Alleo Steele MECCA

Titolo originale: Mecca


Trascrizione: Deposizione di Arne Beynes, primo ufficiale Capital Explorer, interrogato da Josep Colyns, investigatore speciale Gilda Diplomatica. (nota: questo documento è classificato Segreto A-1. Può essere visionato soltanto dai membri della Gilda Diplomatica in possesso dell’autorizzazione necessaria. La divulgazione non autorizzata è assolutamente proibita.)

Inizio trascrizione

Colyns: Come si chiama, per favore?

Beynes: Lo sai già.

Colyns: È per la registrazione ufficiale.

Beynes: Sì? Allora registra ufficialmente questo. (Gesto osceno).

Colyns: Signor Beynes…

Beynes: Ah. allora lo sai come mi chiamo…

Colyns: Signor Beynes, non dovrebbe essere necessario ricordarle la gravità della sua situazione. Lei è l’unico superstite dei mercantile indipendente erthuma Capital Explorer. Come tale, lei è il solo testimone erthuma dell’unico episodio ostile che si sia verificato tra Erthumoi e Locriani da quando le due razze sono entrate in contatto. Stando agli emissari locriani, lei è anche responsabile di questa violazione dell’ordine interraziale. Lei…

Beynes: E tu credi a quegli insetti, ti fidi più di loro che degli Ersima importanza per noi. Se l’alternativa è la guerra tra i Locriani e gli Erthumoi, non esiterò a proporre che la sua mente venga sondata, anche se questo la renderà ebete. Preferirei avere la sua collaborazione, però, se non altro perché il sondaggio mentale può essere inaffidabile. Sono stato perfettamente chiaro, signor Beynes?

Beynes: Sì.

Colyns: Bene. Cominciamo dall’inizio. Mi dica come ha saputo che Epsilon Indi II… Beynes: Mecca. Colyns: Prego?

Beynes: Mecca. Abbiamo smesso di chiamare quel pianeta Epsilon Indi II ancor prima di arrivarci. Lo chiamavamo Mecca…

Wolf 630-3 figurava sulle carte nautiche erthuma col nome di New France, ma era noto ai suoi coloni semplicemente come Wolf (Lupo), un nome molto più appropriato. Il terzo pianeta della stella di classe M era freddo, battuto dai venti e in gran parte brullo, tranne una zona equatoriale temperata dove, a mezzogiorno in piena estate, la temperatura a volte saliva fino a toccare i ventisei gradi centigradi. Questo, in pratica, era appena sufficiente a mantenere in vita solo le foreste che rinnovavano l’atmosfera di ossigeno-azoto di Wolf; il resto del pianeta era prigioniero di un’era glaciale perpetua, i continenti settentrionali erano coperti di ghiacci, le regioni meridionali erano perlopiù tundra desolata. Wolf era un mondo inospitale; era abitabile dagli Erthumoi, ma solo di stretta misura. La gente ci andava per far soldi, non per godersi il clima o il paesaggio.

Probabilmente anche la colonia di Hellsgate (Porta dell’inferno) aveva un altro nome, un nome dimenticato da tutti ormai, che compariva soltanto nei documenti ufficiali. Hellsgate era sede delle due sole industrie di Wolf, la mineraria e la cantieristica. Le materie prime estratte nella tundra meridionale raggiungevano Hellsgate, e lì venivano raffinate, lavorate, e alla fine diventavano scafi di astronavi: carghi pesanti, soprattutto, anche se talvolta dai cantieri usciva una nave esploratrice o un mercantile. Hellsgate non era il genere di posto che producesse poeti o filosofi o politici. I suoi uomini e le sue donne avevano mani callose e facce cupe e sfregiate, e le loro vite erano caratterizzate o da un tipo rischioso di longevità — quanto vivevano prima che qualche incidente sul lavoro li stroncasse — o da quanto tempo impiegavano ad accumulare crediti sufficienti per fuggire da Wolf.

Molto spesso, però, gli abitanti di Wolf cadevano in un limbo tra quegli estremi. Fu in uno dei numerosi slum attorno ai cantieri navali di Hellsgate che il primo ufficiale del Capital Explorer Arne Beynes trovò un individuo appartenente a tale categoria, un cieco di nome Sedric…

— Hai detto che avevi una bottiglia per me — disse Sedric, aprendo con una spinta la porta della propria baracca. Era una richiesta più che una domanda. Il vecchio girò a tastoni attorno al tavolo rotondo al centro dell’unica stanza del tugurio di lamiera, mentre Beynes si fermava sulla soglia cercando di vedere qualcosa nell’oscurità.

La baracca puzzava di sporcizia, di liquore scadente e di feci. Beynes era restio ad accomodarsi, sempre che ci fosse un’altra sedia oltre a quella occupata da Sedric. — Se vuoi la luce, dovrai trovartela da solo — disse Sedric. — A me non serve molto. — Rise, come se fosse la miglior battuta della galassia; la risata staccò dai polmoni un altro grumo di catarro, che Sedric espettorò, sputando lì accanto senza tanti indugi. A Beynes sembrava che il tragitto percorso dal bar dove aveva trovato Sedric fosse stato segnato dagli scaracchi di quel relitto umano.

Nel chiarore fioco proiettato oltre la soglia dall’insegna di un locale di spogliarello sul lato opposto della strada, Beynes scorse una cordicella che penzolava dal basso soffitto. La strinse e la tirò; un debole bagliore si sprigionò da una lampadina spoglia usata di rado. Illuminata, la casa di Sedric era ancor più disgustosa: un materasso senza lenzuola né coperte, un armadietto rotto che conteneva scatolette di cibo scadente, un terminale sgangherato di computer con lo schermo del monitor sfondato, un lavandino pieno di piatti putridi, e — particolare incongruo — un vecchio poster di un quadro di Deschenes fissato alla porta semiaperta del bagno. Accanto al tavolo, comunque, c’era uno sgabello che aveva un aspetto abbastanza decente e sicuro.

Sedric mosse leggermente la testa mentre Beynes spostava lo sgabello e si sedeva. — Okay, hai trovato la luce e l’altra sedia— gracchiò. — Allora, dov’è la bottiglia?

— Aspetta un attimo, d’accordo? — Beynes aprì la lampo del giubbotto e dalla tasca interna estrasse la bottiglia di whisky scadente comprata su insistenza di Sedric prima di lasciare il Wolfs Tooth. Svitò il tappo e la spinse nelle mani sudice del cieco. — Okay. Ecco…

— Grazie. Sei un amico. — Mentre Sedric inclinava il capo e beveva con un’avidità che andava ben oltre la sete, Beynes guardò l’orologio. Gli restavano ancora dodici ore standard prima che il Capital Explorer lasciasse Wolf dopo i lavori di raddobbo nei cantieri, ma il primo ufficiale non voleva trascorrere un minuto più del necessario nella casa di Sedric. Si domandò che diavolo ci facesse lì, anche se conosceva già la risposta: lui e l’equipaggio avevano un bisogno disperato di un’operazione redditizia, soprattutto dopo la débàcle coi Crotoniti. «Se non fossimo sull’orlo del fallimento, non mi prenderei la briga di approfondire questa faccenda» pensò Beynes.

D’altro canto, aveva a che fare con un vecchio alcolizzato incontrato in un bar di infima categoria su un pianeta squallido. Era molto probabile che la storia raccontatagli da Sedric al Wolfs Tooth fosse un’invenzione per indurre Beynes a comprargli un’altra bottiglia di liquore… o magari attirarlo in qualche tranello. Osservando la porta dietro di sé, Beynes scostò adagio il bordo del giubbotto, scoprendo l’impugnatura del disintegratore. Sedric non sarebbe stato in grado di affrontarlo nemmeno se avesse avuto ancora gli occhi funzionanti, ma non era da escludere che il vecchio avesse organizzato qualcosa con uno dei suoi vicini…

— Non agitarti, Arne — mormorò Sedric, posando la bottiglia di whiskey. — Rilassati. Togli la mano dal cannone. Non ti sto giocando un brutto tiro.

«Deve avere sentito la mia mano che spostava il giubbotto» pensò Beynes. Era incredibile la quantità di cose che i ciechi capivano basandosi su rumori impercettibili. — Parliamo d’affari, okay? — disse. — Hai detto che sapevi qualcosa riguardo gli extragalattici.

— Può darsi che sia così… — Col liquore che gli colava ancora dagli angoli della bocca sul mento ispido e incrostato, Sedric dondolò il capo avanti e indietro. I suoi occhi — bianchi e opachi come pelle di pesce, strabici e perennemente fissi in due direzioni diverse — sembravano nel medesimo tempo completamente vacui e colmi di misteri visibili solo ai ciechi. Scrollò le spalle. — O forse sono solo un vecchio ubriacone strambo che ti sta imbrogliando.

Risata. Raschio. Sputo. Beynes era ormai stufo di quell’andazzo. Sfilò il disintegratore dal fodero e lo posò piano sul tavolo sgangherato. — E forse io dovrei staccarti la testa e farla finita — disse, sapendo che Sedric senza dubbio aveva interpretato ogni rumore. — Un altro vecchio ubriacone strambo trovato nei bassifondi con un moncone al posto del collo… a chi dovrebbe importare?

Sedric lo sorprese. Si limitò a sogghignare. — A nessuno. Però tu puoi scordarti gli ex-gi se mi fai saltare la testa. — Il sorriso sdentato svanì. — Come ho detto, informazioni chiare e precise, Beynes. Informazioni sicure che permetteranno a te e ai tuoi compagni di raggiungere un pianeta dove gli ex-gi sono sbarcati una volta. E… — batté il pugno sul tavolo. — È proprio qui, in questo settore. Non dovrete spostarvi attraverso l’iperspazio in un’altra parte della galassia per arrivarci. Cavolo, stando su quel pianeta si vede perfino il vecchio Sole, se si guarda nella direzione giusta.

Beynes lo fissò. — Sei più pazzo di quel che sembra. Se è così vicino alla Vecchia Terra…

— Perché qualcuno non l’ha trovato prima? — Altre risate e altro catarro. — Diciamo solo che le squadre di esplorazione e la Gilda Diplomatica non si sono consultate come dovrebbero. Quel posto è sfuggito a tutti, Arne. Lo avevano proprio sotto il naso, e se lo sono lasciati sfuggire. Branco di stupidi… — Sedric scosse il capo e riprese la bottiglia di whiskey. — In pratica è appena dietro l’angolo. La tua nave può arrivarci in un paio di giorni. — Tracannò un’altra sorsata di whiskey, sospirò e tornò a posare la bottiglia sul tavolo. — Ma ti darò un’informazione gratis. Dovrete violare qualche legge per raggiungerlo. È off-limits per gli Erthumoi, perché è territorio di qualcun altro. Okay? Mi sembra giusto dirtelo prima che concludiamo l’affare.

Beynes non capiva. — Appartiene a una delle altre cinque razze? — Sedric annuì. — Allora sanno già di quel pianeta… — Sedric scosse la testa. — Ma se è territorio loro, devono per forza…

— No — disse Sedric perentorio. — I… ehm, quelli della razza di cui stiamo parlando, non sanno cos’hanno per le mani, e non visitano quel posto abbastanza spesso da scoprirlo. Quindi è là che aspetta, a completa disposizione, ed è inutile che ti ricordi quanto valgono oggigiorno le informazioni riguardo gli ex-gi. — Incrociò le braccia sul torace striminzito e si appoggiò allo schienale della sedia. — Gratis non ti dico altro, primo ufficiale. — Nonostante l’ubriachezza, Sedric sembrava avere assunto un’aria di assoluta credibilità. — Il resto lo saprai solo quando scucirai i soldi.

Beynes cominciò ad avvicinare lentamente la destra all’arma.

— Scordatelo — fece Sedric. — Come ho detto, non scoprirai nulla se mi disintegri il cervello.

Digrignando i denti frustrato, Beynes ritrasse adagio la mano dal disintegratore. — Quanto?

Sedric trattenne il respiro.

— Cinquantamila. Qui, subito.

— Batté la mano sul tavolo. — In contanti. E non dirmi che devi andare a prenderli sulla nave. I primi ufficiali girano sempre con somme del genere addosso per pagare la cauzione ai membri dell’equipaggio che si cacciano nei guai quando sono in franchigia.

— Sei pazzo. — Beynes spinse subito indietro lo sgabello e si alzò.

— Non giocare con me, ragazzo — sibilò Sedric. — Cinquantamila o niente. Sono stufo di vivere in questo cesso, ed è da un pezzo che aspetto un’occasione del genere. Cinquantamila e avrai le informazioni… sistema, pianeta, tutto quello che devi sapere per fare una grossa scoperta. — Esitò. — Tre possibilità di scelta, Beynes. Mi uccidi, esci da casa mia o metti cinquantamila sul tavolo e cominciamo a parlare. Con due alternative ti ritrovi a mani vuote… con la terza diventi ricco.

Beynes si bloccò, tenendo la mano sopra il disintegratore. — Se sono informazioni tanto preziose, perché non le hai sfruttate prima? — chiese.

Il vecchio cieco sorrise. — Te lo dirò quando scucirai i soldi. — Si strinse nelle spalle. — Non hai ancora preso il disintegratore, quindi non hai nulla da perdere — soggiunse garbatamente. — Tira fuori i soldi, Arne, e saprai il resto.

Arne Beynes tornò a sedersi lentamente sullo sgabello. Da un’altra tasca interna del giubbotto sfilò il portafogli, estrasse dieci banconote di grosso taglio e le mise sul tavolo. Sedric le raccolse a una a una, passandosele delicatamente tra le dita, misurandone le dimensioni, e tastando le tacche caratteristiche negli angoli. Contato il denaro, lo piegò e lo infilò in una tasca dei calzoni sudici.

— Il sistema stellare è Epsilon Indi — iniziò. — Il pianeta è Epsilon Indi II…

— Come si chiama? — chiese Beynes.

— Non ha un nome — rispose Sedric. — I Locriani non gliel’hanno dato. Se vuoi chiamarlo in qualche modo, chiamalo Mecca.

Colyns: Com’è che Sedric sapeva di Mecca?

Beynes: Non lo so. Non ha voluto dirmi tutto… come assicurazione personale, credo, per paura che io lo uccidessi… ma è abbastanza facile immaginarlo. Le voci circolano in un posto come Hellsgate, con il continuo andirivieni di astronavi. Le storie passano di bocca in bocca, da un equipaggio all’altro, specialmente in locali come il Wolfs Tooth. Si tratta quasi sempre di baggianate, però quel tizio sembrava sicuro del fatto suo. Secondo me, ha sentito delle voci a proposito di manufatti ex-gi nel sistema di Epsilon Indi, ha fatto qualche controllo e ha tirato le somme, poi ha aspettato di trovare qualcuno disposto a pagare il suo prezzo.

Colyns: O qualcuno disposto a correre il rischio, per essere più precisi. È risaputo che i Locriani avevano rivendicato il possesso di Epsilon Indi II. Quando la Gilda ha messo a punto i nostri accordi commerciali con loro, i Locriani sono stati molto espliciti in proposito, dato che quel sistema stellare si trova ad appena undici anni luce dalla Vecchia Terra. Dal momento che in quel sistema non c’era molto che interessasse agli Erthumoi…

Beynes: La Gilda Diplomatica è stata felicissima di accontentare i Locriani. Lo so.

Colyns: Allora dovrebbe anche conoscere il motivo dell’insistenza dei Locriani. Quel pianeta ha una notevole importanza spirituale per una delle principali religioni locriane, quella dei Pellegrini Lontani. Lo considerano un mondo sacro, un luogo santo fonte di tutta la saggezza e la conoscenza. Durante il nono mese di ogni anno planetario, dei membri dei Pellegrini Lontani compiono un’egira, un pellegrinaggio, e raggiungono Epsilon Indi II, dove meditano e pregano. Per questo motivo i Locriani volevano che il pianeta rimanesse inviolato da parte degli Erthumoi.

Beynes: Certo. Ecco perché il mio informatore l’ha chiamato Mecca. Qualcosa che ha a che fare con una religione della Vecchia Terra, credo. Ma sai perché i Locriani considerano Epsilon Indi II un mondo sacro?

Colyns: I Pellegrini Lontani non parlano della loro fede con nessuno, ne parlano di rado perfino con gli altri Locriani, a quanto ci risulta. Anche il nome che danno al pianeta è noto solo a loro. Fino all’arrivo del Capital Explorer, gli Erthumoi non avevano mai messo piede su Epsilon Indi II Ma lei dice di avere sentito parlare della presenza di manufatti extragalattici… Beynes: È per questo che siamo andati là, certo.

Colyns: Ma la legge galattica proibisce agli Erthumoi e a qualsiasi altra razza di sbarcare su Epsilon Indi II, è consentito soltanto ai membri dei Pellegrini Lontani. Non capisco come abbiate potuto pensare di riuscire a farla franca, né cosa avreste potuto guadagnare…

Beynes: Via, Colyns, non essere ingenuo, dovresti saperlo benissimo. C’è una ricompensa ingente per qualsiasi manufatto che potrebbe portare gli Erthumoi sulle tracce degli ex-gi. Eravamo uomini d’affari, innanzitutto. Riuscendo a trovare su Mecca qualcosa che valesse la pena di recuperare, ci saremmo potuti arricchire tutti. Inoltre non sarebbe nemmeno stato necessario rivelare il vero luogo di provenienza dei manufatti. Avremmo potuto dire di avere fatto la scoperta su un pianeta o una luna qualsiasi di uno dei tantissimi sistemi vicini. E dato che sapevamo che i Pellegrini Lontani visitavano il sistema di Epsilon Indi solo una volta nel corso dell’anno siderale, le probabilità che i Locriani scoprissero che eravamo stati là erano praticamente zero. Almeno, pensavamo di avere tutto il tempo necessario per trovare quello che volevamo e filar via.

Colyns: Dunque credevate che fosse il delitto perfetto.

Beynes: Non lo chiamerei delitto, no. Più che altro era l’occasione giusta per un affare redditizio.

Quando il Capital Explorer raggiunse Mecca, il capitano Francisco era ubriaco; niente di insolito, anche se era un comportamento offensivo nei confronti degli uomini in plancia. Non appena il mercantile era uscito dall’iperspazio all’eliopausa di Epsilon Indi nella fascia periferica del sistema di cinque mondi, il capitano aveva affidato il ponte di comando al primo ufficiale, era sceso in cabina e aveva aperto la sua prima bottiglia di vino mentre la nave penetrava nel sistema.

Otto ore dopo, quando il timoniere Ahmad annunciò che erano in orbita standard attorno a Epsilon Indi II, Francisco era ancora cosciente ma ubriaco fradicio. Tornò barcollando in plancia, disse a Beynes di togliersi dal suo seggiolino, quindi ordinò di preparare la navetta da sbarco e di formare una squadra di sei uomini.

L’ironia della situazione non sfuggì a Beynes; avevano raggiunto Epsilon Indi II seguendo delle indicazioni fornite da un ubriaco, e adesso si accingevano a scendere sul pianeta sotto la guida di un altro ubriaco.

— Se il recupero sarà abbastanza redditizio — mormorò in seguito a D’Lambert mentre si trovavano nel compartimento della navetta e osservavano i robot scavatori che entravano nella stiva del mezzo da sbarco — dovremmo prendere in considerazione l’idea di rilevare le azioni di Francisco.

L’ufficiale scientifico sorrise, accarezzandosi la barba. — Tieni a freno la lingua, Arne — disse sottovoce. — Se continui a parlare così, potrebbe cominciare a sembrare un ammutinamento.

— Ammutinamento? — Beynes sogghignò e scosse la testa. — Preferisco considerarla una modifica della nostra posizione contrattuale.

Essendo un mercantile indipendente, il Capital Explorer era di proprietà dell’equipaggio. Una volta coperte le spese generali della nave, gli utili venivano divisi in base al numero di azioni che ogni membro dell’equipaggio possedeva. Francisco era capitano del Capital Explorer non tanto per l’esperienza, quanto per il fatto di possedere il pacchetto azionario maggiore. Ma Beynes e D’Lambert insieme possedevano una quota pari a quella di Francisco. Non solo, Beynes aveva all’attivo lo stesso numero di balzi iperspaziali di Francisco e, a differenza del capitano, ii senso del comando del primo ufficiale non annegava in una bottiglia. Se quel viaggio fosse stato abbastanza proficuo, probabilmente avrebbero potuto rilevare le azioni del capitano Francisco. E da come erano andate ultimamente le cose per il Capital Explorer, Francisco avrebbe dovuto essere in pensione da un pezzo… per trascorrere le sue giornate in stato comatoso sul pavimento della birreria di qualche spazioporto, probabilmente. Non c’era molta differenza tra Francisco e Sedric, pensandoci bene.

D’Lambert osservò il capitano con disprezzo. Panciuto e non rasato, si aggirava borioso nel compartimento, urlando ordini inutili agli uomini che stavano preparando la navetta per il volo. — Non che sia una idea malvagia, in qualsiasi modo tu voglia chiamare la cosa — commentò cupo. — Naturalmente, se pensi che il capitano sia sbronzo adesso, aspetta solo che siamo sul pianeta.

— Eh? — Beynes guardò l’ufficiale scientifico. — Cosa intendi dire?

— L’atmosfera.

— Cos’ha l’atmosfera? Non avevi detto che era ossigeno-azoto?

— Infatti — confermò D’Lambert. — Ma la pressione media è di soli sessantanove torr. Un po’ scarsa per gli Erthumoi. — Indicò con un cenno del capo l’ultimo robot scavatore che stava salendo pesantemente la rampa della navetta. — È per questo che ho raccomandato di portare i robot. Saremo tutti un po’ storditi laggiù, e il lavoro manuale sarà già fin troppo duro.

Beynes bofonchiò. — Ma immagino che l’atmosfera vada bene per i Locriani…

D’Lambert scosse la testa. — No — replicò. — Ecco cos’ha di strano questo pianeta. L’atmosfera per noi sarà anche un po’ rarefatta, ma per i Locriani è ancora troppo densa. E la percentuale di neon è leggermente scarsa per i loro gusti. Oh, certo, i Locriani potrebbero vivere senza respiratore, là… però sarebbero quasi perennemente inebetiti. — Si strinse nelle spalle. — Non capisco.

In effetti era strano. Epsilon Indi II ruotava attorno a una nana arancione di classe K5, in tutto simile al sole locriano, ma era a quasi a cinquantamila anni luce dal mondo d’origine dei Locriani che si trovava nel settore galattico di Cygnus. I Pellegrini Lontani avevano percorso una distanza considerevole per colonizzare un pianeta ai limiti dell’abitabilità per la loro razza. Tuttavia, l’esplorazione strumentale della superficie brulla del pianeta condotta da D’Lambert aveva individuato nei pressi dell’equatore un ammasso indistinto di oggetti che erano indubbiamente artificiali. L’analisi non aveva rivelato la presenza di esseri viventi — senza dubbio si trattava di un insediamento abbandonato — eppure sembrava che i Locriani avessero vissuto su quel pianeta deserto una volta. Ma perché proprio lì? La cosa non aveva…

Il comunicatore che portava alla cintura ronzò, interrompendo le sue riflessioni. Beynes lo staccò e lo accostò al viso. — Primo ufficiale — disse.

— Arne, sono Ahmad. — La voce del timoniere sembrava molto turbata. — Abbiamo un problema.

Mentre Ahmad parlava, Beynes notò che il capitano Francisco, che si trovava a breve distanza, aveva alzato lo sguardo sentendo il suono del comunicatore del primo ufficiale. Aveva un’espressione sospettosa, il capitano, e stava già cominciando a muoversi barcollando verso Beynes e D’Lambert. «Fantastico» pensò Beynes. Senza dubbio il timoniere aveva contattato il primo ufficiale perché sapeva che il capitano era troppo ubriaco per affrontare in modo responsabile qualsiasi problema; malgrado quell’intervento accorto, però, Francisco voleva immischiarsi. E non c’era nulla da fare per evitarlo…

— Di che si tratta, sentiamo — disse Beynes, mentre D’Lambert si avvicinava un po’ per origliare.

— I sensori hanno appena localizzato un satellite locriano in orbita bassa — riferì Ahmad. — Non l’abbiamo scoperto prima perché era nascosto dal pianeta rispetto alla nostra posizione orbitale, ma spostandoci sul lato opposto lo abbiamo raggiunto. Non appena lo abbiamo individuato, l’ufficiale delle comunicazioni mi ha detto che il satellite ha trasmesso un segnale iperspaziale su una frequenza locriana. Cattive notizie, Arne. Credo che sia una sentinella.

— Maledizione! — sibilò Beynes. Se il satellite locriano era una sentinella automatica, probabilmente in quel momento i Locriani stavano scoprendo che una nave non identificata stava penetrando illegalmente nel loro territorio.

Lanciò un’occhiata a D’Lambert; l’ufficiale scientifico, silenzioso, scosse il capo. Erano nei guai.

— Okay, Ahmad — disse Beynes. — Annulleremo lo sbarco. Voglio che prepari i motori per una partenza rapida e riprogrammi i computer per un iperbalzo nel sistema più vicino nel raggio di un parsec. Se…

Tutt’a un tratto, il comunicatore gli venne strappato di mano. — Ordine revocato, timoniere! — gracchiò Francisco, spingendo da parte il primo ufficiale. — Che succede lassù?

Il capitano ascoltò con espressione appannata mentre Ahmad ripeteva quanto aveva appena riferito. — Chi diavolo dice che puoi allun… cioè, annullare lo sbarco? — biascicò. — Gli ordini non li prendi dal secondo, Mishtuh Ahmad… li prendi da me! Adesso distruggete quel satellite spia e preparatevi al lancio della navetta!

— Capitano… — iniziò Beynes.

— E tu sta’ zitto! — sbraitò Francisco, puntando l’indice verso la faccia di Beynes. Il primo ufficiale arretrò, colpito non solo dalla rabbia di Francisco ma anche dall’odore rancido di vino del suo alito. — Non sei tu il capitano, Beynes! Sono io il capitano!

D’Lambert fece un passo avanti, incerto. — Capitano Francisco — disse diplomatico — se i Locriani sanno che siamo qui, senza dubbio verranno a indagare. Meglio non trovarsi nei paraggi…

— Ce ne saremo andati da un pezzo quando arriveranno. — Francisco agitò vacillando il braccio destro indicando chissà quale rifugio immaginario, continuando a stringere con la sinistra il comunicatore di Beynes. — Abbiamo ore di tempo prima che loro arrivino qui! Adesso distruggete quel satellite, timoniere! Procediamo con il lancio! Chiudo!

Francisco sbatté il comunicatore contro il petto di Beynes. — Non fare più il furbo con me, Beynes — ringhiò, mentre Beynes annaspava cercando di afferrare l’apparecchio. — La prossima volta che tenti un tiro del genere, è ammutinamento, e io sarò felicissimo di infilarti nella camera di equilibrio e schiacciare il pulsante di espulsione. Capito?

— Signorsì, capitano — rispose Beynes contegnoso.

— Inoltre… — Francisco ruttò e proseguì. — Inoltre, ti voglio con me nella squadra di sbarco. Voglio anche te, D’Lambert, perché mi serve… ehm… — Cercò la parola giusta nella mente annebbiata. — La tua perizia — terminò. Poi fissò Beynes in cagnesco. — E perché non mi fido a lasciarti il comando della mia nave. Capito?

Beynes non disse nulla. Anche D’Lambert rimase in silenzio. Il capitano Francisco arretrò barcollando di un paio di passi, tirando in dentro la pancia e gongolando come un bullo da bar che avesse appena costretto con le minacce un tipo più piccolo di lui a offrire da bere a tutti i presenti. — Avanti col lavoro, ragazzi — disse borioso, quindi cominciò a muoversi impettito verso la navetta da sbarco che attendeva.

Beynes sospirò lentamente e lanciò un’occhiata a D’Lambert. L’ufficiale scientifico scosse lentamente la testa. — Qualunque cosa abbiano lasciato laggiù gli ex-gi — mormorò D’Lambert — spero solo che l’abbiano messa bene in vista.

Colyns: Sta dicendo che durante questo incidente il capitano Francisco era ubriaco e si comportava in modo sconsiderato…

Beynes: Colyns, il capitano era sempre ubriaco e si comportava sempre in modo sconsiderato. Questo è uno dei motivi per cui eravamo disposti a rischiare di andare su Mecca. Il Capital Explorer stava perdendo soldi per colpa sua. Una volta siamo stati fregati in un affare con i Crotoniti perché Francisco era ubriaco quando stava trattando con loro. Voglio dire, è già abbastanza difficile concludere un affare decente con quelli quando si è perfettamente sobri, e Francisco ha iniziato le trattative dopo avere bevuto per sei ore consecutive. Ancora un paio di viaggi del genere, e saremmo falliti.

Colyns: Mi sembra che stia cercando di scaricare la responsabilità su un uomo morto.

Beynes: Perché non sono l’unico responsabile! Ho cercato di fare allontanare la nave dal sistema quando Ahmad ha scoperto la sentinella orbitale!

Colyns: Ma è stato lei a raccomandare il viaggio su Epsilon Indi II…

Beynes: Per recuperare tutto quello che avevamo perso a causa di Francisco. Eravamo quasi sul punto di dover mettere all’asta l’Explorer, insomma. Se fossimo riusciti a trovare dei manufatti ex-gi di un certo valore…

Colyns: E cosa avete trovato sul pianeta?

Beynes: Non quello che ci aspettavamo.

Lo sfolgorio implacabile del sole arancione faceva tremolare l’aria rarefatta di Mecca sulla roccia e sulla sabbia del paesaggio piatto. Il mondo era un unico grande deserto, nel medesimo tempo banale e ostile. Beynes slegò il fazzoletto che aveva al collo e se lo passò sulla faccia, asciugando di nuovo il sudore. Guardò lo straccio sudicio prima di rimetterselo attorno al collo distrattamente; non vedeva l’ora di tornare sul Capital Explorer, se non altro per fare una doccia. Epsilon Indi II era un cesso di pianeta… un cadavere col portafoglio vuoto che non aveva nulla che valesse la pena di rubare.

No: similitudine sbagliata. Era una discarica… ecco una descrizione più precisa. Gli ex-gi avevano lasciato una città completa sulla luna di quel pianeta nella nebulosa W49, una scoperta fatta dall’Achilles non molto tempo prima, che aveva rivelato alle Sei Razze l’esistenza degli extragalattici. Lì su Epsilon Indi II, però, c’era solo una fossa piena di pezzi di metallo e frammenti di vetro, rottami che nemmeno gli ex-gi potevano riciclare. A breve distanza, accanto alla navetta da sbarco del Capital Explorer, Beynes sentiva il rombo dei robot scavatori che smuovevano il terriccio in fondo alla fossa cercando qualcosa di importante. La maggior parte della squadra di sbarco era sull’orlo della buca, osservando oziosamente i robot, forse sperando ancora che le macchine scoprissero qualcosa di prezioso sotto gli strati di rifiuti.

Poco probabile, comunque. A Beynes sembrava di sentire ancora le parole di D’Lambert, dopo che l’ufficiale scientifico era uscito ansimando dalla specie di cratere accanto al punto d’atterraggio per emettere il proprio verdetto sulla scoperta. «Può anche darsi che gli extragalattici siano scesi qui una volta» aveva detto. «Ma in tal caso, l’hanno fatto solo per scaricare i loro rifiuti. Un archeologo forse potrebbe trovare qualcosa di interessante in mezzo a tutta questa robaccia, ma qui non c’è nulla con cui noi possiamo presentarci in banca. Mi spiace, Arne, ma quel vecchio ubriacone su Wolf ti ha venduto delle informazioni inutili.» Poi D’Lambert era tornato in fondo alla fossa per frugare ancora un po’ tra i rottami, nella vana speranza di potere ancora scoprire qualche oggetto sfuggito ai robot. Beynes lo aveva contattato solo dieci minuti prima, e D’Lambert aveva risposto con una filza di parolacce.

Gli ex-gi avevano lasciato dietro di sé una discarica… ma i Locriani avevano lasciato qualcosa di molto più interessante. Beynes si girò a fissare di nuovo la città situata a un paio di centinaia di metri di distanza. La parola «città» sembrava impropria per l’ammasso di alti tumuli cupoliformi che si ergevano non lontano dalla fossa. D’Lambert era stato il primo a capire cosa potessero essere quelle strutture; le aveva paragonate alle cupole di terriccio che le termiti costruivano sulla Vecchia Terra, nell’entroterra del deserto australiano. Dato che i Locriani erano, in un certo senso, insetti altamente evoluti, pareva logico attribuire a loro le cupole.

La città — villaggio, colonia, castelli di sabbia, termitai, in qualsiasi modo la si volesse chiamare — sembrava scintillare al sole; malgrado la rozzezza, sembrava possedere una strana, aspra imponenza. Beynes e D’Lambert si erano spinti fino a una ventina di metri dall’insediamento, non osando andare oltre per non lasciare impronte che sarebbe stato difficile cancellare prima della partenza della navetta. Anche da quella distanza prudenziale, avevano visto porte e finestre nelle fragili cupole, tutte delle dimensioni giuste per i Locriani. E, particolare importante, sembrava che i Locriani avessero usato del materiale della discarica ex-gi per rinforzare i muri: nelle cupole c’erano frammenti di vetro e di metallo e di leghe al carbonio, che corrispondevano ai rifiuti alieni presenti nella fossa. Probabilmente, l’unico modo di utilizzare quel mucchio di rottami. D’Lambert aveva fatto un parallelo con i manufatti erthuma che a volte venivano trovati nelle tane di creature non intelligenti; in maniera analoga, i Pellegrini Lontani avevano senza dubbio saccheggiato la discarica per costruire il loro insediamento.

Ma perché abitazioni così primitive per una razza spaziale? I Locriani avevano dimenticato come si facesse a costruire rifugi migliori per sé mentre erano lì? O era solo il loro modo di vivere da indigeni? «Forse vengono qui quando vogliono andare in campeggio a contatto della natura selvaggia… «

«Comincio a risentire dell’aria» pensò Beynes, scuotendo la testa. Provava già un senso di intontimento. D’Lambert lo aveva avvisato. Controllò il cronometro al polso. Ancora un paio d’ore di margine di sicurezza tra il lancio della navetta e l’orario previsto d’arrivo della prima astronave locriana. Comunque, Ahmad aveva comunicato appena qualche minuto prima dal Capital Explorer che i sensori a lungo raggio della nave non avevano individuato nulla ai margini del sistema. Nessuna turbolenza iperspaziale, nessuno scafo locriano o erthuma; non c’era nient’altro nel sistema da quando il satellite locriano era stato silurato. «Dovrei ringraziare il cielo» si disse Beynes. «Anche se questa palla di polvere non ci frutterà un soldo, almeno ce ne andremo di qui senza…»

Il suo comunicatore ronzò. Beynes lo sganciò dalla cintura e lo accostò alla faccia, ma non fece in tempo a parlare perché attraverso l’auricolare gli giunse la voce stridula di Francisco.

— Cos’hai di buono per me, Beynes?

«Magari vorresti qualcosa tipo una vecchia bottiglia di liquore ex-gi, eh?» Beynes sospirò a fondo — almeno per quanto gli consentiva l’atmosfera rarefatta — e quel gesto inconscio bastò ad acuire il capogiro, comunque tenne a freno la lingua. Francisco era sceso sulla superficie di Mecca soltanto per pochi minuti prima di ritirarsi a bordo della navetta. Lo zoticone senza dubbio stava «dirigendo» le operazioni dalla cabina di pilotaggio del mezzo da sbarco, in compagnia di un atroce mal di testa da sbornia, e impaziente di tornare nel proprio alloggio sul Capital Explorer per combattere con un’altra bevuta la sua paura non infondata di ammutinamento. — Ancora nulla, capitano — rispose deciso Beynes. — È una discarica, proprio come sospettava l’ufficiale scientifico. Non penso che…

— Non m’importa cosa pensi — l’interruppe Francisco. — E la città locriana? Niente che valga la pena di prendere, là?

Beynes corrugò la fronte.

— Capitano, non penso… credo che dovremmo lasciar stare l’insediamento locriano. Ci troviamo già in una posizione rischiosa per il semplice fatto di essere atterrati qui. Penetrare nella città potrebbe essere pericoloso, anche se là ci fosse qualcosa di recuperabile. A giudicare dalle apparenze, non penso…

— E io ti ho appena detto che non m’importa un accidente di quel che pensi o credi, Beynes! — urlò Francisco. — La tua opinione non vale niente per me! Non abbiamo attraversato mezzo settore galattico perché ti preoccupassi di qualche tana d’insetto abbandonata. Ora voglio che tu prenda D’Lambert e un paio di uomini e…

Di colpo la voce di Francisco fu interrotta da tre bip acuti. Beynes impiegò un secondo per riconoscere il segnale di un inserimento d’emergenza; mentre il cervello gli si snebbiava, la voce di Ahmad risuonò nel comunicatore. — Squadra di sbarco, parla l’Explorer! — gridò il timoniere.

— Emergenza priorità alfa-tre-due!

Alfa-tre-due era un codice erthuma usato di rado: significava che un’astronave era sotto la minaccia di un attacco nello spazio. Beynes non aspettò che Francisco ricordasse le proprie responsabilità né gli diede il tempo di rispondere in codice. — Ahmad, parla Beynes! Riferire la situazione!

— Uno scafo locriano è appena uscito dall’iperspazio sopra la superficie del pianeta! Stessa orbita, distanza quattrocento chilometri, in avvicinamento! Ripeto, abbiamo uno scafo locriano vicino!

Beynes raggelò. Una nave locriana che usciva dall’iperspazio a così breve distanza da un pianeta? Era una manovra quasi suicida, che il comandante di una nave avrebbe rischiato solo se… no! — Segnalare intenzioni amichevoli!

— gridò. — Ahmad, segnalare intenzioni amichevoli!

Una pausa. In sottofondo, Beynes sentì degli allarmi e delle voci confuse che gridavano a bordo del mercantile in orbita. — Nessuna risposta ai segnali amichevoli sui canali standard, Arne! Distanza duecento chilometri, in avvicinamento…!

D’un tratto la voce di Francisco s’inserì nella comunicazione. — Timoniere, preparare le armi e sparare! — urlò. — Ripeto, preparare tutte le armi e sparare!

— No! — gridò Beynes nel comunicatore, guardando istintivamente il cielo azzurro velato di foschia sopra la città. — Annullare l’ultimo ordine, Ahmad! Ripeto, non…!

All’improvviso attraverso l’auricolare si udì uno sqqquuaa-aauunnkkkk!: il rumore inconfondibile di un impulso elettromagnetico provocato da un’esplosione nucleare. Un attimo dopo, una supernova in miniatura brillò all’orizzonte a ovest.

— Ahmad! — gridò Beynes. — Capital Explorer, parla Beynes, per favore rispondete! Ahmad!

Delle scariche atmosferiche avevano sostituito per sempre la voce allarmata di Ahmad. A bocca aperta, trattenendo il fiato, Beynes osservò le sottili strisce bianche che cominciarono a solcare la fascia superiore della stratosfera di Mecca. Attraverso il fragore che gli echeggiava nelle orecchie, sentiva le urla inorridite del resto della squadra di sbarco accanto alla fossa dei rifiuti ex-gi. Anche lui avrebbe voluto urlare, ma non riusciva nemmeno a respirare mentre osservava i rottami della sua nave che si disintegravano negli strati alti dell’atmosfera di Mecca. I Locriani… i Locriani… i Locriani avevano appena…

— Partenza immediata! — sentì sbraitare di colpo da Francisco nel comunicatore.

Partenza immediata…? Malgrado avesse sentito spesso quell’ordine, Beynes non afferrò subito il significato delle parole di Francisco, e anche dopo averlo afferrato ebbe dei dubbi. Tornò ad accostare il comunicatore al volto inebetito. — Capitano, non…

Alle sue spalle ci fu un rombo improvviso, un rumore assordante di reattori a fusione nucleare, più forte del ruggito del sangue nelle sue orecchie. Uno scirocco si alzò attorno a lui, raffiche calde di vento artificiale che sollevarono turbini di polvere… e un terremoto in miniatura gli fece tremare il terreno sotto i piedi. Ancor prima di potersi girare, Beynes riconobbe il rumore dei motori della navetta avviati frettolosamente. La sabbia gli sferzò il viso, costringendolo a inginocchiarsi, mentre stringeva il comunicatore e gridava: — Francisco…!

— Decollo! — gridò il capitano.

— Francisco! — urlò Beynes. Attraverso la tempesta di sabbia, vide la sagoma massiccia della navetta alzarsi lentamente sulle colonne incandescenti di vapore di scarico espulse dai propulsori. Il mezzo da sbarco salì — venti metri, trenta, cinquanta — con il carrello ancora all’esterno; il capitano li stava abbandonando, lasciandoli in quel posto di merda, sottraendosi all’ira dei Locriani…

— Francisco — ringhiò Beynes — pezzo di bastardo…!

Poi il veicolo spaziale sembrò inclinarsi verso destra e beccheggiare, come ubriaco, ricordando i barcollamenti di Francisco stesso nei corridoi del Capital Explorer.. perse quota ma acquistò velocità mentre il capitano si dava da fare coi comandi. Beynes sapeva già quale fosse il problema. Pagine di manuali di istruzioni di volo parvero scorrergli nella mente, avvertimenti per evitare certe situazioni pericolose —…non si decolla così, non hai potenza sufficiente, non puoi… — mentre si gettava a terra.

L’ultima cosa che Beynes vide — appena prima di coprirsi la testa con le braccia, mentre il comunicatore che continuava a stringere in mano gli trasmetteva debolmente le ultime grida rabbiose e disperate di Francisco — fu la navetta che piombava sulla città abbandonata dei Locriani. Poi, un’esplosione assordante e una sfera di fuoco…

Colyns; Perché la navetta è precipitata?

Beynes: Francisco non ha scaldato correttamente i motori per il decollo, immagino. Voglio dire, non si può salire su una nave, premere qualche pulsante e… via!… partire. Si può effettuare un decollo rapido con una navetta saltando qualche dettaglio, ma se non si fa ogni cosa alla perfezione i reattori a fusione si bloccano per evitare un’implosione. I motori non forniscono la spinta sufficiente per la velocità di fuga e… ecco, si precipita.

Colyns: Dunque lei pensa che la distruzione dell’insediamento locriano sia stata un incidente?

Beynes: Che razza di domanda è? Non hai ascoltato quel che ho detto? Ho visto cos’è successo, Colyns. La navetta è precipitata dritta sulla città. Per nostra fortuna i reattori erano già stati disattivati dai computer di bordo, altrimenti nel punto in cui ci trovavamo si sarebbe aperto un cratere di cinque chilometri.

Colyns: Sto semplicemente cercando di chiarire tutti i fatti per la registrazione ufficiale, signor Beynes…

Beynes: Allora sia chiaro questo, Colyns… qualsiasi cosa intendessimo fare su Mecca, distruggere l’insediamento locriano non rientrava affatto nei nostri piani. D’Lambert e io abbiamo fatto di tutto per stare alla larga dalla città, anche dopo che Francisco ci aveva ordinato di cominciare a saccheggiare il posto. Non volevamo neppure avvicinarci a quella città, noi. È stato un incidente, insomma! E lo ha provocato Francisco!

Colyns: Capisco, signor Beynes. La sua dichiarazione fa parte della registrazione ufficiale. Adesso, per favore, mi dica cos’è successo all’arrivo dei Locriani. C’è stato qualche atto ostile da parte sua o da parte di qualche superstite della squadra di sbarco? Beynes: No, nessun atto ostile. Non che non volessimo… Quando avvistarono la navetta locriana che stava entrando nell’atmosfera, quasi tutti volevano barricarsi tra le macerie della città e abbattere il maggior numero possibile di insetti. La distruzione del Capital Explorer, la morte improvvisa dei compagni, la morte di Francisco… erano tutti ricordi ancora troppo vividi. Volevano la vendetta, pura e semplice, indipendentemente da chi potesse avere la colpa.

Ma solo tre uomini della squadra erano armati di disintegratore, e anche se qualcuno propose di utilizzare i robot perché speronassero la navetta locriana una volta atterrata, D’Lambert fece notare subito che le macchine erano state progettate esclusivamente per svolgere operazioni di scavo e non manovre militari. Qualsiasi piano per attaccare i Locriani, dunque, era destinato a fallire… e quando l’enorme mezzo da sbarco locriano atterrò e gli alieni cominciarono a uscire dai portelli, risultò evidente che gli Erthumoi superstiti erano in netta inferiorità numerica; il rapporto di forze era di almeno sei a uno.

E così, un’ora dopo la caduta della navetta sulla città, i cinque superstiti dell’equipaggio del Capital Explorer si ritrovarono circondati da ventidue locriani armati. Gli alti alieni insettoidi li sovrastavano, reggendo le loro strane armi con le quattro braccia lunghe e sottili. Le armi non erano puntate contro gli Erthumoi, ma non erano nemmeno completamente rivolte in un’altra direzione. Malgrado l’ambiente compatibile, tutte le guardie portavano caschi sferici con respiratore, evidentemente per non cadere in delirio nell’atmosfera troppo ricca. Attraverso i caschi, Beynes li sentiva parlare tra loro, uno stridio misterioso che faceva contrarre rapidamente le loro mandibole. Se fosse stato disponibile un traduttore universale, Beynes avrebbe potuto capire quel che dicevano, ma i loro traduttori erano tutti sulla navetta da sbarco precipitata: un’altra maledetta colpa del non rimpianto capitano Francisco.

Però non furono le guardie ad attirare maggiormente l’attenzione del primo ufficiale. Fu il comportamento di un gruppetto di Locriani sbarcati dietro la squadra armata. Otto Locriani, che indossavano lunghi mantelli rossi; i cappucci penzolavano sul dorso perché a quanto pareva non erano abbastanza grandi da coprire anche i caschi. Seguirono le guardie fino al manipolo di Erthumoi intimoriti e si fermarono dietro il cerchio di Locriani armati, aspettando in silenzio che gli invasori venissero circondati.

— Pellegrini Lontani — mormorò D’Lambert a Beynes. — Quei mantelli devono essere…

— Silenzio, per favore. — La voce filtrata e tradotta apparteneva a uno dei Locriani in rosso, che si trovava in mezzo al gruppo e portava un traduttore sul torace stretto e chitinoso. Beynes sapeva che i Locriani erano in grado di parlare l’erthumoi standard, questo però solo in occasioni diplomatiche; quell’alieno, a quanto pareva, voleva mantenere le distanze, pur se in modo discreto.

— Non parlerete finché non vi verrà rivolta la parola — proseguì il Locriano. — Disarmatevi immediatamente.

Non c’era alcuna minaccia palese in quella richiesta, ma di fronte a quasi due dozzine di armi locriane il sottinteso era fin troppo chiaro. D’Lambert e un altro membro dell’equipaggio tolsero i disintegratori dalla fondina e li gettarono adagio ai piedi dei Locriani più vicini. Beynes esitò a privarsi del suo unico mezzo di protezione.

— Sono Arne Beynes, primo ufficiale del mercantile indipendente erthuma Capital Explorer… — iniziò.

Il Locriano più vicino a lui fece un passo avanti, puntando rapido l’arma che impugnava contro la faccia di Beynes. — Zitto e disarmati, primo ufficiale Arne Beynes — ordinò il Pellegrino Lontano.

Beynes trasse un profondo respiro, poi obbediente sganciò il disintegratore e lo gettò, cintura compresa, oltre la guardia locriana avanzata verso di lui. II Locriano arretrò, tornando nel cerchio di guardie, e abbassò l’arma. Un paio di Locriani si scambiarono una serie di pigolii; uno degli alieni si affrettò a requisire i disintegratori erthuma. Beynes si rese conto che adesso lui e i suoi compagni erano completamente alla mercé dei Pellegrini Lontani e della loro scorta. Un senso nauseante di impotenza gli attanagliò lo stomaco.

— Chi siete? — disse. — Cosa intendete farci?

Il Pellegrino Lontano che aveva parlato ebbe qualche attimo di esitazione. — Sono stato scelto come — disse infine. — Il vostro destino sarà deciso presto da me e dai miei fratelli. Questo è tutto. Ora, silenzio.

Beynes giunse al limite della sopportazione. — Silenzio, un accidente! — sbottò. — Avete distrutto la mia nave, razza di insettoidi…!

La guardia locriana accanto a lui abbassò l’arma e sparò; cinque centimetri di roccia e sabbia tra i piedi di Beynes si disintegrarono.

Il primo ufficiale balzò indietro, fissando la guardia che aveva appena fatto fuoco. — Il tuo amico mi ha sparato! — strillò.

— Se avesse voluto spararti davvero — replicò Portavoce — ora tu ti saresti fuso con l’universo. La vostra nave è stata distrutta perché si preparava a far fuoco contro di noi. Abbiamo intercettato le vostre comunicazioni e sappiamo che questa è la verità. Siamo dispiaciuti per la nostra azione letale, ma siamo stati costretti a proteggerci.

— È stato un errore! — protestò D’Lambert. — Noi non…

Un altro Locriano spianò la bocca della propria arma contro l’ufficiale scientifico. Beynes gli afferrò un braccio per farlo tacere. — Silenzio — ordinò Portavoce. — Comunque, siete colpevoli di sconfinamento e di distruzione di territorio sacro. La vostra penitenza verrà decisa tra poco.

Portavoce-con-gli-Erthumoi sembrò esitare di nuovo. Poi, da sotto il lungo mantello, estrasse un oggetto piatto che Beynes riconobbe: un libro multilingue. Il Pellegrino Lontano aprì il coperchio a valva, toccò un paio di borchie, poi lo chiuse e lo gettò nel buco annerito lasciato nel terreno dal disintegratore locriano.

— Se vi aiuta a capire, leggetelo — disse.

Ci fu un altro breve scambio di pigolii non tradotti, questa volta tra i Pellegrini Lontani e la loro scorta, quindi gli otto Locriani ammantellati si girarono e cominciarono ad allontanarsi.

Gli accoliti si avviarono subito verso la città distrutta, dove una colonna nera di fumo si alzava ancora dai rottami bruciacchiati della navetta posati sulle cupole sfondate e sgretolate. La carcassa sembrava un grosso giocattolo lasciato cadere con noncuranza su un gruppo di formicai; per la prima volta nell’ultima ora, Beynes cominciò a guardare la distruzione attraverso i grandi occhi sfaccettati dei Locriani. Avrebbe voluto chiamare Portavoce, insistere che non era colpa sua, che lui non era responsabile del danno irreparabile causato alla loro città…

Ma non fu solo la minaccia delle armi delle guardie a strozzargli le parole in gola. Beynes lanciò un’occhiata a D’Lambert. L’ufficiale scientifico lo fissò per un attimo, poi stoicamente si voltò e osservò i Pellegrini Lontani. Forse gli erano venuti in mente gli stessi pensieri tetri.

I discepoli locriani si fermarono appena fuori le rovine della loro città. Tutti insieme, si inginocchiarono lentamente di fronte alle cupole sbriciolate, disponendosi in semicerchio come le guardie attorno agli Erthumoi. Poi, con grande stupore di Beynes, slacciarono i caschi e li tolsero. Pochissimi membri delle Sei Razze si erano visti reciprocamente senza indossare qualche tipo di respiratore. Per un istante brevissimo, le teste degli otto Locriani apparvero scoperte come quelle degli Erthumoi prigionieri. Poi i Pellegrini Lontani alzarono i cappucci, coprendo i crani oblunghi, e rimasero immobili.

Immobili, ma non muti. Malgrado la distanza, Beynes li sentì conversare; quelle parole aliene gli giunsero in modo vago, portate dalla brezza calda che agitava i loro indumenti. Le guardie attorno alla squadra da sbarco erthuma rimasero in silenzio, osservando gli Erthumoi attraverso i caschi.

Beynes si ricordò del libro gettato ai suoi piedi da Portavoce.

Inginocchiandosi, lo raccolse piano, spazzò via la sabbia e lo aprì: era stato programmato per la lingua erthuma. Si sedette e lo attivò, e mentre i compagni si inginocchiavano e si sedevano attorno a lui — guardandosi bene dall’aprir bocca ma leggendo oltre le sue spalle — Beynes cominciò a scorrere l’ipertesto.

Inosservate, le ombre intorno a loro iniziarono ad allungarsi mentre Epsilon Indi calava a poco a poco sotto l’orizzonte occidentale al di là della città distrutta, e la fredda notte di Mecca ebbe inizio.

Colyns: E lei dice che quel libro datole da Portavoce-con-gli-Erthumoi… era la storia dei Locriani?

Beynes: No, no… era la storia dei Pellegrini Lontani, anche se probabilmente «storia» non è il termine giusto. Più che altro era il loro Corano o Torà o Sacra Bibbia, comunque lo si voglia definire…

Colyns: Le loro sacre scritture…

Beynes: All’incirca… però immagino che un Erthumoi non getterebbe mai un Corano o una Torà nella polvere ai piedi di un miscredente. Forse era solo un libro, Colyns. A ogni modo, parlava dei Pellegrini Lontani, di cosa significasse Mecca per loro.

Colyns: Allora cosa diceva il libro riguardo…?

Beynes: Vuoi stare zitto e ascoltarmi? Stai registrando tutto, quindi piantala con le domande. Bene… i Pellegrini Lontani non sono nati come religione. Erano… potremmo dire che erano dissidenti politici, immagino, anche se forse nemmeno questa definizione è esatta. Erano un gruppo che non credeva nell’opinione della maggioranza sul mondo d’origine dei Locriani…

Colyns: Sembra improbabile. I Locriani non hanno una storia di guerre interne.

Beynes: Perché sbattevano fuori chiunque non fosse d’accordo con lo status quo. Stiamo parlando di una specie che ha sviluppato la tecnologia per il volo stellare più di trecentomila anni fa. Erano in grado di esiliare i dissidenti nello spazio quando gli Erthumoi bruciavano ancora le streghe. È così che hanno avuto origine i Pellegrini Lontani. Gli hanno dato… be’, in sostanza, un’astronave e una serie di indicazioni, e gli hanno ordinato di togliersi dai piedi. Seguendo quelle indicazioni hanno raggiunto una stella di classe K5 dall’altra parte della galassia… un sistema che, come le loro sonde avevano già accertato, conteneva un pianeta abitabile per i Locriani.

Colyns: Epsilon Indi?

Beynes: Appunto. E il pianeta era Mecca… quello che noi chiamiamo Mecca, almeno. Il libro non riportava il nome locriano del pianeta nella versione erthuma. Immagino che sia considerato un nome sacro.

Colyns: Capisco. E questo quando è successo?

Beynes: Non lo so. Il libro non precisava questo particolare… era evasivo, come per il nome del pianeta. Comunque, secondo me, è successo appena prima che gli Erthumoi scoprissero la tecnica dell’iperbalzo. Però so che la nave locriana poteva fare un viaggio di sola andata… come ripeto, questo era il metodo adottato dai Locriani per sbarazzarsi degli elementi radicali… così, una volta raggiunto Mecca, per i Pellegrini Lontani era impossibile ripartire. Per qualche motivo, quella nave si è schiantata sul pianeta, e loro non hanno potuto recuperare granché dai rottami. Si sono dovuti arrangiare con quel che avevano. E, per rendere davvero le cose più piacevoli, il pianeta non era completamente abitabile perché l’atmosfera era un po’ troppo ossigenata per loro. Ma avevano fatto naufragio, non potevano tornare a casa, quindi hanno dovuto tirare avanti con quello che avevano. Colyns: E gli extragalattici…?

Beynes: Gli ex-gi erano stati su Epsilon Indi II molto tempo prima dell’arrivo dei Locriani. D’Lambert aveva ragione. Era solo una discarica per loro, un posto dove lasciare i rifiuti. Ma i Locriani hanno trovato quei rifiuti e, dato che erano a corto di materiale, li hanno usati per costruire la loro città. Ma la parte importante di questa storia è che la percentuale d’ossigeno dell’atmosfera di Mecca era un po’ alta per loro. Tendevano a… be’, il libro parla di visioni mistiche, di rivelazioni sull’uniformità dell’universo e via dicendo; ma non ci vuole un eso-biologo per capire che soffrivano di ipossia collettiva. Avevano allucinazioni pazzesche. Colyns: Ipossia collettiva? Un’intera colonia perennemente ubriaca di…? Beynes: Ubriaca, in preda ad allucinazioni, che riceveva rivelazioni divine… forse è la stessa cosa, in fondo. Voglio dire, ci siamo cacciati nei guai per colpa di un paio di ubriachi erthuma, quindi che differenza fa qualche ubriaco in più? Comunque, i contrasti politici degli esuli locriani con la madrepatria sono stati assimilati dalla religione nata su Mecca. Colyns: E la città…

Beynes: La città era il centro della loro esistenza, il luogo dove si è sviluppato il loro sistema di credenze religiose. Sono riusciti a sopravvivere là, ma appena appena. Il libro dice che hanno perso la maggior parte dell’equipaggio originale, e parla di un tasso di mortalità del cinquanta per cento nelle due generazioni successive. Sostiene che sono sopravvissuti solo quelli che hanno abbracciato le credenze della setta dominante, ma forse questa è solo l’interpretazione della storia da parte dei vincitori… chissà? Comunque, dopo tanti anni un’altra nave locriana si è avventurata nel sistema di Epsilon Indi per scoprire che fine avessero fatto i dissidenti, e così i Locriani hanno trovato la terza generazione di discendenti dei primi esuli… ora però quei tipi erano i Pellegrini Lontani. Colyns: Ma hanno lasciato Mecca… cioè, Epsilon Indi II… Beynes: Esatto, perché stando alla predizione della loro mitologia un giorno sarebbero stati salvati dai loro fratelli. Nel libro c’erano un sacco di frasi tipo «e gli infedeli vedranno la vera luce»… ma secondo me nel frattempo i Locriani si erano ammorbiditi un po’ e avevano deciso che la loro razza poteva accogliere più di un sistema di credenze. Comunque, è così che i Pellegrini Lontani hanno lasciato Epsilon Indi II. Per quel che ne so io, sono ancora una rarità tra i Locriani, perché solo i discendenti dei primi esuli possono entrare nella setta, quindi non si tratta di una religione che cerchi di fare proseliti. Ma Mecca — o Epsilon Indi II, se vogliamo chiamarlo ancora così — è considerato un mondo sacro, e la maggioranza dei Locriani è disposta a cedere quel pianeta ai Pellegrini Lontani. Forse è solo una mia supposizione, ma può darsi che la loro sia stata l’unica colonia di esiliati a sopravvivere a una prova del genere. Immagino che per questo si siano guadagnati un certo rispetto. Colyns: Così la città trovata dal Capital Explorer…? Beynes: Il «sancta sanctorum». E la nostra navetta precipitando l’ha centrato in pieno. L’ha distrutto completamente.

Colyns: Ma i Locriani che l’hanno riportata da noi, signor Beynes, non hanno detto nulla riguardo… Beynes: Perché la città è di nuovo com’era.

Colyns: Ma io… ma lei ha appena detto che… che Francisco si è schiantato con la navetta da sbarco sull’insediamento e…

Beynes: La loro religione gli proibisce di uccidere, a parte in caso di legittima difesa. Questo non ha impedito ai Pellegrini Lontani di trovare un modo creativo di farci fare penitenza…

Durante tutta la lunga notte di Mecca i Pellegrini Lontani rimasero seduti ai margini della colonia distrutta, apparentemente insensibili al freddo sceso sul deserto dopo il calar del sole, mentre gli Erthumoi stavano addossati l’un l’altro per scaldarsi, costretti al silenzio dalle instancabili guardie locriane. Ai superstiti della squadra da sbarco del Capital Explorer venne data dell’acqua, e chi aveva qualche bisogno fisiologico ebbe il permesso di allontanarsi per un breve tratto dal cerchio; ma non mangiarono nulla, e non potevano neppure parlare sottovoce tra loro. A uno a uno gli Erthumoi si addormentarono, raggomitolati, tremando nella notte gelida.

Tutti tranne Beynes, che rimase ben sveglio. Mentre la notte trascorreva lenta, osservò i Pellegrini Lontani, chiedendosi che visioni stessero contemplando i loro grandi occhi, chiedendosi di cosa stessero discutendo in quella lingua aliena. Di una sola cosa era certo: l’indomani mattina lui e i suoi compagni sarebbero stati giustiziati sommariamente. Adesso si rendeva conto della gravità del loro sconfinamento su quel mondo, dell’enormità del sacrilegio commesso distruggendo la città santa.

Provava addirittura una specie di senso di vergogna mai provato in precedenza. Sedric il cieco gli aveva detto che avrebbe potuto vedere il Vecchio Sole da Mecca; mentre scrutava il cielo stellato cercando di decidere quale punto luminoso rappresentasse il sistema che ospitava la Vecchia Terra, Beynes si ritrovò a ricordare lezioni di storia apprese a scuola e dimenticate da un pezzo. A causa della sua avidità, un antico diritto era stato violato, la reliquia di una cultura remota era stata distrutta stupidamente, proprio come il naso della Sfinge nell’antico Egitto sulla Vecchia Terra era stato mozzato dallo sparo di un soldato dal grilletto facile.

Per tale trasgressione — Beynes ne era certo — lui e i suoi uomini sarebbero morti. Nonostante quello che aveva letto nel libro locriano, non riusciva a concepire altra pena confacente al loro atto sacrilego.

Quando Epsilon Indi spuntò all’orizzonte, i Pellegrini Lontani si mossero, interrompendo la lunga meditazione. Senza mettere il casco, si girarono e tornarono lentamente dagli Erthumoi prigionieri, che erano già stati svegliati dalle prime luci dell’alba. Mentre gli altri Pellegrini Lontani attendevano all’esterno del cerchio di guardie, Portavoce-con-gli-Erthumoi avanzò e si avvicinò a Beynes.

Mentre il primo ufficiale osservava, Portavoce-con-gli-Erthumoi spinse indietro il cappuccio del mantello. Poi, inaspettatamente, la membrana esterna scagliosa dell’unico occhio del Locriano si ritrasse, mostrando il globo a Beynes. Una vista sgradevole; Beynes ebbe un brivido di disgusto interiore, e lottò contro l’impulso di distogliere lo sguardo. Sapeva, naturalmente, che i Locriani erano molto vulnerabili quando i loro occhi erano esposti.

Volendo, avrebbe potuto uccidere Portavoce-con-gli-Erthumoi sferrandogli un pugno in faccia. Ma intuì che sarebbe morto ancor prima di riuscire ad alzare la mano. Così, rimase immobile e si sforzò di fissare quell’occhio orrendo.

Dopo un po’, Portavoce-con-gli-Erthumoi parlò. — Abbiamo deciso la vostra penitenza — disse. — Non morirete, nonostante quel che pensate, primo ufficiale Arne Beynes. Noi non uccidiamo, tranne quando siamo costretti a sopprimere altre vite per proteggere le nostre.

Beynes rimase scosso, invece di sentirsi sollevato. Sembrava che il Locriano fosse riuscito a leggergli nell’animo. Dimenticando la proibizione di parlare, chiese: — Allora cosa ci succederà?

— A tempo debito — continuò Portavoce — tu e i tuoi compagni tornerete tra i vostri simili, con una spiegazione di quel che è accaduto su questo mondo. Anche se la vostra colpa è grave, lo è anche il fatto che noi abbiamo distrutto la vostra nave e gli Erthumoi a bordo. Tuttavia questo è un evento isolato, e non gioverà né agli Erthumoi né ai Locriani se permetteremo che degeneri in una guerra tra le nostre razze. Abbiamo già versato abbastanza sangue.

Il Pellegrino Lontano fece una pausa. — Naturalmente, a patto che sia fatta penitenza.

Beynes trasse un profondo respiro, che parve stridergli nel petto. — Che tipo di penitenza, Portavoce?

— Avete letto la nostra storia — disse il Locriano. Tese un arto, e Beynes restituì il libro ricevuto la sera prima. Portavoce-con-gli-Erthumoi lo ripose nella tasca interna del mantello. — Quindi, adesso sapete com’è stata costruita questa città e perché. I Pellegrini Lontani vengono in pellegrinaggio qui da centinaia di anni standard. È fondamentale per la nostra fede che questo luogo rimanga intatto per via dei sacrifici fatti. Dovrà continuare a essere com’era, anche se il sacro lavoro dovrà essere svolto da degli Erthumoi questa volta.

Beynes era confuso. — Non capisco… — iniziò.

— No — disse Portavoce — ma alla fine capirete, quando avrete fatto quei sacrifici voi stessi.

E fu allora che Beynes intuì quale fosse la penitenza decisa dai Pellegrini Lontani.

Colyns: Avete… avete ricostruito la città locriana?

Beynes: Noi cinque siamo stati abbandonati su Mecca per ricostruire la città. I Locriani ci hanno risparmiato la vita… ma in cambio hanno preteso il nostro lavoro. Ci hanno lasciato cibo e acqua a sufficienza per sopravvivere, più tutto il materiale recuperabile dai rottami della navetta. Ma hanno distrutto i nostri robot per impedirci di usarli, e hanno portato via tutti gli attrezzi che avrebbero potuto aiutarci nella ricostruzione della città, e tutti i nostri comunicatori perché non potessimo mettere insieme un radiofaro e lanciare dei segnali. Proprio come i Pellegrini Lontani naufragati su Mecca, anche noi abbiamo dovuto costruire la città con le nostre mani, se non altro perché avevamo bisogno di un riparo.

Colyns: E i Locriani… non hanno mai controllato l’andamento del vostro lavoro?

Beynes: Nel nono mese di ogni anno siderale, un gruppo di Pellegrini Lontani veniva in pellegrinaggio su Mecca. Quando arrivavano, ci portavano cibo, acqua, medicinali, tutto quello che ci occorreva.. tranne degli attrezzi o la libertà. ogni volta che venivano, noi avevamo ricostruito un’altra piccola parte della loro città, e ogni volta i superstiti del nostro gruppo pensavano che i Locriani finalmente avrebbero avuto pietà. Li abbiamo implorati, Colyns, li abbiamo supplicati… ma solo la morte è stata misericordiosa con noi. Colyns: Il suo equipaggio…

Beynes: Tutti morti… a uno a uno, nei sette anni successivi, ricostruendo quella maledetta città. Una morte lenta… anche se ci avessero dato l’attrezzatura necessaria, non sarebbe cambiato nulla. Per via dell’atmosfera rarefatta ci stancavamo facilmente, e sembrava sempre che non avessimo la forza di continuare. Ci sentivamo come ubriachi, quasi perennemente… era l’aria a ridurci in quello stato… L’aria… e il caldo… o il freddo in inverno. Non so quale fosse la cosa peggiore. C’è voluto più di un anno solo per togliere i rottami della navetta dalle rovine e trascinarli fino alla discarica. Abbiamo potuto utilizzare una parte dei rottami per costruire le cupole, ma perlopiù abbiamo usato terra e sudore. Sudore, sputo, piscia, sangue… qualunque cosa potesse servire a compattare la terra… Colyns: Non…

Beynes: Abbiamo usato la nostra saliva e la nostra piscia per cementare i muri, e quando uno di noi moriva gli cavavamo il sangue e lo usavamo per costruire le cupole… Colyns: Io… io…

Beynes: Il loro sangue, Colyns! In quei muri c’è anche del sangue umano! Nemmeno quando morivano avevano finito di scontare la loro pena! Una volta eravamo rimasti senza viveri, così abbiamo dovuto… Colyns: Capisco… E… e lei è l’ultimo sopravvissuto…? Beynes: D’Lambert, il mio migliore amico, il mio unico amico… è morto durante il sesto anno. Tutti gli altri erano già morti. Dopo, sono rimasto solo…

Colyns: Mi dispiace. E lui… voglio dire, è stato… Beynes: Avevo scelta? Per un certo periodo, in seguito, sono impazzito. Ho pensato al suicidio, ma non sono stato capace di ricorrere a quella soluzione. Dovevo finire quello che avevo iniziato. Lo dovevo ai… Colyns: Certo… capisco… E il settimo anno…?

Beynes: Il settimo anno, ho finito di costruire la città. Quando sono tornati nel nono mese di quell’anno, i Pellegrini Lontani hanno mantenuto la loro promessa. Mi hanno riportato nello spazio erthuma… e il resto lo sai.

Colyns: Capisco. È… interessante.

Beynes: Interessante? (Espressione oscena cancellata.) Sono morte undici persone per colpa dei Locriani, e tutto quello che riesci a dire è «interessante»? Guarda le mie mani, Colyns! Guarda cos’è successo alle mie mani…!

Colyns: Signor Beynes, le sue mani sono a posto. Beynes: (Espressione oscena cancellata.) E i Locriani? Come gliela faremo pagare?

Colyns: Mi dispiace per quanto le è successo, signor Beynes, ma se pensa che gli Erthumoi dichiareranno guerra ai Locriani solo perché undici persone sono morte, si sbaglia di grosso. La pace esistente tra le Sei Razze è troppo preziosa per venire turbata da un branco di pirati morti. E infatti questo episodio non diventerà mai di dominio pubblico… e lei scomparirà.

Beynes: Scomparirò? Brutto (espressione oscena cancellata), ma se perfino i Locriani mi hanno risparmiato la vita! Perché gli Erthumoi dovrebbero…?

Colyns: Ha frainteso. Nessuno ha parlato di ucciderla. Lei scomparirà semplicemente. Nella galassia ci sono molti posti dove nasconderla. Trascorrerà il resto dei suoi giorni in modo confortevole, perché non possiamo farle nulla che sia peggiore della punizione che ha già subito… Beynes: Le mie mani…

Colyns: Ci occuperemo delle sue mani, signor Beynes, glielo prometto. Però non potrà entrare in contatto con nessuno. La sua storia morirà quando lei morirà… è assolutamente necessario isolarla fino a quel giorno.

Beynes: E i miei compagni? Ahmad, D’Lambert, il capitano Francisco, tutti gli altri… e loro?

Colyns: Credo che continueranno a farle compagnia. Questo colloquio è finito, ma prima che me ne vada, signor Beynes, mi dica una cosa, non per la registrazione ufficiale… Secondo lei, chi li ha uccisi? I Locriani, o lei stesso?

Beynes: Mecca…

Colyns: Capisco… Ora devo andare, signor Beynes.

Beynes: Mecca… penso che anche i Locriani lo chiamino Mecca.

Fine trascrizione

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