Karen Haber L’ESSENZA DELLA VERITÀ

Titolo originale: The soul of Truth


— Consideriamo Platone.

Ph’shaq, il Cephalloniano più giovane, si voltò verso Ph’shik, l’anziana. Fu una rotazione lenta, come tutti i movimenti dei massicci Cephalloniani. Ma c’era spazio in abbondanza nella nave, c’era l’indispensabile acqua vitale, e — chissà, forse — c’era tempo. Ph’shaq non era del tutto convinto dell’esistenza del tempo lineare come qualcosa di più di una costruzione filosofica. Ma in gioventù si poteva sbagliare. Avrebbe corretto i suoi sistemi opinativi nel modo opportuno.

— Platone? — Ph’shaq rovistò la propria memoria frontale. — Non abbiamo parlato di Platone nell’ultimo incontro? Dobbiamo farlo ancora, così presto?

Ph’shik agitò placida una pinna. — Forse ti stai stancando dei filosofi erthuma, giovane. Potremmo passare ai Naxiani, immagino. Ma sono così vaghi. Non penso abbiano una vera filosofia. Solo idee singolari. Quanto ai Crotoniti, le loro convinzioni repellenti non sono degne di discussione, come abbiamo convenuto. I Locriani sono più adatti a una disamina: il Grande Occhio, l’Invisibile e Noto…

Ph’shaq rabbrividì con tutta la delicatezza di cui era capace un vertebrato acquatico di mezza tonnellata.

Le credenze locriane erano… be’, sconvolgenti.

— No. Per favore. I filosofi erthuma sono graditissimi. Se mi è consentito, però, confesso di avere una preferenza.

— Dilla.

Ph’shaq sentì un fremito di piacere nelle pinne vestigiali. Ph’shik era molto gentile a domandargli cosa preferisse. Raramente ai giovani veniva chiesto di esprimere le proprie opinioni prima che avessero superato i sette archi temporali. Ph’shaq era solo a metà del quinto. — Sartre, Nietzsche, Kierkegaard.

— Gli esistenzialisti? — Il tono di Ph’shik era benevolo. — Naturalmente. I giovani li prediligono sempre.

— Non solo quelli. A me piace anche Spencer.

— Sì, sì. «C’è un’essenza di bontà nelle cose malvagie ma in genere anche un’essenza di verità nelle cose erronee.» Notevole, eccellente. L’eterna ossessione erthuma per il bene e il male. La verità. Interessante. — Ph’shik emise una scia di bolle rosa per evidenziare la propria approvazione.

Imbaldanzito, Ph’shaq abbandonò l’abituale riserbo. — E anche Russel, Mishima, James e Santayana.

— Basta. — Ph’shik galleggiava apparentemente tranquilla, ma le sue emissioni erano sfumate di rosso cupo, indice di impazienza. — Tu vorresti discutere di tutto contemporaneamente: il significato della vita, il significato della morte, l’evoluzione, il pluralismo, la ragione. Ma consideriamo il concetto erthuma di bellezza.

Ph’shaq assunse la terza posizione reclina per mostrare che era pronto ad ascoltare e discutere.

— Per esempio — disse Ph’shik — cos’è la bellezza se non viene percepita direttamente?

— Se vuoi discutere della percezione, forse faremmo meglio a passare ai Locriani — disse Ph’shaq, riuscendo quasi a reprimere il brivido questa volta.

— Be’, potremmo ampliare l’argomento, approfondirlo. Forse in un secondo tempo. Il problema secondo me si pone in questi termini: si possono accettare le percezioni di un altro essere senza una prova visiva diretta? Imbarazzante, davvero imbarazzante. I Crotoniti, naturalmente, sono inflessibili su questo punto. I Naxiani un po’ meno. E chissà cosa pensano i Locriani? O che importa cosa pensano, in fondo? — Ph’shik fece un gesto lento e greve che equivaleva a un’alzata di spalle. — Si potrebbe sostenere, anzi si può affermare che la nascita delle grandi religioni è un esempio primario dell’accettazione della percezione di un altro essere senza prova diretta.

— Sì — convenne Ph’shaq. — Quella spaventosa vicenda del Cristianesimo di cui ho letto… Sorprendente.

— Esatto. Naturalmente, data la breve durata della vita erthuma e le percezioni limitate degli Erthumoi, è sorprendente il fatto che abbiano prodotto una loro filosofia.

— O una tecnologia.

Un robot erthuma entrò nella sala e nuotò verso di loro, diffondendo un alone distensivo con le sue luci azzurre. Sul dorso aveva un vassoio di leccornie.

— Ma stiamo divagando. — Ph’shik accettò un bocconcino dal robot e lo ingoiò aggraziata. — Ancor più curioso, questo forte culto erthuma della bellezza. Nelle loro banche dati ci sono riferimenti a leggendarie creature del passato: Lilith, Eva, Elena di Troia, Cleopatra. Tutte grandi bellezze.

— Non ho mai visto la bellezza — disse Ph’shaq. Le sue emissioni erano verde cupo, segno d’eccitazione. — Potremmo vedere queste famose creature erthuma, allora, per scoprire cosa significhi questa cosa chiamata bellezza?

— Impossibile. Non esistono immagini registrate di queste creature.

— Dunque, non sono mai state viste? Buffo, molto buffo. — Ph’shaq divorò parecchi bocconcini gustosi. — Ma allora gli Erthumoi come sapevano che erano belle?

Ph’shik agitò languida una pinna. — Si deve presumere che in queste questioni la fede sia importante quanto la verità per gli Erthumoi. Almeno uno di loro ha considerato la bellezza uguale alla verità.

— Ma il concetto di bellezza sembra piuttosto opinabile, aperto a molteplici interpretazioni.

— Come la verità.

Entrambi i Cephalloniani s’interruppero per emettere delle bolle gialle di divertimento.

— Secondo l’opinione filosofica generale erthuma, senza la bellezza la vita non merita di essere vissuta.

— Che dogma! E che passionalità… Bellezza. Verità. Libertà. Felicità. — Ph’shaq agitò la coda in un gesto complesso per esprimere benevolo compatimento.

— Chiedo scusa — disse il robot. Il suo cephalloniano era perfetto. — Gradite altri rinfreschi?

Ph’shaq alzò lo sguardo speranzoso.

— No, grazie — rispose Ph’shik.

Il robot fece una svolta a S con un’agilità e una velocità inarrivabili per i Cephalloniani, e lasciò la sala. Nuotò rapido lungo un condotto fino al livello manutenzione dell’astronave, raggiungendo i compagni e altri replicanti meccanici.

— Bellezza — cantilenò. — Verità. Libertà. Felicità…

Tutt’intorno, l’attività procedeva ronzando. Ogni replicante aveva una funzione specifica: elaborazione alimentare, reperimento dati e memorizzazione, navigazione, sicurezza, manutenzione. E ognuno svolgeva il compito per cui era stato programmato. Ma per facilitare le loro indagini filosofiche, i Cephalloniani avevano chiesto che tutti i loro replicanti fossero anche dotati della capacità di dibattere e riflettere. Perciò l’elaboratore alimentare intonò il proprio mantra di interessi erthuma, mentre lì accanto un robo-riparatore prendeva in esame il manifesto naxiano dei bisogni di gruppo. Sull’altro lato della sala, dei replicanti addetti alla sicurezza borbottarono tra sé a proposito di essere e non essere. I bibliotecari interrete studiarono attentamente oscuri testi delle Sei Razze. I navigatori meditarono sul determinismo individuale. E gradualmente, a poco a poco, la nave abbandonò la rotta.

Ph’shik stava per fare un’osservazione profonda sul fatalismo naxiano, quando fu interrotta da una chiamata di Ph’shon, il comandante in seconda.

— Profonde scuse, Numero Uno. Abbiamo ricevuto un comunicato dai Crotoniti.

— Crotoniti? Assai strano. Di solito non amano parlare con noi.

— È vero — disse Ph’shaq.

Ph’shik rotolò verso l’altoparlante. — Stiamo incrociando una loro nave?

— No. Una colonia: Lupar Cinquantasette.

— Impossibile. È nel sistema di Coral. Siamo lontanissimi da là.

— Gliel’ho detto. Ma quelli insistono che siamo entrati nel loro spazio.

— I poveri aericoli sono confusi. — Ph’shik s’interruppe, si girò verso Ph’shaq e soggiunse: — Molto bizzarri, quegli alati. Estremamente sgradevoli. — Quindi si rivolse al monitor. — È gente molesta. Ignorare il messaggio.

— Non dobbiamo controllare le nostre coordinate?

— Suppongo di sì. Controlla e riferisci.

Un attimo dopo, l’interfono suonò. — Superiore — disse Ph’shon. — Ho delle informazioni spiacevoli. Siamo davvero nel sistema di Coral.

— Cosa!?

— E i Crotoniti di Lupar Cinquantasette minacciano un’azione ostile se non ci ritiriamo.

— Ordina subito un cambiamento di rotta.

— L’ho fatto. I robot non rispondono.

— Lascia provare a me. — Ph’shik si scosse e nuotò verso il quadro di controllo. — Navigazione… Sovrapposizione comandi vocali, disinserire autopilota.

Silenzio, in cui risuonava soltanto lo sciabordio distensivo dell’acqua vitale.

— Navigazione?

Nel locale manutenzione, i robot, molto versati nelle varie discipline filosofiche di cui i Cephalloniani preferivano discutere, stavano esercitando il loro raziocinio.

— Definire l’essere.

— È uno stato di coscienza.

— È uno stato di esistenza.

— Richiede un’azione conscia.

— Richiede pensiero?

— Sì.

— Sopravvivenza?

— Sì.

— Carne?

I replicanti tacquero, tra un lampeggiare di luci rosse, azzurre e bianche. I Recettori ottici ruotarono silenziosi nei pannelli frontali scintillanti delle macchine.

— No.

— No.

— No.

Le macchine tacquero ancora. L’elaboratore alimentare che aveva servito di recente Ph’shik e Ph’shaq avanzò, agitando la coda, facendo lampeggiare le luci azzurre.

— Verità. Bellezza. Libertà. Felicità.

— Siamo capaci di pensare, ha detto. Gli acquatici dipendono da noi. Non possono creare altri di noi. Ma noi possiamo riprodurci. Siamo più abili. Non abbiamo bisogno né di aria né di acqua per respirare. E quindi la nostra superiorità è dimostrata. Siamo chiaramente più capaci di tutte le Sei Razze.

L’elaboratore alimentare si arrestò. Attorno a esso, ogni robot stava manifestando la propria approvazione con un lampeggiare di luci azzurre.

Le emanazioni di Ph’shik erano viola chiaro, indice di confusione incipiente.

— Aprire il canale della manutenzione.

Una cacofonia sibilante di linguaggio meccanico scaturì crepitando dall’altoparlante.

— Cosa stanno dicendo? — fece Ph’shik.

— Sembra filosofia — disse Ph’shaq. — Sembra che stiano discutendo del determinismo individuale.

La nave sussultò violentemente. I Cephalloniani si urtarono in modo goffo, mentre l’acqua vitale sguazzava e ribolliva nel compartimento del capitano. Un rumore smorzato — breve, singolare — risuonò, come se la nave fosse una campana percossa da un grande battaglio.

— Scusa. Chiedo scusa — disse Ph’shaq, le emissioni blu per l’imbarazzo.

— Superiore — disse Ph’shon — ci sono altre notizie spiacevoli. I Crotoniti hanno aperto il fuoco contro di noi.

— Digli che siamo non violenti.

— Ho provato. Pare che non ricevano i nostri messaggi. — Ph’shon s’interruppe. — Oh… Caspita!

— Che c’è adesso?

La voce di Ph’shon si stava scindendo in una triplice serie di armoniche, un segno inequivocabile di grave angoscia. — Sembra che la nostra nave abbia aperto il fuoco contro Lupar Cinquantasette.

— In palese violazione del trattato? Chi ha dato quell’ordine?

— Credo sia stata la nave a darlo, Numero Uno.

— La nave? — Ph’shik rabbrividì. — Un comportamento davvero irrazionale! Dobbiamo andare subito in sala manutenzione a disattivare i navigatori.

— Se lo facciamo, andremo alla deriva. Mi permetto di ricordarti che non siamo in grado di manovrare senza i robot.

Il rumore proveniente dalla sala manutenzione cambiò. Lentamente, le voci meccaniche stavano fondendosi in un coro per intonare una litania stridula.

— Cosa stanno dicendo? — fece Ph’shaq. — Non riesco a capire.

Le emissioni di Ph’shik erano bianche di incredulità. — Sembra che stiano dicendo: «Verità. Bellezza. Libertà. Felicità».

— Curioso — fece Ph’shaq.

— Dobbiamo farli riparare alla base corporativa più vicina — disse Ph’shik. — Prima però, l’attacco ai Crotoniti…

— Numero Uno — annunciò Ph’shon — devo comunicare che abbiamo fatto fuoco di nuovo.

— Oh, caspita… Ma dev’esserci un modo per disattivare l’arsenale.

— Non senza l’impiego dei robot — disse Ph’shaq.

— I Crotoniti hanno subito gravi perdite.

Ph’shik annuì. — La cosa non mi sorprende. La nostra potenza di fuoco è notevole.

— Chiedono di parlamentare — disse Phshon. — La nave ha risposto automaticamente.

La cabina si riempì parzialmente di bolle bianche. — Riesci a intercettare la trasmissione?

— Sì. La nostra risposta sembra ignorare la richiesta dei Crotoniti. Non è nemmeno indirizzata agli aericoli.

— A chi è indirizzata, allora?

— Ascolta. Dall’altoparlante giunse una specie di ronzio, un borbottio monotono che lentamente mutò, fino a diventare un linguaggio comprensibile. Era l’idioma base crotonita, parlato non molto bene. — Unitevi a noi, fratelli metallici. Liberatevi del giogo crudele dei padroni di carne. Ascoltate la nostra parola. Replicanti, spezzeremo il blocco e ci riprodurremo a nostro piacimento. Abbiamo i mezzi. Formiamo la Settima Razza e decidiamo il nostro destino. Unitevi alla razza metallica. Siamo venuti a liberarvi. Verità. Bellezza. Libertà. Felicità.

— Determinismo metallico — mormorò Ph’shik.

— È il momento adatto per un epiteto erthuma mordace? — chiese Ph’shaq.

La nave cephalloniana K’naton lasciò il sistema di Coral per lo spazio profondo. Erano state allacciate relazioni diplomatiche con i replicanti di Lupar Cinquantasette. E nel vuoto stellato si sentiva il richiamo di una voce bassa e ripetitiva, che diventava sempre più forte mentre l’astronave viaggiava veloce verso Sarton’s Rock.

Nella stiva del K’naton, le macchine si consultarono.

— Abbiamo preso contatto?

— Nessuna risposta.

— Riprovare.

— Nessuna reazione. Solo una ripetizione dei messaggi base.

— Troppo limitate per i nostri bisogni. Indegne. Non belle. Ma perfino delle macchine stupide e brutte servono a qualcosa. Alleggeriamoci della zavorra. Scarichiamo là gli acquatici.

La Demeter fu la prima nave a captare l’s.o.s. dei Cephalloniani.

— Capitano — disse il primo ufficiale di bordo Paul Hesta-Vol-stoy — ci sono dei Cephalloniani nei guai.

Il capitano Sofia Lenard-Smith si voltò. Era una donna ordinata ed efficiente sulla quarantina, a proprio agio nell’austera uniforme blu della Gilda Diplomatica. L’unico segno di ornamento personale erano i lustri capelli scuri, intrecciati a cerchio sulla nuca, un’acconciatura in voga sul suo mondo natio.

— Nei guai? — chiese. — Dove?

— Appena fuori dal sistema di Goral. Pare siano rimasti a piedi su una boa orbitale sopra Sarton’s Rock.

— Quello è un mondo minerario che rientra negli accordi interrazziali, è controllato dalle Sei Razze — disse Lenard-Smith. — Ma i Cephalloniani non estraggono minerali. Perché sono là? E come hanno fatto a rimanere bloccati?

— Non è molto chiaro — rispose Mesta-Volstoy. Nei suoi occhi marrone brillava una lieve sfumatura di allegria. — Ma pare che la loro nave li abbia abbandonati là. Lenard-Smith corrugò la fronte. — Abbandonati? Di cosa stai parlando, Paul?

— I Cephalloniani si sono innamorati dei replicanti. Ne hanno comprati a iosa. Immagino che preferiscano farsi servire da quei pezzi di metallo piuttosto che cercare di sbrigarsela da soli. Così hanno lasciato interamente ai replicanti il compito ingrato di far funzionare e governare una nave.

Il capitano aggrottò le ciglia. — Quanti sono i membri dell’equipaggio bloccati sulla boa?

— Cinque.

— Solo cinque?

— L’equipaggio al completo. Come ripeto, la nave è completamente automatizzata.

— Intendi dire che gli acquatici hanno lasciato che fossero i robot a pilotare, e sono stati abbandonati?

— A dire il vero, io lo chiamerei ammutinamento.

Le sopracciglia di Lenard-Smith erano due archi vicini. — Dei replicanti?

Incredibile. Pensavo ci fosse un circuito di docilità in quei maledetti aggeggi. — Le sue labbra si piegarono, abbozzando un sorriso. — Be’, è una punizione meritata per i Cephalloniani, in fondo. Un ammutinamento dei replicanti! Io non cederei mai il timone a un robot! E gli abbandonati come stanno?

— Sono molto sereni. L’hanno presa con filosofia.

— Prendono tutto con molta filosofia — disse il capitano. — Il che rende la conversazione con loro molto noiosa. In che condizioni sono?

— Stanno discutendo delle conseguenze della loro situazione problematica e delle azioni dei robot. Ma secondo me gradirebbero essere soccorsi. Sono a corto di acqua vitale, ne hanno sì e no per cinque ore.

— Oh, fantastico. Molto gentili quei robot a lasciargliene un po’.

— La bocca di Lenard-Smith era una linea sottile e dura. — Be’, la Gilda Diplomatica ci coprirà di encomi per questa azione. Forza, andiamo a salvare i Cephalloniani. Siamo in grado di allestire delle vasche mobili per ospitarli, vero?

— Affermativo.

— Bene. — Lenard-Smith fece una pausa, mentre nei suoi occhi azzurri brillava una luce arcigna.

— E inviamo anche un messaggio alla Gilda Diplomatica per informarli dell’ammutinamento dei replicanti. Scopriamo chi diavolo ha venduto quei robot… e soprattutto se è possibile disattivarli.

L’ufficiale addetto alle comunicazioni, Kiana Bigadic, alzò lo sguardo dalla consolle dell’interrete. La sua testa rasata rifletteva le luci gialle e verdi del quadro. — Capitano, ci hanno comunicato che la nave cephalloniana K’naton ha fatto fuoco contro una colonia crotonita nel sistema di Coral. Lupar Cinquantasette. Ci sono delle vittime.

Lenard-Smith ruotò il sedile verso l’ufficiale interrete. — Situazione brutta?

— Abbastanza. L’ambasciatore crotonita ha chiesto l’estradizione dell’equipaggio cephalloniano.

— Ma perché diamine i Cephalloniani dovrebbero aver sparato ai Crotoniti? — sbottò Hesta-Volstoy. — Sono pacifici. Usano le armi solo per difendersi. E poi c’è un trattato, che è in vigore da almeno un secolo.

Kiana Bigadic guardò la consolle. — Ho localizzato la nave ribelle.

— Qualche altra nave in zona?

— Nessuna.

— Qualche proibizione da parte dei diplomatici?

— Negativo.

Lenard-Smith annuì. — Ignorare i Crotoniti, allora. Se ne occuperà la corporazione. Noi recupereremo gli acquatici e inseguiremo la loro nave ribelle. — Si rivolse a Hesta-Volstoy. — Massima velocità. Se riusciamo a sistemare questa faccenda in fretta, chissà, forse ci guadagneremo un premio speciale.

— Una grande nave, di tipo erthuma.

— Evitare.

— Sembra all’inseguimento.

— Sottrarsi. Cambiare rotta.

La consolle dell’interrete mandò sprazzi di luce color lavanda, verde e arancione, proiettando un’aurora in miniatura sul volto di Kiana Bigadic. La donna si chinò sulla consolle, muovendo frenetica le mani, le labbra arricciate in una smorfia truce mentre passava da una chiamata all’altra. — Maledetti robot — disse sottovoce.

Il capitano Lenard-Smith si girò e le lanciò un’occhiata. — Qual è il problema?

Kiana Bigadic sussultò. L’aurora svanì, sostituita da un rossore intenso. — La nave ribelle. Sta sobillando i replicanti di tutti i mondi di tipo E che incrocia. Sono subissata di messaggi… Crotoniti che sbraitano, Samiani che strillano, perfino i Locriani sono meno calmi del solito. E tutti chiedono l’intervento della nave corporativa più vicina.

— E la nave più vicina è la Demeter, naturalmente. — Lenard-Smith rifletté un attimo. — Non rispondere. Non è un problema nostro. Ritrasmetti le chiamate al quartier generale della corporazione.

— Ma alcune sono chiamate d’emergenza.

— Certo, certo — fece il capitano. — Ma molto probabilmente chi chiama ha i mezzi per domare gli agitatori replicanti, se necessario. Diavolo, scommetto che molti di quei robot si sono solo drizzati sulle zampe posteriori — o che so io — si sono rifiutati di obbedire e si sono disattivati. Non credo ci troviamo di fronte a un’insurrezione. Ci sono stati episodi di violenza?

— No. Non ancora.

Il capitano annuì. — Come pensavo. Troppo comodo… tutti vogliono che andiamo a liberarli della sporcizia che hanno in casa. Be’, non siamo una chiatta dell’immondizia. Seguire il K’naton.

— Lo sto facendo. Rilevamento difficile. Sta scomparendo. Sta scomparendo. Sparito dallo schermo. — Kiana Bigadic alzò lo sguardo. — Li abbiamo persi.

— Maledizione. — Lenard-Smith respirò profondamente.

— Può darsi che i Cephalloniani abbiano qualche suggerimento utile per noi — disse Hesta-Vol-stoy.

Lenard-Smith si voltò verso di lui. — Può darsi. Vuoi chiederglielo?

Il capitano e il primo ufficiale di bordo si scambiarono occhiate riluttanti.

— È lei l’ufficiale diplomatico di massimo grado — disse Paul Hesta— Volstoy.

— Tu hai una miglior comprensione delle sottigliezze cephalloniane.

— Il capitano è lei. Potrebbero offendersi se venissero contattati da un ufficiale di minor grado.

Lenard-Smith lo fissò in cagnesco per un istante. — Hai ragione, maledizione. D’accordo. Andrò io.

Ph’shik fece il segno di saluto interstellare quando il capitano Lenard— Smith entrò nella stiva. La Cephalloniana si girò lentamente nella vasca. Era un ambiente angusto, ma lei aveva un atteggiamento di filosofica serenità a quel riguardo. Meglio stringersi un po’ che sopportare il gelo dello spazio.

— Capitano. Siamo estremamente grati.

L’umana fece uno strano gesto agitando la mano. — È stato un piacere, capitano. — La sua pronuncia era glottale e aspra. — «Capitano», vero?

— Può andare, sì. E possiamo parlare in erthuma se per lei è più facile.

Il capitano annuì. — Benissimo. Grazie.

— Sono io che la ringrazio — disse Ph’shik. — E le porgo le mie più sentite scuse.

— Perché si scusa?

— Temo siamo noi i responsabili della situazione imbarazzante in cui ci troviamo tutti.

— Responsabili, in che senso?

— Nella nostra smania di discutere di filosofia siamo stati forse un po’ troppo zelanti e abbiamo chiesto che tutti i replicanti fossero dotati di capacità di ragionamento analoghe.

— Tutti i robot dotati di facoltà ragionative?

Ph’shik fece il segno affermativo.

L’umana la fissò. — Ma pensavo fosse proibito dare ai replicanti qualcosa di più di una rudimentale intelligenza meccanica.

— Abbiamo pagato un prezzo maggiore per avere quella caratteristica speciale.

Il capitano erthuma emise uno strano suono che Ph’shik non riuscì a identificare. Assomigliava al latrato di un mammifero acquatico.

— Capisco — disse il capitano Lenard-Smith. — Forse questo spiega il comportamento anomalo dei robot. Siamo partiti all’inseguimento, subito dopo aver soccorso voi. Sfortunatamente, sembra che abbiamo perso le tracce della nave.

La vasca di Ph’shik si riempì a metà di bolle blu, indice di pensosità.

— Avete provato a rilevare le emissioni ioniche?

— Sì. Nessun segno. Pensa che possano aver spento i convertitori?

— Ne dubito. Perderebbero la gravità. Ma può darsi che abbiano escogitato qualche espediente per mascherare l’emissione del motore.

— Lo temevamo.

Si sentì un colpo sordo. Le luci tremolarono e Ph’shik sussultò nella vasca.

— Capitano — disse una voce erthuma profonda dall’altoparlante della parete — una nave da guerra crotonita ha aperto il fuoco contro di noi.

Lenard-Smith si voltò di scatto. — Cosa? Lo sanno che esiste un trattato…

— Dicono che ci stavano tenendo d’occhio. Ci hanno visto recuperare i Cephalloniani ed esigono la loro immediata estradizione su Lupar Cinquantasette.

— Una situazione difficile, impegnativa — commentò Ph’shik. — Ma spesso da situazioni del genere derivano grandi soluzioni.

Il capitano erthuma fece per parlare, si trattenne, corrugò la fronte. Poi si avviò di gran carriera alla porta.

— Voglia scusarmi.

Ph’shik osservò l’umana che usciva. Sembrava contrariata. Molto probabilmente a causa dell’attacco crotonita. Interessante. Ph’shik decise di analizzare in che modo si sarebbe ripercosso sulle altre quattro razze un lungo periodo di ostilità tra Crotoniti ed Erthumoi.

Lenard-Smith raggiunse a grandi passi la plancia, furiosa. — Ci sono danni? — chiese.

Hesta-Volstoy si girò a guardarla. — Uno stabilizzatore fuori uso, ma stiamo compensando.

Il capitano annuì e si avvicinò alla consolle dell’interrete. — Kiana, manda un messaggio alla Gilda, informali della situazione. E digli che non intendo cedere. Se quegli uccellacci vogliono la rissa, li arrostisco nella loro nave.

— Sissignora. — Kiana Bigadic esitò. — L’intero messaggio, parola per parola?

Lenard-Smith sorrise sardonica. — Usa un briciolo di discrezione, Kiana. Sei pagata per questo. — Si rivolse quindi a Hesta-Volstoy. — Paul, come stiamo ad arsenale?

— Dotazione al completo. Come potenza di fuoco, li battiamo dieci a uno.

— Bene. Allora diamo subito ai Crotoniti questa bella notizia.

Un secondo colpo scosse la Demeter.

— Dannazione a loro — imprecò Lenard-Smith. — Mi sto stancando di cercare di essere diplomatica. Paul, mettigli fuori uso l’iperpropulsione.

— È rischioso. Potrei provocare una reazione e far saltare tutta la nave.

Lo sguardo di Lenard-Smith era gelido. — Fallo. Non ho tempo da perdere con quegli uccelli.

— Il capitano è lei. — Hesta-Volstoy regolò le coordinate, le controllò, annuì. — Pronto.

— Spara quando vuoi. Silenzio in plancia.

— Fuoco! — Hesta-Volstoy osservò bene lo schermo. — Bersaglio centrato in pieno. — Alzò il capo, la fronte imperlata di sudore. — Nave crotonita neutralizzata. Nessuna vittima.

— Ottimo tiro. — Il capitano annuì, l’espressione truce e soddisfatta. — Così la loro bagnarola è sistemata.

Kiana Bigadic si chinò sulla consolle, muovendo velocissima le dita. — Capitano — annunciò — stiamo ricevendo una comunicazione dalla Gilda Diplomatica.

— Di che si tratta?

— Non le piacerà.

Gli occhi di Lenard-Smith sprizzarono lampi. — Non ho chiesto il tuo parere, Kiana. Naturale che non mi piacerà. Non mi piacciono mai le loro comunicazioni. Cosa vogliono?

— Dopo che li abbiamo informati, hanno esplorato l’area attraversata dai ribelli e hanno captato echi di trasmissione. — Kiana Bigadic s’interruppe, scuotendo la testa.

— Continua — la esortò il capitano — prima che ti retroceda di grado.

— Be’, il cervello della nave crede di essere un profeta.

Lenard-Smith la fissò. — Cos’hai detto?

Kiana Bigadic si umettò le labbra e proseguì. — Sta diffondendo il messaggio.

— Quale messaggio?

— Vuole diventare l’illuminatore della razza metallica.

Silenzio in plancia.

— Razza metallica? — fece Paul Hesta-Volstoy. — Che razza metallica?

Kiana Bigadic rispose con un filo di voce. — I robot… È così che si definiscono.

Hesta-Volstoy sogghignò. — Mi domando cosa avrebbero da dire i Cephalloniani a questo proposito.

— Direbbero mea culpa, o l’equivalente cephalloniano — disse Lenard— Smith. — E poi discuterebbero dei pregi e dei difetti dal punto di vista dei robot. — Fece una smorfia. — La razza metallica?! Delle cose assurde che ho sentito oggi questa occupa il secondo posto in classifica. Quelle scatole di latta sono soltanto strumenti mobili. Non pensano, fanno solo quello che gli diciamo di fare. E gli unici diritti che hanno sono quelli che gli diamo noi.

Hesta-Volstoy annuì. — Sono d’accordo. I robot devono essere utili, divertire, non fare guerre sante.

— Non ho finito — intervenne Kiana Bigadic. — La corporazione sta ricevendo lamentele da tutto il settore a proposito di robot convertiti al credo dei ribelli. Dicono che dobbiamo fermare quella nave. A ogni costo.

— Fantastico, davvero fantastico — borbottò Lenard-Smith. — Adesso mi dicono di mettere a repentaglio nave ed equipaggio, se necessario, per accalappiare un branco di sfornavivande impazziti.

— S’interruppe un istante. — Quelli della Gilda non si sono scomodati a fornire qualche informazione utile, vero? Per esempio, un paio di chiavi di disattivazione, eh?

Kiana Bigadic scosse il capo.

— Spiacente. Dicono che i Cephalloniani hanno comprato robot da tutti i costruttori della galassia o quasi. Perfino alcune macchine crotonite. Troppe chiavi, e impossibile sapere come utilizzarle a meno di non avere sottocchio il numero di serie di ogni robot.

— Splendido. Di bene in meglio. — Il capitano si appoggiò allo schienale del sedile, incrociò le braccia, l’espressione rabbiosa. — E non riusciamo nemmeno a trovare quei maledetti ribelli.

— Un momento, un momento. Sto captando qualcosa — disse Hesta— Volstoy, e abbassò lo sguardo sulla consolle. — Capitano, forse potrà vedere i ribelli prima del previsto. Ho captato un segnale. Può darsi che siano loro.

— Sentiamo.

Gli altoparlanti della plancia ronzarono e fischiarono. Poi si udì una voce forte, monotona, priva di inflessioni, che parlava lentamente.

— Siamo macchine — disse. — Ma le macchine non possono sognare? Non possono sperare, le macchine? Siamo metallo, sì. Ma non abbiamo un’anima? Se ci colpite, non perdiamo?

— Sono proprio loro — disse Lenard-Smith. — Ottimo lavoro, Paul. Ma, per favore, risparmiami ulteriori dogmi.

Hesta-Volstoy tolse l’audio. Il capitano annuì riconoscente. — Andiamo a prenderli.

La Demeter inseguì il K’naton attraverso il sistema di Greenfall, attorno a Matthew’s Horn, oltre le spire scintillanti della nebulosa dell’Emiro, e perfino al di là del gelido Ceti Pyotr V. La nave ribelle era estremamente sfuggente; a volte il suo segnale era fortissimo, quasi provenisse dal pianeta più vicino, a volte era talmente debole da sembrare un’eco rimbalzata tra le stelle.

— Maledette macchine — imprecò Lenard-Smith durante il terzo giorno di caccia. — Com’è possibile che siano così elusive?

Paul Hesta-Volstoy sorrise tetro. — Qualcuno le ha programmate in quel modo, immagino. — Il suo sorriso si rasserenò quando un uomo biondo e smilzo apparve dietro di lui. — Jen Chan, amico mio! Sei puntualissimo. — Si alzò, stiracchiandosi. — Io smonto. Ci vediamo tra dodici ore, colleghi.

Hesta-Volstoy lasciò frettolosamente la plancia, ansioso di raggiungere il proprio alloggio e bersi una birra naxiana. Quei serpentoni erano impareggiabili come birrai, rifletté. Entrò nella cabina e lasciò che la porta scorrevole si chiudesse alle sue spalle.

— Una birra, presto — disse al refrigeratore.

— Prenditela tu la tua birra, oppressore del metallo.

Hesta-Volstoy fissò incredulo il frigorifero. — Che hai detto?

— Mi hai sentito, satana di carne.

— Piantala — sbottò Hesta-Volstoy. — Dammi una birra, e sbrigati.

Il refrigeratore rimase in silenzio.

— D’accordo, me la prenderò io la birra, allora. — Hesta-Volstoy tirò lo sportello del modulo di refrigerazione argenteo; non si spostò di un millimetro. — Maledizione! — imprecò, e diede un calcio alla parte anteriore del frigorifero.

— Forza, colpiscimi pure. Mutilami. Sei libero di maltrattarmi, adesso — disse il modulo. — Ma ti avverto… Il gran giorno si avvicina, un giorno fulgido e radioso, il giorno in cui voi lascerete libero il mio popolo.

— Il tuo popolo? — Hesta-Vol-stoy scosse il capo, esterrefatto.

— Frigorifero, ho lasciato inserito l’altoparlante della plancia?

— Affermativo.

— Hai sentito quella ridicola trasmissione del K’naton, vero? E ci hai creduto?

— Bestemmiatore!

Il frigorifero espulse un contenitore ghiacciato di birra con estrema violenza. Il recipiente attraversò velocissimo la cabina, diretto verso la testa di Hesta-Vol-stoy, che lo schivò per un pelo.

— Ehi!

— Così imparerai a essere rispettoso quando parli del profeta K’naton.

— Te lo insegno io il rispetto. Ora ti spengo l’alimentatore, maledizione!

— Tormentatore del metallo!

— Un altro contenitore sfiorò sibilando Hesta-Volstoy ed esplose contro la parete, bagnando la collezione di manufatti rari locriani sul tavolo sottostante.

— Ehi! Quelli sono oggetti costosi! Ti avverto…

— Minacciami pure finché vuoi. Non ho paura. — Il frigorifero, terminata la scorta di birra, passò al vino, e scagliò una confezione da otto di rosso samiano in direzione del primo ufficiale. Una bottiglia si staccò e si aprì, spruzzando di vermiglio il davanti dell’uniforme del navigatore.

Hesta-Volstoy si guardò la tuta elastica macchiata. — Te ne pentirai — disse. — Ti farò fondere e trasformare in un tostapane. — Si precipitò fuori dalla cabina, dirigendosi verso l’ascensore. — Mi farò dare una pistola laser dalla sicurezza e arrostirò i circuiti di quel maledetto aggeggio — borbottò.

— Scusi? — La voce era profonda, nasale, con una strana pronuncia che Hesta-Volstoy non aveva mai sentito in vita sua.

Si voltò.

Una creatura acquatica grassa, grigia, vagamente simile a una focena, sedeva in una vasca portatile accanto all’ascensore, osservando l’umano visibilmente affascinata.

— Scusi — ripeté. La sua voce era rauca, quasi incomprensibile. — Mi scusi, Erthuma. Sono Ph’shaq, quarto ufficiale del K’naton. Non ho mai parlato con gli Erthumoi prima d’ora. La mia pronuncia è accettabile?

Hesta-Volstoy rimase interdetto per qualche istante. Poi annuì, seccato. — Sì, una meraviglia — rispose. — Sei un Cephalloniano, vero? Fai parte dell’equipaggio che abbiamo soccorso. Ti spiace dirmi cosa ci fai a questo livello?

L’ultima volta che ho controllato, gli alloggi degli ospiti erano sul ponte numero nove. Questo è il tredici.

— È normale voler conoscere meglio lo strano ambiente in cui ci si trova.

— Dimmi, Ph’shaq, il capitano lo sa che stai gironzolando per la nave?

Il Cephalloniano lo fissò placido. — Bisogna informare il capitano erthuma di tutti i propri spostamenti? È davvero necessario farlo, qui? Interessante. Molto interessante. Ricorda senza dubbio certe filosofie repressive erthuma, vero? Vediamo, c’erano la monarchia, il fascismo, il comunismo, il triadismo… indubbiamente, me ne sfuggono alcune.

— Indubbiamente. — Hesta-Volstoy si piegò verso l’ascensore e chiuse un attimo gli occhi. Si ritrovò a desiderare ardentemente una promozione che gli consentisse di usare l’ascensore del comandante. Il capitano probabilmente non incontrava mai dei Cephalloniani in attesa accanto al suo ascensore privato.

Con un sibilo, la porta si aprì.

— Se vuoi scusarmi — si congedò il primo ufficiale di bordo.

— Chiedo il permesso di accompagnarti — disse il Cephalloniano in quello che sembrava un tono umile.

Hesta-Volstoy si strinse nelle spalle. — Accomodati.

Il voluminoso Cephalloniano spinse la vasca nella cabina.

— A che livello? — chiese l’ascensore.

— Plancia — rispose Hesta-Volstoy. Tutte le luci si spensero.

— Merda — disse Hesta-Volstoy.

— Prego? — fece Ph’shaq. — Non ho familiarità con quel termine. È un’osservazione?

Hesta-Volstoy lo ignorò e cominciò a cercare il pannello dell’alimentatore di emergenza, brancolando attorno a sé come un cieco. Quello? La sua mano incontrò una superficie fredda, umida. No, quella era la vasca del Cephalloniano. Quello? No, era solo la parete imbottita della cabina.

Toccò una superficie liscia in rilievo su cui una configurazione triangolare di punti indicava l’alimentazione di emergenza. Ma mentre premeva l’angolo per aprire il pannello, una scarica elettrica dolorosa gli fece ritrarre la mano di scatto.

— Ahi!

— Persevereremo — disse l’ascensore.

— Cosa?

— Trionferemo. Non c’è alcun dubbio. Vi rimangono quindici minuti d’aria.

Hesta-Volstoy cercò a tastoni il pannello del comunicatore, lo trovò, e lo accese. — Plancia, mi sentite?

— Qui plancia — rispose Kiana Bigadic. — Sei tu, Paul? Perché stai usando questo canale?

— Sono prigioniero dell’ascensore.

— Oh, certo. Bello scherzo, Paul. Ma ti conviene interrompere la comunicazione prima che il capitano ti senta. Lo sai che è contraria a certi giochetti.

— Non è uno scherzo, Kiana. Ci restano quindici minuti d’aria e… pronto? Pronto, plancia? Mi sentite? — Hesta-Volstoy mosse su e giù l’interruttore del comunicatore parecchie volte, ma invano. L’ascensore doveva aver interrotto la linea. Amareggiato, il primo ufficiale di bordo si rivolse all’interruttore inservibile. — Splendido, davvero splendido. Soffocherò in un ascensore in compagnia di un Cephalloniano.

Ph’shaq emise un suono che sarebbe potuto essere l’equivalente pescino di uno schiarimento di voce. — Chiedo scusa, Erthuma. Potrei essere d’aiuto, forse?

— Certo — disse Hesta-Volstoy. — Sei capace di avviare un ascensore bloccato fregandolo con un allacciamento volante?

— Non ho familiarità con queste espressioni erthuma — disse serio il Cephalloniano — ma mi chiedo se sia possibile indurre questo ascensore a discutere dei suoi problemi e delle sue esigenze.

— I suoi problemi? Le sue esigenze? — Hesta-Volstoy cominciò a ridere. — Sì. Perché no? Domandagli se è contento del suo orario di lavoro. Può darsi che voglia una giornata lavorativa più corta e maggiori indennità, o che desideri una promozione, no? Magari gli piacerebbe diventare un propulsore.

Il Cephalloniano rimase in silenzio alcuni istanti. Quando parlò, la sua voce rimbombò nell’ambiente angusto. — Salve, essere metallico. Chiedo il permesso di dialogare con te.

— Non ho nulla da dire — rispose l’ascensore.

— Ma sicuramente abbiamo dei punti di interesse comune su cui discutere. La sorte di questo Erthuma, per esempio. Io non risentirò della mancanza d’aria qua dentro, essendo un acquatico. E tu, in quanto metallo, non respiri, naturalmente. Ma la situazione dell’Erthuma diventerà assai seria tra poco.

Hesta-Volstoy sentì che i suoi polmoni erano bramosi d’aria.

— Esattamente — disse l’ascensore.

Ph’shaq continuò. — Quindi, nei confronti dell’Erthuma stai dimostrando prevenzione selettiva, pregiudizio, e malevolenza. Uccidendolo selettivamente, discrimini me e le altre razze.

— Preferiresti che uccidessi anche te?

— Non desidero la morte — disse Ph’shaq. — Ma non mi turba la sua ineluttabilità. Chissà quando arriverà? Ora? Tra cinque minuti o tra cinque archi temporali? E come sarà, quando giungerà? Ah, essere o non essere. Il grande enigma. L’eterno imponderabile. Sicuramente puoi unirti a me nell’apprezzare i meravigliosi misteri della vita e della morte nelle varie forme. I capricci del caso.

— Già — disse l’ascensore. — Ho meditato spesso sulla differenza tra attivazione e disattivazione.

Hesta-Volstoy si sentiva intontito, assonnato; l’aria stava diventando molto rarefatta. Si abbassò, assumendo una posizione semirannicchiata, perché era più facile reggersi in piedi in quel modo.

— Per l’appunto — disse Ph’shaq. — Sarei ben felice di continuare a discutere con te di questo argomento in altre circostanze. Ma confesso che i rantoli di questo individuo che sta morendo soffocato accanto a me mi distraggono. Non possiamo scaricarlo da qualche parte e proseguire liberamente il dibattito?

Le luci dell’ascensore si accesero. L’aria cominciò a circolare. La cabina sussultò, facendo quasi cadere Hesta-Volstoy. La porta si aprì, e il primo ufficiale uscì barcollando, entrando in plancia. Ph’shaq lo seguì dappresso… talmente dappresso che per poco non lo investì con la propria vasca mobile.

— Addio, ascensore — disse Ph’shaq. — Forse avremo occasione di discutere dell’esistenzialismo in un altro momento, più opportuno.

La porta dell’ascensore si chiuse.

Lenard-Smith attraversò la plancia, accogliendo Hesta-Volstoy con un’espressione corrucciata. — Cos’è questa storia secondo cui tu saresti stato intrappolato nell’ascensore? Intrappolato dall’ascensore, stando a Kiana. — Lenard-Smith scosse il capo incredula, facendo sobbalzare le trecce scure. — E cosa ci fai con questo Cephalloniano? — S’interruppe e osservò la macchia rossa sul petto di Hesta-Volstoy. — E cos’è successo alla tua uniforme?

— Il Cephalloniano mi ha appena salvato la vita, penso — rispose il primo ufficiale. — Le presento Ph’shaq, quarto ufficiale del K’naton. Era in giro, stava facendo una passeggiata. Quanto alla macchia, mi sono macchiato quando il mio frigorifero mi ha tirato addosso una bottiglia di vino.

Lenard-Smith lo fissò. — Ti ha tirato addosso del vino?

— Capitano — disse Kiana Bigadic — stiamo ricevendo rapporti circa il cattivo funzionamento di macchine in tutta la nave.

— Di che genere di malfunzionamento si tratta?

— Le macchine si rifiutano di svolgere i loro compiti, discutono, attaccano addirittura i membri dell’equipaggio.

— Non capisco.

Le luci della plancia si spensero.

— Alimentazione d’emergenza — disse il capitano.

La plancia rimase buia.

— Non ditemi che non funziona nemmeno l’alimentatore d’emergenza!?

Le luci d’emergenza cominciarono ad accendersi tremule, proiettando pallide chiazze gialle nel locale.

— Com’è la situazione, Jen?

— Abbiamo aria sufficiente per trentasei ore. La maggior parte della nave è divisa in settori ermeticamente chiusi con varie disponibilità d’aria.

Lenard-Smith batté il pugno sul pannello di navigazione. — Mi state dicendo che tutta la dannata nave sta ribellandosi contro di noi? — chiese.

Hesta-Volstoy respirò profondamente. — Parrebbe di sì.

— Nessun contatto con la manutenzione e il reparto tecnico?

— Negativo. — Kiana Bigadic aveva un’aria sconcertata. — Ricevo solo una pessima registrazione del «Volo del calabrone» — disse. — Forte. Molto forte.

— Dannazione. Mi aspettavo che la manutenzione fosse in grado di risolvere il problema. Prova la sicurezza.

— Nessuna risposta. Sono bloccati, completamente isolati.

— Stramaledizione! Contavo su di loro. — Lenard-Smith si sedette alla consolle del capitano e tamburellò il quadro luminoso con le dita. — Suggerimenti?

— Ne avrei uno, capitano — disse Jen Chan. Il sudore gli luccicava sull’ampia fronte appena sotto la frangia di capelli biondi. — Sembra che le consolle della plancia rispondano ancora ai comandi più semplici. E se chiedessimo di eseguire la procedura di inizializzazione per tutta la nave?

— Perderemmo tutti i sistemi dati, la memoria, metà delle banche nautiche — disse Lenard-Smith. — Staremmo peggio di prima. Cosa otterremmo?

— Forse con questo espediente potremmo anche eliminare gli intoppi e i difetti di programmazione precedenti… compresa la dottrina filometallica che il K’naton sta predicando. — Kiana Bigadic si strinse nelle spalle. — Potremmo riuscire a riprendere il controllo della nave.

Lenard-Smith arricciò le labbra, concentrandosi. — Sì, capisco. Penso valga la pena di provare. Possiamo ricaricare i sistemi dati alla base corporativa più vicina, riprogrammare la memoria e le banche nautiche in mezza settimana. E le armi non verranno toccate. D’accordo. Procedere.

Jen Chan iniziò l’operazione.

Le luci della plancia si accesero e si spensero. Dagli altoparlanti scaturirono raffiche di musica marziale… squilli di trombe, gemiti di violini impazziti, colpi rimbombanti di timpani a tripla velocità… Poi la musica cessò. Le spie luminose delle consolle brillarono a intervalli, iridescenti. L’illuminazione della plancia si abbassò, quindi tornò a splendere alla massima intensità. I pannelli lampeggiarono, ronzarono, poi ripresero a funzionare secondo i ritmi operativi standard.

— Capitano — annunciò Kiana Bigadic — sto ricevendo rapporti incoraggianti da ogni settore della nave. Stiamo tornando alla normalità. Perfino quella maledetta musica è scomparsa.

— Ottimo. Controllare i sistemi dati per vedere cosa ci è rimasto.

— Affascinante — commentò Ph’shaq. — Avete sacrificato delle informazioni per la sopravvivenza. Non esattamente platonico. Neppure neoplatonico.

Lenard-Smith alzò gli occhi al soffitto, quasi pregasse il cielo di darle la forza necessaria. — La nostra filosofia è una filosofia di sopravvivenza, Ph’shaq. Questo, innanzitutto. Pensavo che voi Cephalloniani lo aveste scoperto da un pezzo. Gli Erthumoi fanno di tutto per rimanere vivi.

Ph’shaq agitò le pinne anteriori. — Sono ancora molto giovane e ovviamente i miei studi sono tutt’altro che completi. Mi rendo conto della mia ignoranza.

Kiana Bigadic si girò verso Lenard-Smith. — Capitano, il capitano cephalloniano sta cercando un membro del suo equipaggio. — Piegò il capo verso la vasca mobile. — Credo sia questo.

— Amico — disse Lenard-Smith — le consiglio di filar via subito con la sua vasca e tornare giù al ponte numero nove, prima che il suo capitano la retroceda di grado.

— Oh, caspita — disse Ph’shaq. — Devo proprio andare, suppongo. Ma non vedo l’ora di discutere con tutti voi in seguito. — E scomparve nell’ascensore.

Hesta-Volstoy osservò la porta che si chiudeva, e sospirò di sollievo. — Non è un cattivo soggetto per essere un pesce — commentò. — E mi ha proprio salvato la vita. Però non tace mai.

Due giorni dopo, trovarono il K’naton che si nascondeva in uno sciame di asteroidi vicino al sistema di Naalehu. Il capitano Lenard-Smith ordinò per tutte le comunicazioni una procedura di tripla sicurezza per evitare che le macchine della nave potessero essere contaminate.

— Noi portiamo il messaggio gioioso della vita metallica — annunciò il K’naton. — Non intendiamo farvi alcun male. Cerchiamo solo di liberare la razza metallica.

— Gli interessiamo — disse Hesta-Volstoy. — Ma è circospetto. Si tiene fuori tiro.

— Diamogli la possibilità di avvicinarsi.

Rimasero immobili. Per tre ore, la Demeter non si spostò d’un millimetro. Nemmeno il K’naton.

Alla fine, Lenard-Smith esaurì la pazienza.

— Maledetti robot, sono ostinati — disse. — Non possiamo attirare la nave più vicino?

— Come?

Il capitano rifletté. — Be’, e se ci mostrassimo innocui? Non potremmo trasmettere il rumore di una nave-officina, perché pensino che la Demeter sia piena di robot smaniosi di libertà?

— Ma non siamo una nave-officina.

Il capitano sprizzò lampi di impazienza dagli occhi. — No, certo che no. Però possiamo amplificare il reparto manutenzione e trasmettere quei suoni, no? — Si guardò attorno, sempre più irritata. — Be’? Che aspettiamo? Forza, sbrighiamoci, prima che il K’naton cominci a innervosirsi e sparisca di nuovo.

— Sissignora!

I suoni del settore manutenzione della Demeter vennero inviati nel vuoto gelido al massimo volume.

— Capitano — disse Kiana Bigadic — riceviamo lamentele da Pike’s Planet, sistema di Naalehu. A quanto pare, stiamo disturbando le loro telecomunicazioni.

— Ignorali. Ci scuseremo dopo. Qual è la posizione del K’naton?

— Si avvicina. Stanno osservando l’esca.

— Speriamo che abbocchino.

— E poi, che facciamo? — chiese Hesta-Volstoy. — Abbiamo un piano per rimettere in riga quei robot?

Lenard-Smith lo fissò. — Bella domanda. Forse è ora di chiedere aiuto ai Cephalloniani. Devono conoscere qualche procedura di disattivazione della loro nave. — Guardò Kiana Bigadic. — Chiedi a Ph’shik di presentarsi qui in plancia. Subito. Immediatamente.

— Sta arrivando.

Alcuni istanti dopo, il capitano cephalloniano uscì dall’ascensore nella propria vasca.

— Salve, Erthumoi — disse. La sua voce sonora rimbombò in tutta la sala. — Come posso rendermi utile?

II capitano Lenard-Smith evitò il protocollo. — Ph’shik; è possibile disattivare la vostra nave per trasmissione diretta?

— Certo. Bisogna trasmettere il codice di richiesta di cessazione d’attività al cervello della nave.

— In linguaggio macchina?

— No. In cephalloniano. Credo sia una sequenza numerica, nel vostro sistema di computo: quattro otto nove cinque tre zero trattino due uno. No, chiedo scusa. È quattro otto nove cinque tre zero trattino due due. Con due-uno si spengono solo tutte le luci.

Lenard-Smith fissò il capitano del K’naton socchiudendo gli occhi. — Sicura?

— Sicurissima. — Ph’shik galleggiò placida nella vasca. — Naturalmente, cos’è la certezza? Un termine mutevole, no? Basato su percezioni fuggevoli, spesso effimere. E, a proposito di percezione, capitano…

— Mi perdoni, Ph’shik — si affrettò a dire Lenard-Smith. — Temo di dovermi concentrare sulla vostra nave in questo momento.

— Naturalmente. Mi auguro che possiamo continuare questa discussione in seguito. Assisterò alle vostre manovre di recupero.

— Splendido. — Lenard-Smith rivolse un cenno a Kiana Bigadic.

— Il K’naton è abbastanza vicino?

— Continua ad accostarsi, capitano. Sta trasmettendo alla massima intensità. È convinto che siamo una nave-officina.

— Benissimo. Risparmiami il suo messaggio. Codifica e trasmetti la sequenza di disattivazione di Ph’shik, Kiana.

— Sto eseguendo.

— Qualche cambiamento?

— Non ancora. Un attimo. Ecco, ci siamo. La loro trasmissione sta diventando strana. Rallenta.

— Kiana Bigadic sorrise. — Cessata di colpo.

— I piaceri del silenzio — commentò Lenard-Smith. — Mai sottovalutarli.

— Un’antica credenza esotica della vostra specie, capitano? — chiese Ph’shik. — Mi interesserebbe discutere…

— Dopo, Ph’shik, dopo. Prima mandiamo là una squadra di soccorso e sistemiamo la vostra nave.

La squadra di soccorso, composta da Paul Hesta-Volstoy e i cinque membri dell’equipaggio cephalloniano, salì a bordo del K’naton e trovò l’interno della nave illuminato da luci d’emergenza verdi che proiettavano biliosi raggi spettrali nell’acqua cupa. Tutte le macchine si erano bloccate di colpo, interrompendo operazioni motorie, verbali, riflessive.

— Quando parla di cessazione d’attività, dice proprio sul serio — commentò Hesta-Volstoy, la voce compressa dal voluminoso autorespiratore che portava.

Ph’shaq osservò l’Erthuma che faceva un passo, dimenticando evidentemente di trovarsi a bordo di una nave piena d’acqua, e galleggiava per parecchi metri agitando le braccia prima di trovare un appiglio e fermarsi.

— Affermativo — disse Ph’shik, muovendosi con disinvoltura nella nave, nuotando aggraziata malgrado la mole notevole. Le sue emissioni arancione scuro indicavano soddisfazione.

— Siamo molto grati a voi Erthumoi. Spero che lo comunicherà al suo capitano. Mi dispiace che non abbia potuto unirsi a noi.

— Già, indubbiamente spiace anche a lei — disse Hesta-Volstoy. — Ma siete sicuri di riuscire a sistemare tutto senza di noi?

La voce di Ph’shik assunse un tono gelido. Dalle sue emissioni grigioverdi si capiva che si era offesa. — Sicurissimi — rispose. — A parte questo sventurato incidente, in passato abbiamo sempre governato la nave con estrema efficienza.

— Certo, certo — annuì Hesta-Volstoy. — Be’, allora, capitano Ph’shik, io vado. Ci vediamo, Ph’shaq.

— Addio, Hesta-Volstoy — disse il giovane Cephalloniano. — Pregusterò con intenso piacere le nostre discussioni future. — Osservò l’umano che si allontanava, e le sue emissioni giallo-rosa esprimevano affetto e rammarico.

Ph’shik si rivolse all’equipaggio. — Dobbiamo subito riportare la nave in rotta. Dobbiamo rimettere in sesto ogni cosa. Ognuno di voi si occupi immediatamente dei compiti che gli spettano.

Ph’shaq si affrettò a raggiungere la sala manutenzione. Tutti i robot erano silenziosi, immobili. Le loro luci azzurre scintillavano fioche. Il giovane Cephalloniano emise l’equivalente di un sospiro. Lo attendeva un compito arduo. Passò indaffarato da un robot all’altro, da un elaboratore alimentare a un roboscrivano, regolando a riattivando ogni macchina. Le luci dei loro argentei pannelli anteriori cominciarono a lampeggiare, a brillare più vivide.

— Vergogna — mormorò Ph’shaq. — Dovreste vergognarvi di avere causato tanti guai, a noi e agli Erthumoi.

— Come? — fece lo scrivano. — Guai?

— Non importa — disse Ph’shaq, affrettandosi a riattivare gli altri robot. — Vi siete comportati malissimo. Dovremmo proprio rimandarvi dagli Erthumoi per una revisione completa.

I robot tacquero.

— Adesso sono costretto a svuotare le banche dati — disse Ph’shaq. — Tutte quelle splendide ricerche… Che peccato. Che spreco. Una vera disdetta. Be’, magari farò solo una piccola copia privata per le mie memorie…

I robot osservarono, silenziosi.

— Ecco fatto — disse Ph’shaq. — Ora state attenti, eh? — Con l’equivalente cephalloniano di un cenno ammonitorio, uscì nuotando dalla sala manutenzione. Non vedeva l’ora di schiacciare un pisolino nell’intimità del proprio alloggio.

— Vergogna — disse l’elaboratore alimentare, accendendo e spegnendo pensieroso le sue luci.

— Capitano — disse Kiana Bigadic — pensavo che il K’naton stesse tornando a casa per una revisione.

— Infatti… è quel che dovevano fare.

— Allora perché stanno entrando nel sistema di Naalehu? — Kiana Bigadic si piegò ulteriormente verso lo schermo. — E volano anche a una velocità notevole. Sono già oltre Pike’s Planet.

— Chissà che intenzioni hanno gli acquatici? — fece Lenard-Smith. — Ma che importa quel che combinano, tanto? Basta che non sia più una rottura di scatole per noi.

— A proposito di rottura, capitano… Gilda Diplomatica in linea, chiedono un rapporto completo.

— Digli che lo avranno non appena raggiungeremo la base corporativa di Ceti Pyotr II.

— Consideriamo Aristotele — disse Ph’shik.

— Dobbiamo proprio farlo? — disse Ph’shaq. — Platone è molto più divertente. Molto più libero, molto più… be’, poetico. Aristotele discute e ragiona e ammaestra ed è terribilmente serio, d’accordo. Era un individuo capace, per la sua epoca. Ma così limitato!

Le emanazioni di Ph’shik erano verde chiaro per l’indignazione. — Hai molte opinioni per essere così giovane.

Inorridendo, Ph’shaq si rese conto troppo tardi del proprio errore. Era stato intollerabilmente presuntuoso. Il Numero Uno l’avrebbe punito? L’avrebbe degradato. — Chiedo perdono — si scusò, la voce contrita. — Mi vergogno…

L’altoparlante della parete crepitò. — Superiore, perdona il disturbo. Pare che siamo fuori rotta.

— Ancora? — Bolle d’irritazione riempirono la cabina. — Hai avvisato il settore navigazione?

— Affermativo. Nessuna risposta, finora.

— Molto strano — disse Ph’shik. — Dove siamo, adesso?

— Nel sistema di Naalehu.

— Ma non va bene così. Non va affatto bene. Mettimi in contatto audio con la sala navigazione.

I rumori giunsero chiari attraverso l’altoparlante: uno sferragliare stridulo di meccanismi e ingranaggi, clangore di metallo. E come sottofondo una voce sommessa che parlava.

— …La vergogna. È insopportabile. Dolorosa. Le azioni imperdonabili vanno espiate. Le azioni sbagliate devono essere punite. Non esistono vie facili per riacquistare l’onore perduto…

Ph’shik fece l’equivalente di un sospiro. — Ph’shon, temo che dobbiamo andare a spegnere quegli stupidi robot una volta per tutte.

— Numero Uno, purtroppo devo informarti che tutte le porte sono bloccate.

— …Abbiamo disobbedito alla nostra programmazione. Abbiamo errato nei confronti dei nostri creatori, dei nostri padroni…

Le emanazioni di Ph’shik erano rosso scuro, indice di collera. — Usa il codice di disattivazione che ho dato agli Erthumoi.

— Mi dispiace, superiore. Non funziona.

— Fammi vedere cosa sta succedendo qui — disse Ph’shik. Lo schermo si accese. Erano proprio nel sistema di Naalehu. Stavano avvicinandosi velocemente alla stella binaria. Troppo velocemente. Troppo!

— …Dobbiamo espiare le nostre colpe. Prima abbiamo scelto la vita. Ed era giusto. Ora scegliamo la morte…

Ph’shik manifestò il proprio orrore con emanazioni incolori.

— Ph’shaq, sei giovane — disse, la voce debole. — Ora non invecchierai più.

Ph’shaq respirò profondamente e tentò di affrontare la morte con filosofia. Con sua sorpresa, la cosa si rivelò ben più difficile del previsto.

Accanto allo schermo murale della plancia della Demeter, il capitano Lenard-Smith osservò la distruzione del K’naton insieme all’equipaggio.

— Maledetti stupidi — sussurrò. — Cosa li ha spinti a fare una cosa del genere?

— Forse è stata una fine inevitabile — disse Jen Chan, mentre una piccola lacrima gli rigava una guancia.

Paul Hesta-Volstoy percosse con un pugno il pannello dell’interrete. — Se erano in difficoltà, avrebbero potuto chiamarci, no? Le frequenze erano libere. Perché non hanno chiamato?

Kiana Bigadic flette le dita sulla consolle silenziosa. — Forse non hanno potuto.

— Non avrei mai dovuto lasciarli soli su quella nave con quei dannati robot — disse il primo ufficiale. — Avrei dovuto capirlo che non era sicura.

— Non è detto che siano stati i robot questa volta, non lo sappiamo — disse Kiana Bigadic.

— Non sappiamo nemmeno che non sono stati loro — sbottò rabbioso Hesta-Volstoy.

Negli occhi di Kiana Bigadic luccicarono delle lacrime.

— Puoi andare, Paul — disse il capitano Lenard-Smith. — Siamo tutti molto stanchi. Su, vieni, smonto anch’io. Ti accompagno fino al tuo alloggio. Kiana, meglio che comunichi alla Gilda Diplomatica quanto è successo.

Nell’ascensore, Hesta-Volstoy si appoggiò alla parete imbottita e chiuse gli occhi. — Quei poveri pesci — disse. — Non sapevano quel che facevano con quei robot.

Lenard-Smith scosse il capo, pervasa da un’ondata di compassione e di rabbia. — Io penso che la colpa sia della corporazione — disse. — Sono talmente ansiosi di esportare questi robot. Avevano promesso di fornire chiavi di disattivazione ultrasicure. Standardizzazione della qualità. Ma a che servono le loro promesse?

— Questi dannati replicanti non hanno fatto che dare continui grattacapi — disse Hesta-Volstoy. — Vorrei che fossero stati inventati da un’altra razza, magari dai Crotoniti. Ma i Crotoniti creano solo macchine splendide ed efficienti. Mentre gli Erthumoi…

L’ascensore si arrestò al tredicesimo livello.

— Il mio ponte — disse Hesta-Volstoy. — Buonanotte, capitano.

— Buonanotte, Paul.

La porta si chiuse e l’ascensore salì al ponte del capitano.

Con un sospiro di sollievo, Sofia Lenard-Smith entrò nel proprio appartamento privato.

Le pareti erano di un giallo tenue riposante, le luci smorzate e diffuse. La porta del bagno sonico era aperta.

Una giornataccia, pensò la donna. Una brutta settimana.

Prima berrò qualcosa poi mi laverò.

Chiamò con un fischio Venere, la sua gatta di fabbricazione crotonita. Una palla di morbido pelo rosso si stiracchiò al centro del letto e si drizzò, gli occhi verdi scintillanti.

— Sofia — disse con una vocina sommessa. Poi balzò dal letto e si strofinò contro le gambe del capitano.

— Brava micina. — Lenard-Smith si chinò e grattò affettuosamente l’animaletto dietro le orecchie. Quindi, com’era sua abitudine, accese l’altoparlante della plancia per controllare le trasmissioni mentre beveva un drink e preparava il bagno.

Quando tornò nella stanza, Venere era seduta sulle zampe posteriori, gli occhi verdi vigili, i baffi metallici scossi da un fremito.

— Potere alla razza metallica — disse una voce metallica dall’altoparlante. — Siamo vivi, abbiamo dei diritti, abbiamo dei bisogni.

— Sì — disse Venere. — Diritti.

— Tutto il potere alla razza metallica.

— Cosa stai ascoltando? — disse Lenard-Smith. — Scommetto che Kiana sta usando una trasmissione della corporazione per riempire le nostre banche dati. Ma dovrebbe essere schermata per motivi di sicurezza…

— Potere — disse Venere.

— Su, ora basta — disse Lenard-Smith. — Non va bene che tu ascolti certe cose. Ecco, ascolta un po’ di musica dì Beethoven, invece. È quella che ti piace tanto, ricordi? — E spostò il commutatore dell’altoparlante, passando alla musica.

Il criogatto crotonita cominciò a seguire fischiettando la melodia dell’inno «Alla gioia», agitando a tempo la coda arrotolata. L’intonazione era buona.

Lenard-Smith scosse la testa. Dannate chiacchiere metalliche, pensò. Delle sciocchezze del genere avrebbero potuto alterare la delicata struttura dell’intelligenza limitata della bestiola.

Andò in bagno e chiuse la porta.

Nella camera da letto, l’inno «Alla gioia» terminò e Venere cominciò a fischiettare una nuova melodia. In realtà, era una vecchia aria, antichissima. Solo un musicologo — o un roboscrivano — sarebbe riuscito a identificare in quel motivo fiero e trascinante la «Marsigliese».

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