire di rabbia Klietmann, che invece doveva lottare.

Ora, quando mancavano solo due minuti al rientro del gruppo di ricerca, Klietmann guardò i tre subordinati, tutti vestiti come giovani dirigenti di un’altra era e sentì nascere dentro di sé un senso di orgoglio tale che quasi si commosse.

Tutti avevano origini umili. Unterscharführer Felix Hubatsch, il sergente di Klietmann, era figlio di un operaio alcolizzato e di una madre sciattona, che lui disprezzava. Rottenführer Rudolph von Manstein era figlio di un povero contadino, la cui vita fallimentare lo faceva vergognare. Rottenführer Martin Bracher era orfano. Nonostante provenissero da quattro zone diverse della Germania, i due caporali, il sergente e il tenente Klietmann avevano in comune una cosa che li rendeva come fratelli: avevano compreso che il legame più vero, più profondo e più caro di un uomo non era nei confronti della famiglia ma dello Stato, della patria e del suo capo. Lo Stato era l’unica famiglia che importasse. Questo frammento di saggezza li elevava e li rendeva degni padri della futura razza superiore.

Klietmann si sfiorò gli angoli degli occhi con il pollice, asciugandosi le lacrime che non era riuscito a trattenere.

Ancora un minuto e il gruppo di ricerca sarebbe tornato.

I macchinari ticchettavano e ronzavano.

4

Alle tre di venerdì pomeriggio del 13 gennaio, un camioncino bianco entrò nel piazzale del motel, si diresse direttamente verso l’ala posteriore e parcheggiò accanto alla Buick che portava le targhe di una Nissan. Il camioncino doveva avere circa cinque o sei anni. La portiera dalla parte del passeggero era ammaccata e sulla lamiera ricurva si vedevano macchie di ruggine. Il proprietario evidentemente stava risistemando il camioncino poco per volta, perché alcuni punti erano stati ritoccati, ma non ancora ridipinti.

Laura osservò il camioncino da dietro le tende appena scostate della finestra della stanza. In una mano teneva l’Uzi.

I fari del camioncino si spensero, i tergicristalli si arrestarono e un attimo dopo una donna dai capelli biondi e ricci uscì e si diresse verso la porta di Laura. Bussò tre volte.

Chris era dietro la porta e guardava sua madre.

Laura annuì con la testa.

Chris aprì la porta e disse: «Ciao, zia Thelma. Accidenti, che parrucca orribile!»

Thelma entrò e stringendo a sé Chris replicò: «Be’, grazie tante. E che cosa mi racconti se ti dicessi che quella specie di proboscide con cui sei nato te la devi proprio tenere, mentre io la parrucca me la posso togliere quando voglio, eh? Che cosa mi racconti adesso?»

Chris ridacchiò. «Nulla. Perché so di avere un bel nasino.»

«Bel nasino? Quanto sei presuntuoso!» Lasciò Chris, lanciò un’occhiata furtiva a Stefan Krieger, che era seduto in una delle poltrone accanto alla televisione, poi si rivolse a Laura: «Shane, hai visto con che roba sono arrivata? Sono o non sono intelligente? Mi stavo infilando nella mia Mercedes quando mi sono detta: Thelma — mi chiamo sempre con il mio nome — attirerai l’attenzione di tutti se arrivi in quel motel da quattro soldi con una macchina da sessantacinquemila dollari! Allora ho pensato di prendere in prestito la macchina del maggiordomo. Ma tu sai che macchina ha lui? Una Jaguar. A quel punto ho dovuto farmi prestare il camioncino del giardiniere ed eccomi qui. Che cosa ne pensi di questo travestimento?»

Portava una parrucca bionda tutta ricci, imperlata di gocce di pioggia, occhiali con montatura di osso e una dentatura finta che la faceva somigliare a Dracula.

«Mi sembri molto più carina così», commentò Laura ridacchiando.

Thelma si tolse i denti finti. «Ascolta, una volta trovata la quattroruote che passava inosservata, ho capito che sarei stata io ad attirare l’attenzione, essendo una grande star e tutto il resto. E visto che i giornalisti avevano già scoperto la nostra amicizia e avevano cercato di farmi alcune domande su di te, la famosa scrittrice che va in giro con un mitra, ho deciso di venire in incognito.»

Appoggiò la borsa e i denti finti sul letto. «Questo travestimento l’avevo usato per uno dei miei spettacoli che ho portato sulla scena circa otto volte a Las Vegas. Fu un completo fallimento. Il pubblico mi sputava addosso, Shane. Hanno fatto intervenire le guardie che hanno cercato di arrestarmi, mi hanno addirittura contestato il diritto di condividere lo stesso pianeta con loro. Oh, sono stati così insolenti, Shane, sono stati così…»

S’interruppe improvvisamente nel bel mezzo del suo discorso e scoppiò in lacrime. Corse da Laura e le gettò le braccia al collo. «Oh, Laura, ero così spaventata, così spaventata. Quando ho sentito le notizie sulla sparatoria e le condizioni in cui hanno trovato la tua casa a Big Bear, ho pensato che tu… o forse Chris… ero così preoccupata…»

Stringendola in un abbraccio interminabile, Laura le disse: «Ti racconterò tutto, ma la cosa più importante è che ora stiamo bene, e forse abbiamo trovato un modo per uscire dal baratro in cui ci troviamo».

«Perché non mi hai chiamato, brutta stronza?»

«Ti ho chiamato.»

«Ma solo questa mattina! Due giorni che il tuo nome sui giornali appariva a caratteri cubitali. Sono quasi impazzita.»

«Scusami. Avrei dovuto farlo prima. Ma non volevo coinvolgerti.»

Thelma si staccò a fatica da lei. «Sono inevitabilmente, profondamente e disperatamente coinvolta, idiota che non sei altro, perché tu sei coinvolta.» Da una tasca della giacca di pelle scamosciata tirò fuori un Kleenex e si asciugò gli occhi.

«Ne hai un altro?» chiese Laura. Thelma le diede un Kleenex e tutt’e due si soffiarono il naso.

«Ce la stavamo dando a gambe, zia Thelma», spiegò Chris. «È difficile rimanere in contatto con le persone quando stai scappando.»

Thelma tirò un profondo, respiro, poi chiese: «Allora, Shane, dove tieni la tua collezione di teste decapitate? Nel bagno? Ho sentito che ne hai dimenticata una a San Bernardino. È un tuo nuovo hobby oppure hai sempre avuto una particolare attrazione per la bellezza della testa umana privata di tutte quelle stupide estremità?»

«Voglio presentarti qualcuno», l’interruppe Laura.

«Thelma Ackerson, questo è Stefan Krieger.»

«Piacere», disse Thelma.

«Mi scuserà se non mi alzo», disse Stefan. «Ma sono ancora convalescente.»

«Oh, se lei riesce a scusare questa parrucca, io posso scusare qualsiasi cosa.» Poi rivolta a Laura, chiese: «È lui?»

«Sì.»

«Il tuo Custode?»

«Sì.»

Thelma andò da Stefan e con le lacrime agli occhi lo baciò sulle guance. «Non so da dove venga o chi diavolo sia, Stefan Krieger, ma le voglio bene per tutte le volte che ha aiutato la mia Laura.» Fece qualche passo indietro e si sedette ai piedi del letto accanto a Chris.

«Shane, ma quest’uomo è bellissimo! Guarda, è un fusto. Scommetto che sei stata tu a sparargli per impedirgli di andare via. È proprio come dovrebbe essere un Angelo Custode.» Stefan era imbarazzato, ma nessuno avrebbe potuto fermare Thelma. «Krieger, lei è un gran bel figliolo. Voglio sapere tutto di lei. Ma prima, ecco i soldi che mi hai chiesto, Shane.»

Aprì la voluminosa borsa ed estrasse un grosso rotolo di banconote da cento dollari.

Controllando il denaro, Laura esclamò: «Ma Thelma, te ne avevo chiesti quattromila. Qui ce n’è almeno il doppio».

«Dieci o dodicimila, credo.» Thelma fece l’occhiolino a Chris e disse: «Quando i miei amici sono in fuga, esigo che viaggino in prima classe».


Thelma ascoltò il racconto senza mai esprimere incredulità. Stefan rimase colpito dalla sua mentalità così aperta, ma lei disse: «Ehi, una volta che hai vissuto all’istituto McIlroy e al Caswell, l’universo non ha più sorprese. Viaggiatori nel tempo dal 1944? Puah! Al McIlroy avrei potuto mostrarti una donna grande come un armadio, che indossava vestiti fatti con stoffa da tappezzeria di quarta categoria e che veniva pagata profumatamente per trattare gli orfani come animali. Qui almeno c’è di che stupirsi». Era rimasta chiaramente colpita dalle origini di Stefan, turbata e sorpresa dalla trappola in cui si trovavano, ma anche in quelle circostanze era la solita Thelma Ackerson, sempre alla ricerca di una battuta spiritosa per qualsiasi cosa.

Alle sei si rimise i denti finti e uscì per recarsi al ristorante messicano a comprare del cibo. «Quando si è in fuga dalla legge, si ha bisogno di riempirsi la pancia con i fagioli, cibo per uomini duri.» Ritornò con sacchetti pieni di tacos, enchiladas, due porzioni di nacho, burrito e chimichanga. Sistemarono il cibo al centro del letto su cui sedettero Thelma e Chris, mentre Laura e Stefan preferirono le due poltrone ai piedi del letto.

«Thelma», esclamò Laura, «ma qui c’è cibo per almeno dieci persone.»

«Be’, ho pensato che doveva sfamare noi e gli scarafaggi. Se non abbiamo cibo a sufficienza per gli scarafaggi potrebbero offendersi e uscire a rovesciare il camioncino del mio giardiniere. Qui avete gli scarafaggi, non è vero? Voglio dire, un posto squallido come questo senza scarafaggi sarebbe come l’Hotel Beverly Hills senza topi d’albergo.»

Mentre mangiavano, Stefan espose il piano che aveva architettato per chiudere il tunnel e distruggere l’istituto. Thelma lo interruppe più volte con battute spiritose, ma quando ebbe terminato disse con aria seria: «È dannatamente pericoloso, Stefan. Tanto coraggioso da sembrare quasi assurdo».

«Non c’è altro modo.»

«Immagino che sia proprio così», ammise Thelma. «Allora, che cosa posso fare per aiutarvi?»

Chris stava per portarsi alla bocca una manciata di pop corn, ma si fermò e disse: «Abbiamo bisogno che compri il computer, zia Thelma».

Laura spiegò: «Un personal computer IBM, il modello migliore, come quello che ho a casa, così sono in grado di utilizzare il software. Non abbiamo tempo per imparare le procedure di una nuova macchina. Ti ho scritto tutto sul foglio. Lo potrei comprare io stessa, immagino, con il denaro che mi hai dato, ma preferisco non farmi vedere in giro».

«Avremmo anche bisogno di un posto dove sistemarci», disse Stefan.

«Non possiamo rimanere qui», esclamò Chris, felice di partecipare alla discussione. «Perlomeno fintanto che dobbiamo lavorare con un computer. Anche se facessimo di tutto per nasconderlo, la cameriera se ne accorgerebbe e lo direbbe in giro. Non capita tutti i giorni gente che si porta dietro un computer.»

Stefan disse: «Laura mi ha detto che tu e tuo marito avete una seconda casa a Palm Springs».

«Abbiamo una casa a Palm Springs, un palazzo a Monterey e un altro a Las Vegas e non mi sorprenderebbe se possedessimo, o perlomeno condividessimo, un vulcano personale alle Hawaii. Mio marito è troppo ricco. Non avete che da scegliere. Le mie case sono le vostre case. Vi chiedo solo di non pulire i cerchioni delle auto con gli asciugamani e se dovete masticare tabacco e quindi sputare sul pavimento, cercate di farlo negli angoli.»

«Pensavo che la casa di Palm Springs potrebbe essere l’ideale», disse Laura. «Mi hai detto che è abbastanza isolata.»

«Esatto. Si trova su un vasto terreno con molti alberi. Lì intorno abitano altre persone che lavorano nel mondo dello spettacolo. Tutti sono molto impegnati, perciò non c’è pericolo che vengano a bussare alla porta per chiedere una tazza di caffè. Nessuno vi disturberà laggiù.»

«Benissimo», concluse Laura. «Ci sono alcune cosette che devo chiederti. Abbiamo bisogno di vestiti, scarpe comode e alcuni generi di prima necessità. Ho fatto una lista con le nostre taglie e tutto il resto. Ovviamente, quando tutto questo sarà finito, ti restituirò il denaro che mi hai prestato e quello che hai speso per il computer e…»

«Dannazione. Vorrei anche vedere che tu non lo facessi, Shane. E con il quaranta per cento d’interessi la settimana. Con un aumento proporzionale di ora in ora più il tuo bambino. Il tuo bambino sarà mio.»

Chris si mise a ridere. «La mia Zietta Rumpelstiltskin.»

«Non farai certi commenti spiritosi quando sarai mio figlio, Christopher Robbin, al massimo potrai chiamarmi Madre Rumpelstiltskin, Sir.»

«Madre Rumpelstiltskin, Sir!» esclamò Chris, facendole il saluto militare.

Alle otto e mezzo Thelma si preparò per partire, con la lista di Laura e le informazioni sul computer. «Sarò di ritorno domani pomeriggio, non appena mi è possibile», disse Thelma, abbracciando per l’ultima volta Laura e Chris.

«Siete veramente al sicuro qui, Shane?»

«Credo di sì. Se ci avessero scoperto si sarebbero fatti già vivi.»

Stefan disse: «Ricorda, Thelma, sono viaggiatori del tempo; una volta che scoprono dove siamo nascosti, potrebbero tranquillamente viaggiare e arrivare al momento in cui per la prima volta siamo giunti qui. Infatti, avrebbero potuto aspettarci quando siamo entrati nel motel lunedì. Il fatto che siamo rimasti qui per tanto tempo indisturbati è quasi la riprova che negli annali non verrà mai riportato che questo era il nostro nascondiglio».

«Mi fa male la testa», si lamentò Thelma. «E io che pensavo che leggere un contratto pubblicitario fosse una cosa complicata!»

Uscì nella sera e nella pioggia indossando ancora la parrucca e gli occhiali con la montatura d’osso, ma senza i denti finti che aveva messo in tasca. Si allontanò con il camioncino del giardiniere.

Laura, Chris e Stefan la osservarono dalla grande finestra e Stefan commentò: «È una persona speciale».

«Proprio così», convenne Laura, «e prego Dio di non averla messa in pericolo.»

«Non ti preoccupare, mamma», la confortò Chris. «Zia Thelma è una donna forte. Lo dice sempre.»


Quella stessa sera, alle nove, poco dopo che Thelma era partita, Laura lasciò il motel per recarsi da Jack il Ciccione ad Anaheim. L’acquazzone si era trasformato ora in una fitta pioggerellina. La pavimentazione in macadam mandava bagliori nero argentei e i canali di scolo erano ancora colmi di acqua piovana che, nella strana luce nebulosa dei lampioni al sodio, sembrava l’olio. Anche la nebbia stava scendendo lentamente, strisciante come un serpente.

Aveva lasciato Stefan al motel con una certa riluttanza. Del resto, nelle sue condizioni non era certo saggio uscire in quella fredda, piovosa sera di gennaio. Inoltre non poteva far nulla per aiutarla.

Chris invece l’accompagnò. Non si sarebbe separata da lui neppure per il tempo necessario a trattare l’acquisto delle armi. Il bambino era andato con lei la prima volta che aveva contattato Jack il Ciccione, un anno prima, quando aveva acquistato l’Uzi modificato, perciò l’uomo non sarebbe rimasto sorpreso nel vederlo. Dispiaciuto, sì, visto che non amava affatto i bambini, ma non sorpreso.

Mentre guidava, Laura guardò spesso nello specchietto retrovisore e in quelli laterali e si tenne a una certa distanza dagli altri automobilisti. Non poteva certo permettersi di essere coinvolta in un incidente a causa di uno stupido che guidava con imprudenza. La polizia sarebbe sicuramente intervenuta sul luogo dell’incidente, per i soliti controlli della patente e, prima che potesse essere arrestata, gli uomini armati di fucili mitragliatori si sarebbero materializzati e avrebbero ucciso lei e Chris.

Aveva lasciato l’Uzi a Stefan, anche se lui aveva protestato. Voleva che avesse un mezzo di difesa. Laura aveva con sé 11 revolver e cinquanta proiettili di scorta distribuiti nelle tasche della giacca a vento.

Presso Disneyland, quando le fantasmagoriche luci al neon di Jack il Ciccione spuntarono nella nebbia, come l’astronave di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che scendeva avvolta dai suoi stessi vapori, Laura si sentì sollevata. Entrò nell’affollato parcheggio e spense il motore. I tergicristalli si arrestarono e la pioggia prese a scendere sul vetro come un velo increspato. Le luci arancione, rosse, blu, gialle, verdi e bianche delle insegne al neon scintillarono su quella pellicola d’acqua e Laura ebbe la strana sensazione di trovarsi all’interno di uno di quei vecchi, sgargianti juke box degli anni Cinquanta.

Chris disse: «Jack il Ciccione ha messo altre insegne da quando siamo venuti l’ultima volta».

«Credo che tu abbia ragione», ammise Laura.

Uscirono dalla macchina e rimasero a osservare la facciata della pizzeria di Jack il Ciccione. Le insegne al neon non erano riservate semplicemente al nome del locale. Erano usate anche per descrivere i contorni dell’edificio, del tetto, di ogni finestra e porta. Inoltre, su un’estremità del tetto era stato collocato un paio di occhiali da sole giganti e dall’altra parte un enorme missile posizionato per il decollo, da cui fuoriuscivano sfavillanti vapori al neon. La pizza, di tre metri di diametro, era una vecchia insegna, mentre la faccia sorridente del clown era nuova.

Ogni goccia di pioggia si illuminava di mille colori, come se avesse fatto parte di un arcobaleno che si era frantumato in mille pezzi con il calare della sera. Ogni pozzanghera scintillava con i frammenti dell’arcobaleno.

L’effetto era disorientante, ma preparava il visitatore a ciò che avrebbe trovato all’interno della pizzeria: i camerieri e le cameriere erano vestiti da clown, fantasmi, pirati, astronauti, streghe, zingari e vampiri e un trio vestito con costumi da orso si muoveva di tavolo in tavolo cantando e divertendo i bambini. Nelle altre stanze, i ragazzi più grandi erano alle prese con i videogame e il rumore faceva da sottofondo al canto degli orsi e alle grida dei bambini.

«Che manicomio!» disse Chris.

All’entrata furono accolti da Dominick, il socio minore di Jack il Ciccione. Dominick era alto, cadaverico, con occhi tristi e sembrava fuori posto in mezzo a tutto quel caos.

Alzando la voce per farsi sentire, Laura chiese di Jack il Ciccione e disse: «Ho chiamato prima. Sono una vecchia amica di sua madre». Era la parola d’ordine per indicare che si volevano armi e non pizza.

Dominick aveva imparato a scandire le parole in modo chiaro in mezzo a quella cacofonia senza urlare. «Mi sembra di avervi già visto.»

«Ottima memoria», ammise Laura. «Un anno fa.»

«Seguitemi, per favore», l’invitò Dominick in tono funereo.

Non dovettero attraversare la grande sala e questo fu positivo perché significava che Laura aveva meno possibilità di essere vista e riconosciuta da uno dei clienti. Nell’atrio, un ingresso secondario si apriva su un corridoio che passava accanto alla cucina e al magazzino e portava nell’ufficio privato di Jack il Ciccione. Dominick bussò alla porta, li fece entrare e annunciò a Jack: «Vecchi amici di tua madre». Poi lasciò Laura e Chris con il grosso uomo.

Jack il Ciccione aveva preso seriamente quel soprannome e si sforzava di esserne degno. Alto un metro e cinquantacinque, pesava circa un quintale e mezzo. Indossava una tuta immensa, che gli stava aderente quasi quanto un guanto.

Sedeva in una poltrona girevole, dietro una scrivania adatta alla sua mole e non si alzò. «Sentitele quelle bestioline.» E dicendo ciò si rivolse a Laura, ignorando Chris. «Ho sistemato il mio ufficio sul retro dell’edificio, e nonostante l’abbia fatto insonorizzare con materiali speciali, riesco ancora a udirli là fuori, che strillano e squittiscono. È come se fossi nell’anticamera dell’inferno.»

«Sono solo bambini che si stanno divertendo», disse Laura.

«E la signorina O’Leary era solo una vecchietta con una mucca maldestra, ma riuscì a bruciare completamente Chicago», replicò Jack il Ciccione in tono amareggiato. Stava mangiando una tavoletta di Mars. Da lontano, le voci dei bambini, isolate dai pannelli, si alzarono in un sordo boato e, come se stesse parlando a una moltitudine invisibile, il grasso uomo esclamò: «Ah, vi poteste strozzare, piccoli guastafeste».

«È un manicomio là fuori», disse Chris.

«Chi ti ha interpellato?»

«Nessuno, signore.»

Jack aveva un colorito rubizzo, con occhi grigi praticamente infossati nel volto rigonfio. Fissò lo sguardo su Laura e chiese: «Ha visto la mia nuova insegna?»

«Il clown è nuovo, non è vero?»

«Sì. Non è una bellezza? L’ho disegnato io, l’ho fatto fare e poi l’ho issato sul tetto nel cuore della notte, perciò la mattina dopo era troppo tardi perché qualcuno potesse emettere un ordine per fermarmi. Quei maledetti del consiglio comunale sono quasi schiattati, tutti insieme, in una volta sola.»

Jack il Ciccione era stato coinvolto in una battaglia legale durata dieci anni con il consiglio legale di zona di Anaheim e il consiglio municipale. Le autorità non approvavano le sue gigantesche insegne luminose, soprattutto ora che la zona attorno a Disneyland era stata inserita in un programma di rinnovamento urbano. Jack aveva speso decine se non centinaia di migliaia di dollari per difendere la propria causa nei tribunali, aveva pagato multe, era stato citato in giudizio e, a sua volta, aveva citato in giudizio, era stato persino in prigione per oltraggio alla corte. Fautore della dottrina del libero arbitrio, ora si proclamava anarchico e non avrebbe tollerato che i suoi diritti, reali e immaginari, di libero pensatore venissero usurpati.

Trattava armi illegali per la stessa ragione per la quale aveva innalzato le insegne al neon che violavano i regolamenti della città: come dichiarazione di forza contro l’autorità, a difesa dei diritti individuali. Avrebbe potuto parlare per ore dell’immoralità dei governi, di qualsiasi tipo di governo, a qualsiasi livello e, in occasione dell’ultima visita, Laura aveva ascoltato una lunghissima spiegazione del perché il governo non avesse neppure il diritto di far passare le leggi che proibivano l’omicidio.

Laura aveva poca simpatia per i grandi governi, sia di sinistra sia di destra, ma nutriva altrettanta poca simpatia per Jack il Ciccione. Non riconosceva la legittimità di alcun tipo di autorità, né quella delle istituzioni, né tanto meno quella della famiglia.

Laura gli diede la nuova lista degli acquisti, Jack controllò, contò il denaro, dopodiché condusse lei e Chris attraverso la porta nascosta dietro l’armadio dell’ufficio, giù per una stretta scala, che portava nello scantinato dove teneva l’arsenale illegale. Anche se il ristorante era una gabbia di matti, il magazzino di armi era tenuto con una cura feticistica: scatole su scatole di pistole e armi automatiche erano ammassate su scaffali di metallo e sistemate a seconda del calibro e del prezzo; nel seminterrato della pizzeria nascondeva all’incirca un migliaio di armi.

Laura ottenne i due Uzi modificati — «Un’arma incredibilmente popolare da quando hanno attentato alla vita di Reagan» — commentò Jack il Ciccione e un’altra calibro 38 Chief’s Special. Stefan aveva sperato di poter avere una Colt Commander 9 millimetri Parabellum con un caricatore a nove colpi e la canna adattabile a un silenziatore. «Non ce l’ho», disse Jack il Ciccione, «ma posso darvi una Colt Commander Mark IV calibro 38 Super, che ha un caricatore a nove colpi e ne ho due di quelle adattabili per i silenziatori. Ho anche i silenziatori, ne ho un sacco.» Laura sapeva già che non era in grado di fornirle le munizioni, ma mentre finiva il suo Mars, Jack il Ciccione lo spiegò di nuovo: «Non tengo le munizioni né gli esplosivi. Vede, io non credo nell’autorità, ma non sono totalmente irresponsabile. Ho un ristorante pieno di bambini urlanti e moccolosi là sopra e non posso rischiare di farli a pezzi, anche se questo porterebbe molta più tranquillità nel mondo. Per giunta, distruggerei tutte le mie bellissime insegne al neon».

«D’accordo», concluse Laura mettendo un braccio sulle spalle di Chris per tenerlo accanto a sé, «che cosa mi dite del gas?»

«Sicura che non si tratti di gas lacrimogeno?»

«No. Vexxon. Questa è la merce che mi serve.» Stefan le aveva dato il nome del gas. Disse che era una delle armi chimiche che si trovava sulla lista di oggetti che l’istituto sperava di riportare nel 1944 e introdurre nell’arsenale militare tedesco. Ora, forse, poteva essere usato contro i nazisti. «Abbiamo bisogno di qualcosa che uccida in fretta.»

Jack il Ciccione si appoggiò contro il tavolo di metallo al centro della stanza e dove aveva riposto gli Uzi, i revolver, la pistola e i silenziatori. Il tavolo scricchiolò sinistramente. «Be’, ciò di cui stiamo parlando è roba in dotazione all’esercito, su cui vige uno stretto controllo.»

«Può procurarselo?»

«Oh, certo. Vi posso procurare del Vexxon», disse Jack il Ciccione. Si allontanò dal tavolo, che scricchiolò di sollievo per essersi liberato di quel peso, e si diresse verso degli scaffali di metallo da cui estrasse un paio di tavolette di cioccolato, nascoste fra le scatole di fucili: una scorta segreta. Si guardò bene dall’offrirne una a Chris, ripose la seconda tavoletta nella tasca dei pantaloni e cominciò a mangiare l’altra. «Non tengo quel genere di porcherie qui. È roba pericolosa, come gli esplosivi. Ma posso procurarvela per domani, nel tardo pomeriggio, se per voi va bene.»

«Va benissimo.»

«Vi costerà.»

«Lo so.»

Jack il Ciccione sogghignò. «Non ho molta richiesta per questo genere di mercanzia, perlomeno non da tipi come lei, piccoli acquirenti. M’incuriosisce cercare di immaginare che cosa ne farà. Non che mi aspetti che me lo dica. Ma di solito sono grossi acquirenti del Sud America o del Medio Oriente a richiedere questi gas che agiscono sul sistema nervoso e sull’apparato respiratorio. L’Iraq e l’Iran ne hanno usato tantissimo in questi ultimi anni.»

«Che differenza c’è fra i due?»

«Quello che agisce sull’apparato respiratorio devono inalarlo. Uccide nel giro di qualche secondo quando entra nel flusso sanguigno. Quando lo si libera è necessario indossare una maschera antigas. Il vostro invece, quello che colpisce il sistema nervoso, uccide anche più in fretta, semplicemente a contatto con la pelle, e alcuni tipi, come il Vexxon, non richiedono neanche una maschera antigas né un abbigliamento di protezione, perché si possono prendere un paio di pastiglie, qualche ora prima di usarlo, che agiranno come antidoto.»

«Infatti, ho bisogno anche delle pastiglie», disse Laura.

«Vexxon. Il gas più facile da usarsi. Lei è un’acquirente veramente intelligente», disse Jack il Ciccione.

Aveva già finito la tavoletta di cioccolato e sembrava essere ingrassato notevolmente da quando Laura e Chris erano entrati nell’ufficio, circa mezz’ora prima. Laura pensò che l’anarchia politica di Jack il Ciccione fosse riflessa non solo nell’atmosfera del locale, ma anche nel suo fisico, dove il grasso traboccava libero da considerazioni sociali o mediche. Sembrava che essere così enorme gli procurasse gioia; si dava molto spesso colpetti sulla pancia, oppure afferrava i rotoli di grasso attorno ai fianchi e se li massaggiava quasi con affetto, camminava con un’arroganza bellicosa, respingendo il mondo con la pancia. Laura immaginò di vedere Jack diventare ancora più grasso, aumentare fino a superare i centottanta chili, oltre i duecento chili, proprio come le strutture al neon selvaggiamente issate sul tetto diventavano sempre più elaborate, finché un giorno il tetto sarebbe crollato e Jack il Ciccione sarebbe esploso.

«Avrò il gas domani pomeriggio alle cinque», disse mentre sistemava gli Uzi, la calibro 38 Chief’s Special, la Colt Commander e i silenziatori in una scatola che aveva contenuto cappellini di carta per il ristorante. Ne richiuse il coperchio e fece segno a Laura di portarla di sopra; fra le altre cose, Jack il Ciccione non credeva nella galanteria.

Quando Jack aprì la porta che dava sul corridoio, Laura fu contenta di udire le grida dei bambini nella pizzeria. Quel suono era la prima cosa normale e sana che udiva.

«Sentiteli quei cretini», esclamò Jack. «Non sono bambini. Sono babbuini rasati che cercano di passare per bambini.» Richiuse pesantemente la porta insonorizzata dell’ufficio dietro Chris e Laura.

Nell’auto, mentre tornavano al motel, Chris disse: «Quando tutto questo sarà finito… che cos’hai intenzione di fare con Jack il Ciccione?»

«Lo denuncerò alla polizia», rispose Laura. «Una denuncia anonima.»

«Bene. È un pazzo.»

«È peggio di un pazzo, tesoro, è un fanatico.»

«Che cos’è esattamente un fanatico?»

Laura rimase a pensarci un po’, poi rispose: «Un fanatico è un pazzo che ha qualcosa in cui credere».

5

Il tenente delle SS Erich Klietmann seguiva la lancetta dei secondi sull’orologio del quadro di programmazione e quando la vide avvicinarsi alle dodici, si voltò e guardò il tunnel. Dentro il lungo tubo avvolto nell’oscurità, qualcosa luccicò, una macchia sfocata grigiastra che ben presto si trasformò nella sagoma di un uomo. Altri tre seguirono, uno dietro l’altro.

Fecero il loro ingresso nella stanza e furono accolti dai tre scienziati che erano rimasti a controllare il quadro di programmazione.

Provenivano dal febbraio del 1989 ed erano sorridenti. Il cuore di Klietmann prese a battere più forte perché, se non fossero riusciti a individuare Stefan Krieger, la donna e il bambino, non avrebbero certo avuto l’aria soddisfatta. Le prime due squadre di killer inviati nel futuro, quella che aveva attaccato la casa nei pressi di Big Bear e l’altra a San Bernardino, erano composte di ufficiali della Gestapo. Il loro duplice fallimento aveva indotto il Führer a insistere che la terza squadra fosse formata da Schutzstaffel, perciò per Erich i sorrisi dei ricercatori significavano che la sua squadra avrebbe avuto la possibilità di provare che nelle file delle SS c’erano uomini migliori che nella Gestapo.

L’insuccesso delle squadre precedenti non era l’unica nota a sfavore della Gestapo in questa faccenda. Anche Heinrich Kokoschka, capo dell’apparato di sicurezza dell’istituto, era stato un ufficiale della Gestapo e apparentemente si era rivelato un traditore. Vi erano prove che sostenevano, almeno in parte, la teoria che due giorni prima, il 16 marzo, era fuggito nel futuro con altri cinque membri dell’istituto.

La sera del 16 marzo, Kokoschka aveva intrapreso da solo un viaggio sulle San Bernardino Mountains con la dichiarata intenzione di uccidere Stefan Krieger prima che potesse tornare nel 1944 e uccidere Penlovski, cancellando in quel modo le morti degli uomini migliori del progetto. Ma Kokoschka non aveva mai fatto ritorno. Alcuni sostennero che Kokoschka fosse stato ucciso nell’anno 1988, che Krieger aveva vinto il confronto, ma ciò non spiegava dove fossero finiti gli altri cinque uomini presenti nell’istituto quella sera: i due agenti della Gestapo che attendevano il ritorno di Kokoschka e i tre scienziati che controllavano il quadro di programmazione del tunnel. Letteralmente svaniti e cinque cinture mancanti. Tutto stava a indicare che c’era un gruppo di traditori all’interno dell’istituto, i quali erano giunti alla conclusione che Hitler avrebbe perso la guerra nonostante la superiorità acquisita grazie alle nuove armi portate dal futuro, e che quindi avevano deciso di fuggire in un’altra era piuttosto che rimanere in una Berlino ormai destinata alla rovina.

Ma Berlino non era condannata. Klietmann non avrebbe mai preso in considerazione quella possibilità. Berlino era la nuova Roma. Il Terzo Reich avrebbe dominato per sempre. E ora che alle SS veniva offerta la possibilità di trovare e uccidere Krieger, il sogno del Führer sarebbe stato realizzato. Una volta eliminato Krieger, che costituiva la principale minaccia e la cui esecuzione era il compito più urgente che dovevano assolvere, si sarebbero poi concentrati sulla ricerca di Kokoschka e degli altri traditori. Ovunque quei porci fossero andati, qualsiasi luogo avessero raggiunto, Klietmann e i camerati li avrebbero sterminati con grande piacere.

Il dottor Theodore Juttner, direttore dell’istituto dopo gli omicidi di Penlovski, Januskaya e Volkaw, si voltò verso Erich e disse: «Forse abbiamo trovato Krieger, Obersturmfuhrer Klietmann. Dica ai suoi uomini di prepararsi».

«Siamo pronti, dottore», rispose Erich. Pronti per il futuro, pensò, pronti per Krieger, pronti per la gloria.

6

Alle quattro meno venti di sabato pomeriggio, 14 gennaio, poco più di un giorno dopo la sua prima visita, Thelma tornò al Bluebird of Happiness Motel a bordo del camioncino sgangherato del suo giardiniere. Aveva due ricambi di vestiti per ognuno, borse in cui mettere tutta la roba e circa duecento pallottole per i revolver e gli Uzi. Sul camioncino aveva anche il computer IBM e una stampante, diversi programmi una scatola di floppy-disk e tutto ciò di cui avevano bisogno.

Stefan si stava riprendendo molto rapidamente, anche se erano passati solo quattro giorni dal ferimento, ma nonostante ciò non era ancora in grado di fare lavori pesanti. Rimase nella stanza del motel con Chris a preparare le valigie, mentre Laura e Thelma sistemavano le scatole del computer nel bagagliaio e sul sedile posteriore della Buick.

Il temporale era cessato durante la notte. Il cielo era solcato da grandi nubi grigie. La temperatura si era alzata e l’aria profumava di pulito.

Richiudendo il bagagliaio Laura chiese: «Ma sei andata a far compere con la parrucca, gli occhiali e quei denti

«No», rispose Thelma, togliendosi i denti finti e infilandoli in tasca, perché quando parlava le davano fastidio. «A un attento esame un commesso avrebbe anche potuto riconoscermi e poi conciata in quel modo avrei sicuramente attirato molto di più l’attenzione che non presentandomi con il mio aspetto normale. Ma dopo aver fatto tutti gli acquisti, sono andata in una zona vuota di un parcheggio di un centro commerciale e prima di venire qui mi sono conciata così, una via di mezzo fra Harpo Marx e Bucky Beaver, giusto in caso che qualcuno nel traffico mi potesse vedere. Ti confesso una cosa, Shane: questo tipo di intrigo mi piace. Forse sono la reincarnazione di Mata Hari, perché quando penso di sedurre degli uomini per carpire i loro segreti e poi venderli a un governo straniero, mi sento percorrere da brividi di piacere.»

«È l’idea della seduzione che ti fa venire i brividi», replicò Laura, «non quella di vendere i segreti. Non sei una spia. Semplicemente una libidinosa.»

Thelma le diede le chiavi della casa di Palm Springs. «Non c’è personale a tempo pieno. Chiamiamo semplicemente un’impresa di pulizia per rassettare un po’ la casa un paio di giorni prima del nostro arrivo. Ovviamente non l’ho chiamata, perciò troverai polvere, ma niente di veramente sporco e soprattutto non troverai nessuna delle teste decapitate che hai l’abitudine di lasciare in giro.»

«Sei un amore.»

«Ah, c’è un giardiniere. Non è a tempo pieno come quello che abbiamo a Beverly Hills. Viene solo una volta la settimana, il lunedì, per falciare il prato, potare le siepi e calpestare alcuni fiori, così ci può far pagare quelli che ripianta. Vi consiglio di stare lontani dalle finestre e di tenere la testa bassa finché non ha finito.»

«Ci nasconderemo sotto i letti.»

«A proposito, sotto il letto troverai parecchie fruste e catene, ma non farti venire l’idea che io e Jason siamo dei sadomasochisti. Le catene e le fruste appartenevano a sua madre e le teniamo semplicemente per ragioni sentimentali.»

Andarono a prendere le valigie nella stanza del motel e le caricarono sul sedile posteriore con altri pacchi che non stavano nel bagagliaio dell’auto. Dopo i saluti Thelma disse: «Shane, nelle prossime tre settimane farò degli spettacoli nei night-club, ma se hai bisogno di me per qualsiasi cosa, mi puoi trovare alla casa di Beverly Hills, notte e giorno. Starò attaccata al telefono». Partì a malincuore.

Laura tirò un sospiro di sollievo quando il camioncino scomparve nel traffico. Thelma era salva, fuori pericolo. Restituì le chiavi della stanza alla reception e partì con Chris al fianco e Stefan nel sedile posteriore con i bagagli. Lasciava a malincuore quel motel che per quattro giorni era stato un rifugio sicuro per loro, come forse nessun altro posto al mondo sarebbe potuto esserlo.

La prima tappa fu un’armeria. Visto che Laura doveva esporsi il meno possibile, Stefan entrò nel negozio a comprare una scatola di munizioni per la pistola. Non avevano dato quell’incarico a Thelma perché al momento non sapevano ancora se avrebbero ottenuto la 9mm Parabellum che Stefan desiderava, e infatti erano riusciti ad avere una calibro 38 Colt Commander Mark IV.

La seconda tappa fu la pizzeria di Jack il Ciccione dove dovevano ritirare due bombolette del mortale gas nervino. Stefan e Chris attesero nell’auto, sotto le insegne al neon che già risplendevano nella luce crepuscolare.

Le bombolette erano sul tavolo di Jack. Avevano più o meno le dimensioni degli estintori da casa, ma non erano rosse, bensì in acciaio inossidabile, con un’etichetta sulla quale era stampato un teschio e delle tibie incrociate e la scritta: «VEXXON/AEROSOL — AVVERTENZA: GAS NERVINO. IL POSSESSO NON AUTORIZZATO È PUNITO DALLA LEGGE DEGLI STATI UNITI».

Con un dito grosso come una salsiccia, Jack indicò un dischetto in cima a ogni bomboletta. «Sono timer, calibrati in minuti, da uno a sessanta. Se fissa il timer e spinge il bottone al centro, può liberare il gas a distanza, una specie di bomba a orologeria, ma se vuole azionarlo manualmente, allora con una mano deve tenere il fondo della bomboletta, poi con l’altra mano afferrare questa impugnatura e premere questo anello come fosse con un grilletto. Questa merda, liberata sotto pressione, si disperderà in un edificio di circa cinquemila metri cubi in un minuto e mezzo, anche più velocemente se l’impianto di riscaldamento o l’aria condizionata sono in funzione. Esposto alla luce e all’aria, diventa rapidamente non tossico, ma rimane mortale dai quaranta ai sessanta minuti. Solo tre milligrammi sulla pelle uccidono in trenta secondi.»

«L’antidoto?» chiese Laura.

Jack il Ciccione sorrise e tamburellò con le dita sui sacchetti di plastica blu che erano fissati alle maniglie delle bombolette. «Dieci pillole in ogni sacchetto. Due saranno sufficienti per proteggere una persona. Le istruzioni sono nel sacchetto, ma mi è stato detto che le pillole devono essere prese almeno un’ora prima che venga liberato il gas. Vi proteggeranno da tre a cinque ore.»

Prese il denaro e mise le bombolette di Vexxon in una scatola di cartone che portava la scritta: «MOZZARELLE». Mentre richiudeva il coperchio della scatola scoppiò a ridere e scosse la testa.

«Che cosa c’è?» chiese Laura.

«C’è che questa faccenda mi incuriosisce», esclamò Jack il Ciccione. «Una bella donna come lei, istruita, con un figlio… se qualcuno come lei è coinvolto in uno schifo come questo, la società allora sta veramente andando a rotoli molto più velocemente di quanto avessi sperato. Forse vivrò quanto basta per vedere il giorno in cui l’impalcatura cadrà, quando l’anarchia dominerà, quando le uniche leggi saranno quelle che gli individui stabiliranno fra di loro e suggelleranno con una stretta di mano.»

Quasi fosse stato colto da un ripensamento, sollevò il coperchio della scatola, da un cassetto della scrivania estrasse dei tagliandi verdi di carta e li depose in cima alle bombolette di Vexxon.

«Che cosa sono?» chiese Laura.

«Lei è una buona cliente», disse Jack il Ciccione. «Le ho dato dei tagliandi omaggio per la pizza.»


La casa di Thelma e Jason a Palm Springs era veramente isolata. Architettonicamente parlando, la villa era un curioso e interessante incrocio tra lo stile spagnolo e quello del sudovest; un muro di cinta color pesca alto circa due metri la circondava quasi interamente, a parte l’entrata e l’uscita del vialetto circolare di accesso. Una fitta vegetazione di ulivi, palme e fichi la nascondeva su tre lati agli occhi dei vicini. Solo la facciata era visibile.

Arrivarono verso le otto, dopo aver lasciato il locale di Jack ad Anaheim ed essersi inoltrati nel deserto. Nonostante l’ora, la casa e il terreno circostante erano ben visibili perché illuminati da lampade controllate da cellule fotoelettriche. L’estetica era salva e la sicurezza anche. Le palme e le felci disegnavano strane ombre sui muri di stucco.

Thelma aveva dato loro il telecomando per aprire il box in cui sistemarono la Buick e attraverso la porta di collegamento con la lavanderia entrarono in casa, dopo aver disattivato il sistema di allarme secondo le istruzioni di Thelma.

Era più piccola della villa dei Gaines a Beverly Hills, ma sempre grande, con dieci stanze e quattro bagni. Steve Chase, l’architetto che aveva curato l’arredamento di Palm Springs, aveva lasciato la sua impronta in ogni stanza: spazi enormi dominati dalle luci; colori morbidi giallo-arancio dai toni caldi, giallorosso smorzato; macchie di turchese qua e là; pareti tappezzate in stoffa, soffitti di legno di cedro; tavoli di rame e di granito, contrasto interessante con i pratici mobili rivestiti di tessuti diversi; un ambiente sofisticato e tuttavia confortevole.

In cucina Laura trovò la dispensa praticamente vuota, a eccezione di un ripiano pieno di scatolette. Troppo stanchi per uscire a comprare del cibo, cucinarono quello che avevano trovato. Anche se Laura fosse entrata in quella casa senza chiavi e non avesse saputo a chi apparteneva, avrebbe subito capito che i proprietari erano Thelma e Jason dando una semplice occhiata alla dispensa. Non riusciva a immaginarsi nessun’altra coppia di milionari così infantile da tenere nella dispensa una scorta di ravioli e spaghetti in scatola di Chef Boyardee. Chris era al settimo cielo. Per dessert finirono due scatole di praline di gelato ricoperte di cioccolato che avevano trovato nel freezer, per il resto vuoto.

Laura e Chris divisero il grande letto matrimoniale, mentre Stefan si sistemò in una delle camere degli ospiti. Anche se aveva riattivato il sistema di allarme perimetrale che controllava ogni porta e finestra, per quanto avesse un Uzi carico sul pavimento accanto al letto e la pistola sul comodino, nonostante nessuno al mondo all’infuori di Thelma potesse sapere dove si trovavano, il sonno di Laura fu irregolare. Ogni volta che si svegliava, scattava a sedere sul letto, l’orecchio teso a cogliere i rumori nella notte: passi furtivi, sussurri.

Verso mattina, quando non riuscì più a riprendere sonno, rimase a fissare il soffitto per molto tempo, pensando a ciò che Stefan le aveva detto un paio di giorni prima, quando le aveva spiegato alcuni punti fondamentali del viaggio nel tempo e dei cambiamenti che i viaggiatori potevano apportare al loro futuro: il destino lotta per riaffermare il modello predestinato. Quando Stefan l’aveva salvata dal tossicomane che era entrato nel negozio del padre, nel 1963, il destino, qualche anno più tardi aveva riportato sulla sua strada un altro maniaco, Willy Sheener. Era scritto che fosse un’orfana, perciò, quando nei Dockweiler ritrovò una famiglia, il destino intervenne a stroncare Nina Dockweiler con un fatale infarto, restituendola ancora una volta alla condizione di orfana.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

Che cosa sarebbe successo ancora?

Nel destino che le era stato predestinato, Chris non era mai nato. Il destino avrebbe dunque predisposto ben presto la sua morte, ristabilendo quegli eventi così com’erano stati predestinati prima che Krieger ne mutasse il corso? Era stata destinata a trascorrere la vita in una carrozzella, prima che Stefan impedisse al dottor Markwell di assistere alla sua nascita. Forse, il destino ora l’avrebbe messa di fronte al fuoco degli uomini della Gestapo che le avrebbe leso la spina dorsale, rendendola paraplegica secondo il piano originale.

Per quanto tempo le forze del destino avrebbero lottato per riaffermare il modello originario, dopo che era stato apportato un cambiamento? Chris viveva da più di otto anni. Era sufficiente perché il destino ritenesse la sua esistenza accettabile? Lei aveva vissuto per trentaquattro anni senza una sedia a rotelle. Il destino si stava ancora affannando per riaffermare ciò che era stato scritto?

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

Le prime luci dell’alba illuminarono debolmente i bordi delle tende. Laura si rigirò nel letto, mentre una collera crescente si stava impadronendo di lei. Ma non sapeva bene contro chi o che cosa fosse rivolta. Che cosa era il destino? Qual era il potere che determinava le trame del destino e cercava di farle rispettare? Dio? Doveva essere in collera con Dio, o forse doveva supplicarlo di lasciar vivere suo figlio e risparmiare a lei una vita da paralitica? Oppure il potere che stava dietro il destino era semplicemente un meccanismo naturale, una forza simile alla gravita o al magnetismo?

Poiché non c’era una causa logica su cui scaricare le proprie emozioni, Laura sentì che la collera andava lentamente trasformandosi in paura. Sembravano essere al sicuro nella casa dei Gaines a Palm Springs. La notte era trascorsa tranquillamente e ciò significava che la loro presenza in quel luogo non era stata scoperta, perché altrimenti i killer provenienti dal passato senza dubbio si sarebbero già presentati. Nonostante ciò, Laura era spaventata.

Qualcosa di tremendo stava per accadere. Qualcosa di terribile.

Il pericolo si stava avvicinando, ma non avrebbe saputo dire da quale direzione.

I lampi. Presto ci sarebbero stati.

Purtroppo il vecchio proverbio non rispondeva alla realtà: i lampi avevano colpito due volte nello stesso luogo, tre volte, cento volte ed era lei ad attirarli.

7

Il dottor Juttner introdusse l’ultimo dato nel quadro di programmazione che controllava il tunnel. Rivolgendosi a Erich Klietmann, gli disse: «Lei e i suoi uomini giungerete nelle vicinanze di Palm Springs, in California, nel mese di gennaio dell’anno 1989».

«Palm Springs?» ripetè Klietmann sorpreso.

«Sì. All’inizio avevamo pensato a una località nei dintorni di Los Angeles e nella contea di Orange, dove il vostro abbigliamento sarebbe stato più adatto piuttosto che in una città turistica, ma passerete comunque inosservati. Del resto, là sarà inverno e anche in pieno deserto degli abiti scuri non sembreranno fuori luogo.» Juttner porse a Klietmann un foglio su cui erano scritte le direzioni. «Qui è il punto dove troverete la donna e il bambino.»

Klietmann ripiegò il foglio, lo infilò in una tasca interna del cappotto e chiese: «E Krieger?»

«I ricercatori non hanno trovato traccia di lui», rispose Juttner, «ma deve essere con la donna e suo figlio. Se non lo trovate, catturate la donna e il bambino. Se dovrete torturarli per avere informazioni su Krieger, fatelo. Se non vi rivelano dove si trova Krieger, uccideteli. Questo potrebbe farlo uscire allo scoperto in qualche punto lungo la linea del tempo.»

«Lo troveremo, dottore.»

Klietmann, Hubatsch, von Manstein e Bracher indossavano le cinture sotto gli abiti di Yves St. Laurent. Con le loro valigette di cuoio, s’incamminarono verso il tunnel, entrarono in quella grande botte e si diressero in un punto ai due terzi del tunnel in cui sarebbero passati in un baleno dal 1944 al 1989.

Il tenente era preoccupato ma anche euforico. Era il pugno di ferro di Hitler al quale Krieger non sarebbe potuto sfuggire neanche a quarantacinque anni di distanza.

8

Nel loro primo giorno di permanenza nella casa di Palm Springs, domenica 15 gennaio, collegarono il computer e Laura insegnò a Stefan come usarlo. Il programma dell’IBM era abbastanza semplice e verso sera Stefan era ormai in grado di comprendere come funzionava e come pensava. Del resto, sarebbe stata Laura a occuparsi del computer, visto che lo usava già da tempo. Stefan doveva semplicemente spiegarle i calcoli che dovevano essere fatti, in modo che potesse utilizzare il computer per risolvere i molteplici problemi che da soli non sarebbero riusciti ad affrontare.

L’intenzione di Stefan era di tornare al 1944, usando la cintura che aveva preso a suo tempo a Kokoschka. Le cinture non erano delle macchine del tempo. La macchina vera era il tunnel, e rimaneva sempre nell’anno 1944. Le cinture erano in un certo senso in sintonia con le vibrazioni temporali del tunnel e servivano semplicemente per riportare il viaggiatore a casa, una volta che questi aveva premuto il pulsante che attivava quell’invisibile filo di collegamento.

«Come?» chiese Laura quando Stefan le spiegò l’uso della cintura. «In che modo ti riporta indietro?»

«Non lo so. Sapresti forse dirmi come funziona un microchip all’interno di un computer? No. Ma questo non ti impedisce di usarlo.»

Una volta tornato nel 1944 avrebbe preso il controllo del laboratorio principale, dopodiché avrebbe intrapreso due viaggi cruciali, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro nel futuro del marzo ’44, per organizzare la distruzione dell’istituto. Quei due viaggi dovevano essere programmati in modo molto meticoloso, per poter arrivare nel luogo di destinazione esattamente nel punto prescelto e precisamente all’ora desiderata. Era impossibile elaborare calcoli così precisi nel 1944, non solo perché non si poteva contare sull’aiuto di un computer, ma perché allora i dati acquisiti circa l’angolo e la velocità di rotazione della terra e altri fattori planetari che influivano sul viaggio, per quanto differissero solo marginalmente, in questo caso specifico diventavano di vitale importanza. Questo era il motivo per cui i viaggiatori del tempo che partivano dall’istituto arrivavano a destinazione sempre con qualche minuto di ritardo rispetto all’ora prevista, e a chilometri di distanza. Con i dati finali elaborati dall’ IBM, Stefan sarebbe stato in grado di programmare il tunnel in modo che lo trasportasse nel punto di arrivo prefissato entro un raggio di un metro e con uno scarto di decimi di secondo.

Usarono tutti i libri che Thelma aveva acquistato. Non si trattava solo di testi scientifici e matematici; alcuni riguardavano la storia della seconda guerra mondiale, grazie ai quali poterono localizzare con precisione il luogo in cui si trovavano alcuni personaggi di primaria importanza in date precise.

Oltre a eseguire elaborati calcoli per i viaggi, era necessario del tempo perché Stefan guarisse. Quando sarebbe tornato nel 1944, non avrebbe avuto vita facile e anche se era armato di gas nervino e di armi di prima qualità, sarebbe dovuto essere veloce e agile per evitare di essere ucciso. «Partirò fra due settimane», annunciò Stefan. «Fra un paio di settimane dovrei essere in grado di muovere abbastanza bene la spalla e il braccio.»

Ma se anche avesse avuto bisogno di dieci settimane e non di due, non aveva importanza, perché quando avrebbe usato la cintura di Kokoschka, sarebbe tornato all’istituto solo undici minuti dopo che Kokoschka era partito. Qualunque fosse la data di partenza dal 1989, non avrebbe influenzato la data di ritorno nel 1944.

L’unica preoccupazione di Stefan era che la Gestapo riuscisse a trovarli nel frattempo e inviasse una squadra nel 1989 per eliminarli, prima che potesse tornare nella sua epoca e mettere in atto il piano. E non era certo una preoccupazione da poco.

Con estrema cautela, attendendosi da un momento all’altro un’improvvisa scarica di lampi e un rombo di tuoni, si concessero una pausa e andarono a fare compere il lunedì pomeriggio. Laura, rimase nell’auto, mentre Chris e Stefan entrarono nel supermercato. Non ci furono lampi. Fecero ritorno a casa con molte provviste.

In cucina, mentre svuotava i sacchetti, Laura si accorse che più della metà degli acquisti consistevano in gelati, mousse al cioccolato, burro di arachidi, sacchetti formato famiglia di caramelle, patatine, noccioline, taco chips, biscotti, una torta al cioccolato, una crostata di ciliegie, una confezione di brioches e pacchetti di dolcetti vari.

Mentre Stefan l’aiutava a mettere via la spesa, Laura gli disse: «Devi essere la persona più golosa di questa terra».

«Vedi, questa è un’altra delle cose che trovo straordinarie e meravigliose nella vostra epoca», rispose Stefan. «Non riesco a crederci… non c’è più alcuna differenza dal punto di vista nutritivo fra una torta al cioccolato e una bistecca. In queste patatine ci sono tante vitamine e minerali quanto in un’insalata. Puoi nutrirti tranquillamente solo di dolci e rimanere sano quanto un uomo che consuma pasti equilibrati. È incredibile! Come avete fatto a raggiungere un tale progresso?»

Laura si voltò in tempo per vedere Chris che sgattaiolava fuori dalla cucina. «Ehi, tu! Piccolo imbroglione che non sei altro!»

Con un’espressione innocente Chris disse: «Non trovi che Krieger si sia fatto una strana idea della nostra cultura?»

«Io so da dove l’ha tirata fuori», replicò Laura. «Hai fatto una cosa ignobile.»

Chris sospirò e cercò di mostrarsi dispiaciuto. «D’accordo. Ma… dal momento che siamo inseguiti da agenti della Gestapo, è meglio che mangiamo più dolci che possiamo, perché ogni pasto potrebbe essere l’ultimo.» La guardò di sottecchi, per vedere se quella scena aveva sortito qualche effetto.

Ciò che, il bambino aveva detto conteneva quel tanto di verità che bastava a perdonare lo scherzo e Laura non riuscì a trovare il coraggio di punirlo.

Quella sera, dopo cena, Laura cambiò la fasciatura della ferita di Stefan. L’impatto del proiettile aveva lasciato un’enorme bruciatura sul petto, con il foro della pallottola più o meno al centro, mentre attorno al foro di uscita la bruciatura era minore. Dopo aver attentamente lavato le ferite, eliminando il più possibile le secrezioni ma senza toccare la crosta, Laura palpò delicatamente la pelle attorno alla ferita. Fuoriuscì un liquido chiaro, ma non c’era però segno di formazione di pus a indicare una grave infezione. All’interno poteva esserci un ascesso in corso, ma era poco probabile, visto che Stefan non aveva febbre.

«Continua a prendere la penicillina», disse Laura, «e sono sicura che ti riprenderai presto. Il dottor Brenkshaw ha fatto un buon lavoro.»

Domenica e lunedì Laura e Stefan trascorsero molte ore davanti al computer mentre Chris, guardava la televisione, curiosava nella libreria in cerca di qualcosa da leggere, rimase perplesso di fronte a una vecchia raccolta di fumetti di Barbarella. Di tanto in tanto faceva delle rapide apparizioni nello studio e li guardava mentre lavoravano al computer. Durante una delle visite lampo, lo sentirono borbottare: «In Ritomo al futuro avevano semplicemente questa automobile del tempo, non avevano che da premere alcuni pulsanti sul cruscotto e puf! scomparivano in men che non si dica. Come mai nella vita reale non è tutto semplice come nei film?»

Il lunedì fecero attenzione a non farsi vedere mentre il giardiniere falciava il prato e potava alcuni arbusti. In quattro giorni era l’unica persona che avevano visto; nessun venditore si era presentato alla loro porta, neppure un testimone di Geova.

«Qui siamo al sicuro», disse Stefan, «ovviamente la nostra presenza in questa casa non è mai diventata di dominio pubblico. Se lo fosse stato, la Gestapo sarebbe già arrivata.»

Nonostante questo, Laura continuò a lasciare in funzione il sistema d’allarme praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro. La notte sognava che il destino riaffermava i propri piani e Chris veniva cancellato dall’esistenza; sognava di svegliarsi e di ritrovarsi su una sedia a rotelle.

9

Secondo il programma sarebbero dovuti arrivare alle otto del mattino, potendo così disporre di tutto il tempo necessario per raggiungere la località in cui i ricercatori avevano individuato la donna e il bambino se non Krieger. Ma quando il tenente Klietmann sbattè gli occhi e si ritrovò proiettato a quarantacinque anni dalla sua era, seppe subito che erano in ritardo di almeno due ore. All’orizzonte il sole era già troppo alto. La temperatura era di almeno venti gradi, troppo caldo perché fossero le prime ore di un mattino invernale nel deserto.

Come una fenditura bianca in un’ampolla di vetro blu, un lampo squarciò il cielo. Altri squarci si aprirono sprigionando scintille ovunque.

Mentre il rombo dei tuoni andava affievolendosi, Klietmann si voltò per vedere se von Manstein, Hubatsch e Bracher erano arrivati sani e salvi. Erano con lui, con le loro valigette e gli occhiali da sole nei taschini dei costosi abiti.

C’era un problema. A una decina di metri dal sergente e dai due caporali, due anziane signore, nei loro abiti dai tenui colori, erano ferme accanto a una macchina bianca, vicino alla porta secondaria di una chiesa e con sguardo esterrefatto fissavano Klietmann e il suo gruppo. Fra le mani tenevano qualcosa, forse dei tegami.

Klietmann si guardò attorno e vide che erano arrivati nel parcheggio che si trovava dietro la chiesa. C’erano altre due macchine oltre a quella che sembrava appartenere alle due donne, ma non c’erano altri testimoni. Il parcheggio era circondato da un muro, perciò per uscire dovevano superare le donne costeggiando la chiesa.

Klietmann decise di assumere un atteggiamento spavaldo e si incamminò verso le donne, come se non ci fosse assolutamente nulla di insolito nel fatto che si era materializzato nell’aria. Gli altri lo seguirono. Come ipnotizzate, le poverette rimasero a osservarli mentre si avvicinavano.

«Buongiorno, signore.» Come Krieger, Klietmann aveva imparato a parlare inglese con accento americano, nella speranza di diventare un agente segreto, ma non era mai riuscito a perdere completamente l’accento tedesco, nonostante lo studio e la pratica. L’orologio era stato regolato sull’ora locale, ma sapeva che non poteva più fidarsi, perciò chiese: «Potreste gentilmente dirmi l’ora?»

Le due donne lo fissarono.

«L’ora?» ripetè una di esse.

La donna con il vestito giallo canarino, senza lasciare il tegame, guardò l’orologio da polso: «Oh, sono le undici meno venti».

Avevano un ritardo di due ore e quaranta minuti. Non potevano perdere tempo per cercare una macchina, soprattutto ora che ce n’era una a disposizione davanti a loro e per giunta con le chiavi. Klietmann non avrebbe esitato a uccidere le due donne per impadronirsi dell’auto. Non avrebbe però potuto abbandonare i corpi in quel parcheggio, poiché appena fossero stati ritrovati sarebbe scattato l’allarme e subito dopo la polizia avrebbe ricercato l’auto: una seccante complicazione. Avrebbe dovuto infilare i corpi nel bagagliaio e portarli con sé.

La donna con il vestito blu chiese: «Perché siete venuti da noi? Siete angeli?»

Klietmann si chiese se non fosse arteriosclerotica. Angeli in doppiopetto? Poi ricordò che erano nelle vicinanze di una chiesa, e che la loro apparizione era stata in un certo senso miracolosa, perciò non era poi così assurdo che la poveretta pensasse che fossero angeli, indipendentemente dall’abbigliamento. Forse non sarebbe stato necessario ucciderle, dopotutto. Klietmann rispose: «Sì, signora. Siamo angeli. Dio ha bisogno della sua auto».

La donna con il vestito giallo chiese: «La mia Toyota

«Sì, signora.» La portiera era spalancata e Klietmann appoggiò sul sedile la sua valigetta. «Il Signore ci ha incaricati di una missione urgente. Con i suoi occhi lei ci ha visto uscire dal cancello dorato del Paradiso. Abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto.»

Von Manstein e Bracher nel frattempo si erano portati sull’altro lato della Toyota, avevano aperto le portiere ed erano saliti in macchina.

La donna in blu disse: «Shirley, sei stata scelta per offrire la tua macchina».

«Il Signore gliela restituirà», annunciò Klietmann, «quando il nostro compito sarà terminato.» Si ricordò della carenza di benzina che affliggeva il suo mondo devastato dalla guerra e non essendo sicuro di quale fosse la situazione nel 1989, aggiunse: «Oh, ovviamente non deve preoccuparsi per la benzina, la macchina le sarà restituita con il serbatoio pieno e lo sarà per sempre. Come la moltiplicazione dei pani e dei pesci».

«Ma nella macchina c’è un’insalata di patate che abbiamo preparato per la chiesa», esclamò la donna in giallo.

Felix Hubatsch aveva già aperto la portiera anteriore e aveva trovato l’insalata di patate. Tirò fuori il recipiente dalla macchina e lo depose ai piedi della donna.

Klietmann si mise al volante richiuse la portiera, aspettò che Hubatsch salisse, mise in moto e si allontanò dal parcheggio della chiesa. Quando guardò dallo specchietto retrovisore, un attimo prima di immettersi nel traffico, vide che le due vecchiette erano ancora nella stessa posizione, con in mano i tegami, lo sguardo fisso su di loro.

10

Giorno dopo giorno perfezionarono i calcoli e Stefan esercitava il braccio e la spalla sinistra più che poteva, cercando di evitare che si irrigidisse durante la guarigione e nella speranza di mantenere il più possibile il tono muscolare. Sabato pomeriggio, 21 gennaio, mentre la loro prima settimana a Palm Springs volgeva al termine, completarono i calcoli e ottennero le esatte coordinate spazio-temporali che sarebbero servite a Stefan per effettuare i due viaggi una volta ritornato nel 1944.

«Adesso ho solo bisogno di un po’ di tempo per riprendermi», annunciò Stefan, allontanandosi dal computer, mentre esercitava il braccio sinistro tracciando dei cerchi nell’aria.

Laura disse: «Sono passati undici giorni da quando ti hanno sparato. Ti fa ancora male?»

«Un po’. Ma è un dolore sordo, profondo, e non lo sento sempre. Ma la forza non mi è tornata. Forse è meglio che aspetti ancora qualche giorno. Se mi sento in forma tornerò all’istituto venerdì prossimo, il 27. Anche prima, se i progressi sono più rapidi, ma certamente non più tardi di venerdì prossimo.»

Quella notte, Laura si svegliò da un incubo in cui si vedeva confinata, ancora una volta, su una sedia a rotelle e nel quale il destino, sotto forma di un uomo senza volto con un vestito nero, era impegnato a cancellare Chris dalla realtà, come se il bambino fosse solo un disegno a matita su un pannello. Era madida di sudore e per un po’ rimase seduta sul letto, l’orecchio teso a cogliere dei rumori nella casa, ma non udì nulla, tranne il respiro lento e regolare di suo figlio accanto a lei.

Più tardi, incapace di prendere sonno, rivolse il suo pensiero a Stefan Krieger. Era un uomo interessante, estremamente autonomo e a volte difficile da capire.

Da quando, una settimana prima, le aveva spiegato che era diventato il suo Custode perché si era innamorato di lei e voleva migliorare la vita che le era stata destinata, Stefan non aveva più parlato d’amore. Non aveva ribadito i suoi sentimenti per lei, non aveva giocato la parte dello spasimante che si strugge d’amore. Le aveva confidato i suoi sentimenti e ora le dava il tempo necessario per pensare e per conoscerlo prima di decidere. Laura era quasi certa che quell’uomo avrebbe atteso anni, se fosse stato necessario, e senza lamentarsi. Aveva acquisito quella pazienza che nasce dalle grandi avversità e questa era una cosa che Laura comprendeva.

Era un uomo tranquillo, per la maggior parte del tempo assorto nei suoi pensieri, a volte estremamente malinconico, stati d’animo che Laura attribuì agli orrori cui aveva assistito in quella lontanissima Germania. Forse quel fondo di tristezza aveva le sue radici in atti che egli stesso aveva compiuto e di cui ora si pentiva, atti per i quali sentiva che non ci sarebbe mai stata espiazione.

Dopotutto, lui stesso aveva detto che gli era riservato un posto all’inferno. Non le aveva rivelato altro oltre a ciò che le aveva raccontato del suo passato in quella stanza di motel dieci giorni prima.

Laura però aveva la sensazione che avesse voglia di confessarle tutto nei minimi dettagli, sia le cose negative, sia quelle che gli avrebbero fatto guadagnare la sua stima. Non le avrebbe nascosto nulla. Stava semplicemente aspettando che lei decidesse che cosa veramente pensava di lui e se, in ogni caso, volesse conoscere di più.

Malgrado il profondo e cupo dolore che lo affliggeva, era dotato di un pacato senso dell’umorismo, inoltre era bravo con Chris e lo faceva divertire e Laura gliene era grata. Il suo sorriso era intenso e dolce.

Non lo amava, però, e pensò che non avrebbe mai potuto. Ma si chiese come potesse esserne così sicura. Rimase per un paio d’ore assorta nei suoi pensieri, nella stanza avvolta dall’oscurità, finché alla fine ebbe il sospetto che la ragione per la quale non poteva amarlo era che Stefan non era Danny. Danny era stato un uomo unico e accanto a lui aveva conosciuto un amore perfetto. Stefan Krieger, perciò, nel ricercare il suo affetto, avrebbe dovuto competere per sempre con un fantasma. Laura sentiva che fra di loro c’era della simpatia, ma era anche tristemente conscia della propria solitudine. In cuor suo voleva essere amata e amare, ma nella sua relazione con Stefan vedeva unicamente che la passione di lui non sarebbe mai stata ricambiata, e che le sue speranze non sarebbero mai state esaudite.

Accanto a lei, Chris mormorò nel sonno, poi sospirò.

Ti voglio bene, tesoro, pensò. Ti adoro.

Suo figlio, l’unico che avrebbe mai potuto avere, era ora il centro della sua esistenza e per l’immediato futuro la ragione principale per cui vivere. Se fosse accaduto qualcosa a Chris, Laura sapeva che non sarebbe mai più stata in grado di trovare la forza di vivere. Questo mondo in cui l’aspetto tragico e comico si fondeva in tutte le cose, sarebbe diventato per lei esclusivamente un luogo di tragedia, troppo cupo e triste per essere sopportato.

11

A tre isolati dalla chiesa, Erich Klietmann accostò al marciapiede e parcheggiò la Toyota bianca in una strada laterale di Palm Canyon Drive, nel centro commerciale di Palm Springs. Molte persone affollavano i marciapiedi, intente a guardare le vetrine. Fra la folla Klietmann scorse delle ragazze che indossavano pantaloncini corti e magliette succinte, abbigliamento che giudicò non solo scandaloso ma imbarazzante. Quelle donne esibivano i corpi con una disinvoltura ignota nella sua epoca. Sotto il pugno di ferro del partito nazionalsocialista del Führer, un simile comportamento vergognoso non sarebbe stato ammesso. Con il trionfo di Hitler il mondo sarebbe stato diverso, la moralità sarebbe stata fatta rispettare con estremo rigore, e queste ragazze che ora mostravano impunemente le gambe si sarebbero coperte per non correre il rischio di essere arrestate e mandate in un campo di rieducazione. Mentre guardava quelle natiche ondeggiare sotto gli stretti calzoncini, mentre osservava quei seni liberi sotto il leggero tessuto delle magliette, ciò che più disturbava Klietmann era il fatto che desiderava disperatamente ognuna di quelle ragazze, anche se erano il simbolo di quella parte deviante dell’umanità che Hitler avrebbe abolito.

Accanto a lui, il caporale Rudy von Manstein aveva aperto la cartina di Palm Springs fornita dal gruppo di ricercatori che aveva individuato la donna e il bambino. «Dove facciamo il colpo?» domandò.

Dalla tasca interna della giacca Klietmann estrasse il foglio ripiegato che il dottor Juttner gli aveva consegnato nel laboratorio. Lo aprì e lesse ad alta voce: «Sulla Statale 111, circa una decina di chilometri a nord della città di Palm Springs, la donna verrà arrestata da un ufficiale della polizia stradale alle undici e venti di venerdì mattina, 27 gennaio. Sarà al volante di una Buick nera. Il bambino che è con lei verrà preso in custodia. Apparentemente Krieger è con loro, ma non ne siamo sicuri, apparentemente sfuggirà all’ufficiale di polizia, ma non sappiamo come».

Von Manstein aveva già segnato sulla cartina una strada che li avrebbe portati fuori da Palm Springs e immessi sulla Statale 111.

«Abbiamo trentun minuti», li avvertì Klietmann dando un’occhiata all’orologio sul cruscotto.

«Ce la faremo tranquillamente», disse von Manstein. «Quindici minuti al massimo.»

«Se arriviamo in anticipo», osservò Klietmann, «potremo uccidere Krieger prima che sfugga all’ufficiale della pattuglia. In ogni caso dobbiamo arrivare sul posto prima che la donna e il bambino vengano presi in custodia, perché altrimenti sarà molto più difficile raggiungerli una volta rinchiusi in prigione.» Si voltò a guardare Bracher e Hubatsch sul sedile posteriore. «È chiaro?»

Entrambi annuirono, ma poi Hubatsch, toccandosi il taschino della giacca, domandò: «Signore, e questi occhiali da sole?»

«Che cosa c’entrano?» chiese Klietmann spazientito.

«Dobbiamo metterli adesso? Serviranno a confonderci con i locali? Ho studiato attentamente le persone in strada e nonostante molte di loro portino gli occhiali scuri, almeno altrettanti non li portano.»

Klietmann guardò i passanti, cercando di non essere distratto da quelle donne seminude, e si rese conto che Hubatsch aveva ragione. Ma non fu la sola cosa che notò, si accorse che nessuno degli uomini che vedeva indossava abiti simili ai loro. Forse, a quell’ora i giovani dirigenti stavano lavorando negli uffici. Qualunque fosse la ragione per cui nessuno indossava abiti scuri e scarpe nere, Klietmann si sentì a disagio, anche se lui e i suoi uomini erano nell’auto. Visto che molte delle persone portavano gli occhiali da sole, decise di metterseli.

Quando il tenente si inforcò i Ray-Ban, von Manstein, Bracher e Hubatsch lo imitarono.

«Bene», disse Klietmann. «Andiamo.»

Ma non ebbe neppure il tempo di togliere il freno a mano e di inserire la marcia, perché qualcuno bussò sul finestrino. Era un ufficiale di polizia di Palm Springs.

12

Laura ebbe la sensazione che, in un modo o nell’altro, le loro peripezie sarebbero presto giunte al termine. Sarebbero riusciti a distruggere l’istituto, forse sarebbero morti in quel tentativo, ma ormai era arrivata al punto in cui porre termine alla paura era ciò che più desiderava indipendentemente da come ci sarebbe arrivata.

Venerdì mattina, 27 gennaio, Stefan accusava ancora un indolenzimento del muscolo della spalla, ma non era un dolore acuto. La mano e il braccio non erano intorpiditi e ciò significava che la pallottola non aveva danneggiato alcun tendine. Esercitandosi ogni giorno con cautela il braccio e la spalla avevano riacquistato abbastanza forza, per dargli la sicurezza che sarebbe stato in grado di mettere in atto il suo piano. Ma Laura si accorse che Stefan pensava con una certa preoccupazione alla missione che lo attendeva.

Indossò la cintura di Kokoschka, che Laura aveva preso dalla sua cassaforte la notte in cui Stefan si era presentato ferito davanti alla sua porta. I timori non svanirono, ma nel momento in cui indossò la cintura, all’ansia subentrò una ferrea determinazione.

Alle dieci erano riuniti tutti e tre in cucina, dove presero le due pillole che li avrebbero protetti dagli effetti del gas nervino, il Vexxon. E bevvero una bevanda all’arancia contenente vitamina C.

In macchina erano stati caricati tre Uzi, uno dei revolver calibro 38, la Colt Commander Mark IV munita di silenziatore e uno zainetto di nylon pieno di libri.

Le due bombolette di Vexxon erano rimaste nel bagagliaio della Buick. Dopo aver letto attentamente i foglietti esplicativi contenuti nei sacchetti di plastica blu attaccati ai contenitori, Stefan aveva deciso che avrebbe utilizzato solo una bomboletta. Il Vexxon era un gas studiato principalmente per essere usato in ambienti chiusi, per uccidere il nemico in baracche, nascondigli e bunker costruiti sotto terra, piuttosto che contro truppe in campo aperto. Nell’aria il gas si disperdeva molto rapidamente, e sotto i raggi del sole i suoi effetti risultavano notevolmente ridotti. Tuttavia, una volta aperta completamente, una singola bomboletta poteva contaminare un edificio in pochissimi minuti e questo era sufficiente per i suoi scopi.

Alle dieci e trentacinque salirono in macchina e lasciarono la casa dei Gaines, in direzione della Statale 111 che attraversava il deserto, a nord di Palm Springs. Laura si assicurò che Chris avesse allacciato la cintura di sicurezza e il bambino disse: «Vedi, se invece di questa carretta avessimo avuto una macchina del tempo, avremmo comodamente viaggiato fino al 1944».

Due giorni prima avevano fatto una ricognizione notturna in pieno deserto per trovare un punto adatto alla partenza di Stefan. Dovevano sapere in anticipo l’esatta collocazione geografica per poter effettuare calcoli che avrebbero consentito a Stefan di ritornare nel punto esatto da cui era partito, dopo aver terminato la sua missione nel 1944.

Stefan intendeva aprire la valvola sulla bomboletta di Vexxon prima di premere il pulsante sulla cintura, così che il gas nervino potesse disperdersi in modo uniforme mentre attraverso il tunnel tornava all’istituto, uccidendo tutti quelli che si trovavano nel laboratorio nell’anno 1944. Era inevitabile, però, che una certa quantità di gas si disperdesse nel punto di partenza e quindi era più prudente eseguire quell’operazione in un luogo isolato. Davanti alla casa dei Gaines c’era una strada, ma si trovava a meno di duecento metri e perciò entro il raggio di azione del Vexxon e loro non volevano che qualche innocente rimanesse ucciso.

Inoltre, anche se l’effetto nocivo del gas si presumeva non durasse più di quaranta, sessanta minuti, Laura era preoccupata che il residuo potesse avere effetti dannosi a distanza di tempo. Non intendeva mettere in pericolo Thelma e Jason.

La giornata era limpida, il cielo azzurro e sereno.

Avevano percorso solo qualche chilometro e stavano per discendere in un avvallamento dove la strada era fiancheggiata da enormi palme da dattero, quando Laura ebbe l’impressione di vedere una strana pulsazione di luce nello squarcio di cielo che s’intravedeva nello specchietto retrovisore. Come poteva esserci un lampo in un cielo limpido e luminoso come quello? L’unica cosa a cui assomigliava era proprio quello che aveva pensato di aver visto, cioè una strana, breve pulsazione di luce.

Laura frenò immediatamente, ma la Buick era già in fondo all’avvallamento e non riuscì più a vedere il cielo nello specchietto retrovisore, solo la collina dietro di loro. Le sembrò anche di udire un brontolio, come di un tuono lontano, ma non poté esserne certa a causa del rumore dell’aria condizionata nell’auto. Accostò rapidamente al bordo della strada.

«Che cosa c’è?» chiese Chris, mentre Laura fermava l’auto, spalancava la portiera e si precipitava fuori.

Stefan a sua volta aprì la portiera e uscì. «Laura?»

Si mise a scrutare il tratto di cielo che riusciva a vedere dal fondo dell’avvallamento, schermandosi gli occhi con una mano. «Hai sentito, Stefan?»

In quella giornata calda, asciutta, un rombo in lontananza si spense lentamente.

Stefan disse: «Potrebbe essere un aereo».

«No. L’ultima volta che ho pensato che fosse un aereo, erano loro.»

Nel cielo balenò nuovamente una luce, un’ultima volta. Laura non vide il lampo in sé, ma solo il suo riflesso nell’alta atmosfera, una debole onda di luce serpeggiare nella volta azzurra.

«Sono qui», disse Laura.

«Sì», concordò Stefan.

«In qualche punto, su questa strada, qualcuno ci fermerà, forse un poliziotto o forse un incidente, perciò ci sarà una registrazione pubblica dopodiché loro arriveranno. Stefan, dobbiamo tornare indietro, a casa.»

«Non servirà a nulla», replicò Stefan.

Chris nel frattempo era sceso dalla macchina. «Ha ragione, mamma. Quello che faremo non ha importanza. Questi viaggiatori del tempo sono venuti qui perché hanno già spulciato nel futuro e sanno già dove potranno trovarci, forse a mezz’ora da qui, forse a dieci minuti. Non cambierà nulla sia che torniamo a casa sia che andiamo avanti; ci hanno già visti da qualche parte, forse hanno visto che siamo tornati a casa. Vedi, per quanto ci sforziamo di cambiare i nostri piani, è inevitabile, le nostre strade si incroceranno.»

Il destino.

«Merda!» sbottò Laura, sferrando un calcio alla macchina, un gesto inutile che non servì ad alleviare la sua collera. «Odio tutto questo. Come puoi sperare di farla franca contro dei fottutissimi viaggiatori del tempo? È come giocare a rimpiattino con Dio.»

Non ci furono più lampi.

Laura proseguì: «Ma a pensarci bene, la vita stessa è come giocare a rimpiattino con Dio, non è così? Perciò questo non sarà certo peggio. Sali in macchina, Chris, andiamo avanti».

Attraversarono i sobborghi principali della cittadina turistica. I nervi di Laura erano tesi come corde di violino. Scrutava spasmodicamente in ogni direzione, anche se sapeva che tutto sarebbe accaduto quando meno se l’aspettava.

Senza incidenti, imboccarono l’ultimo tratto del Palm Canyon Drive, dopodiché la Statale 111. Davanti a loro venti chilometri di totale deserto prima che la Statale 111 incrociasse la Superstrada 10.

13

Nella speranza di evitare la catastrofe, il tenente Klietmann abbassò il finestrino e sorrise al poliziotto di Palm Springs che aveva attirato la sua attenzione bussando sul vetro e che ora si era chinato e lo stava scrutando attentamente. «Che cosa succede, agente?»

«Non ha visto la striscia rossa quando ha parcheggiato?»

«Striscia rossa?» ripetè Klietmann, sorridendo e chiedendosi di che diavolo stesse parlando.

«Bene, signore», proseguì l’agente in tono ironico, «vuole farmi credere che non ha visto la striscia rossa?»

«Sì, signore. Certo che l’ho vista.»

«Ero certo che lei non mi avrebbe mentito», disse l’agente come se conoscesse Klietmann e lo reputasse una persona onesta, fatto che sbalordì il tenente. «Perciò, signore, se ha visto la striscia rossa, perché ha parcheggiato qui?»

«Oh, capisco», disse Klietmann, «è vietato parcheggiare dove ci sono le strisce rosse. Sì, certo.»

L’agente lo guardò perplesso, poi osservò gli altri passeggeri, von Manstein, Bracher e Hubatsch, sorrise e fece un cenno di saluto.

Klietmann non ebbe bisogno di guardare i suoi uomini per sapere che erano all’altezza della situazione. Nell’auto l’aria era carica di tensione.

L’agente si rivolse nuovamente a Klietmann e, abbozzando un sorriso, chiese: «Sbaglio, o siete quattro pastori?»

«Pastori?» ripetè Klietmann sconcertato da quella domanda.

«Sapete, ho una mente abbastanza intuitiva», spiegò il poliziotto, sempre sorridendo, «non sono Sherlock Holmes, ma ho notato gli adesivi sul paraurti: ‘Amo Gesù’ e ‘Cristo è risorto’; e poi in città c’è un raduno di pastori della Chiesa Battista e inoltre i vostri abiti scuri…»

Questa era la ragione per cui era stato così sicuro che Klietmann non avrebbe mentito: pensava che fossero pastori della Chiesa Battista.

«Proprio così», replicò Klietmann prontamente. «Siamo qui per il raduno, agente. Sono desolato per aver commesso un’infrazione, ma al mio paese non abbiamo strisce rosse. Ora se…»

«Oh! E da dove venite?» chiese l’agente, non con sospetto ma per mostrarsi amichevole.

Klietmann conosceva abbastanza gli Stati Uniti ma non tanto da sostenere una conversazione di quel genere. Pensò che i battisti fossero del sud, ma non era sicuro se ve ne fossero in altre parti del paese, perciò scelse uno stato del sud e disse: «Vengo dalla Georgia» prima di rendersi conto di quanto fosse inverosimile un’affermazione di quel genere, soprattutto pronunciata con quel forte accento tedesco.

Il sorriso sul volto del poliziotto sparì. Rivolgendosi a von Manstein, chiese: «E lei, signore?»

Con un accento ancora più marcato, von Manstein rispose: «Georgia».

Sul sedile posteriore, ancora prima che gli venisse rivolta la domanda, Hubatsch e Bracher dissero all’unisono: «Georgia. Veniamo dalla Georgia», come se quella parola fosse magica e potesse stregare il poliziotto il quale guardò con aria seria Erich Klietmann e gli disse: «Signore, le dispiacerebbe scendere un attimo?»

«Certo, agente», replicò Klietmann e aprendo la portiera vide che il poliziotto aveva fatto qualche passo indietro e aveva posato la mano destra sul calcio del revolver. «Ma faremo tardi per la funzione…»

Sul sedile posteriore Hubatsch aprì con un colpo secco la sua ventiquattr’ore ed estrasse l’Uzi con la stessa velocità con cui avrebbe agito una guardia del corpo del presidente. Non abbassò il finestrino, ma puntò direttamente la canna contro il vetro e aprì il fuoco sull’agente, non lasciandogli neppure il tempo di estrarre il revolver. Il vetro esplose sotto la scarica di proiettili. Colpito da almeno venti pallottole a distanza ravvicinata, l’agente fu scagliato all’indietro, in mezzo alla strada. Un’auto frenò bruscamente per evitare il corpo e dall’altra parte della strada le vetrine di un negozio di abbigliamento andarono in frantumi.

Con il freddo distacco e la determinazione che rendevano Klietmann orgoglioso di far parte delle Schutzstaffel, Martin Bracher saltò giù dalla macchina e fece partire una sventagliata di mitra, per aumentare il panico e avere maggiori possibilità di fuga. Andarono in frantumi non solo le vetrine dei negozi che si trovavano sulla stradina laterale in fondo alla quale avevano parcheggiato, ma anche quelle delle botteghe che si trovavano all’incrocio sul lato est di Palm Canyon Drive. La gente urlava, si gettava a terra oppure cercava precipitosamente rifugio dietro le porte. Klietmann vide che alcune auto di passaggio venivano colpite da quella pioggia di proiettili e forse alcuni degli autisti rimasero colpiti o forse furono presi semplicemente dal panico, perché le auto cominciarono a zigzagare da una corsia all’altra. Una Mercedes marrone chiaro si scontrò con un furgoncino facendolo rovesciare su un fianco, mentre un’auto sportiva rossa finì sul marciapiede e, sfiorando il tronco di una palma, andò a schiantarsi contro la vetrina di un negozio di articoli da regalo.

Klietmann si rimise al volante, tolse il freno a mano e, quando sentì che anche Bracher e Hubatsch erano saliti, inserì la marcia e lanciò la Toyota a tutta velocità verso Palm Canyon, sterzando a sinistra, in direzione nord. Si accorse immediatamente che stava andando contromano, in quanto la strada era a senso unico. Imprecando, schivò le auto in arrivo. La Toyota oscillò paurosamente sulle sospensioni malandate e il vano portaoggetti si spalancò, rovesciando il suo contenuto in grembo a von Manstein. Klietmann svoltò a destra all’incrocio successivo. Continuò la sua folle corsa, non rispettò nemmeno un semaforo, evitando per un pelo i pedoni che stavano attraversando, dopodiché svoltò a sinistra in un’altra strada in cui era consentito il traffico verso nord.

«Abbiamo solo ventun minuti», disse von Manstein, indicando l’orologio sul cruscotto.

«Dimmi dove devo andare», ordinò Klietmann. «Mi sono perso.»

«No, non si è perso», ribattè von Manstein mentre toglieva dalla cartina che aveva sulle ginocchia tutti gli oggetti che si erano sparpagliati: chiavi, fazzolettini di carta, un paio di guanti bianchi, confezioni diverse di ketchup e senape e documenti vari. «Non si è affatto perso. Per di qui arriveremo direttamente a Palm Canyon, dove la strada riprende a due corsie. Da lì proseguiremo sempre dritti verso nord, sulla Statale 111.»

14

A una decina di chilometri a nord di Palm Springs, in un punto in cui l’arido deserto sembrava ancora più desolato, Laura cominciò ad accostare al margine della strada, proseguì lentamente per un centinaio di metri finché non trovò un punto in cui il dislivello tra la banchina e il terreno era sufficiente per consentirle di avanzare sulla piatta distesa desertica. A parte un minuto groviglio di fili d’erba secchi e qualche nodoso cespuglio, la sola vegetazione che cresceva era l’amaranto, alcuni arbusti ancora verdi e radicati, altri ormai secchi che rotolavano liberamente. I cespugli radicati sfregarono debolmente contro la Buick, mentre gli altri volarono via sospinti al passaggio dell’auto.

Lo strato roccioso che costituiva il terreno in alcuni punti era ricoperto dalla sabbia trasportata dal vento. Come aveva fatto la sera in cui avevano trovato quel luogo, Laura si tenne lontana dalla sabbia, rimanendo sulla nuda roccia grigio rosa. Si fermò solo quando fu a circa trecento metri dalla strada, una distanza di sicurezza, fuori del raggio di azione del Vexxon. Parcheggiò non lontano da un canale di scolo naturale, largo circa sei metri e profondo almeno nove, formatosi nel tempo in seguito alle improvvise inondazioni prodotte dalle brevi piogge stagionali che si abbattevano in quella zona. La sera in cui per la prima volta avevano perlustrato quel luogo, procedendo con cautela ma guidati solo dai fari, erano stati fortunati a non cadere in quell’enorme fosso.

Sebbene i lampi non fossero stati seguiti da segni che annunciavano l’arrivo di uomini armati, era bene non perdere tempo. Laura, Chris e Stefan si muovevano come se sentissero nelle orecchie il ticchettio di un orologio che preannunciava un’imminente esplosione. Mentre Laura prendeva una delle due bombolette di Vexxon dal bagagliaio della Buick, Stefan si infilò sulle spalle lo zainetto verde pieno di libri e lo sistemò in modo che non gli desse fastidio. Chris portò uno dei due fucili mitragliatori a circa sei metri dall’auto, al centro di un cerchio di roccia dove non cresceva neppure un ciuffo d’erba e che sembrava il punto ideale per il «decollo» di Stefan dal 1989. Laura raggiunse suo figlio e Stefan li seguì, impugnando nella destra la Colt Commander munita di silenziatore.


A nord di Palm Springs, sulla Statale 111, Klietmann cercava di spingere la Toyota al massimo, ma non era sufficiente. Il contachilometri segnava quarantamila chilometri e senza dubbio la vecchia proprietaria non aveva mai spinto l’auto a più di cinquanta all’ora, ecco perché ora non aveva ripresa. Quando tentava di superare i novanta, la Toyota cominciava a vibrare e scoppiettare, costringendolo a rallentare.

Nonostante ciò, tre chilometri a nord dei sobborghi di Palm Springs, si accodarono a una macchina della polizia stradale e Klietmann seppe che doveva trattarsi dell’agente che stava per imbattersi e arrestare Laura Shane e suo figlio. L’agente teneva un’andatura inferiore ai novanta chilometri orari, limite di velocità in vigore in quella zona.

«Uccidilo», ordinò Klietmann rivolgendosi a Martin Bracher, seduto dietro di lui.

Klietmann controllò nello specchietto retrovisore e vide che non c’erano macchine; il traffico era solo sull’altra corsia, quella che andava in direzione sud. Sterzò bruscamente sulla corsia di sorpasso e iniziò a superare l’auto della polizia spingendo la Toyota a più di novanta all’ora.

Sul sedile posteriore, Bracher abbassò il finestrino. L’aria entrò con violenza, facendo svolazzare la cartina che von Manstein teneva in grembo.

L’agente dovette rimanere sorpreso perché, probabilmente, succedeva raramente che un automobilista osasse superare un’auto della polizia che stava già viaggiando al limite della velocità consentita. Quando Klietmann spinse la Toyota oltre i novanta, l’auto cominciò a vibrare e scoppiettare, accelerando quasi controvoglia. Il poliziotto perciò inserì la sirena, facendola suonare una sola volta, segnale che apparentemente significava che Klietmann doveva accostare e fermarsi sul bordo della strada.

Il tenente, invece, accelerò tanto che la Toyota sembrò sul punto di spaccarsi in due. Ma quell’ulteriore sforzo fu sufficiente per superare lo sbalordito agente e consentire a Bracher di arrivare a portata di tiro. Il caporale aprì il fuoco.

I finestrini andarono in frantumi e l’agente morì sul colpo. L’auto sbandò verso la Toyota sfiorandola prima che Klietmann potesse evitarla, poi deviò verso il ciglio della strada. Klietmann frenò, portandosi dietro l’auto ormai priva di controllo. Fra la strada e il terreno circostante c’era un dislivello di circa tre metri, l’auto schizzò oltre la banchina non protetta, si librò nell’aria per qualche secondo, poi precipitò al suolo con tale violenza che qualche pneumatico esplose. Due portiere si spalancarono.

Mentre Klietmann si riportava sulla corsia di destra e superava lentamente i rottami della macchina, von Manstein disse: «Riesco a vederlo. È accasciato sul volante. Non ci darà più fastidi».

Alcuni automobilisti avevano assistito al volo spettacolare dell’auto della polizia e avevano accostato al bordo della strada. Quando Klietmann guardò nello specchietto retrovisore, vide alcune persone scendere dalle auto, dei buoni samaritani stavano correndo in soccorso dell’agente. Se qualcuno di loro aveva compreso la dinamica dell’incidente, avrebbe sicuramente rinunciato all’idea di seguire Klietmann e consegnarlo alla giustizia. E questo era saggio.

Klietmann premette il piede sull’acceleratore, diede un’occhiata al contachilometri e disse: «A quattro chilometri da qui, quell’agente avrebbe arrestato la donna e il bambino. D’ora in poi fate attenzione a una Buick nera. Solo quattro chilometri».


Ferma accanto alla Buick, sotto il sole del deserto, Laura guardò Stefan che si caricava sulla spalla l’Uzi.

«Mi chiedo se sia necessario», disse Stefan. «Se il gas nervino agirà come dovrebbe, probabilmente non avrò neppure bisogno della pistola, per non parlare di un mitragliatore.»

«Prendilo», ordinò Laura in tono risoluto.

Stefan annuì. «Hai ragione. Chi può dire che cosa succederà?»

«Peccato che tu non abbia anche un paio di granate», osservò Chris. «Le granate andrebbero benissimo.»

«Speriamo che la situazione laggiù non diventi pericolosa a tal punto», replicò Stefan.

Tolse la sicura della pistola e la impugnò nella mano destra. Con la sinistra afferrò la bomboletta di Vexxon per la maniglia, saggiandone il peso per vedere come reagiva la spalla ferita. «Mi fa un po’ male», disse. «Ma è un dolore sopportabile, ce la farò senza problemi.»

Avevano tagliato il filo che teneva bloccato il gancio della bomboletta, consentendo in questo modo l’uso manuale del Vexxon. Stefan infilò il dito nell’anello. Una volta terminata la missione nel 1944, avrebbe intrapreso l’ultimo viaggio di ritorno nel 1989 e il piano prevedeva che sarebbe arrivato solo cinque minuti dopo la partenza. Stefan disse: «Ci rivedremo presto. Quasi non vi accorgerete che me ne sono andato».

Improvvisamente Laura ebbe paura che non sarebbe mai più tornato. Gli accarezzò il volto e lo baciò su una guancia. «Buona fortuna, Stefan.»

Non era il bacio di una donna innamorata e neppure una promessa d’amore, era solo il bacio affettuoso di un’amica, il bacio di una donna che doveva eterna gratitudine, ma che non poteva concedere il suo cuore. Stefan lo sapeva, glielo leggeva negli occhi. Nonostante qualche momento di allegria, era sempre malinconico e Laura avrebbe voluto renderlo felice. Le dispiaceva di non riuscire nemmeno a sforzarsi di provare qualcosa di più per lui; ma sapeva bene che a Stefan non sarebbe sfuggita una simile finzione.

«Voglio che ritorni», mormorò Laura. «Veramente. Lo desidero con tutto il cuore.»

«Questo è sufficiente», disse. Poi rivolto a Chris: «Abbi cura di tua madre mentre sono via».

«Cercherò», promise Chris. «Ma se la cava abbastanza bene da sola.»

Laura strinse a sé il bambino.

Stefan sollevò in aria il cilindro del Vexxon. Tirò l’anello.

Mentre il gas fuoriusciva con un suono simile al sibilo di tanti serpenti, Laura fu colta all’improvviso dal panico. Ebbe il terrore che le pillole di antidoto non li avrebbero protetti dal gas tossico, che sarebbero crollati a terra, in preda a spasmi e convulsioni e che sarebbero morti nel giro di trenta secondi. Il Vexxon era incolore, ma non inodore o insapore. Anche all’aria aperta, dove si disperdeva rapidamente, Laura sentì un odore dolciastro di albicocche e un sapore acido, nauseante.

Ma per quanto percepisse un odore e un sapore, non avvertì alcun effetto devastante.

Stefan portò la mano destra in cui impugnava la pistola all’altezza della cintura, infilò un dito sotto la camicia e premette tre volte il pulsante.


Von Manstein fu il primo a intravedere l’auto nera ferma in quella vasta distesa di sabbia bianca e pallida roccia, qualche centinaio di metri a est della strada. Richiamò subito l’attenzione degli altri.

Il tenente Klietmann non poteva certo individuare la marca della macchina così da lontano, ma era sicuro che si trattasse di quella che stavano cercando. Accanto all’auto c’erano tre persone. Non erano che sagome indistinte a quella distanza, ma Klietmann riuscì comunque a distinguere due adulti e un bambino. Improvvisamente uno dei due adulti svanì nel nulla. Non era un’illusione ottica. Se n’era andato e Klietmann sapeva che doveva trattarsi di Stefan Krieger.

«È tornato indietro!» esclamò Bracher al colmo dello stupore.

«Ma perché mai ha deciso di tornare indietro?» si chiese von Manstein. «Quando tutti all’istituto vogliono la sua testa?»

«C’è di peggio», disse Hubatsch, che era seduto dietro il tenente. «Krieger è arrivato nel 1989 molto prima di noi, perciò quella cintura deve averlo riportato allo stesso punto, al giorno in cui Kokoschka gli ha sparato, esattamente undici minuti dopo. Tuttavia sappiamo per certo che egli non fece mai ritorno quel giorno. Ma che diavolo sta succedendo qui?»

Anche Klietmann era preoccupato, ma non aveva tempo per cercare di comprendere ciò che stava accadendo. Il suo compito era di uccidere la donna e suo figlio, se non Krieger. «State pronti», disse ai suoi uomini e cominciò a rallentare alla ricerca di un passaggio che gli consentisse di scendere dalla banchina.

Hubatsch e Bracher erano già pronti, avevano tirato fuori i loro fucili a Palm Springs. L’ultimo ad armarsi fu von Manstein.

A un certo punto il livello del terreno incontrò quello della strada. Klietmann abbandonò il selciato, superò la banchina e s’inoltrò nel deserto, puntando direttamente verso la donna e il bambino.


Dopo che Stefan ebbe attivato la cintura, l’aria si fece pesante e Laura si sentì oppressa da un enorme, invisibile peso. Fece una smorfia di disgusto quando nell’aria si diffuse l’odore di cavi elettrici incandescenti e isolante bruciato, a cui ben presto si sostituì l’odore dell’ozono e del Vexxon. La pressione dell’aria aumentò, la miscela di odori si fece più intensa e Stefan lasciò il suo mondo. Per un istante sembrò che non ci fosse aria a sufficienza per respirare, ma il temporaneo vuoto fu seguito da una folata di vento caldo pregna del debole profumo del deserto.

Tenendosi stretto a Laura, Chris esclamò: «Accidenti! Hai visto che roba, mamma? Non è fantastico?»

Laura non rispose perché aveva notato una macchina bianca che aveva abbandonato la strada e stava avanzando nel deserto. Aveva puntato nella loro direzione e ora stava avanzando a tutta velocità.

«Chris, vai davanti alla macchina. Stai giù!»

Il bambino vide la macchina e obbedì senza discutere.

Laura si precipitò verso la portiera aperta della Buick e afferrò uno dei fucili mitragliatori posati sul sedile. Si appostò sul retro dell’auto, accanto al bagagliaio aperto, di fronte alla macchina in arrivo.

Era a meno di duecento metri e si stava avvicinando a tutta velocità. I raggi del sole si riflettevano sulla lamiera cromata, scintillavano sul parabrezza.

Laura considerò la possibilità che gli occupanti non fossero agenti tedeschi provenienti dal 1944, ma persone innocenti. Ma era un’ipotesi troppo improbabile.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

No, dannazione, no.

Quando l’auto fu a un centinaio di metri, Laura fece partire due raffiche e vide che le pallottole avevano perforato almeno in due punti il parabrezza. Il resto del vetro si incrinò all’istante.

L’auto — una Toyota — compì un intero giro su se stessa, poi girò di altri novanta gradi, sollevando nuvole di polvere e sradicando un paio di cespugli ancora verdi. Si arrestò a una sessantina di metri, l’estremità anteriore puntata verso nord.

Dall’altra parte le portiere si spalancarono e Laura sapeva che gli occupanti stavano sgattaiolando fuori dall’auto, senza che lei potesse vederli. Aprì nuovamente il fuoco, non nella speranza di colpirli attraverso la Toyota, ma con l’intenzione di forare il serbatoio della benzina. Sapeva che una scintilla, provocata dall’urto di una pallottola contro la lamiera di metallo, avrebbe incendiato la benzina e gli uomini che si nascondevano contro la fiancata dell’auto sarebbero così stati avvolti dalle fiamme. Riuscì solo a svuotare il caricatore dell’Uzi, senza provocare alcun incendio, anche se quasi certamente aveva svuotato il serbatoio.

Gettò via la mitragliatrice, spalancò la portiera posteriore della Buick e afferrò l’altro Uzi. Dal sedile anteriore prese la calibro 38 senza staccare gli occhi dalla Toyota bianca per più di un secondo. In quell’attimo pensò che se Stefan avesse lasciato il suo Uzi, dopotutto, sarebbe stato meglio.

Di fronte a lei, uno degli uomini armati aprì il fuoco con un’arma automatica. Ora non c’era più alcun dubbio sulle loro identità. Mentre Laura si buttava contro il fianco della Buick, le pallottole si conficcarono nel bagagliaio aperto, mandarono in frantumi il vetro posteriore, perforarono i parafanghi, rimbalzarono sui paraurti e sulla superficie rocciosa circostante e sollevarono nuvolette di sabbia bianca.

Udì un paio di pallottole sibilare proprio sopra la sua testa. Gemiti appena sussurrati, acuti, mortali. Cominciò a indietreggiare verso il muso della Buick, schiacciandosi il più possibile contro la fiancata per essere un bersaglio meno facile. In breve raggiunse Chris, addossato alla griglia del radiatore.

L’uomo dall’altra parte smise di sparare.

«Mamma?» sussurrò Chris spaventato.

«Non ti preoccupare», rispose Laura, cercando di credere alle sue stesse parole. «Stefan sarà qui a minuti, tesoro, ha un altro Uzi con sé e con quello saremo quasi ad armi pari. Andrà tutto bene. Dobbiamo tenerli a bada solo per qualche minuto. È solo questione di minuti.»

15

La cintura di Kokoschka riportò Stefan all’istituto in un lampo. Quando si materializzò nel tunnel l’ugello sul cilindro del Vexxon era completamente aperto. Stringeva il manico con tale forza che la mano era indolenzita.

Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere solo una piccola parte del laboratorio. Intravide due uomini dagli abiti scuri, che stavano sbirciando all’estremità del tunnel. Assomigliavano molto ad agenti della Gestapo, tutti quei bastardi sembravano essere stati procreati dallo stesso piccolo gruppo di degenerati e fanatici e si sentì sollevato al pensiero che non potevano vederlo altrettanto chiaramente.

Per un attimo avrebbero pensato che si trattasse di Kokoschka.

Cominciò ad avanzare, tenendo davanti a sé la bomboletta di Vexxon che sibilava rumorosamente. Nella mano destra impugnava la pistola. Prima che gli uomini nel laboratorio potessero intuire che qualcosa non andava furono investiti dal gas nervino. Crollarono a terra, ai piedi del tunnel, e quando Stefan finalmente mise piede nel laboratorio, stavano ormai agonizzando. Avevano vomitato e dalle narici colavano rivoli di sangue. Uno era riverso su un fianco, scalciava e si ghermiva la gola con le mani; l’altro stava raggomitolato su un fianco, in posizione fetale, e con le dita si stava artigliando orribilmente gli occhi. Accanto al quadro di programmazione del tunnel altri tre uomini — Stefan li conosceva: Hoepner, Eicke, Schmauser — erano distesi a terra. Si agitavano come se fossero pazzi o idrofobi. Tutti e cinque stavano cercando di urlare, ma avevano la gola chiusa. Riuscivano solo a emettere deboli, striduli suoni, simili al piagnucolio di animaletti sottoposti a tortura. Stefan rimase apparentemente impassibile, ma, nel profondo, atterrito e inorridito. Morirono nel giro di quaranta secondi.

A questi uomini era stata riservata una giustizia crudele, poiché coloro che avevano sintetizzato il primo gas nervino nel 1936, erano stati proprio dei ricercatori finanziati dai nazisti. Tutti i successivi gas nervini derivavano da quel primo composto chimico. Compreso il Vexxon. Questi uomini, nel 1944, erano stati uccisi da un’arma del futuro, certo, ma pur sempre una sostanza che aveva avuto le sue origini in quella società malata, fondata sulla morte.

Quei cinque cadaveri non diedero alcuna soddisfazione a Stefan. Aveva assistito a tanti omicidi nella vita, che persino lo sterminio del colpevole a favore dell’innocente, persino l’omicidio al servizio della giustizia lo ripugnava. Ma riuscì ugualmente a fare ciò che doveva.

Posò la pistola sul bancone del laboratorio. Si sfilò l’Uzi e mise da parte anche quello.

Da una tasca dei jeans estrasse uno spago che utilizzò per tenere sollevato l’anello dalla bomboletta di Vexxon. Andò in corridoio e mise il cilindro al centro. In pochi minuti il gas si sarebbe propagato in tutto l’edificio attraverso le trombe delle scale, i pozzi degli ascensori e i condotti di aerazione.

Rimase sorpreso quando si accorse che il corridoio era illuminato solo dalle lampade schermate e che gli altri laboratori al pianterreno sembravano deserti. Lasciò che il gas si propagasse e tornò al quadro di programmazione nel laboratorio principale per controllare in che giorno e a che ora la cintura di Heinrich Kokoschka l’aveva riportato. Erano le nove e undici minuti del 16 marzo.

Era un inaspettato colpo di fortuna. Stefan si era aspettato di tornare all’istituto in un’ora in cui gran parte del personale sarebbe stato sul luogo. Ciò avrebbe significato almeno un centinaio di corpi sparsi in tutto l’edificio di quattro piani; e quando li avessero scoperti, si sarebbe saputo che solo Stefan Krieger, utilizzando la cintura di Kokoschka e penetrando nell’istituto attraverso il tunnel, poteva essere il responsabile. Avrebbero intuito che non era tornato semplicemente per uccidere quanti del personale si trovavano nell’edificio, ma che aveva in mente qualcos’altro e allora avrebbero intensificato le ricerche per scoprire la natura del suo piano e avrebbero annullato ciò che aveva già fatto. Ma ora… se, come sembrava, l’edificio era praticamente vuoto, avrebbe potuto disporre quei pochi cadaveri in modo tale da occultare la sua presenza e dirigere tutti i sospetti su quei morti.

Dopo cinque minuti il cilindro di Vexxon era vuoto. Il gas si era propagato in tutto l’edificio, a eccezione degli abitacoli delle due guardie situati all’entrata principale e a quella posteriore, che non dividevano neanche i condotti di ventilazione con il resto dell’edificio. Stefan perlustrò tutti i piani e tutte le stanze, alla ricerca di altre vittime. Gli unici corpi che trovò furono quelli degli animali nel sotterraneo, i primi viaggiatori del tempo, e quella vista lo turbò quanto o forse di più dei cinque uomini morenti.

Stefan tornò nel laboratorio principale, da un armadietto bianco prese cinque delle cinture speciali che allacciò sopra i vestiti dei cinque cadaveri. Riprogrammò velocemente il tunnel per spedire i corpi ad almeno sei miliardi di anni nel futuro. Da qualche parte aveva letto che il sole sarebbe esploso oppure sarebbe morto nel giro di sei miliardi di anni e Stefan voleva trasferire quei cinque uomini in un luogo dove non ci fosse nessuno che potesse notarli o utilizzare le loro cinture per ritornare attraverso il tunnel.

Occuparsi dei morti in quell’edificio deserto, silenzioso, fu terribile. Più volte si sentì percorrere da brividi, sicuro di aver udito dei movimenti furtivi. Un paio di volte interruppe persino il suo lavoro per andare a controllare, ma non trovò nulla. In un’altra occasione si voltò all’improvviso a guardare uno dei cadaveri che giaceva dietro di lui, convinto che quell’essere ormai privo di vita avesse cominciato ad alzarsi, che quel debole stridore che aveva udito fosse la sua fredda mano che cercava di aggrapparsi alla macchina, nel tentativo di alzarsi in piedi. Fu in quel frangente che comprese quanto lo avessero profondamente turbato tutte le atrocità a cui aveva assistito per lungo tempo.

A uno a uno trascinò i corpi nel tunnel, li sospinse lungo il punto di trasmissione e li fece passare attraverso il campo energetico. Usciti da quell’invisibile porta nel tempo, svanirono. Sarebbero riapparsi in un punto indefinito dello spazio-tempo, forse su un pianeta da lungo tempo freddo e morto, dove non esisteva neppure una pianta o un insetto, oppure si sarebbero persi nell’infinito spazio dove i pianeti erano esistiti prima che l’esplosione del sole li distruggesse.

Fece attenzione a non superare il punto di trasmissione. Se fosse stato trasportato all’improvviso nel vuoto dell’infinito spazio, a sei miliardi di anni, sarebbe morto prima di avere la possibilità di premere il pulsante sulla sua cintura e tornare al laboratorio.

Dopo aver eliminato i cinque cadaveri e ripulito ogni traccia, Stefan era esausto. Fortunatamente il gas nervino non aveva lasciato residui apparenti; non c’era quindi bisogno di pulire ogni superficie nell’istituto. La spalla gli doleva come nei giorni immediatamente successivi al ferimento.

Ma era riuscito a occultare in modo intelligente le sue tracce. Al mattino, tutto avrebbe fatto pensare che Kokoschka, Hoepner, Eicke, Schmauser e due agenti della Gestapo avessero deciso che il Terzo Reich era ormai destinato a soccombere, e avessero scelto di trovare rifugio in un futuro in cui avrebbero potuto trovare pace e ricchezza.

Si ricordò degli animali nel sotterraneo. Se li avesse lasciati nelle gabbie, sarebbero sicuramente stati eseguiti esami per scoprire che cosa li avesse uccisi e probabilmente i risultati avrebbero gettato dei dubbi sulla teoria che Kokoschka e gli altri fossero fuggiti attraverso il tunnel. Ancora una volta, quindi, il principale sospettato sarebbe stato Stefan Krieger. Meglio far sparire gli animali. Certo sarebbe stato un mistero, ma almeno non avrebbe portato direttamente alla verità.

Il dolore alla spalla si fece lancinante mentre avvolgeva gli animali nei camici puliti e li legava con una corda. Spedì anche loro a sei miliardi di anni nel futuro, ma senza cinture. Lo stesso destino fu riservato anche alla bomboletta vuota di gas nervino.

Finalmente era pronto a intraprendere i due viaggi cruciali che sperava avrebbero portato alla distruzione dell’istituto e alla sconfitta certa della Germania nazista. Si avviò verso il quadro di programmazione del tunnel e da una tasca dei jeans estrasse un foglietto ripiegato, dov’erano riportati i risultati di giorni di calcoli che lui e Laura avevano eseguito sul computer nella casa di Palm Springs.

Se fosse stato in grado di tornare dal 1989 con una quantità di esplosivo sufficiente a ridurre l’istituto in macerie fumanti, lo avrebbe fatto. Ma, oltre alla pesante bombola di Vexxon, allo zainetto pieno di libri, alla pistola e all’Uzi, non avrebbe potuto trasportare più di venti, venticinque chili di plastico, una quantità insufficiente per la realizzazione di quell’obiettivo. Gli esplosivi che aveva sistemato nell’attico e nel sotterraneo erano stati rimossi da Kokoschka un paio di giorni prima, ora locale, ovviamente. Avrebbe potuto tornare dal 1989 con un paio di taniche di benzina, cercando di distruggere l’edificio con un incendio; ma gran parte dei documenti relativi alla ricerca erano rinchiusi in schedari resistenti al fuoco, ai quali nemmeno lui poteva accedere. Solo un’esplosione, perciò, avrebbe potuto scardinarli, esponendo il contenuto alle fiamme.

Da solo non avrebbe potuto distruggere l’istituto.

Ma sapeva chi poteva aiutarlo.

Con i dati ottenuti grazie al computer si accinse a riprogramrnare il tunnel che lo avrebbe portato nel futuro, ma a soli tre giorni e mezzo da quella sera del 16 marzo. Dal punto divista geografico, sarebbe arrivato sul suolo britannico, nel cuore di un vasto rifugio sotterraneo, sotto gli uffici governativi che dominavano St. James’s Park, vicino a Storey’s Gate, dove, in occasione del Blitz, erano stati costruiti uffici e quartieri generali a prova di bomba destinati al primo ministro e agli altri funzionari e dove era ancora ospitato il comando militare. Per l’esattezza, Stefan sperava di arrivare in una particolare sala conferenze alle sette e mezzo del mattino. Tanta precisione era possibile grazie alle conoscenze e alla tecnologia disponibili nel 1989.

Completamente disarmato, con lo zaino pieno di libri sulle spalle, Stefan entrò nel tunnel, attraversò il punto di trasmissione e si materializzò in un angolo di una sala conferenze al centro della quale c’era un grande tavolo circondato da dodici sedie. Dieci di queste erano vuote. Solo due uomini erano presenti. Il primo era un segretario in uniforme con una penna in una mano e nell’altra un blocco per appunti; il secondo uomo, impegnato nella dettatura di un messaggio urgente, era Winston Churchill.

16

Mentre si rannicchiava contro la Toyota, Klietmann giunse alla conclusione che il loro abbigliamento non poteva essere più inadatto per quella missione. I colori dominanti nel deserto erano il bianco e il beige, il rosa pallido e il rosso arancio, con pochissima vegetazione e solo qualche formazione rocciosa poteva fornire un riparo. Con i vestiti scuri, appena avessero tentato di aggirare la macchina e prendere la donna alle spalle, sarebbero stati visibili come scarafaggi su una torta nuziale.

Hubatsch, che si era alzato per dirigere delle brevi raffiche contro la Buick, si riabbassò. «È andata a nascondersi davanti con il bambino. Non riesco più a vederla.»

«Le autorità locali arriveranno fra poco», disse Bracher, guardando verso la Statale 111 e poi verso la direzione in cui la macchina della polizia era volata fuori strada.

«Toglietevi le giacche», ordinò Klietmann, liberandosi della sua. «Le camicie bianche saranno meno visibili. Bracher, tu resta qui. Cerca di evitare che quella puttana torni da questa parte. Von Manstein e Hubatsch, voi cercate di aggirarla sul lato destro. Mantenete una distanza di sicurezza e non lasciate un riparo prima di aver individuato quello successivo. Io andrò a nord e poi a est, sulla sinistra.»

«Dobbiamo ucciderla senza cercare di scoprire ciò che Krieger ha in mente?» chiese Bracher.

«Sì», rispose Klietmann senza esitazione. «È troppo armata per essere presa viva. E comunque, scommetto sul mio onore che Krieger tornerà da loro. Tornerà qui attraverso il tunnel fra qualche minuto e se per allora avremo già eliminato la donna potremo occuparci di lui. Ora andate. Andate.»

Hubatsch, seguito dopo qualche secondo da von Manstein, lasciò il suo nascondiglio dietro la Toyota; si muoveva velocemente, tenendosi basso, in direzione sud-sudest.

Il tenente Klietmann andò verso nord, prendendo la sua mitragliatrice. Correva chino, in direzione del misero riparo fornito da un cespuglio disordinato su cui si erano impigliati dei fasci di erba.


Laura si alzò leggermente per controllare la situazione e proprio in quel mentre vide i due uomini in camicia bianca e pantaloni neri che si stavano allontanando a tutta velocità dalla Toyota. Venivano verso di lei ma stavano girando anche verso sud, ovviamente con l’intenzione di circondarla. Scattò in piedi e fece partire una breve raffica contro il primo uomo, che si gettò dietro una formazione rocciosa e scomparve alla vista.

Udendo i colpi, il secondo uomo si era appiattito in una depressione che non lo nascondeva completamente, ma l’angolo di tiro e la distanza facevano di lui un difficile bersaglio. E Laura non intendeva sprecare altri colpi.

Inoltre, nonostante fosse riuscita a vedere dove si era nascosto il secondo uomo, un terzo aprì il fuoco su di lei da dietro la Toyota. Le pallottole colpirono la Buick, mancandola di un soffio. Fu costretta ad abbassarsi di nuovo. Stefan sarebbe tornato fra tre, quattro minuti al massimo. Non era molto. Ma sembrava un’eternità.

Chris era seduto con la schiena contro il paraurti, le braccia attorno alle gambe ripiegate contro il petto. Tremava visibilmente.

«Tieni duro, figliolo», gli sussurrò Laura.

Chris la guardò, ma non disse nulla. Neppure nei momenti peggiori di quelle ultime due settimane, l’aveva mai visto così scoraggiato. Il suo volto era pallido, indifferente. Doveva aver compreso che quel gioco a rimpiattino non era mai stato un gioco per nessuno tranne che per lui. Che nulla era semplice come nei film e questa spaventosa intuizione aveva impresso nei suoi occhi un’espressione di freddo distacco che impauri Laura.

«Tieni duro», gli ripetè. Poi lo superò camminando carponi e si appostò accanto all’altro parafango, dalla parte del guidatore, dove si rannicchiò per studiare la distesa di deserto a nord.

Temeva che altri uomini la stessero circondando da quel lato. Non poteva permettere che questo succedesse perché in quel caso la Buick non sarebbe stata di alcuna utilità come riparo e non ci sarebbe stato altro luogo dove rifugiarsi tranne che nell’aperto deserto, dove lei e Chris sarebbero stati uccisi prima di poter fare cinquanta metri. La Buick rimaneva l’unico rifugio per loro. Doveva tenere quella macchina fra lei e loro.

Non riusciva a scorgere nessuno sul fianco nord. Il terreno in quella direzione non era uniforme, presentava qualche protuberanza rocciosa, piccole dune di sabbia bianca e senza dubbio molte depressioni a misura d’uomo che dalla sua posizione non erano visibili, punti dove un uomo poteva già essersi nascosto. Ma le uniche cose che si muovevano in quella distesa erano tre fasci di erba; rotolavano lentamente, in modo irregolare, nella tiepida e incostante brezza.

Tornò nuovamente sull’altro lato, passando davanti a Chris, in tempo per vedere i due uomini che in direzione sud si stavano nuovamente muovendo. Erano a una trentina di metri da lei e stavano avvicinandosi a una velocità spaventosa. Il primo correva chinato, zigzagando, mentre l’altro era più spavaldo, forse pensava che l’attenzione di Laura si sarebbe focalizzata sul suo compagno.

Ma Laura fece esattamente il contrario. Si alzò, si sporse dalla Buick quanto era necessario, tenendosi sempre riparata e fece partire una breve raffica. L’uomo nascosto dietro la Toyota aprì nuovamente il fuoco su di lei, cercando di coprire i suoi compagni, ma Laura riuscì a colpire il secondo uomo tanto che questi perse l’equilibrio e venne scaraventato su un ispido cespuglio di manzanita.

Anche se non era morto, era chiaramente fuori gioco e, a giudicare dalle sue urla strazianti, senza dubbio era stato colpito mortalmente.

Si abbassò nuovamente, sotto la linea del fuoco e in quell’attimo si accorse che stava sogghignando compiaciuta. Il dolore e il terrore che avvertiva nelle grida di quell’uomo le davano un immenso piacere. La sua reazione selvaggia, la sua sete di sangue e di vendetta la lasciarono sbalordita, ma si aggrappò a quell’istinto perché ebbe la sensazione che avrebbe lottato meglio e in modo più intelligente, mentre era sotto la spinta di quella collera primordiale.

Uno in meno. Forse ce n’erano solo altri due da eliminare.

E presto Stefan sarebbe ritornato.

Non importava quanto tempo gli sarebbe occorso per compiere il suo lavoro nel 1944, Stefan l’avrebbe raggiunta e sarebbe entrato nella mischia fra due, tre minuti al massimo.

17

Il primo ministro stava proprio guardando in quella direzione quando Stefan si materializzò mentre l’uomo in uniforme, un sergente, si accorse di lui solo in seguito alla scarica di energia elettrica che accompagnò il suo arrivo. Attorno a Stefan si agitavano migliaia di luminosissimi serpentelli azzurrognoli, come se il suo stesso corpo li avesse generati. Forse, là fuori, il cielo era squarciato da lampi luminosi e scosso da tremendi boati, ma parte dell’energia impiegata nel viaggio nel tempo si stava scaricando proprio in quella stanza, uno spettacolo sconvolgente che aveva fatto scattare in piedi l’uomo in uniforme un po’ per la sorpresa, un po’ per la paura. I sibilanti serpenti di elettricità balenarono lungo il pavimento, si arrampicarono sulle pareti, si fusero brevemente con il soffitto, per poi svanire, lasciando tutti illesi. L’unico danno era stato arrecato a una grande carta dell’Europa appesa a una parete, che era rimasta bruciacchiata in alcuni punti ma non aveva preso fuoco.

«Guardie!» gridò il sergente. Era disarmato, ma evidentemente era sicuro che qualcuno avrebbe udito quel richiamo e sarebbe subito accorso, perché lo ripetè solo una volta e non fece una mossa verso la porta. «Guardie!»

«Signore. Per favore», disse Stefan rivolgendosi a Churchill e ignorando completamente il sergente, «non voglio fare del male a nessuno.»

La porta si spalancò e due soldati inglesi irruppero nella stanza. Uno impugnava una rivoltella, l’altro un fucile mitragliatore automatico.

Stefan parlò in tono concitato, temendo che gli potessero sparare da un momento all’altro. «Il futuro dipende da lei, signore. Deve ascoltarmi. La prego.»

In mezzo a tutta quella eccitazione, il primo ministro rimase seduto nella poltrona, all’altro capo del tavolo. A Stefan era parso di vedere un barlume di sorpresa e forse persino un brivido di paura sul volto di quel grande uomo, ma non avrebbe potuto giurarci. Adesso il primo ministro aveva un’aria assorta e impassibile, come in tutte le fotografie che Stefan aveva avuto occasione di vedere. Alzò una mano verso le guardie. «Aspettate un momento.» Quando il sergente cominciò a protestare, il primo ministro replicò: «Se avesse avuto intenzione di uccidermi, certamente l’avrebbe già fatto». Rivolgendosi a Stefan, disse: «E devo dire, signore, che la sua è stata una notevole entrata. Più drammatica di qualsiasi altra apparizione che il giovane Olivier abbia mai fatto».

Stefan non poté fare a meno di sorridere. Fece qualche passo in avanti, ma quando si mosse verso il tavolo vide le guardie irrigidirsi, perciò si fermò e parlò da una certa distanza. «Signore, proprio per il modo in cui mi sono presentato, lei avrà certamente capito che non sono un messaggero comune e che ciò che devo dirle può essere… insolito. E anche qualcosa di estremamente sensazionale e lei potrebbe anche non desiderare che le mie informazioni giungano all’orecchio di qualcun altro.»

«Se lei si aspetta che la lasciamo solo con il primo ministro», esclamò il sergente, «lei… lei è pazzo!»

«Potrebbe essere pazzo», replicò il primo ministro, «ma ha del coraggio. Questo deve ammetterlo, sergente. Perquisitelo, e se non troverete armi, concederò a questo gentiluomo, un po’ del mio tempo, come desidera.»

«Ma, signore, non sa nemmeno chi sia. Non sa che cosa sia. Il modo in cui è piombato nella…»

Churchill lo zittì. «So perfettamente com’è arrivato, sergente. Anzi, vorrei ricordarle che solo io e lei lo sappiamo. Desidero che lei non faccia parola con nessuno di quanto ha visto. La consideri un’informazione militare top secret.»

Umiliato, il sergente rimase in disparte, fissando Stefan con aria torva, mentre le guardie lo perquisivano.

Non trovarono armi, solo i libri contenuti nello zainetto e alcuni fogli di carta che Stefan teneva nelle tasche. Gli restituirono i fogli e ammassarono i libri al centro del lungo tavolo. Stefan si divertì vedendo che non avevano neppure notato la natura dei volumi che avevano maneggiato.

Con riluttanza il sergente seguì le guardie fuori dalla stanza, come il primo ministro aveva ordinato. Quando la porta venne richiusa, Churchill fece cenno a Stefan di accomodarsi sulla sedia che il sergente aveva liberato. Rimasero in silenzio per qualche minuto, scrutandosi l’un l’altro con interesse. Poi, il primo ministro indicò una teiera fumante riposta su un vassoio. «Tè?»


Venti minuti più tardi, quando Stefan era solo a metà della versione sintetica della sua storia, il primo ministro chiamò il sergente. «Rimarremo qui ancora un po’, sergente, devo posticipare la riunione di un’ora, mi dispiace. Faccia in modo che tutti ne siano informati e porga loro le mie scuse.»

Venticinque minuti dopo, Stefan aveva terminato il suo racconto.

Il primo ministro pose ancora qualche domanda. Poche, ma ben ponderate ed estremamente mirate. Alla fine sospirò e disse: «È terribilmente presto per un sigaro, credo, ma ho voglia di fumarne uno. Mi tiene compagnia?»

«No, grazie, signore.»

Mentre preparava il sigaro, Churchill disse: «A parte la sua entrata spettacolare, che altro non prova se non la reale esistenza di un mezzo rivoluzionario di spostamento, che potrebbe essere, ma potrebbe anche non essere, il viaggio nel tempo, quale prova ha per convincere un uomo ragionevole che i particolari della sua storia sono veri?»

Stefan si era aspettato una domanda simile ed era preparato. «Signore, poiché sono stato nel futuro, ho avuto possibilità di leggere stralci del suo resoconto sulla guerra. Sono così venuto a conoscenza che in questo giorno e a quest’ora precisi lei sarebbe stato in questa stanza. E ho avuto anche modo di sapere che cosa stava facendo qui proprio nell’ora che precedeva la sua riunione.»

Churchill tirò dal suo sigaro e inarcò le sopracciglia.

«Lei stava dettando un messaggio al generale Alexander, in Italia, in cui esprimeva le sue preoccupazioni circa la conduzione della battaglia di Cassino.»

L’espressione di Churchill rimase imperscrutabile. Le parole di Stefan dovevano averlo certamente sorpreso, ma non azzardò alcun cenno di incoraggiamento.

Stefan, del resto, non aveva bisogno di incoraggiamenti perché sapeva che ciò che diceva era giusto. «Dal resoconto sulla guerra che scriverà, ho memorizzato l’apertura di quel messaggio al generale Alexander, che non ha neppure finito di dettare al suo segretario quando sono arrivato: ‘Desidero che lei mi spieghi perché questo passaggio dal monastero di Montecassino eccetera, che si trova su un fronte di tre o quattro chilometri, è l’unico posto su cui continuate a ostinarvi’.»

Il primo ministro tirò un’altra boccata, lasciò uscire il fumo e studiò Stefan. Essere scrutato così intensamente da Churchill, e a una distanza così ravvicinata, fu per Stefan molto più snervante di quanto pensasse.

Alla fine il primo ministro disse: «E lei ha raccolto queste informazioni da qualcosa che io scriverò nel futuro?»

Stefan si alzò, prese i sei grossi libri che le guardie avevano estratto dal suo zaino — ristampe della Houghton Mifflin Company, pubblicate a un prezzo di 9,95 dollari ciascuna — e li dispose sul tavolo davanti a Winston Churchill. «Questa, signore, è la storia della seconda guerra mondiale in sei volumi, che sarà considerato come il resoconto definitivo di quel conflitto e che verrà definita una grande opera storica e letteraria.» Stava per aggiungere che grazie a quei libri avrebbe ottenuto il premio Nobel per la letteratura nel 1953, ma decise di non rivelarglielo. La vita sarebbe stata meno interessante se privata di simili sorprese.

Churchill esaminò le copertine di tutti e sei i volumi e si concesse un sorriso quando lesse il breve stralcio tratto dalla recensione che era apparsa nel supplemento letterario del Times. Aprì un volume e ne scorse rapidamente le pagine, ma non si fermò a leggere nulla.

«Non sono delle elaborate contraffazioni», gli assicurò Stefan. «Se si sofferma a leggere una pagina a caso, riconoscerà il suo unico e inconfondibile stile. Lei…»

«Non ho bisogno di leggerli. Le credo, Stefan Krieger.»

Scostò i libri e si appoggiò di nuovo alla poltrona. «Credo di comprendere perché lei è venuto da me. Vuole che organizzi un bombardamento aereo su Berlino e l’obiettivo dovrà essere la zona in cui si trova quell’istituto.»

«È esatto. Deve essere fatto prima che gli scienziati che lavorano all’istituto abbiano finito di studiare il materiale sulle armi nucleari che è stato portato dal futuro. Prima che si mettano d’accordo sul modo di trasmettere quelle informazioni alla comunità scientifica tedesca. Ed è solo questione di giorni. Lei deve agire prima che tornino dal futuro con qualcos’altro che possa rovesciare le sorti contro gli Alleati. Le darò la precisa posizione dell’istituto. I bombardieri americani e quelli della RAF hanno già compiuto delle incursioni, sia di giorno sia di notte, dopotutto…»

«C’è stato molto chiasso in parlamento sui bombardamenti delle città, anche quelle nemiche», sottolineò Churchill.

«Sì, ma non è Berlino che deve essere colpita. Poiché l’obiettivo è così limitato, questa missione dovrà essere effettuata di giorno. Ma se lei colpisce quella zona, se polverizzate completamente quell’isolato…»

«Diversi isolati tutt’intorno verranno ridotti in macerie», ammise il primo ministro. «Non possiamo colpire con una precisione sufficiente da distruggere gli edifici presenti in un solo isolato.»

«Sì, capisco. Ma lei deve ordinarlo, signore. Varie tonnellate di esplosivi devono essere fatte cadere su quella zona. Non deve rimanere nulla dell’istituto, solo polvere.»

Il primo ministro rimase in silenzio per qualche minuto, osservando pensieroso il sottile pennacchio di fumo azzurrognolo del sigaro. Alla fine disse: «Dovrò consultare i miei consiglieri, ovviamente, ma ritengo che non potremo organizzare e sferrare l’attacco prima di due giorni, il 22 o al più tardi il 23».

«Penso che vada bene», disse Stefan con grande sollievo. «Ma non più tardi. Per l’amor del cielo, signore, non più tardi.»

18

Mentre la donna si rannicchiava accanto al paraurti dalla parte dell’autista e controllava il deserto a nord, Klietmann la spiava da dietro un groviglio. Non lo vide. Quando si spostò dall’altra parte, dandogli le spalle, Klietmann si alzò di scatto e corse verso un altro riparo, una roccia levigata dal vento.

Il tenente si tolse le scarpe, perché le suole erano troppo lisce per quel tipo di azione. In quel momento gli sembrò veramente anacronistico il fatto che fossero venuti in missione vestiti come giovani dirigenti o, peggio, come pastori battisti. Gli occhiali, perlomeno, erano utili. Il riverbero del sole sulle pietre e sulle dune era accecante; senza gli occhiali non sarebbe stato in grado di vedere bene dove metteva i piedi e avrebbe certamente corso il rischio di scivolare e cadere più di una volta.

Stava per spostarsi nuovamente, quando sentì la donna aprire il fuoco in un’altra direzione. Certo della sua distrazione, avanzò. Poi, sentì urla così acute e prolungate da sembrare quasi disumane; sembrava il lamento di un animale selvatico dilaniato dagli artigli di un’altra creatura, ma ancora vivo.

Rabbrividendo, si rifugiò in una conca di roccia lunga e stretta che la donna non poteva individuare. Strisciò sulla pancia fino alla fine di quel budello e rimase lì, respirando affannosamente. Quando sollevò la testa per controllare la situazione, vide che si trovava circa quindici metri a nord rispetto alla portiera posteriore della Buick. Se solo avesse potuto muoversi di qualche metro verso est, si sarebbe trovato alle spalle della donna, in una posizione perfetta per ucciderla.


Le urla si spensero.

Laura immaginò che l’altro uomo che si stava spostando verso sud sarebbe rimasto nascosto ancora per un po’, sconvolto dalla morte del compagno, perciò si diresse nuovamente dall’altra parte. Mentre superava Chris, gli sussurrò: «Due minuti, due minuti al massimo».

Rannicchiandosi contro l’angolo dell’auto, Laura controllò il fianco nord. La situazione sembrava immutata. La brezza era calata e ora non si muoveva neppure l’erba.

Se c’erano solo tre uomini, sicuramente non ne avrebbero lasciato uno nascosto dietro la Toyota, mentre gli altri due cercavano di aggirarla dalla stessa direzione. Se ce n’erano tre, allora gli altri due che si trovavano a sud si sarebbero divisi e uno sarebbe andato a nord. Questo significava che doveva esserci un quarto uomo, forse un quinto, nascosto chissà dove fra quella misera vegetazione del deserto, fra le rocce o la sabbia. Ma dove?

19

Stefan espresse la propria gratitudine al primo ministro e stava per congedarsi quando Churchill, indicando i libri sul tavolo, gli disse: «Non vorrei che lei dimenticasse questi. Se li lasciasse qui… potrei avere la tentazione di plagiare me stesso!»

«È ammirevole da parte sua», replicò Stefan, «che non mi abbia chiesto di lasciarli qui, proprio a questo scopo.»

«Sciocchezze.» Churchill posò il sigaro su un portacenere e si alzò. «Se avessi quei libri con me, tutti scritti, non sarei soddisfatto di farli pubblicare così come sono. Troverei sicuramente qualcosa che deve essere rivisto e finirei per trascorrere gli anni successivi alla fine della guerra a rimaneggiarli di continuo, per scoprire, alla fine, dopo averli completati e fatti pubblicare, che ho distrutto gli elementi essenziali che nel vostro futuro li hanno resi dei classici.»

Stefan rise.

«Dico sul serio», ribadì Churchill. «Proprio lei mi ha detto che ciò che scriverò sarà considerato così importante. Diciamo che questa rivelazione mi è più che sufficiente. Scriverò ciò che ho scritto.»

«Forse questa è la soluzione più saggia», concordò Stefan.

Mentre Stefan riponeva i libri nello zaino, Churchill rimase in piedi, le mani allacciate dietro la schiena, dondolandosi leggermente sui piedi. «Ci sono tante cose che mi piacerebbe chiederle su quel futuro che sto contribuendo a formare. Cose che mi interessano molto di più del fatto che scriverò dei libri di successo.»

«Devo veramente andare, signore, ma…»

«Sì, certo», disse il primo ministro. «Non la tratterrò. Ma mi dica almeno una cosa. La curiosità mi sta uccidendo. Vediamo… per esempio, che cosa ne sarà dei sovietici dopo la guerra?»

Stefan esitò, chiuse lo zaino e rispose: «Primo ministro, sono spiacente di dirle che i sovietici diventeranno una grande potenza, molto più grande della Gran Bretagna, la seconda grande potenza dopo gli Stati Uniti».

Per la prima volta, Churchill si mostrò sorpreso. «Quel loro abominevole sistema sarà in grado di produrre un successo economico, l’abbondanza?»

«No, no. Il loro sistema li condurrà alla catastrofe dal punto di vista economico… ma acquisiranno un enorme potere militare. Lentamente e inesorabilmente, i sovietici arriveranno a militarizzare tutta la società e a eliminare tutti i dissidenti. Alcuni dicono che i loro campi di concentramento fanno concorrenza a quelli del Reich.»

L’espressione sul volto del primo ministro rimase imperscrutabile, ma non poté nascondere un lampo di preoccupazione. «Tuttavia, ora sono i nostri alleati.»

«Sì, signore. E senza di loro, forse, la guerra contro il Reich non sarebbe stata vinta.»

«Oh, l’avremmo vinta», replicò Churchill sicuro, «forse non così rapidamente.» Sospirò. «Dicono che i politici si fanno degli strani alleati, ma le alleanze che si creano in tempo di guerra sono anche più strane.»

Stefan era pronto a partire.

Si strinsero la mano.

«Il suo istituto sarà ridotto in macerie, polvere e cenere», gli promise il primo ministro. «Ha la mia parola.»

«Questa è l’unica assicurazione di cui ho bisogno», concluse Stefan.

Infilò una mano sotto la camicia e premette tre volte il pulsante.

Nello stesso istante, o così almeno parve, si ritrovò nell’istituto, a Berlino. Uscì dal tunnel e tornò al quadro di programmazione. Erano trascorsi esattamente undici minuti da quando aveva lasciato quelle stanze a prova di bomba sotto la città di Londra.

La spalla gli doleva ancora, ma il dolore non era aumentato. Quella fitta inesorabile, tuttavia, lo stava lentamente debilitando. Si sedette per un po’ sulla sedia davanti al quadro di programmazione, concedendosi qualche minuto di riposo.

Poi, usando altri dati ottenuti attraverso il computer nel 1989, programmò il suo penultimo viaggio. Questa volta avrebbe fatto un salto di cinque giorni nel futuro, sarebbe arrivato alle undici di sera del 21 marzo, in un altro quartiere sotterraneo a prova di bomba… non a Londra questa volta, ma nella sua città, Berlino.

Quando il tunnel fu pronto, entrò, anche questa volta disarmato, ma al contrario del viaggio precedente non portò con sé i sei volumi della storia di Churchill.

Quando attraversò il punto di trasmissione all’interno del tunnel, avvertì il familiare, spiacevole formicolio che dalla cute passava attraverso la carne fino al midollo e che poi immediatamente tornava indietro per la stessa via.

La stanza sotterranea in cui Stefan arrivò era illuminata da un’unica lampada situata in un angolo di una scrivania. In quella magica penombra la figura di Hitler si stagliò nitidamente.

20

Un minuto.

Laura era rannicchiata con Chris contro la Buick. Senza spostarsi, guardò prima verso sud, dove sapeva che un uomo si stava nascondendo, poi a nord dove sospettava che si celassero altri nemici.

Una calma soprannaturale era calata tutt’intorno. Senza vento, quella giornata sembrava non avere più fiato di un cadavere. Il sole emanava un tale chiarore sull’arida pianura, che la terra sembrava luminosa quanto il cielo. L’orizzonte era scomparso. Per quanto la temperatura non superasse i venticinque gradi, ogni cosa — gli arbusti, le rocce, l’erba e le dune di sabbia — sembrava essere stata saldata dal calore all’oggetto più vicino.

Un minuto.

Solo un minuto, o forse meno, prima che Stefan tornasse dal 1944. E in qualche modo sarebbe stato loro di grande aiuto, non solo perché aveva un’arma con sé, ma perché era il suo Custode. Il suo Custode. Anche se adesso conosceva bene le sue origini ed era consapevole che non era un essere soprannaturale, in qualche modo rimaneva per lei una figura in grado di compiere cose miracolose.

Nessun movimento a sud.

Nessun movimento a nord.

«Stanno arrivando», disse Chris.

«Andrà tutto bene, tesoro», mormorò Laura dolcemente. Il cuore, tuttavia, le batteva all’impazzata e non solo per la paura. Avvertiva una sensazione di sconfitta come se avesse saputo, a livello inconscio, che suo figlio, l’unico che avrebbe mai potuto avere, il figlio che non sarebbe mai dovuto nascere, era già morto. Non perché lei non fosse riuscita a proteggerlo come avrebbe dovuto, ma perché il destino non poteva essere ingannato più a lungo. No, dannazione, no! Questa volta lo avrebbe ingannato. Si sarebbe tenuta stretta suo figlio. Non lo avrebbe perso come aveva perso tante persone che aveva amato in tutti quegli anni. Chris era suo. Non apparteneva al destino. Non apparteneva al fato. Era suo. Suo. «Andrà tutto bene, tesoro.»

Solo trenta secondi, ora.

All’improvviso, vide qualcosa muoversi a sud.

21

Nello studio privato di Hitler l’arrivo di Stefan fu accompagnato dagli stessi fenomeni che si erano manifestati nella stanza sotterranea di Londra.

Da Stefan uscivano rivoli di luce accecante che scesero serpeggiando sul pavimento e sulle pareti. Quel fenomeno luminoso e rumoroso non attirò le guardie dalle altre stanze, forse anche perché in quel momento Berlino era sottoposta a un ennesimo bombardamento aereo da parte degli Alleati. Il bunker vibrò sotto l’impatto delle bombe che piovevano sulla città e anche a quella profondità il frastuono coprì i suoni che avevano accompagnato l’arrivo di Stefan.

Hitler ruotò nella sua poltrona girevole per guardare in faccia Stefan. Al pari di Churchill non mostrò alcuna sorpresa. A differenza del suo nemico, era a conoscenza dell’istituto e sapeva in che modo si era materializzato in quella stanza. Inoltre conosceva Stefan. Sapeva che era il figlio di un leale e vecchio sostenitore del regime e che era un ufficiale delle SS che da lungo tempo lavorava per la causa.

Anche se Stefan non si era aspettato di leggere sorpresa sul volto di Hitler, aveva almeno sperato che la paura alterasse i suoi lineamenti da avvoltoio. Dopotutto, se il Führer aveva letto i rapporti della Gestapo sugli ultimi avvenimenti all’istituto — cosa che aveva sicuramente fatto — sapeva che Stefan era accusato dell’omicidio di Penlovski, Januskaya e Volkaw, avvenuto sei giorni prima, e che dopo era fuggito nel futuro. Probabilmente pensava che Stefan avesse intrapreso questo viaggio per uccidere anche lui. Tuttavia, se era spaventato, controllava bene la sua paura. Rimanendo seduto, aprì con tutta calma il cassetto della scrivania e tirò fuori una Luger.

Anche se le scariche elettriche non erano ancora esaurite, Stefan alzò il braccio nel saluto nazista e con finta esaltazione disse: «Heil Hitler!» Per dimostrare immediatamente che le sue intenzioni non erano ostili, cadde in ginocchio, come se si stesse genuflettendo davanti all’altare di una chiesa e chinò il capo, facendo di sé un bersaglio facile e sottomesso. «Mein Führer, sono qui per discolparmi e per mettervi in guardia circa l’esistenza di traditori all’interno del contingente della Gestapo responsabile della sicurezza all’istituto.»

Per un lungo momento il dittatore rimase in silenzio.

Dall’alto, le onde d’urto provocate dal bombardamento notturno penetravano nella terra, attraverso gli spessi muri di cemento armato, e nel bunker si udiva un rumore continuo, sordo e sinistro. Ogni volta che una bomba cadeva nelle vicinanze, i tre dipinti, sottratti al Louvre dopo l’occupazione della Francia, sbattevano contro le pareti.

«Si alzi, Stefan», disse Hitler. «Si sieda lì.» Indicò una poltrona di pelle marrone, uno dei cinque componenti che arredavano il piccolo studio senza finestre. Appoggiò la Luger sulla scrivania, ma a portata di mano. «Non solo per il suo onore, ma anche per quello di suo padre e delle SS, spero che lei sia innocente come dichiara.»

Stefan parlò con tono energico, perché sapeva che Hitler ammirava molto la forza. Ma anche con ostentata reverenza, come se credesse veramente di essere di fronte all’uomo che impersonava lo spirito stesso del popolo tedesco, quello passato, quello presente e quello futuro. Ma più che dalla forza, Hitler era incantato dal timore riverente con cui certi suoi subordinati lo trattavano. Era una linea sottile da seguire, ma del resto non era la prima volta che Stefan incontrava quell’uomo. Sapeva come ingraziarsi quel pazzo megalomane, quella vipera nascosta sotto sembianze umane.

«Mein Führer, non sono stato io a uccidere Vladimir Penlovski, Januskaya e Volkaw. È stato Kokoschka. Era un traditore del Reich. Io l’ho sorpreso nella stanza dell’archivio, all’istituto, subito dopo che aveva sparato a Januskaya e Volkaw. In quella stessa stanza sparò anche a me.» Stefan si portò la mano alla spalla sinistra. «Posso mostrarle la ferita se desidera. Colpito, fuggii nel laboratorio principale. Ero sconvolto. Non sapevo quanti all’istituto fossero coinvolti nel suo tradimento. Non sapendo bene a chi rivolgermi, mi rimaneva un’unica possibilità per salvarmi. Fuggii attraverso il tunnel nel futuro, prima che Kokoschka potesse raggiungermi e finirmi.»

«Il rapporto del colonnello Kokoschka è alquanto diverso. Egli sostiene di averle sparato mentre stavate fuggendo attraverso il tunnel, dopo che lei aveva ucciso Penlovski e gli altri.»

«Se fosse così, mein Führer, sarei forse tornato qui per cercare di discolparmi? Se fossi un traditore che ripone la sua fiducia più nel futuro che in lei, non sarei forse rimasto in quel futuro, dov’ero al sicuro, piuttosto che tornare qui?»

«Ma era veramente al sicuro, laggiù, Stefan?» chiese Hitler sorridendo maliziosamente. «Se non ricordo male, due squadre della Gestapo prima, e in un secondo tempo una delle SS furono inviate sulle sue tracce in quell’era lontana.»

L’accenno alla squadra delle SS scosse Stefan, perché intuì che doveva trattarsi del gruppo che era arrivato a Palm Springs meno di un’ora prima dalla sua partenza, il gruppo che aveva provocato quei lampi nel limpido cielo del deserto. All’improvviso la sua preoccupazione per Laura e Chris si fece maggiore, perché l’abnegazione e il fanatismo omicida delle SS erano famosi.

Comprese anche che Hitler non era stato informato che le squadre della Gestapo erano state eliminate da una donna. Pensava che Stefan le avesse affrontate da solo, non sapendo che Stefan era rimasto in coma durante quegli scontri. Ciò fece il suo gioco. «Mein Führer, è vero, ho affrontato gli uomini inviati sulle mie tracce e lo feci in tutta coscienza perché sapevo che erano traditori, che avevano intenzione di uccidermi perché non potessi ritornare da lei e avvertirla che all’interno dell’istituto c’era, e c’è tuttora, un covo di sovversivi. Da allora Kokoschka è scomparso, dico bene? E così cinque uomini all’istituto, se ho ben compreso. Non avevano fiducia nel futuro del Reich e temendo che i loro ruoli negli omicidi del 15 marzo sarebbero presto stati scoperti, fuggirono nel futuro, per nascondersi in un’altra era.»

Stefan tacque, affinchè Hitler assimilasse quanto aveva detto.

Mentre le esplosioni cessavano, nel momento di calma Hitler lo studiò intensamente. L’attento esame di quest’uomo era diretto quanto lo era stato quello di Winston Churchill, ma non vi era nulla della chiarezza, della franchezza e della stima reciproca che aveva caratterizzato l’atteggiamento del primo ministro. Al contrario, Hitler valutava Stefan come un dio scruta una delle sue creature per trovarvi indicazione di un mutamento pericoloso. E questo era un dio malvagio che non aveva amore per le sue creature. Amava solo la realtà della loro obbedienza.

Alla fine chiese: «Se ci sono dei traditori all’interno dell’istituto, qual è il loro obiettivo?»

«Quello di ingannarla», rispose Stefan. «Presentano informazioni false sul futuro, nella speranza di incoraggiarla a commettere gravi errori militari. Le hanno detto che nell’ultimo anno e mezzo di guerra, praticamente tutte le sue decisioni militari si dimostreranno fallimentari, ma questo non è vero. Così come si presenta ora il futuro, lei perderà la guerra con uno stretto margine. Apportando qualche cambiamento alle sue strategie, lei potrà vincere.»

Il volto di Hitler si indurì, gli occhi si fecero fessure, non perché diffidasse di Stefan, ma perché improvvisamente sospettava di tutti coloro che all’istituto gli avevano detto che avrebbe commesso errori militari fatali nei giorni a venire. Stefan lo stava incoraggiando a credere nuovamente nella sua infallibilità e quel folle era semplicemente troppo desideroso di fidarsi una volta di più del suo genio.

«Con qualche piccolo cambiamento nelle mie strategie?» chiese Hitler. «E quali potrebbero essere questi cambiamenti?»

Stefan riassunse rapidamente sei modifiche nella strategia militare che sosteneva sarebbero state decisive in alcune battaglie chiave. Quei cambiamenti, non avrebbero inciso in alcun modo sul risultato e le battaglie a cui fece riferimento non sarebbero stati i principali impegni sostenuti negli ultimi anni della guerra.

Ma il Führer voleva credere che sarebbe stato quasi sicuramente un vincente invece che un sicuro perdente e prendeva i consigli di Stefan per veri, poiché suggerivano audaci strategie solo leggermente diverse da quelle che il dittatore stesso avrebbe appoggiato. Si alzò dalla sua poltrona e cominciò a passeggiare nervosamente per la piccola stanza. «Dai primi rapporti presentati dall’istituto intuii che ci doveva essere una sorta di scorrettezza nel futuro che descrivevano. Ebbi la sensazione che non potevo aver condotto questa guerra in modo così brillante e poi all’improvviso essere ostacolato da una serie così lunga di errori. Oh, certo, questo è un momento difficile, ma non durerà. Quando scatterà la tanto attesa invasione dell’Europa da parte degli Alleati, falliranno. Noi li ricacceremo indietro in mare.» Parlò quasi in un sussurro, ma con quell’enfasi caratteristica di tante sue orazioni pubbliche. «In quell’assalto fallimentare perderanno gran parte delle loro riserve. Dovranno ritirarsi su un fronte più ampio e non saranno in grado di ricostituire le loro forze e di lanciare una nuova offensiva per molti mesi. Nel frattempo rafforzeremo il nostro dominio sull’Europa, sconfiggeremo i barbari russi e saremo più forti che mai!» Smise di passeggiare, sbattè gli occhi come se uscisse da uno stato di trance e chiese: «Sì, e che cosa mi dice dell’invasione dell’Europa? Del giorno dello sbarco in Normandia, come mi è stato detto verrà chiamato? I rapporti dall’istituto dicono che gli Alleati sbarcheranno in Normandia.»

«Menzogne», rispose Stefan. Ora erano arrivati al punto cruciale. L’obiettivo principale per cui Stefan aveva intrapreso il viaggio in quel bunker. Hitler aveva saputo dall’istituto che le spiagge della Normandia sarebbero state il luogo in cui sarebbe avvenuta l’invasione. Nel futuro che il destino aveva predestinato per lui, il Fiihrer avrebbe valutato erroneamente le mosse degli Alleati preparandosi a uno sbarco in un’altra località, lasciando la Normandia priva di adeguate difese. Doveva essere incoraggiato a perseguire la strategia che avrebbe seguito se l’istituto non fosse mai esistito. Doveva perdere la guerra com’era scritto nel destino ed era compito di Stefan distruggere la fiducia nell’istituto e assicurare perciò il successo dello sbarco in Normandia.

22

Klietmann era riuscito a spostarsi ancora di qualche metro a est, oltre la Buick, aggirando la donna di fianco. Giaceva prono dietro un piccolo ammasso di roccia bianca venata da quarzo azzurrognolo, e attendeva che Hubatsch facesse una mossa per distrarre la donna. A questo punto Klietmann si sarebbe lanciato fuori dal suo nascondiglio e le si sarebbe avvicinato facendo fuoco mentre correva. L’avrebbe fatta a pezzi prima che potesse avere la possibilità di voltarsi e guardare in faccia il suo esecutore.

Forza, sergente, non stare lì rannicchiato come un ebreo codardo, pensò Klietmann con ira selvaggia. Vieni fuori. Attira il suo fuoco.

Un istante dopo Hubatsch uscì dal suo nascondiglio e la donna lo vide mentre correva. Mentre puntava la sua attenzione su Hubatsch, Klietmann sgusciò fuori dalla roccia venata di quarzo.

23

Nel bunker, seduto nella poltrona di pelle, Stefan si sporse in avanti e disse: «Menzogne, tutte menzogne, mein Führer. Questo tentativo di farla convergere erroneamente verso la Normandia è la parte principale del complotto tramato da quei sovversivi nell’istituto. Vogliono costringerla a commettere un errore grossolano che lei non è veramente destinato a fare. Vogliono che lei focalizzi la sua attenzione sulla Normandia, quando la vera invasione avverrà a…»

«Calais!» esclamò Hitler.

«Sì.»

«Lo sapevo che sarebbe avvenuta nella zona di Calais, molto più a nord della Normandia. Attraverseranno il canale dov’è più stretto.»

«Esatto, mein Führer», disse Stefan. «Le truppe sbarcheranno in Normandia il 7 giugno.»

In realtà sarebbe stato il 6 giugno, ma le condizioni atmosferiche quel giorno erano così cattive che l’alto comando tedesco non avrebbe ritenuto gli Alleati in grado di condurre l’operazione in mari così agitati.

«Ma si tratterà di un piccolo contingente, una tattica di diversione, mentre il vero e proprio fronte si aprirà successivamente vicino a Calais.»

Quest’ultima informazione confermò al dittatore la propria infallibilità. Tornò alla poltrona e sferrò un pugno sulla scrivania. «Questo sa di realtà, Stefan. Ma… ho visto documenti, pagine selezionate dai resoconti della guerra che sono stati riportati dal futuro…»

«Falsi», replicò Stefan, contando sulla paranoia dell’uomo per far sembrare plausibile quella bugia. «Invece di mostrarle documenti reali dal futuro, hanno creato dei falsi per ingannarla.»

Per fortuna, il bombardamento dell’istituto promesso da Churchill avrebbe avuto luogo l’indomani. Il tunnel sarebbe stato distrutto e con esso tutti coloro che sapevano come ricrearlo e tutto il materiale portato dal futuro. E Hitler non avrebbe avuto la possibilità di condurre un’accurata ricerca per verificare la veridicità di quanto Stefan aveva detto.

Il Führer rimase in silenzio per un minuto, lo sguardo fisso sulla Luger posata sulla scrivania, assorto nei suoi pensieri. Sopra, il bombardamento ricominciò in tutta la sua violenza, facendo tremare i quadri e i muri.

Stefan attese con ansia di scoprire se era stato creduto.

«In che modo è venuto da me?» chiese Hitler. «Come ha fatto a usare il tunnel? Voglio dire, tra la scomparsa di Kokoschka e gli altri cinque uomini è stato sorvegliato scrupolosamente.»

«Non sono venuto qui attraverso il tunnel», rispose Stefan. «Sono arrivato direttamente dal futuro, utilizzando solo la cintura.»

Questa era la menzogna più audace. La cintura non era una macchina del tempo, era solo uno strumento che consentiva di tornare all’istituto a chi l’avesse indossata. Contava sull’ignoranza dei politici per salvarsi. Avevano una conoscenza superficiale di tutto quello che avveniva. Hitler era a conoscenza del tunnel e del viaggio nel tempo, ovviamente, ma probabilmente solo in linea generale. Poteva non essere al corrente della maggior parte dei dettagli, come per esempio il reale funzionamento della cintura.

Se Hitler avesse intuito che Stefan era venuto dall’istituto, dopo esservi tornato utilizzando la cintura di Kokoschka, avrebbe compreso che era stato Stefan a far scomparire Kokoschka e gli altri cinque uomini e che non c’erano dei traditori.

A quel punto tutta l’elaborata storia del complotto sarebbe crollata e Stefan sarebbe stato un uomo morto.

Corrugando le sopracciglia, il dittatore disse: «Lei ha usato la cintura senza il tunnel? È possibile?»

Stefan aveva la bocca arida per la paura, ma rispose con convinzione: «Oh, sì, mein Führer. È abbastanza semplice… regolare la cintura e usarla non solo per dirigersi sulla traiettoria del tunnel, ma per spostarsi nel tempo come si desidera. Ed è una fortuna che questo sia possibile, perché altrimenti, se fossi dovuto tornare al tunnel per venire qui, sarei stato fermato dagli ebrei che lo controllano».

«Ebrei?» ripetè Hitler, sbigottito.

«Sì, signore. Credo che il complotto all’interno dell’istituto sia organizzato da membri del personale che hanno sangue ebreo, ma che hanno celato le loro vere origini.»

Sul volto del folle si dipinse una rabbia improvvisa. «Ebrei. Sempre lo stesso problema. Ovunque lo stesso problema. Adesso anche all’istituto.»

Dopo aver udito quelle parole, Stefan fu certo di aver riportato il corso della storia sul giusto cammino.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

24

Laura disse: «Chris, penso che sia meglio che tu ti nasconda sotto l’auto». Mentre pronunciava quelle parole, l’uomo a sudovest uscì allo scoperto e si precipitò verso di lei e verso il misero riparo offerto da un’altra piccola duna.

Laura scattò in piedi, sicura che la Buick l’avrebbe riparata dall’altro uomo che si nascondeva dietro la Toyota, e aprì il fuoco. La prima dozzina di colpi sollevò sabbia e schegge di roccia, ma poi le pallottole colpirono l’uomo, ferendolo alle gambe. Cadde urlando e fu colpito nuovamente. Sussultò e poi precipitò nel canalone.

Mentre l’uomo scivolava nel canale, Laura udì il suono di un’arma automatica, ma non proveniva dalla Toyota, bensì dietro di lei. Prima che potesse voltarsi per fronteggiare quella nuova minaccia, fu colpita ripetutamente alla schiena e venne proiettata in avanti, il viso contro la dura roccia.

25

«Ebrei», ripetè Hitler con rabbia, poi: «e di questa arma nucleare che dicono possa farci vincere la guerra, che cosa ne sa?»

«Un’altra menzogna, mein Führer. Per quanti tentativi siano stati fatti nel futuro per sviluppare un’arma di questo tipo, non è mai stato raggiunto un risultato concreto. Questa è una storia che i cospiratori hanno inventato per far convergere ancora una volta le risorse e le energie del Reich in una direzione errata.» Un tremendo boato giunse attraverso le pareti, come se non fossero sotto terra, ma sospesi in alto, nel cielo, nel mezzo di una tempesta.

Le cornici massicce dei quadri sbatterono contro il cemento.

Hitler incontrò lo sguardo di Stefan e lo studiò per un lungo momento, poi disse: «Suppongo che se lei non mi fosse fedele, sarebbe semplicemente venuto armato e mi avrebbe ucciso nell’attimo in cui è giunto qui».

Stefan aveva considerato questa soluzione. Perché solo uccidendo Adolf Hitler avrebbe potuto alleggerirsi la coscienza. Ma sarebbe stato un atto egoistico, perché eliminando Hitler avrebbe radicalmente cambiato il corso della storia e avrebbe messo in pericolo il futuro che conosceva. Non poteva dimenticare che il suo futuro era il passato di Laura. Se si fosse intromesso per mutare il corso degli eventi, forse avrebbe mutato in peggio il mondo in generale e in particolare per Laura. Che cosa sarebbe successo se, dopo aver ucciso Hitler ed essere tornato nel 1989, avesse ritrovato un mondo così radicalmente alterato tanto che Laura non era mai neppure nata?

Voleva uccidere quel serpente in vesti umane, ma non poteva prendersi la responsabilità di ciò che ne sarebbe seguito. Il buonsenso diceva che ne sarebbe potuto risultare solo un mondo migliore, ma sapeva che il buonsenso e il destino erano concetti che si escludevano reciprocamente.

«Sì», disse Stefan, «se fossi stato un traditore, mein Führer, avrei fatto esattamente quello che ha detto e temo che i veri traditori, all’istituto, prima o poi possano pensare proprio a questo metodo per assassinarla.»

Hitler impallidì. «Domani farò chiudere l’istituto. Il tunnel sarà chiuso finché dal personale non verranno epurati i traditori.»

È probabile che i bombardieri di Churchill ti battano sul tempo, pensò Stefan.

«Vinceremo, Stefan, e ci riusciremo prestando fede al nostro grande destino, non giocando a fare gli indovini. Vinceremo perché così è scritto nel destino.»

«Sì, è il nostro destino», concordò Stefan. «Siamo dalla parte della verità.»

Un sorriso illuminò il volto di quel folle. Sopraffatto da un sentimentalismo che risultava strano a causa del cambiamento repentino di umore, Hitler parlò a Stefan di suo padre, Franz, e dei primi periodi trascorsi a Monaco: gli incontri segreti nell’appartamento di Anton Drexler, le riunioni pubbliche nelle birrerie, la Hofbräuhaus e la Eberlbräu.

Stefan lo ascoltò per un po’, fingendosi affascinato, ma quando Hitler espresse la sua rinnovata e incrollabile fede nel figlio di Franz Krieger, Stefan colse l’opportunità per andarsene. «E io, mein Fiihrer, ho eterna fiducia in lei e sarò per sempre il suo fedele discepolo.» Si alzò, salutò il dittatore e infilò una mano sotto la camicia per raggiungere la cintura. «Ora, devo ritornare nel futuro. Ho un’altra missione da compiere per suo conto.»

«Andar via?» disse Hitler, alzandosi dalla poltrona. «Ma io pensavo che sarebbe rimasto nella nostra era, adesso. Perché partire proprio ora che si è discolpato?»

«Credo di sapere in quale angolo del futuro sia nascosto Kokoschka. Devo trovarlo e riportarlo qui. Forse solo lui conosce i nomi dei traditori che stanno cospirando all’istituto e possiamo costringerlo a rivelarceli.»

Salutò velocemente, schiacciò il pulsante sulla cintura e lasciò il bunker prima che Hitler potesse rispondere.

Ritornò all’istituto la sera del 16 marzo, la stessa sera in cui Kokoschka era partito per le San Bernardino Mountains, per tendergli una trappola. Il viaggio da cui non fece mai ritorno.

Impegnandosi al massimo, era riuscito a predisporre la distruzione dell’istituto e a fare in modo che Hitler dubitasse di qualsiasi informazione che da lì proveniva. Avrebbe esultato se non fosse stato così preoccupato per quella squadra di SS che apparentemente stava minacciando Laura nel 1989.

Inserì i dati nel quadro di programmazione per compiere il suo ultimo viaggio: nel deserto a qualche chilometro da Palm Springs, dove Laura e Chris lo stavano aspettando in quel mattino del 27 gennaio 1989.

26

Quando l’impatto dei colpi la scaraventò a terra, Laura capì che la colonna vertebrale era stata lesa da una delle pallottole perché non sentiva alcun dolore, nessun tipo di sensazione nella parte del corpo dal collo in giù.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

Il fuoco cessò.

Riusciva a muovere solo la testa, tanto da voltarsi e vedere Chris ai suoi piedi, davanti alla Buick, paralizzato dal terrore come lo era lei dalle pallottole che le avevano spezzato la spina dorsale. A una quindicina di metri si stava avvicinando verso di loro un uomo con gli occhiali da sole, una camicia bianca e un paio di pantaloni neri. In mano aveva un fucile mitragliatore.

«Chris», esclamò Laura, «corri! Corri!»

Il volto del bambino assunse un’espressione di profondo dolore, come se sapesse che la stava lasciando lì a morire. Poi corse più veloce che poté, per quanto glielo consentivano le sue corte gambe; corse verso est nel deserto, zigzagando, cercando di essere il più possibile un obiettivo difficile da colpire.

Laura vide che il killer alzava il mitragliatore.


Nel laboratorio principale Stefan aprì lo sportello che ricopriva il registratore automatico dei viaggi.

Su una bobina di carta erano indicati i viaggi effettuati quella sera attraverso il tunnel, tra cui uno al 10 gennaio 1988, il viaggio che Heinrich Kokoschka aveva fatto sulle San Bernardino Mountains, quando aveva ucciso Danny Packard. Erano indicati anche altri otto viaggi nell’anno 6.000.000.000 — i cinque uomini e i tre gruppi di animali — e anche i viaggi di Stefan: il 20 marzo 1944 con le latitudini e le longitudini del sotterraneo a prova di bomba vicino a St. James’s Park a Londra, il 21 marzo 1944, con le latitudini e longitudini precise del bunker di Hitler, e la destinazione del viaggio che aveva appena programmato ma non aveva ancora fatto: Palm Springs, 27 gennaio 1989. Stracciò il nastro, s’impadronì delle prove e rimise a posto la bobina. Aveva già sistemato gli orologi sul quadro di programmazione in modo che si azzerassero una volta che fosse passato attraverso il tunnel. Avrebbero scoperto che qualcuno aveva manipolato le registrazioni, ma avrebbero pensato che fossero stati Kokoschka e gli altri cinque fuggiaschi per occultare le loro tracce. Chiuse lo sportello e si infilò lo zaino pieno dei libri di Churchill. Si mise sulla spalla l’Uzi e prese la pistola munita di silenziatore che aveva appoggiato sul bancone del laboratorio.

Diede una rapida occhiata alla stanza per controllare di non avere dimenticato qualcosa che avrebbe potuto tradire la sua presenza lì quella notte. I tabulati dell’IBM erano già in tasca. La bomboletta di Vexxon era già stata da tempo inviata nel futuro. Sembrava non avesse dimenticato nulla.

Entrò nel tunnel e si avvicinò al punto di trasmissione carico di una speranza che in tanti anni non aveva mai osato nutrire. Era riuscito ad assicurare la distruzione dell’istituto e la sconfitta della Germania nazista attraverso una serie di manipolazioni del tempo e delle persone, perciò sicuramente lui e Laura sarebbero stati in grado di affrontare quell’unica squadra di SS che si trovava in qualche punto di Palm Springs nel 1989.


Immobilizzata a terra, Laura urlò: «No!» Quell’esclamazione uscì in un sussurro, perché non aveva la forza né il fiato a sufficienza per fare di più.

L’uomo aprì il fuoco su Chris e per un attimo Laura ebbe la certezza che il bambino sarebbe riuscito a evitare i proiettili correndo a zigzag. Non era che un’ultima disperata fantasia, ovviamente, perché era solo un piccolo bambino, ed era proprio a portata di tiro quando i proiettili lo colpirono, trafiggendogli la fragile schiena e gettandolo nella sabbia, dove rimase immobile in una pozza di sangue.

Se anche avesse percepito tutto il dolore del suo corpo straziato non sarebbe stato che una milionesima parte di quella lancinante angoscia che la colse alla vista del corpo senza vita di suo figlio. Attraverso tutte le tragedie della sua vita, non aveva conosciuto un dolore uguale. Era come se tutte le perdite che aveva subito — la madre che non aveva mai conosciuto, il padre, Nina Dockweiler, la piccola Ruthie e Danny, per il quale avrebbe dato volentieri la sua vita — si rinnovassero in questa nuova brutalità che il destino le aveva riservato, perciò non solo sentì il lancinante dolore per la morte di Chris, ma percepì ancora una volta la terribile agonia di tutte le morti precedenti. Giaceva paralizzata e insensibile ma in un profondo tormento, spiritualmente lacerata, emotivamente spezzata sull’odiosa ruota del destino. Non era più in grado di essere coraggiosa, non era più in grado di sperare o di prendersi cura di qualcuno. Suo figlio era morto. Non era riuscita a salvarlo e con lui tutte le prospettive di gioia erano morte. Si sentì terribilmente sola in un freddo e ostile universo. Ora l’unico suo desiderio era morire. Entrare nel vuoto, nell’infinito nulla. Porre fine a quel tormento.

Vide l’uomo che si avvicinava.

Laura disse: «Mi uccida. Per favore mi uccida». Ma la sua voce era così debole che probabilmente lui non la udì.

Qual era il significato della sua vita? Qual era stato il senso di tutte le tragedie che aveva dovuto sopportare? Perché aveva dovuto soffrire e continuare a vivere se tutto doveva finire in quel modo? Qual era la coscienza crudele che stava dietro l’operato dell’universo, che la costringeva a lottare in una vita travagliata che alla fine risultava non aver alcun significato o scopo apparente?

Christopher era morto.

Sentì le lacrime rigarle il volto, ma quello era tutto ciò che riusciva a sentire fisicamente, quello e la durezza della roccia contro la guancia destra.

In breve l’uomo la raggiunse dominandola dall’alto e le sferrò un calcio nel fianco. Laura non sentì assolutamente nulla.

«Mi uccida», mormorò.

Si sentì improvvisamente terrorizzata al pensiero che il destino avrebbe cercato di riproporre anche troppo fedelmente il modello che era stato predestinato e in quel caso le sarebbe stato permesso di vivere ma solo sulla sedia a rotelle dalla quale Stefan l’aveva salvata quando aveva modificato le circostanze della sua nascita. Chris era il figlio che non aveva mai fatto parte dei piani del destino e ora era stato cancellato dall’esistenza. Ma lei avrebbe anche potuto non esserlo, perché nel suo destino era scritto che doveva vivere come storpia.

In quel momento vide davanti a sé il suo futuro: viva, paraplegica, condannata su una sedia a rotelle, ma intrappolata in qualcosa di molto più tremendo, intrappolata in una vita di tragedia, di amari ricordi, di infinito dolore, nell’intollerabile desiderio di suo figlio, di suo marito, di suo padre e di tutte le altre persone che aveva perso.

«Oh, Dio, la prego, la prego mi uccida!»

L’uomo che la stava scrutando dall’alto sorrise e disse: «Be’, devo essere un messaggero di Dio».

Rise in modo sgradevole. «Comunque, esaudirò la sua preghiera.»

Ci fu un saettare di lampi e rombi di tuono nel deserto.


Grazie ai calcoli ottenuti attraverso il computer Stefan tornò nel punto esatto del deserto da cui era partito. Esattamente cinque minuti dopo la sua partenza. La prima cosa che vide nell’accecante luce del deserto fu il corpo insanguinato di Laura e l’ufficiale delle SS accanto a lei. Poi, un po’ più in là, vide Chris.

L’uomo armato reagì ai tuoni e ai lampi, e cominciò a girarsi da una parte all’altra alla ricerca di Stefan.

Stefan premette il bottone sulla sua cintura per tre volte. La pressione dell’aria aumentò immediatamente; l’odore di cavi elettrici bruciati e di ozono riempì la zona.

Il criminale lo scorse, alzò il fucile mitragliatore e aprì il fuoco, dapprima a vuoto, poi spianò l’arma direttamente su di lui.

Prima che le pallottole potessero colpirlo, Stefan scomparve dal 1989 e tornò all’istituto, alla sera del 16 marzo 1944.


«Merda!» esclamò Klietmann quando vide che Krieger era svanito nuovamente nel flusso del tempo, illeso.

Bracher aveva lasciato il suo nascondiglio dietro la Toyota e stava arrivando correndo e gridando: «Era lui! Era lui!»

«Lo so che era lui», disse Klietmann quando Bracher lo raggiunse. «Chi altri poteva essere, Cristo risorto per la seconda volta?»

«Ma che cosa sta architettando?» chiese Bracher. «Perché è tornato indietro? Che cosa sta succedendo qui?»

«Non lo so», rispose Klietmann irritato. Poi rivolse lo sguardo alla donna gravemente ferita e le disse: «Tutto ciò che so è che ha visto lei e il cadavere di suo figlio e non ha neanche cercato di uccidermi per ciò che le ho fatto. Ha tagliato la corda, pensando bene di salvare la pelle. Che cosa pensa del suo eroe adesso?»

Laura non faceva che pregarlo di ucciderla.

Klietmann si allontanò di qualche passo dalla donna e disse: «Bracher, fatti in là».

Bracher si spostò e Klietmann fece partire una raffica di dieci o venti colpi, che raggiunsero la donna, uccidendola sul colpo.

«Avremmo potuto interrogarla», disse il caporale Bracher. «Farle delle domande su Krieger, su ciò che stava facendo qui…»

«Era paralizzata», spiegò Klietmann con impazienza. «Non riusciva a sentire nulla. Le ho dato un calcio nel fianco e devo averle rotto qualche costola e lei non ha neanche gridato. Non puoi costringere qualcuno a parlare quando non sente neanche il dolore.»


16 marzo 1944. L’istituto.

Stefan balzò fuori dal tunnel e corse al quadro di programmazione. Il cuore gli batteva in petto come il martello di un maniscalco. Dalla tasca tirò fuori il foglio in cui erano scritti i dati elaborati con il computer e lo aprì sulla piccola scrivania.

Si sedette, prese una matita e da un cassetto estrasse un blocco. Le mani gli tremavano tanto che fece cadere la matita per ben due volte.

Aveva già i dati che gli consentivano di tornare in quel deserto cinque minuti dopo che ne era partito. Da quelle cifre poteva risalire a nuovi dati che lo avrebbero riportato nello stesso luogo quattro minuti e cinquantacinque secondi prima, cioè solo cinque secondi dopo che aveva lasciato Laura e Chris.

Se fosse tornato solo dopo cinque secondi, gli assassini delle SS probabilmente non avevano ancora ucciso Laura e il bambino. Stefan avrebbe potuto dare il suo contributo e forse sarebbe stato sufficiente a mutare il destino.

Aveva appreso i procedimenti matematici necessari quando era stato assegnato all’istituto, nell’autunno del 1943. Era in grado di farli. Il lavoro non era impossibile perché non doveva cominciare da zero, doveva semplicemente perfezionare i dati che già possedeva, tornare indietro di qualche minuto.

Ma rimase a fissare il foglio, senza riuscire a pensare. Laura e Chris erano morti.

Senza di loro non aveva nulla.

Puoi riaverli, si disse. Dannazione, concentrati! Puoi fermare tutto prima che accada.

Si mise a lavorare di buona lena per circa un’ora. Sapeva che era improbabile che qualcuno venisse all’istituto a un’ora così tarda e lo scoprisse, ma più volte credette udire dei passi nel corridoio. Si voltò più di una volta verso il tunnel, quasi convinto che i cinque cadaveri stessero tornando dallo spazio in qualche modo rivitalizzati, per dargli la caccia.

Una volta terminati i calcoli, li controllò due volte e poi introdusse i dati nel quadro di programmazione. Tenendo in una mano la mitragliatrice e nell’altra la pistola, entrò nel tunnel e oltrepassò il punto di trasmissione…

… e ritornò all’istituto…

Rimase immobile per un momento, sorpreso, confuso. Poi oltrepassò nuovamente il campo energetico…

… e ritornò all’istituto.

La spiegazione di quel fatto lo colpì con tale forza che si sentì come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Non poteva anticipare il suo rientro ora, perché si era già materializzato in quel punto cinque minuti dopo la sua partenza; se fosse ritornato ora avrebbe creato una situazione in cui sarebbe sicuramente stato lì a vedere se stesso che arrivava per la prima volta. Paradosso! Il meccanismo del cosmo escludeva che un viaggiatore del tempo potesse incontrare se stesso in qualsiasi punto lungo il flusso del tempo. Ogni volta che un tale viaggio veniva tentato, falliva invariabilmente. La natura disprezzava i paradossi.

Gli tornarono alla mente le parole di Chris, quando in quella squallida stanza d’albergo avevano discusso per la prima volta dell’argomento: «Paradosso! Non è una cosa fantastica, mamma? Non è incredibile? Non è grandioso?» E quella risata accattivante, infantile.

Ma doveva esserci un modo.

Tornò al quadro di programmazione, appoggiò le armi sulla scrivania e si sedette.

Grondava sudore. Si asciugò il volto sulla manica della camicia.

Doveva pensare.

Fissò l’Uzi e si chiese se almeno poteva mandarle quello. Probabilmente no. Quando era tornato la prima volta aveva con sé il fucile mitragliatore e la pistola, perciò se avesse mandato uno o l’altra quattro minuti e cinquantacinque secondi prima, sarebbero esistiti due volte nello stesso luogo, quando si sarebbe ripresentato quattro minuti e cinquantacinque secondi dopo. Paradosso.

Ma forse poteva mandarle qualcos’altro, qualcosa che proveniva da quella stanza, qualcosa che non aveva portato con sé e che perciò non avrebbe creato un paradosso.

Spostò da una parte le armi, prese la matita e scrisse un breve messaggio su un foglio di carta: «SE RIMANETE ACCANTO ALLA MACCHINA LE SS VI UCCIDERANNO. ANDATE VIA. NASCONDETEVI». Si fermò un attimo a pensare. Dove potevano nascondersi in quella piatta pianura desertica? Scrisse: «MAGARI NEL CANALONE». Strappò il foglietto dal blocco. Poi, come se ci avesse ripensato, aggiunse velocemente: «LA BOMBOLETTA DI VEXXON. ANCHE QUELLA È UN’ARMA». Aprì i cassetti del bancone alla ricerca di una bottiglia con un collo stretto, ma in quel laboratorio non c’erano recipienti di quel genere. Percorse in lungo e in largo il corridoio cercando negli altri laboratori, finché trovò ciò di cui aveva bisogno.

Tornò nel laboratorio principale e tenendo in mano la bottiglia in cui aveva introdotto il foglio di carta, entrò nel tunnel e si avvicinò al punto di trasmissione. Gettò l’oggetto attraverso il campo energetico come se fosse un uomo naufragato su un’isola che gettava in mare una bottiglia con un messaggio.

Questa volta non tornò indietro.


… ma il temporaneo vuoto fu seguito da una folata di vento caldo pregna del debole profumo alcalino del deserto. Tenendosi stretto a Laura, Chris disse: «Accidenti, hai visto che roba, mamma? Non è fantastico?»

Laura non rispose perché aveva notato una macchina bianca che aveva abbandonato la strada e stava avanzando nel deserto.

Lampi e tuoni scossero di nuovo il giorno, lasciandola senza parole, e una bottiglia di vetro apparve a mezz’aria, cadde ai suoi piedi, frantumandosi sulla roccia. Vide che all’interno c’era un foglio.

Chris afferrò il foglio fra i cocci di vetro. Con la disinvoltura abituale che dimostrava in queste faccende, esclamò: «Dev’essere di Stefan!»

Laura prese il foglio, lesse il messaggio, consapevole che la macchina bianca aveva svoltato verso di loro. Non capiva come e perché quel messaggio fosse stato inviato, ma ci credeva. Terminato di leggere, mentre continuava a lampeggiare e tuonare, udì il motore della macchina bianca.

Sollevò lo sguardo e vide il veicolo avanzare sobbalzando verso di loro, sempre più rapidamente, mentre l’autista accelerava. Erano a circa trecento metri di distanza, ma si stavano avvicinando alla massima velocità che quel terreno impervio consentiva.

«Chris, prendi i due Uzi dalla macchina. Ci incontriamo sul bordo del canalone. Sbrigati!»

Mentre il bambino correva verso la portiera aperta della Buick, Laura si affrettò verso il bagagliaio aperto. Afferrò la bomboletta di Vexxon e raggiunse Chris prima che questi arrivasse sul bordo del profondo canale che durante le piene diventava un fiume tumultuoso, mentre ora era secco.

L’auto bianca era a meno di centocinquanta metri.

«Vieni», disse Laura, portandolo verso est, lungo il bordo, «Dobbiamo trovare un modo per scendere nel canale.»

Le pareti declinavano leggermente verso il fondo, nove metri più in giù, ma solo leggermente. L’erosione aveva scavato dei canaletti verticali che portavano sul fondo del canale principale, alcuni non più larghi di qualche centimetro, altri anche di due metri. Durante un temporale, l’acqua piovana trascinava con sé i detriti del deserto, riversandoli sul fondo del canale. In alcuni la terra era stata trascinata via mettendo a nudo delle rocce che non avrebbero consentito una discesa veloce, mentre altri erano parzialmente bloccati da robusti cespugli che si erano radicati profondamente nelle pareti.

A meno di un centinaio di metri, l’auto aveva lasciato la superficie rocciosa, si era inoltrata nella zona sabbiosa, e quindi era stata costretta a rallentare.

Laura aveva percorso appena una ventina di metri lungo il bordo del canale, quando scoprì una specie di sentiero che portava direttamente sul fondo di quel fiume in secca, non ostruito da rocce o arbusti. Ciò che aveva di fronte era essenzialmente uno scivolo di terra battuta, levigato dall’acqua, largo circa un metro e mezzo e lungo nove.

Lasciò andare la bombola di Vexxon che rotolò fino a metà senza fermarsi.

Si fece dare da Chris uno degli Uzi, si voltò in direzione della macchina, che ora era a circa una settantina di metri, e aprì il fuoco. Vide che le pallottole avevano perforato almeno in due punti il parabrezza. Il resto del vetro si incrinò all’istante.

L’auto, riuscì a vedere che era una Toyota, compì un intero giro su se stessa, poi girò di altri novanta gradi, sollevando nuvole di polvere e sradicando un paio di cespugli ancora verdi. Si arrestò a una quarantina di metri dalla Buick e a circa sessanta da lei e Chris, l’estremità anteriore puntata verso nord. Sull’altro lato le portiere si spalancarono. Laura sapeva che gli occupanti stavano sgattaiolando fuori proprio dalla parte in cui non poteva vederli, rimanendo bassi.

Si fece dare l’altro Uzi da Chris e ordinò: «Buttati giù, Chris! Quando arrivi alla bomboletta di gas, spingila davanti a te finché arriva sul fondo».

Si lasciò scivolare lungo la parete del canale, sospinto dalla forza di gravita e solo un paio di volte dovette aiutarsi, quando l’attrito lo fermava. Era esattamente il genere di prodezza che, in altre circostanze, avrebbe fatto rizzare i capelli a una madre. Ora, invece, Laura lo aveva addirittura incitato.

Laura scaricò contro la Toyota almeno un centinaio di colpi, nella speranza di forare il serbatoio della benzina e di incendiarla grazie a una provvidenziale pallottola, mandando così arrosto quei bastardi che si nascondevano dall’altra parte.

Riuscì solo a svuotare il caricatore, senza ottenere il risultato desiderato.

Quando smise di sparare, dalla macchina risposero al fuoco. Ma non si offrì a lungo come bersaglio. Con il secondo Uzi stretto fra le mani, si sedette sul bordo del canalone e si lasciò andare lungo la discesa che Chris aveva già usato. In pochi secondi raggiunse il fondo.

Sul fondo del burrone c’erano fasci rinsecchiti di erba precipitata dal deserto. Tronchi nodosi e legname ingrigito dal tempo, trascinati via da qualche baracca in rovina e qualche pietra coprivano il morbido terreno che formava il letto del torrente. Ma nulla offriva un posto dove nascondersi o proteggersi dal fuoco che presto sarebbe stato diretto contro di loro.

«Mamma?» chiese Chris, con l’aria di voler dire: «che cosa facciamo adesso?»

Il canale doveva avere decine di affluenti sparsi per il deserto e molti di questi probabilmente ne avevano a loro volta. Quel bacino idrografico era come un labirinto. Non avrebbero potuto nascondersi per sempre, ma forse ponendo fra sé e gli inseguitori qualche ramo ausiliario di quel sistema, avrebbero guadagnato tempo per studiare un’imboscata.

Laura disse: «Corri, Chris, segui il canale principale e poi gira nel primo ramo che incontri alla tua destra e aspettami lì».

«E tu che cosa fai?»

«Io aspetterò che si sporgano dal bordo», rispose Laura, indicando la cima della parete, «poi li faccio fuori se ci riesco. Ma ora vai. Vai.»

Chris si mise a correre. Lasciando la bomboletta di Vexxon bene in vista, Laura tornò alla parete dalla quale era discesa. Ma si avvicinò a un altro canale verticale, più profondo e meno inclinato e che a metà era semiostruito da un cespuglio. Si nascose in quella profonda cavità, sicura che grazie al cespuglio non l’avrebbero vista da sopra.

A est, Chris svanì dietro una curva, infilandosi in un affluente del canale principale.

Un attimo dopo Laura sentì le voci. Attese pazientemente, dando loro il tempo di credere che sia lei sia Chris se ne fossero andati. Poi uscì all’improvviso dalla sua tana, si voltò e mitragliò la cima del burrone.

Quattro uomini si erano affacciati per controllare la situazione. Laura uccise i primi due, ma il terzo e il quarto scattarono all’indietro prima che le pallottole potessero raggiungerli. Uno dei cadaveri si fermò sul bordo del canale, un braccio e una gamba sospesi nel vuoto. L’altro precipitò sul fondo, perdendo gli occhiali durante il volo.


16 marzo 1944. Istituto.

Quando vide che la bottiglia con il messaggio non era tornata indietro, Stefan fu abbastanza sicuro che Laura l’avesse ricevuta solo qualche secondo dopo la sua prima partenza dal 1944, prima di essere uccisa.

Tornò alla scrivania e si apprestò a fare nuovi calcoli che lo avrebbero riportato nel deserto qualche minuto dopo il suo precedente arrivo. Questo viaggio era possibile in quanto sarebbe arrivato dopo quella frettolosa partenza e quindi non c’era pericolo che incontrasse se stesso, non c’era paradosso.

Anche questa volta i calcoli non erano terribilmente difficili perché doveva solo rivedere i dati che già possedeva. Benché sapesse che nella sua dimensione il tempo trascorreva diversamente che nel 1989, era ansioso di ricongiungersi a Laura.

Anche se aveva seguito il consiglio contenuto nel messaggio, anche se il futuro che aveva visto era mutato e Laura era ancora viva, avrebbe comunque dovuto affrontare gli uomini delle SS e senza dubbio aveva bisogno di aiuto. Dopo soli quaranta minuti aveva i dati che gli occorrevano. Riprogrammò il tunnel.

Riaprì lo sportello del registratore dei viaggi e fece sparire il pezzo di carta su cui erano registrate le prove.

Impugnò l’Uzi e la pistola, strinse i denti per il dolore sempre più lancinante alla spalla ed entrò nel tunnel.


Abbracciando il contenitore di Vexxon e l’Uzi, Laura raggiunse Chris nello stretto canaletto, a una ventina di metri di distanza dal punto in cui erano discesi. Si accovacciò dietro l’angolo formato dalle due pareti e tenne d’occhio il canalone principale da cui era arrivata.

Più in alto, uno dei due sopravvissuti spinse il corpo privo di vita del compagno giù per la scarpata, apparentemente per accertarsi se Laura era ancora sotto di loro e, tratta in inganno, sarebbe uscita allo scoperto. Non udendo spari, i due uomini si fecero più baldanzosi. Uno rimase sul bordo del canalone per coprire il compagno mentre scendeva e questi, una volta raggiunto il fondo, coprì a sua volta la discesa dell’altro.

Quando anche l’altro raggiunse il fondo, Laura, con una mossa audace, lasciò il suo nascondiglio e fece partire una raffica. Furono colti così di sorpresa che non risposero nemmeno al fuoco ma si gettarono verso la parete del canale, alla ricerca di un rifugio in uno dei profondi canali verticali, proprio come aveva fatto lei quando aveva atteso il momento propizio per colpirli. Solo uno ce la fece. Laura riuscì ad abbattere l’altro.

Tornò dietro l’angolo, afferrò la bombola di gas nervino e disse a Chris: «Forza, sbrighiamoci».

Mentre correvano cercando in quel dedalo un altro corridoio, lampi e tuoni squarciarono il cielo azzurro sopra di loro.

«Stefan!» esclamò Chris.


Ritornò nel deserto sette minuti dopo che era partito alla volta del 1944 per incontrare Churchill e Hitler. Solo due minuti dopo quel ritorno iniziale quando aveva visto Laura e Chris morti per mano delle SS. Questa volta non c’erano corpi, solo la Buick e la Toyota crivellata di colpi, in una posizione diversa.

Nella speranza che il suo piano avesse funzionato, Stefan si affrettò verso il canale e corse lungo il bordo, alla ricerca di qualcuno, amico o nemico. Ben presto scorse tre cadaveri sul fondo del canale.

Ci doveva essere una quarta persona. Nessuna squadra delle SS era formata solo da tre uomini. In qualche punto di quell’intricata rete di canali Laura stava sicuramente fuggendo dall’ultimo uomo.

Nella parete Stefan trovò un canale verticale che sembrava essere stato già usato; si tolse lo zaino e lo fece scivolare sul fondo. Mentre scendeva a sua volta, sfregò la schiena contro il terreno e avvertì una fitta lancinante alla ferita. Arrivato sul fondo, si alzò e fu colto da un forte capogiro e un rigurgito di bile gli salì in gola.

Da qualche parte, a est, gli giunse l’eco di una raffica di mitra.


Laura si fermò all’imboccatura di un nuovo affluente e fece segno a Chris di stare in silenzio.

Ansimando, attese che l’ultimo killer girasse l’angolo ed entrasse nel canale che aveva appena lasciato. Anche se il terreno era soffice, i suoi passi erano udibili.

Laura si sporse in fuori per abbatterlo, ma ora l’uomo si muoveva con estrema cautela; si infilò, stando molto basso, in un canale cieco. Quando gli spari gli indicarono la posizione di Laura, attraversò il canale e si nascose contro la stessa parete su cui si apriva il budello in cui Laura era nascosta, perciò per poterlo colpire era costretta a uscire allo scoperto.

Fu quello che fece, infatti, rischiando di essere colpita a sua volta, ma quando fece partire una raffica, durò meno di un secondo. L’Uzi scaricò gli ultimi dieci, venti colpi, poi tacque.


Klietmann sentì che il fucile mitragliatore della donna si era scaricato. Si sporse dalla fenditura in cui aveva trovato rifugio e vide che la donna stava gettando via l’arma. Poi scomparve nel budello dove era rimasta ad attenderlo.

Fece mente locale di ciò che aveva visto nella Buick, lassù nel deserto: una rivoltella calibro 38 abbandonata sul sedile dell’autista. Ne dedusse che la donna non aveva avuto il tempo di portarla via con sé, oppure, impegnata com’era a tirar fuori dal bagagliaio quello strano contenitore, si era dimenticata la pistola.

Con sé aveva due Uzi che ormai erano scarichi. Poteva forse avere due pistole e averne lasciata una nella macchina?

Concluse che non era possibile. Due mitragliatrici automatiche avevano senso perché erano utili a distanza e in diverse circostanze. Ma, a meno che non fosse un’esperta tiratrice, una pistola sarebbe stata di scarsa utilità, se non a distanza ravvicinata, dove le sarebbero stati necessari solo sei colpi prima di avere la meglio sul suo assalitore o di morire per mano sua. Una seconda rivoltella sarebbe stata superflua.

Questo voleva dire che per difendersi aveva… che cosa? Quella bombola? Non sembrava nulla di più di un estintore.

La seguì.


Il nuovo canale era molto più stretto di quello precedente. Profondo sette metri, alla foce l’apertura era di soli tre metri, e si faceva sempre meno profondo e più stretto mentre penetrava tortuosamente nel letto deserto. Dopo un centinaio di metri finiva a imbuto.

Arrivati in fondo, Laura si guardò intorno per vedere se c’era una via d’uscita. Ai lati le pareti erano troppo ripide, con un terreno friabile che non avrebbe consentito una rapida scalata. La parete dietro di lei, invece, risaliva più gradatamente ed era costellata di cespugli che offrivano degli appigli. Sapeva, tuttavia, che a metà della salita sarebbero stati individuati dal loro inseguitore; sospesi a quell’altezza, sarebbero stati un bersaglio anche troppo facile.

Era lì dove avrebbe dovuto opporre resistenza per l’ultima volta.

Messa alle strette sul fondo di quell’enorme canale naturale, alzò lo sguardo verso uno squarcio di cielo azzurro e pensò che avrebbero potuto trovarsi in fondo a un immenso sepolcro, in un cimitero dove venivano sepolti solo i giganti.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.

Spinse Chris dietro di sé nella cavità che chiudeva il canale. Davanti a sé vedeva i dodici metri che avevano appena percorso, in quello stretto budello, fino al punto in cui faceva una curva a sinistra. Lui sarebbe sbucato da quell’angolo fra un minuto o due.

Si inginocchiò vicino alla bombola di Vexxon, con l’intenzione di strappare l’anello di sicurezza. Purtroppo si rese conto che doveva essere tagliato e non aveva nulla per farlo.

Forse una pietra. Forse una pietra affilata sarebbe stata sufficiente.

«Cercami una pietra», ordinò a Chris. «Voglio una pietra affilata.»

Mentre Chris frugava nel soffice terreno alla ricerca di una pietra che potesse fare al caso loro, Laura esaminò il timer automatico sulla bombola, l’altra possibilità per liberare il gas. Era un dispositivo semplice: un disco girevole calibrato in minuti; se si voleva puntare il timer a venti minuti, si girava il disco finché il numero venti era allineato a una tacca rossa sul bordo del disco; dopodiché si premeva il pulsante al centro e iniziava il conto alla rovescia.

Il problema era che il disco non consentiva una programmazione inferiore ai cinque minuti. L’uomo li avrebbe raggiunti molto prima.

Nonostante ciò girò il disco sul 5 e premette il pulsante che dava l’avvio al timer, che cominciò a ticchettare.

«Ecco, mamma», disse Chris, porgendole un pezzo di ardesia che sarebbe sicuramente servito allo scopo.

Anche se il timer stava ormai ticchettando, Laura si mise al lavoro, sfregando freneticamente l’anello che bloccava il rilascio manuale. Sollevò spesso lo sguardo per vedere se l’assassino li avesse scoperti, ma lo stretto canale davanti a loro rimase deserto.


Stefan seguì le impronte lasciate sul soffice terreno che formava il letto del canale. Non aveva idea di quale fosse la distanza che lo separava da loro. Avevano un vantaggio di pochi minuti, ma probabilmente si muovevano più velocemente di lui, perché il dolore alla spalla, la fatica e il capogiro rallentavano la sua corsa.

Aveva svitato il silenziatore della pistola e l’aveva gettato via, infilando l’arma sotto la cintura. Brandiva l’Uzi con entrambe le mani, in posizione di tiro.


Klietmann aveva gettato via i suoi Ray-Ban perché in molti punti il canale era avvolto nella penombra, soprattutto in quei budelli secondari dove le pareti si richiudevano e la luce del sole filtrava solo da strette fessure.

Le scarpe gli si erano riempite di sabbia e non fornivano certo una grande stabilità. Alla fine si fermò, si tolse scarpe e calze e procedette a piedi nudi.

Non riusciva a inseguire la donna e il bambino con la velocità che avrebbe desiderato, in parte perché era senza scarpe, ma principalmente perché a ogni passo si guardava alle spalle. Aveva udito e visto i tuoni e i lampi. Sapeva che Krieger era tornato. Molto probabilmente, così come lui stava dando la caccia alla donna e al bambino, Krieger stava inseguendo lui. Non intendeva essere carne per i denti di quella bestia feroce.


Sul timer erano già scattati i due minuti.

Laura aveva segato gran parte dell’anello, dapprima con il pezzo di ardesia che Chris aveva trovato, poi con un secondo che le aveva portato quando il primo si era sbriciolato. Il governo non riusciva a stampare un francobollo che riuscisse a rimanere attaccato su una busta, non era in grado di costruire una nave cisterna che fosse in grado di attraversare un fiume, non riusciva a proteggere l’ambiente, ma sicuro come l’oro sapeva come procurarsi un cavo indistruttibile; doveva essere fatto di qualche materiale speciale che avevano creato appositamente per i viaggi delle navicelle spaziali e per il quale alla fine avevano trovato un utilizzo più terreno. Era il cavo che Dio avrebbe usato per fissare i pilastri inclinati che sorreggevano il mondo.

Si era escoriata le dita e il pezzo di ardesia con cui stava lavorando era tutto macchiato di sangue e scivoloso. Aveva segato solo per metà l’anello, quando sull’imboccatura dello stretto canale apparve l’uomo scalzo, con i suoi pantaloni neri e la camicia bianca, a dodici metri di distanza.


Klietmann avanzò con grande cautela, chiedendosi perché diavolo quella donna si stesse dando tanto da fare con quell’estintore. Credeva veramente che spruzzando la sostanza chimica sarebbe riuscita a disorientarlo e a proteggersi così dalla raffica di mitra?

Oppure non si trattava di un estintore? Da quando era arrivato a Palm Springs, meno di due ore prima, aveva notato numerose cose che non erano ciò che apparivano. Un segnale rosso, per esempio, che non significava «PARCHEGGIO DI EMERGENZA» come aveva pensato, ma «DIVIETO PERMANENTE DI PARCHEGGIO». Chi poteva saperlo? E chi poteva dire con sicurezza che cosa fosse quella bombola su cui si stava affannando tanto?

Laura alzò lo sguardo verso di lui, poi ritornò ad armeggiare con la bombola.

Klietmann proseguì lungo lo stretto canale, che si restrinse a tal punto da non consentire il passaggio di due persone. Non si sarebbe avvicinato di più a meno che non fosse riuscito a intravedere il bambino. Se avesse nascosto il figlio in qualche fenditura lungo la via, avrebbe dovuto costringerla a rivelargliene il nascondiglio, perché l’ordine era di uccidere tutti: Krieger, la donna e il bambino. Personalmente non riteneva che il bambino costituisse un pericolo per il Reich, ma non metteva in discussione gli ordini.


Stefan trovò un paio di scarpe e un paio di calze nere aggrovigliate e incrostate di sabbia. Prima aveva ritrovato un paio di occhiali da sole.

Non gli era mai successo di inseguire un uomo che durante la caccia facesse lo spogliarello. Dapprima trovò la situazione decisamente buffa, ma poi pensò al mondo che Laura Shane era solita descrivere nei suoi romanzi, un mondo in cui la commedia e il terrore si fondevano, un mondo in cui la tragedia arrivava all’improvviso nel bel mezzo di una risata. E improvvisamente quelle scarpe smesse e quelle calze lo impaurirono proprio perché erano buffe. Gli venne la folle idea che se avesse riso, avrebbe deciso la morte di Laura e Chris.

E, se fosse successo, questa volta non sarebbe riuscito a salvarli tornando indietro nel tempo e mandando loro un altro messaggio in anticipo rispetto al primo, perché per una tale impresa non rimanevano che cinque secondi. Nemmeno con un computer avrebbe potuto fare tanto.

Le impronte dell’uomo sulla sabbia portavano all’imboccatura di un affluente. Anche se il dolore lancinante alla spalla lo faceva sudare e lo aveva indebolito, Stefan seguì quella traccia come Robinson Crusoe aveva seguito Venerdì, ma con un terrore di gran lunga maggiore.


Con disperazione sempre crescente, Laura vide l’assassino nazista farsi strada nella penombra lungo lo stretto corridoio. L’Uzi era puntato contro di lei, ma per qualche ragione non aveva immediatamente sparato. Utilizzò quel periodo di grazia per continuare a segare l’anello che bloccava la bombola di Vexxon.

Anche in quelle circostanze la speranza non l’abbandonò, in gran parte perché le erano appena tornate alla niente alcune righe di uno dei suoi romanzi: Nella tragedia e nella disperazione, quando sembra essere calata una notte senza fine, si può trovare la speranza pensando che la notte non verrà seguita da un’altra notte, ma dal giorno, che l’oscurità da sempre luogo alla luce e che la morte regola solo metà della creazione, la vita l’altra metà.

Ora il killer era solo a sei metri e chiese: «Dov’è il bambino? Il bambino. Dov’è il bambino?»

Sentì Chris contro la sua schiena, rannicchiato nell’ombra fra lei e la parete del budello. Si chiese se il figlio sarebbe riuscito a evitare le pallottole e se, dopo averla uccisa, quell’uomo se ne sarebbe andato senza capire che Chris era nascosto in quella buia nicchia alle sue spalle.

Il timer sulla bombola scattò. Dall’ugello fuoriuscì il gas nervino.


Klietmann non vide nulla uscire dalla bombola, ma udì il rumore: come il sibilo di innumerevoli serpenti.

Un istante dopo ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse trapassato le carni, afferrandogli lo stomaco in una morsa e glielo avesse strappato. Si ripiegò su se stesso, vomitando per terra e sui suoi piedi nudi. Con un lampo doloroso che gli bruciò le orbite, qualcosa sembrò esplodergli nel torace e il sangue gli zampillò dal naso. Mentre crollava a terra premette istintivamente il grilletto dell’Uzi. Consapevole che stava morendo e che stava perdendo il controllo di sé, cercò di cadere su un fianco, di fronte alla donna, riservandole la stessa sorte con quell’ultima raffica.


Stefan era entrato da poco nel più stretto di tutti i cunicoli, dove le pareti sembravano chiudersi sopra di lui invece di aprirsi sotto il cielo, quando udì una lunga raffica, molto vicina. Si mise a correre. Inciampò, urtò contro le pareti, ma proseguì lungo l’intricato budello, dove alla fine vide l’ufficiale delle SS morto.

Qualche metro più in là Laura era seduta, con le gambe aperte, le mani insanguinate aggrappate al contenitore del Vexxon che teneva fra le cosce. Aveva il capo abbassato, il mento appoggiato sul petto. Floscia e senza vita come una bambola di pezza.

«Laura, no!» disse con una voce che riconobbe a stento come sua. «No. No. No.»

Laura alzò la testa, sbattè gli occhi, rabbrividì e alla fine sorrise debolmente. Era viva.

«Chris?» chiese Stefan oltrepassando il cadavere. «Dov’è Chris?»

Laura allontanò la bombola di Vexxon ancora sibilante e si spostò su un fianco.

Chris guardò fuori della sua scura nicchia e chiese: «Krieger, ti senti bene? Sei bianco come un lenzuolo. Scusa, mamma, ma è proprio così».

Per la prima volta in più di vent’anni, o per la prima volta in più di sessantacinque anni se vogliamo contare quelli che aveva superato quando era venuto a vivere con Laura nel suo tempo, Stefan Krieger pianse. Quelle lacrime lo sorpresero, perché aveva pensato che la sua vita sotto il Terzo Reich l’avesse per sempre reso incapace di piangere per qualcuno o per qualcosa. Ancora più sorprendente, quelle erano le sue prime lacrime di gioia.

7 Da allora…

1

Un’ora più tardi, quando la polizia lasciò il luogo in cui era avvenuto l’agguato in cui aveva perso la vita l’agente della stradale, quando trovarono la Toyota crivellata di colpi e videro macchie di sangue sparse un po’ ovunque sul bordo del canale, quando trovarono l’Uzi scarico e quando videro Laura e Chris che uscivano arrancando dal canale all’altezza della Buick che recava le targhe della Nissan, si aspettavano di trovare la zona circostante disseminata di cadaveri e non furono delusi. I primi tre erano sul fondo del bacino, mentre il quarto si trovava in un canale lontano che Laura indicò loro.

Nei giorni che seguirono la donna sembrò cooperare con le autorità locali, federali e statali, anche se nessuna di queste era pienamente convinta che stesse raccontando l’intera verità. I trafficanti di droga che avevano ucciso suo marito, un anno prima, avevano alla fine assoldato dei killer per eliminarla perché, come lei sostenne, evidentemente temevano che potesse identificarli. L’attacco sferrato alla sua casa vicino a Big Bear era stato violento e da allora in poi erano stati così inesorabili che era stata costretta a fuggire. Non si era rivolta alla polizia perché non credeva che le autorità fossero in grado di proteggere lei e suo figlio in modo adeguato. Dalla sera del primo assalto, il 10 gennaio, primo anniversario dell’omicidio di suo marito, non aveva fatto che spostarsi di continuo. Nonostante tutte le precauzioni prese, gli inseguitori erano riusciti a scovarla a Palm Springs, l’avevano inseguita lungo la Statale 111, costringendola a inoltrarsi nel deserto, dove poi avevano continuato a darle la caccia a piedi nel canalone dove però alla fine era riuscita ad avere la meglio.

La sua storia non sarebbe stata credibile se non avesse dimostrato di essere una tiratrice molto abile, di sapersi ben difendere con le arti marziali e di essere padrona di un arsenale illegale che avrebbe fatto invidia ad alcuni paesi del Terzo Mondo. Durante un interrogatorio per determinare come fosse entrata in possesso degli Uzi modificati e del gas nervino, un’arma che l’esercito teneva sotto chiave, Laura rispose: «Io scrivo romanzi. Fa parte del mio lavoro fare molte ricerche. Ho imparato come trovare qualsiasi cosa voglio sapere, come ottenere tutto ciò di cui ho bisogno». Poi fece loro il nome di Jack il Ciccione e il raid compiuto nella sua pizzeria confermò le rivelazioni di Laura.

«Non ce l’ho con lei», disse Jack il Ciccione alla stampa in occasione dell’udienza. «Non mi deve nulla. Nessuno di noi deve niente a nessuno se non vuole. Io sono un anarchico. Mi piacciono i tipi duri come lei. E comunque non andrò in prigione. Sono troppo grasso. Morirei. E sarebbe una punizione crudele e insolita.»

Laura non rivelò loro il nome dell’uomo che aveva portato nella casa di Carter Brenkshaw, nelle prime ore del mattino dell’11 gennaio, l’uomo a cui era stata curata la ferita d’arma da fuoco. Disse semplicemente che era un suo caro amico che si trovava a casa sua quando i killer erano arrivati. Laura continuò a insistere sul fatto che era solo un innocente spettatore, la cui vita sarebbe stata rovinata se lei lo avesse coinvolto in quella sporca faccenda e lasciò intendere che era un uomo sposato con il quale aveva avuto una relazione. Superfluo procurargli altre sofferenze. Si stava riprendendo molto bene dalla ferita.

Le autorità fecero pressioni per sapere di più di questo amante, ma Laura non mutò opinione e a un certo punto dovettero rinunciare perché poteva contare sui migliori legali del paese. Non credettero mai alla versione che l’uomo misterioso fosse il suo amante. Non ci misero molto ad appurare che il legame fra lei e suo marito, morto appena un anno prima, era foltissimo, e che non si era del tutto ripresa dallo choc. Nessuno perciò riuscì a credere che avesse potuto allacciare una relazione all’ombra del ricordo di Danny Packard.

Non riuscì nemmeno a spiegare perché nessuno dei killer avesse un documento d’identificazione, né perché fossero vestiti tutti nello stesso modo. Non seppe dire perché fossero stati costretti a rubare un’auto, né perché fossero stati presi dal panico nella cittadina di Palm Springs fino al punto di uccidere un poliziotto. Sui corpi di due uomini erano stati trovati dei segni che potevano far pensare a delle cinture molto strette, anche se non c’era traccia di un tale accessorio, e neanche in questo caso Laura poté spiegare nulla. Chi poteva sapere, disse, quali erano le ragioni che portavano uomini come quelli a compiere delle azioni antisociali? Quello era un mistero che anche i più famosi criminologi e sociologi non avrebbero saputo spiegare in modo adeguato. E se gli esperti non riuscivano a far luce sulle ragioni più profonde che stavano alla base di un comportamento così antisociale, come ci si poteva aspettare che lei fornisse una risposta a un mistero molto più banale ma anche più insolito quale la scomparsa di una cintura? Messa a confronto con la donna a cui era stata rubata la Toyota e che sosteneva che quegli uomini erano degli angeli, Laura ascoltò quell’esposizione dei fatti con vivo interesse, rimanendone persino affascinata, ma successivamente chiese alla polizia se avessero intenzione di farle ascoltare le sciocche fantasie di tutti quelli che si interessavano al suo caso.

Oppose una volontà granitica, ferrea.

La sua volontà era d’acciaio.

Non riuscirono a spezzarla. Le autorità la martellarono implacabilmente. Dopo diversi giorni erano in collera con lei. Dopo diverse settimane erano furiosi. Dopo tre mesi la detestavano e volevano punirla perché non tremava di paura di fronte al loro potere. Dopo sei erano stanchi e dopo dieci annoiati. Nel giro di un anno si costrinsero a dimenticarla.

Nel frattempo, ovviamente, avevano visto in Chris l’anello più debole. Invece di tartassarlo, come avevano fatto con lei, scelsero la tattica del falso affetto, dell’astuzia e dell’inganno per indurlo a rivelare ciò che non erano riusciti a sapere da sua madre. Ma quando gli fecero domande sull’uomo misterioso, raccontò tutto di Indiana Jones, Luke Skywalker e Han Solo. Quando cercarono di strappargli qualche dettaglio di ciò che era avvenuto nel deserto, si dilungò nel racconto di Sir Tommy Rospo, fedele servitore della regina, che si era stabilito nella soffitta di casa loro. Quando cercarono di carpirgli almeno un indizio che potesse far luce sul luogo dove lui e sua madre avevano trovato rifugio e su ciò che avevano fatto, in quei sedici giorni dal 10 al 27 gennaio, il bambino disse: «Ho dormito per tutto il tempo. Ero in coma. Credo di aver avuto la malaria o forse persino la febbre gialla e ora soffro di amnesia proprio come Willy il Coyote quando Beep-Beep gli lanciò sulla testa un macigno». Alla fine, stanco, Chris disse: «Questa è una faccenda privata. Avete idea di che cosa sia una faccenda privata? Di questo posso parlare solo con mia madre e non riguarda nessun altro. Se cominci a raccontare i segreti di famiglia a degli estranei, in men che non si dica ti ritrovi a non sapere dove andare quando vuoi tornare a casa».

A complicare la situazione, Laura Shane fece pubblicamente le sue scuse a tutti coloro che aveva derubato o a cui aveva arrecato danno nei vari tentativi di sfuggire ai suoi inseguitori. Alla famiglia a cui aveva rubato la Buick donò una nuova Cadillac. Al possessore della Nissan a cui aveva sottratto le targhe, regalò una nuova Nissan. In ogni caso restituì più di quanto aveva preso, conquistandosi in quel modo degli amici.

I suoi vecchi romanzi vennero ristampati più volte e alcuni riapparvero nella classifica dei best seller. Le principali case cinematografiche si contesero i diritti di quei pochi romanzi che ancora non erano stati venduti. Circolarono voci, forse incoraggiate dal suo stesso agente, ma molto probabilmente vere, che gli editori stessero facendo la fila per avere la possibilità di pagarle un anticipo record per il suo prossimo romanzo.

2

Quell’anno Stefan Krieger sentì terribilmente la mancanza di Laura e Chris, anche se la sua vita nella villa dei Gaines, a Beverly Hills, era piuttosto confortevole. L’ospitalità era superba e il cibo delizioso. Jason si divertiva a insegnargli come potevano essere manipolati i film nella fase di montaggio e Thelma era un pozzo di simpatia.

«Senti, Krieger», gli disse un giorno mentre oziavano sul bordo della piscina, «forse preferiresti essere con loro, forse ti stai stancando di stare nascosto qui. Ma considera l’alternativa. Avresti potuto rimanere bloccato laggiù, nella tua era, dove non esistevano sacchetti di plastica, la biancheria fosforescente, i film di Thelma Ackerson e le repliche di Gilligan’s Island. Non puoi che essere soddisfatto di trovarti qui, in questa era illuminata.»

«È solo che…» Guardò per un attimo lo scintillio dei raggi del sole sull’acqua. «Se prima avevo una minima possibilità di conquistarla, be’, adesso temo di averla persa.»

«Non puoi comunque conquistarla, Herr Krieger. Non è un bel vaso di ceramica che puoi vincere alla lotteria. Una donna come Laura non può essere conquistata. È lei a decidere quando vuole concedersi, e questo è tutto.»

«Non sei molto incoraggiante.»

«Essere incoraggiante non è il mio lavoro…»

«… lo so…»

«… il mio lavoro…»

«… sì, sì…»

«… è la commedia. Nonostante il mio aspetto raccapricciante, probabilmente avrei lo stesso successo come prostituta, perlomeno in uno sperduto villaggio di tagliaboschi.»


A Natale Laura e Chris andarono nella casa dei Gaines. Una nuova identità era il regalo che Laura aveva in serbo per Stefan. Nonostante le autorità non avessero smesso di controllarla per gran parte dell’anno, era riuscita, attraverso via traverse, a ottenere una patente, la previdenza sociale, carte di credito e un passaporto a nome di Steven Krieger.

La mattina di Natale Laura glieli diede confezionati in una scatola. «Tutti i documenti sono validi. In Endless River ci sono due personaggi che sono in fuga e hanno bisogno di una nuova identità…»

«Sì», disse Stefan. «L’ho letto. Tre volte.»

«Lo stesso libro tre volte?» chiese Jason. Erano seduti attorno all’albero di Natale, sgranocchiando leccornie e bevendo cioccolata e Jason era nel suo migliore stato d’animo. «Laura, stai attenta a quest’uomo, mi dà l’idea di essere un tipo ossessivo.»

«Oh, certo», disse Thelma, «per voi di Hollywood chiunque legga qualsiasi libro, anche una volta sola, è considerato o un intellettuale o uno psicopatico. Comunque, Laura, come hai fatto a procurarti tutti questi documenti falsi dall’apparenza così convincente?»

«Non sono falsi», la corresse Chris, «sono veri.»

«Ha ragione», confermò Laura. «La patente e tutti gli altri documenti hanno riscontro negli archivi governativi. Durante le ricerche per quel mio romanzo, dovevo trovare come si poteva ottenere una nuova identità di alta qualità e trovai un uomo interessante a San Francisco che gestisce questa fiorente industria di documenti in un seminterrato, sotto un night-club di spogliarelliste. In ogni caso, Stefan, se guardi in fondo alla scatola, troverai due libretti di assegni. Ho aperto dei conti correnti a tuo nome alla Security Pacific Bank e alla Great Western Savings.»

Stefan era senza parole. «Non posso accettare del denaro da te. Non posso…»

«Senti, mi hai salvato da una sedia a rotelle, mi hai salvato più volte la vita e io non posso darti del denaro se mi sento di farlo? Thelma, che cos’ha?»

«È un uomo.»

«Deduco che questo spieghi tutto.»

«Pelosi, discendenti dell’uomo di Neanderthal», esclamò Thelma, «semifolli a causa dei livelli eccessivi di testosterone, tormentati dai ricordi razziali dei gloriosi tempi delle spedizioni di caccia ai mammuth… sono tutti uguali.»

«Uomini», disse Laura.

«Uomini», confermò Thelma.

Con sua sorpresa e quasi contro il suo volere, Stefan Krieger sentì che una parte di oscurità si stava dissolvendo e che la luce aveva trovato uno spiraglio attraverso il quale risplendere nel suo cuore.


A febbraio, tredici mesi dopo gli eventi nel deserto, Laura propose a Stefan di andare a vivere con lei e Chris nella casa vicino a Big Bear. Il giorno successivo lui si recò da loro al volante della sua macchina sportiva di fabbricazione russa nuova di zecca, che aveva acquistato con parte del denaro che Laura gli aveva dato.

Nei mesi che seguirono dormì nella stanza degli ospiti. Ogni sera. Non aveva bisogno di nulla di più. Stare con loro, giorno dopo giorno, sentirsi accettato, sentirsi parte integrante della famiglia, era tutto l’affetto che per il momento poteva ricevere.

A metà settembre, venti mesi dopo che era apparso ferito alla sua porta, Laura lo invitò nella sua stanza. Tre sere dopo trovò il coraggio di andare.

3

L’anno in cui Chris compì dodici anni, Jason e Thelma acquistarono una casa a Monterey, che dominava il più bel litorale del mondo. Insistettero affinchè Laura, Stefan e Chris trascorressero con loro il mese di agosto. Le mattine sulla penisola di Monterey erano fredde e nebbiose, i giorni tiepidi e limpidi, le notti decisamente gelide nonostante la stagione e quei cambiamenti giornalieri di temperatura erano rinvigorenti.

Un giorno Stefan e Chris andarono a fare una passeggiata con Jason. Sulle rocce, non lontano dalla spiaggia, le otarie prendevano il sole e sbadigliavano rumorosamente. Lungo la strada che portava alla spiaggia, le macchine dei turisti erano parcheggiate praticamente una sull’altra. Si avventurarono sulla sabbia per fare delle fotografie a quelle «foche», come le chiamavano loro, avide di sole.

«Anno dopo anno», disse Jason, «ci sono sempre più turisti. È una regolare invasione. E se noti… la maggior parte sono giapponesi, tedeschi e russi. Meno di mezzo secolo fa abbiamo combattuto la più grande guerra della storia contro tutti e tre e ora stanno meglio di noi. I componenti elettronici e le auto giapponesi, i computer e le auto russe, le auto tedesche e tutti i macchinari di qualità… Per dirti la verità, Stefan, credo che gli americani spesso trattino i loro vecchi nemici molto meglio di quanto facciano con i vecchi amici.»

Stefan si fermò un attimo a guardare i leoni marini che avevano attirato l’interesse dei turisti e pensò all’errore che aveva commesso durante il suo incontro con Winston Churchill.

Ma mi dica almeno una cosa. La curiosità mi sta uccidendo. Vediamo. …be’, per esempio, che cosa ne sarà dei sovietici dopo la guerra?

La vecchia volpe era sembrata così casuale nella sua domanda, come se gli fosse venuta in mente per caso, come se avesse chiesto se il taglio degli abiti maschili sarebbe cambiato nel futuro. La sua invece era stata una domanda ben calcolata e la risposta di grande interesse per lui. Basandosi su ciò che Stefan gli aveva detto, Churchill aveva incoraggiato gli Alleati occidentali a non abbandonare le postazioni militari in Europa dopo che i tedeschi erano stati sconfitti, per contrastare le mire espansionistiche russe sui territori occupati. Per tutta la durata della guerra contro la Germania, i sovietici avevano ricevuto armi e rifornimenti dagli Stati Uniti e quando questo sostegno cessò, crollarono nel giro di pochi mesi. Senza contare che l’estenuante guerra con il loro vecchio alleato Hitler, li aveva enormemente indeboliti. Il mondo moderno era molto diverso da ciò che il destino aveva deciso e tutto perché Stefan aveva risposto a una domanda di Churchill.

A differenza di Jason, Thelma, Laura e Chris, Stefan era un uomo fuori del tempo, un uomo che viveva in un’era che non gli era stata destinata. Il suo futuro erano gli anni delle guerre mondiali, mentre quello stesso periodo costituiva il passato di questa gente. Egli poteva ricordare sia il futuro in cui era vissuto, sia quello che ora si era sostituito al vecchio. Loro non potevano ricordare altro mondo all’infuori di questo, in cui le grandi potenze non erano in guerra, in cui gli arsenali nucleari per il momento tacevano, un mondo in cui la democrazia fioriva addirittura in Russia, un mondo in cui c’erano abbondanza e pace.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato, ma a volte, fortunatamente, non ci riesce.


Laura e Thelma erano rimaste sotto la veranda, a cullarsi sulle sedie a dondolo. Osservavano i loro uomini mentre andavano verso il mare e poi a nord lungo la spiaggia, finché non riuscirono più a vederli.

«Sei felice con lui, Shane?»

«È un uomo malinconico.»

«Ma è adorabile.»

«Non sarà mai Danny.»

«Ma Danny non c’è più.»

Laura annuì e continuò a dondolarsi.

«Dice che l’ho riscattato», continuò Laura.

«Come i tagliandi della drogheria, vuoi dire?»

Alla fine Laura affermò: «Lo amo».

«Lo so», replicò Thelma.

«Non pensavo che sarei riuscita ad amare… ancora. Voglio dire, amare un uomo in quel modo.»

«Che modo è, Shane? Stai forse parlando di qualche nuova posizione erotica? Stai avviandoti verso la mezza età, Shane, fra non molto avrai quarant’anni, non è forse il caso che tu riveda la tua libidine?»

«Sei incorreggibile.»

«Cerco di esserlo.»

«E tu, Thelma? Sei felice?»

Thelma si accarezzò il ventre prominente. Era ormai al settimo mese. «Sono molto felice, Shane. Te l’avevo detto che forse sono gemelli?»

«Sì, me l’hai detto.»

«Gemelli», disse Thelma, come se la prospettiva la spaventasse. «Pensa come sarebbe contenta Ruthie.»

Gemelli.

Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato, pensò Laura. E qualche volta, fortunatamente, ci riesce.

Rimasero in silenzio per un po’, assaporando il profumo del mare e ascoltando il dolce fruscio del vento fra i pini e i cipressi di Monterey.

Dopo un po’ Thelma disse: «Ricordi quel giorno quando venni a casa tua e ti stavi esercitando nel tiro a segno?»

«Sì, mi ricordo.»

«Quando stavi facendo a brandelli quelle sagome umane. Sfidavi il mondo intero, e tutte quelle armi nascoste ovunque… Quel giorno tu mi dicesti che avresti passato la tua vita a resistere a ciò che il destino ti avrebbe riservato, ma non avresti resistito… avresti combattuto per proteggere te stessa. Quel giorno eri molto arrabbiata, Shane e molto amareggiata.»

«Sì.»

«Adesso, so che continui a resistere. E so che continui a combattere. Nel mondo la morte e la tragedia non sono scomparse. Nonostante ciò, è come se in un certo senso tu non fossi più amareggiata.»

«No.»

«Vuoi dirmi il segreto?»

«Ho imparato la terza grande lezione, ecco tutto. Da bambina ho imparato a resistere. Dopo che Danny venne ucciso, ho imparato a lottare. Adesso resisto e lotto ancora, ma ho anche imparato ad accettare. Il destino è.»

«Mi suona tanto di stronzata trascendentalistica orientale, Shane. ‘Il destino è’. La prossima volta mi dirai di recitare un mantra e di contemplarmi l’ombelico.»

«Zeppa di gemelli come sei», esclamò Laura, «sarà difficile che tu veda l’ombelico.»

«Oh, sì che posso… arrangiando nel modo giusto degli specchi.»

Laura scoppiò a ridere. «Ti voglio bene, Thelma.»

«Anch’io.»

Dondolarono e dondolarono.

Laggiù sulla spiaggia la marea cominciava a salire.


FINE
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