5

Il giorno seguente, Farr si svegliò a quel sospirante sussurro che è il suono della musica iszica. Trovò a portata di mano indumenti puliti che si affrettò a indossare; poi uscì sulla balconata. Il paesaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi era di una bellezza fantastica: il sole, la stella XI dell’Auriga, non era ancora sorto, e il cielo era di un intenso blu elettrico mentre il mare pareva uno specchio color prugna, che all’orizzonte s’incupiva fino al nero. A destra e a sinistra si ergevano le complicate case degli aristocratici di Tjiere, il cui fogliame si stagliava contro il cielo; in quella luce crepuscolare si distinguevano appena i colori: blu cupo, marrone, verde scuro, così morbidi che parevano di velluto. Sui canali galleggiavano dozzine di gondole, e più oltre, si stendeva il bazar di Tjiere dove si distribuivano, secondo un metodo di scambi non ancora ben chiaro a Farr, i beni e i manufatti che provenivano dalle fabbriche del continente meridionale e da alcuni mondi esterni.

Dall’interno della casa veniva la musica di uno strumento a corda, e quando Farr rientrò nella stanza, trovò due servitori che stavano portando un alto credenzino a scomparti, carico di vivande. Farr mangiò cialde, frutta, tuberi marini e pasticcini mentre l’XI dell’Auriga sorgeva all’orizzonte.

Quando ebbe terminato, i servitori sparecchiarono e arrivò la donna iszica che Farr aveva conosciuto la sera prima. Quel mattino aveva una complicata acconciatura fatta coi medesimi nastri neri che le cingevano il corpo a strisce, e che, nascondendole i bitorzoli e le protuberanze del cranio, la rendevano quasi attraente. Dopo averlo salutato nel solito modo quanto mai cerimonioso, disse che Zhde Patasz aspettava che Aile Farr Sainh si disturbasse a recarsi da lui.

Farr seguì la donna nell’atrio che si apriva alla base dell’enorme tronco, dove Zhde Patasz lo stava aspettando insieme a un Iszico che presentò come Omon Bozhd, agente generale degli allevatori di case. Omon Bozhd era più alto di Zhde Patasz, col viso più largo e meno intelligente, e aveva un modo di fare più vivace e confidenziale. Coperto di strisce azzurre e nere, aveva le guance dipinte a dischi neri, costume che, a quanto Farr credeva di ricordare, indicava un appartenente alle caste più elevate. Il comportamento di Zhde Patasz nei confronti di Omon Bozhd era una strana mescolanza di condiscendenza e di rispetto; così almeno parve a Farr, che l’attribuì al contrasto fra la casta cui apparteneva Omon Bozhd e la sua pelle chiarissima di nativo di uno degli arcipelaghi meridionali, se non addirittura del continente meridionale, e che mancava di quella particolare sfumatura azzurrina che distingueva i piantatori aristocratici di Pheadh. Farr, assai perplesso per le straordinarie attenzioni di cui era fatto oggetto, non gli badò più.

Zhde Patasz accompagnò i suoi ospiti a un calesse dai sedili imbottiti, che funzionava automaticamente procedendo su un cuscino d’aria, guidato da un impassibile servitore. Poco prima della partenza, si unì al gruppo un altro Iszico, decorato a strisce blu e grigie, che il Zhde Patasz presentò come Uder Che, architetto capo.

— Naturalmente il termine iszico è diverso — spiccò Zhde Patasz — e comprende un’infinità di altri attributi e significati: biochimico, istruttore, poeta, precursore, amante delle coltivazioni, e altro ancora. Il suo compito, però, tende allo stesso scopo, cioè quello di creare case di nuovo tipo.

Seguivano il calesse alcuni Szecr a bordo di una specie di piattaforma mobile. Farr ebbe l’impressione che uno di essi avesse fatto parte della squadra addetta alla sua sorveglianza, il giorno prima, durante l’incursione dei Thord, ma non poteva esserne certo, perché agli occhi di uno straniero tutti gli Iszici sembravano uguali. Prese in considerazione l’idea di denunciare l’uomo a Zhde Patasz, che aveva promesso di farlo affogare, ma vi rinunciò perché temeva che Zhde si sarebbe sentito in dovere di mantenere la parola.

Il calesse procedeva scivolando sotto le grandi case-albero al centro della città, e poi infilò una strada che costeggiava un susseguirsi di piccoli campi. Qui crescevano i germogli grigioverdi nei quali Farr riconobbe cuccioli di case.

— Case di Classe AAA e AABR per i supervisori dei lavori del continente meridionale — spiegò Zhde Patasz con aria di superiorità. — Più oltre ci sono case a tre e a quattro baccelli per gli artigiani. Ogni distretto ha le sue particolarità che lo differenziano completamente dagli altri, e non starò ad annoiarvi descrivendovele. Le case da esportazione non sono tanto accurate, naturalmente, perché appartengono a un unico tipo, e vengono coltivate con relativa facilità.

Farr ebbe l’impressione che l’aria di superiorità ostentata da Zhde Patasz stesse aumentando. — Se foste disposti a esportarne di diversi tipi — disse — le vostre vendite subirebbero un notevole aumento.

Tanto Zhde Patasz quanto Omon Bozhd assunsero un’espressione divertita. — Vendiamo all’estero tutto quello che c’interessa vendere. Perché voler fare di più? Chi sarebbe in grado di apprezzare le qualità uniche, eccezionali delle nostre case? Voi stesso avete detto che i Terrestri considerano le abitazioni solo come un riparo dalle intemperie.

— Mi avete frainteso, o non mi sono spiegato bene. Ma se anche fosse così, il che non è, sussisterebbe sempre la necessità di tipi diversi di abitazione, tanto sulla Terra che sui pianeti ai quali vendete le vostre case.

— Siete davvero irrazionale — intervenne Omon Bozhd — e vi prego, Farr Sainh, di non considerare offensiva questa parola. Lasciate che mi spieghi meglio. Voi dichiarate che sulla Terra c’è bisogno di case. Sulla Terra c’è anche un eccesso di ricchezze, tanto che sono allo studio molti progetti per poterle impiegare. Queste ricchezze potrebbero risolvere il problema delle abitazioni in un batter d’occhio, purché lo volessero i possessori delle ricchezze. Ma essendo la cosa, a quanto voi dite, molto improbabile, avete posto lo sguardo su noi Iszici, che al confronto siamo relativamente poveri, nella speranza che finiamo col dimostrarci più comprensivi dei vostri plutocrati. Ma scoprendo che abbiamo i nostri interessi da difendere, ve la prendete con noi… ecco perché vi giudico irrazionale.

Farr rise. — Questa è una visione distorta della realtà — dichiarò. — È vero che siamo ricchi. Perché lo siamo? Perché cerchiamo sempre di produrre il massimo col minimo sforzo. E le case isziche rappresentano la minimizzazione degli sforzi.

— Interessante — mormorò Zhde Patasz e Omon Bozhd assentì saviamente. Il calesse si sollevò per sorvolare un folto di cespugli grigi da cui spuntavano grosse bacche nere. Più avanti, si stendeva una lingua di spiaggia su cui si frangeva il calmo mondo oceanico di Pheadh. Il veicolo puntò dritto sulla distesa, dirigendosi verso un isolotto poco lontano.

Con voce solenne, quasi sepolcrale, Zhde Patasz dichiarò: — Ora vi sarà mostrato qualcosa che a ben pochi è concesso di vedere; una stazione sperimentale dove progettiamo e creiamo nuove case.

Farr cercò di trovare una risposta adatta per esprimere il proprio interessamento e la propria gratitudine, ma Zhde Patasz non badava più a lui, così stette zitto.

Quella specie di piattaforma procedeva sul pelo dell’acqua, lasciandosi dietro una lieve scia di spuma candida. La luce dell’XI dell’Auriga scintillava sulla distesa azzurra e Farr pensava che uno spettacolo simile era uguale a tanti panorami marittimi terrestri, se non fosse stato per la presenza di quello strano veicolo, di quegli uomini dalla pelle lattiginosa, e per la forma inusitata degli alberi che crescevano sugli isolotti. In verità, si trattava di alberi che non aveva mai visto nemmeno su Iszm: bassi, tozzi e massicci, con un groviglio di rami neri. Le foglie erano costituite da strisce carnose color marrone, e parevano in perpetuo movimento.

La piattaforma rallentò, dirigendosi verso la spiaggia dell’isola; si fermò a cinque o sei metri da terra. Uder Che saltò nell’acqua che gli arrivava al ginocchio, e avanzò cautamente verso il litorale, portando una scatola nera. Gli alberi reagirono alla sua presenza, inchinandosi dapprima verso di lui, poi arretrando, come in preda all’orrore, e sciogliendo l’intrico dei rami. Dopo qualche istante s’era aperto un varco sufficiente perché potesse passarvi il calesse che, arrivato all’altezza della spiaggia, penetrò nel varco stesso. Uder Che risalì a bordo, e i rami tornarono a intrecciarsi in un groviglio impenetrabile.

— Questi alberi ucciderebbero chiunque non mostrasse il proprio salvacondotto, costituito dalle radiazioni emesse da questa scatola — spiegò Zhde Patasz. — Una volta, i piantatori organizzavano delle spedizioni per danneggiarsi a vicenda, e perciò era necessaria la presenza di alberi sentinella. Ora le cose sono cambiate, ma noi siamo conservatori, e ci teniamo a mantenere in vita le antiche usanze.

Farr si guardava intorno, senza nascondere la propria curiosità, mentre Zhde Patasz lo osservava divertito.

— Quando sono venuto a Iszm — disse finalmente Farr — speravo che mi si offrisse un’occasione come questa, ma confesso che non ci contavo troppo. Perché mi fate vedere queste cose?

Zhde Patasz, impassibile come sempre, aspettò un momento prima di rispondere. — La vostra domanda non ha ragion d’essere — dichiarò. — Vi ho condotto qui perché così usa fare un proprietario con un ospite di riguardo.

— Può darsi che sia così — ammise Farr sorridendo — ma forse esistono anche altri motivi, o sbaglio?

— Sbagliate. La scorreria dei Thord continua a turbarci e siamo ansiosi di saperne di più in proposito. Ma non preoccupiamoci di questo, oggi. Essendo un botanico, suppongo che vi interesseranno i ritrovati miei e di Uder Che.

— Sicuramente. — Nelle due ore successive Farr esaminò case con baccelli a contrafforte costruite per i mondi a forte attrazione gravitazionale di Cleo 8 e di Martinon’s Fort, e case leggere coi baccelli che sembravano palloni per Fei dove la gravità era notevolmente inferiore a quella di Iszm. C’erano alberi costituiti da un grosso tronco a colonna con quattro enormi foglie che partivano dalla sommità e s’inarcavano fino a terra in modo da formare degli atri a cupola, attraverso cui filtrava una luce verde. C’erano alberi dal tronco massiccio che sorreggevano un unico baccello a torre, con foglie lanceolate che spuntavano tutt’intorno alla base: si trattava di torri di guardia per le tribù feudali di Eta dello Scorpione. In un area recintata crescevano alberi capaci di muoversi in diverso modo, e di sentire.

— Si tratta di una nuova area di ricerche, molto avventurosa — dichiarò Zhde Patasz. — Ci stiamo gingillando con l’idea di creare alberi capaci di svolgere determinate mansioni, come turni di guardia, esplorazione mineraria, cura di macchine. So che sull’atollo di Duroc, il mastro piantatore ha creato un albero che prima produce fibre colorate, poi le intreccia per fabbricare stuoie dai disegni caratteristici. Anche noi siamo riusciti a far qualcosa di bizzarro: per esempio, sotto quella cupola siamo riusciti a creare una fusione che parrebbe impossibile da ottenere se non si conoscono le basi dell’adattamento.

Farr espresse educatamente la propria meraviglia e curiosità. Aveva notato che Omon Bozhd e Uder Che prestavano un’attenzione rispettosa alle parole del piantatore, come se celassero un significato portentoso. E d’improvviso Farr capì che, qualunque fosse il motivo della cerimoniosa ospitalità di Zhde Patasz, esso stava per essergli rivelato.

Con la cadenza acuta degli aristocratici iszici, Zhde Patasz stava intanto continuando: — Il meccanismo, se così si può dire, di questa congiunzione, non è difficile, in teoria. Il corpo animale per vivere necessita di cibo e ossigeno, oltre a qualche altro elemento ausiliario. Il sistema vegetale, come sapete, produce tali sostanze, e rielabora gli escrementi e i rifiuti del corpo animale. Era una tentazione per noi trovare un sistema che riunisse i due, coll’unico aiuto di una fonte esterna di nutrimento. Quanto abbiamo raggiunto, anche se per voi sarà sbalorditivo, è tuttavia ancora rozzo, sinora non abbiamo ottenuto una vera e propria fusione dei tessuti: tutti gli interscambi avvengono attraverso membrane semipermeabili che isolano i fluidi animali e quelli vegetali. Cionondimeno, è già qualcosa. — Parlando, Zhde Patasz si era diretto alla volta di un emisfero giallo-verdino su cui pendevano e si agitavano fronde gialle. Omon Bozhd e Uder Che si tenevano discretamente in disparte. Farr li guardò incerto.

— Come botanico, sono certo che resterete affascinato dal risultato da noi ottenuto — dichiarò Zhde Patasz.

Farr non sapeva cosa pensare. Che cosa volevano mostrargli gli Iszici?… Era pericoloso? Veramente, non avevano bisogno di ricorrere a un sotterfugio per avere la meglio su di lui, e inoltre Zhde Patasz era legato dalle eterne leggi dell’ospitalità. No, non poteva esserci pericolo. Farr si decise, ed entrò sotto la cupola. Al centro, c’era un’aiuola rialzata di terriccio fertile, su cui posava una bolla, una sacca di gomma gialla. La superficie della sacca era venata di lucidi filamenti bianchi e di tubicini membranosi che ne emergevamo alla sommità per formare un tronco color grigiastro, il quale, a sua volta, sorreggeva una corona simmetrica di rami e di foglie verde scuro a forma di cuore. Ciò fu quanto Farr vide alla prima occhiata, ma osservando poi l’interno della bolla vide che conteneva il corpo denudato di un Thord. I piedi posavano su un sedimento giallo alla base della sacca, la testa era posta direttamente sotto il tronco, le braccia erano spalancate e non terminavano con le mani, ma con globi bernoccoluti di fibra grigia dai quali si dipartivano funi che andavano a infilarsi nel tronco. La calotta cranica, scoperchiata, metteva a nudo l’ammasso di sferule arancione che costituiva il cervello del Thord, su cui pendeva una specie di nuvoletta, che, vista più da vicino, si rivelò per un groviglio di filamenti quasi invisibili, che s’intrecciavano formando una fune unita al tronco. Gli occhi erano coperti dalle membrane spesse, marroni, che costituivano le palpebre dei Thord.

Farr trasse un profondo sospiro, dominando a stento il senso di repulsione e di pietà, misto a uno strano bisogno di portar soccorso che non riusciva a definire. Gli occhi doppi dei tre Iszici erano fissi su di lui.

— Lo riconoscete? — domandò Zhde Patasz con un crudele sorriso.

Farr scosse la testa. — L’ho appena visto. Appartiene a un’altra razza e non riesco a distinguerlo dai suoi simili. — Guardò meglio nell’interno della sacca. — È vivo?

— Fino a un certo punto.

— Perché mi avete portato qui?

La domanda turbò Zhde Patasz, meglio, lo fece addirittura andare in bestia. Farr si domandava quale astuto piano non avesse funzionato. Guardò ancora nella sacca. Si era mosso, il Thord? Omon Bozhd, che stava alla sua sinistra, doveva aver notato anche lui quell’impercettibile contrazione muscolare, perché osservò: — I Thord possiedono enormi risorse fisiche.

— Mi avevate detto che era morto — disse Farr rivolgendosi a Zhde Patasz.

— Infatti lo si può considerare tale. Non è più Chayen, Quattordicesimo di Tente, Barone del Castello di Binicristi. La sua personalità è scomparsa. Ora è un organo, un nodulo, attaccato a un albero.

Farr tornò a osservare il Thord. Gli occhi si erano aperti, e il viso aveva assunto un’espressione strana. Chissà se era in grado di sentire e di capire. Farr si accorse che Omon Bozhd era teso e perplesso.

Con una rapida occhiata, vide anche che gli altri due Iszici erano tesi e, rigidi, fissavano il Thord. D’un tratto, Uder Che si mise a imprecare in iszico, accennando al fogliame. Farr sollevò lo sguardo, e vide che le foglie tremavano; eppure non c’erano correnti d’aria sotto la volta della cupola. Tornando a guardare il Thord, scoprì che teneva gli occhi fissi su di lui, aveva il viso tirato e i muscoli vicino alla bocca portati in fuori. Farr non riusciva a distogliere lo sguardo. Poi la bocca si aprì e le labbra tremarono, mentre i rami sovrastanti vibravano con sinistri scricchiolii.

— È impossibile — disse con voce strozzata Omon Bozhd. — Non è la reazione giusta!

I rami continuavano a ondeggiare piegandosi finché, con uno schianto terribile, un ammasso di rami e foglie si staccò precipitando addosso a Zhde Patasz e a Uder Che. Si udì un altro schianto, e il tronco si spaccò e ricadde. La sacca esplose, e il Thord ne emerse, camminando carponi sugli ammassi fibrosi che aveva al posto delle mani. Con la testa eretta e uno spaventevole sorriso, gridò con voce roca e gorgogliante: — Non sono un albero! Sono Chayen di Tente! — Dalla bocca gli uscivano rivoli di liquido giallastro. Tossì e, fissando Farr, riuscì a balbettare: — Vattene via! Vattene via! Lascia questi maledetti coltivatori. Vattene, fa’ quel che devi…

Omon Bozhd stava dandosi da fare per soccorrere Zhde Patasz prigioniero sotto l’ammasso di rami e foglie. Ricadendo prono, il Thord sussurrò: — Ora muoio… ma non come un albero di Iszm. Muoio come un Thord… Chayen di Tente…

Farr si volse, per aiutare Omon Bozhd e Zhde Patasz, che era riuscito a districarsi, a estrarre Uder Che di sotto alle foglie. Ma era ormai inutile. Un ramo aveva spezzato il collo dell’architetto. Zhde Patasz si lasciò sfuggire un gemito di disperazione. — Quell’essere mi ha ferito in morte quanto mi aveva turbato in vita. Ha ucciso il migliore dei miei architetti. — Poi si voltò, e uscì dalla cupola, seguito dagli altri due.

Tornarono a Tjiere immersi in un cupo silenzio. Quando il calesse entrò nel viale principale, Farr disse: — Zhde Patasz, gli avvenimenti di questo pomeriggio vi hanno profondamente turbato; credo sia meglio che non approfitti ancora della vostra ospitalità.

Zhde Patasz rispose brusco: — Farr Sainh può fare ciò che preferisce.

— Porterò sempre con me il ricordo della mia permanenza sull’atollo di Tjiere — disse con ipocrita cortesia Farr. — Voi mi avete permesso di vedere con i miei occhi quali siano i problemi dei piantatori di Iszm, e ve ne sono profondamente grato.

Con un inchino, Zhde Patasz replicò: — Farr Sainh può star certo che, da parte nostra, lo ricorderemo sempre.

La piattaforma si fermò nella piazza su cui crescevano gli alberi-albergo, e Farr scese a terra, seguito, dopo una breve esitazione, da Omon Bozhd. Vi fu uno scambio di cortesie formali, e infine il calesse si allontanò.

— Che cosa farete adesso? — domandò Omon Bozhd a Farr.

— Prenderò una camera all’albergo.

Omon Bozhd assentì, come se Farr avesse espresso una profonda verità. — E poi?

— Ho ancora la barca che ho noleggiato — rispose Farr, pensando che ormai aveva ben poca voglia di visitare le piantagioni degli altri atolli. — Credo che tornerò a Jhespiano, e poi…

— E poi?

— Non lo so.

— Comunque, vi auguro buon viaggio.

— Grazie.

Farr attraversò la piazza, entrò nell’albergo più grande e gli venne assegnato un appartamento di baccelli simile a quello che aveva occupato nella casa di Zhde Patasz.

Quando scese nel ristorante per la cena, notò che erano riapparsi gli Szecr, e ne fu molto contrariato. Dopo il pasto, una tipica cena iszica a base di vegetali e frutti di mare, Farr si diresse verso il porto per ordinare che la Lhaiz si tenesse pronta. Il capitano non era a bordo, e il nostromo protestò alle sue richieste, dicendo che non avrebbero potuto salpare prima dell’alba, e Farr dovette arrendersi. Per passare la serata, passeggiò lungo la spiaggia. La risacca, il venticello tiepido, la sabbia, erano uguali a quelli terrestri, ma di diverso c’erano le sagome degli alberi che costeggiavano il litorale e i due Szecr che lo seguivano passo passo. Farr si sentì prendere dalla nostalgia. Era stato via anche troppo; adesso doveva tornare sulla Terra.

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