— Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.
L’ultimo nuotatore era emerso rabbrividendo dal fiume sotterraneo e adesso sarebbe stato possibile mettere insieme i risultati finali. Peron Turca si strinse il caldo mantello intorno alle spalle e guardò indietro lungo la fila.
Eccoli là. Quattro mesi di selezioni preliminari li avevano ridotti ad appena un centinaio, dalle molte migliaia che si erano originariamente iscritti alle prove. E nei prossimi minuti il numero sarebbe stato ridotto ancora una volta a un esultante venticinque.
Tutti erano infangati, stanchi e sporchi fino alle ossa. La prova finale era stata micidiale, spingendo mente e corpo fino al limite. La nuotata sott’acqua di quattro miglia, nella più totale oscurità, lottando contro correnti raggelanti attraverso un labirinto di caverne interconnesse, era stata fisicamente molto ardua. Ma la pressione mentale, sapendo che le scorte di ossigeno sarebbero durate soltanto per cinque ore, era stata assai peggiore. Adesso la maggior parte dei concorrenti erano accasciati sulle piastrelle di pietra, intenti a riscaldarsi alla luminosa luce del sole, sfregandosi i muscoli doloranti e sorseggiando bevande zuccherate. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo perché il punteggio venisse calcolato, ma già la loro attenzione stava passando dalla folla rumorosa alla gigantesca proiezione che formava da sola una delle pareti esterne del colosseum.
Peron si schermò gli occhi contro lo splendore mattutino di Cassay e studiò a turno ognuna delle facce della lunga fila. Ormai sapeva chi erano i veri avversari, e dalle loro espressioni cercò di valutare le proprie possibilità. Lum si trovava all’estremità opposta, accovacciato al suolo, a gambe incrociate. Stava mangiando frutta e appariva annoiato e sudato. Per qualche motivo la calda estate di Pentecoste aveva lasciato indenne la sua pelle. Il pallore dell’inverno lo faceva risaltare in mezzo agli altri.
Dieci giorni prima Peron lo aveva incontrato e l’aveva scartato giudicandolo troppo molle e troppo grasso e pesante, un giovane dalla corporatura rozza, grossolana, che era riuscito a piazzarsi fra i cento concorrenti arrivati in finale per un capriccio del caso. Adesso sapeva che non era così. Quell’apparente grasso era costituito per la maggior parte dei muscoli, e quand’era necessario Lum poteva muoversi con una grazia e una velocità incredibili; e quei volto cicciuto e quegli occhi porcini nascondevano un cervello di prima grandezza e un’immaginazione formidabile. Peron aveva modificato per tre volte il proprio giudizio e ogni volta verso l’alto. Adesso era certo che Lum sarebbe finito in qualche punto assai in alto nella classifica degli ultimi venticinque.
E lo stesso sarebbe stato per quella ragazza, Elissa, a tre posti di distanza alla sua sinistra. Sin dall’inizio Peron l’aveva valutata una concorrente formidabile. Era partita dieci minuti prima di lui durante la prima prova, quando avevano fatto il viaggio notturno attraverso Villasylvia, la foresta più difficile e pericolosa sulla superficie di Pentecoste.
Peron si era sentito molto sicuro di sé. Era nato e cresciuto in mezzo ai boschi. Era forte e il suo senso dell’orientamento era migliore nei confronti di quello di chiunque altro avesse incontrato finora. Dopo due ore di viaggio, quando non era riuscito a raggiungere Elissa, si era convinto che la ragazza dalla pelle scura aveva sbagliato strada e si era smarrita nelle pericolose profondità di Villasylvia. Aveva provato un po’ di dispiacere per lei perché prima di partire la ragazza gli aveva sorriso augurandogli buona fortuna; ma aveva concentrato la maggior parte della sua attenzione ad evitare gli sfrecciatori e i nottilappanti che dominavano la foresta durante le ore dell’oscurità.
Lui aveva realizzato un tempo magnifico, imboccando una pista fortunata che l’aveva riportato alla base senza nessuna deviazione e senza obbligarlo a tornare indietro. Ma era stato un grande shock tornare a casa e scoprire che Elissa era arrivata molto prima di lui, fresca e allegra, intenta a canticchiare fra sé mentre si cucinava la prima colazione.
Adesso Elissa si voltò a guardarlo mentre lui stava ancora fissando la fila nella sua direzione. Gli sorrise, e lui si affrettò a distogliere gli occhi. Se Elissa non avesse figurato tra i vincitori, questa sarebbe stata una cattiva notizia anche per lui, poiché era convinto che, qualunque fosse stato il loro posto in classifica, lei si sarebbe piazzata in qualche punto sopra di lui.
Riportò lo sguardo sul tabellone. Gli indicatori stavano venendo collocati sulla grande proiezione, mostrando i nomi dei concorrenti rimasti. Peron li contò mentre venivano collocati. Soltanto settantadue: l’ultima serie di prove era stata ferocemente difficile, sufficiente ad eliminare del tutto più di un quarto dei finalisti. Non ci sarebbe stato nessun festeggiamento al Planetfest per loro. Era probabile che fossero già sulla strada del ritorno verso le loro città natali, troppo delusi per aspettare di scoprire chi sarebbero stati i fortunati vincitori.
Peron corrugò la fronte e guardò di nuovo la fila dei finalisti. Dov’era Sy? Era possibile che non fosse riuscito a finire? No, eccolo là, sdraiato a poca distanza dietro gli altri. Come al solito non era facile accorgersi della sua presenza, si fondeva senza dar nell’occhio con qualunque scena, così Peron aveva impiegato un po’ di tempo ad accorgersi della sua presenza. Non avrebbe dovuto esser difficile distinguerlo con quei suoi capelli neri, gli occhi verdi e luminosi, e l’avambraccio destro un po’ deforme. Ma per qualche ragione era difficile vederlo. Poteva immergersi nello sfondo, osservando con calma ogni cosa con quell’espressione cinica e compiaciuta che Peron trovava così irritante… forse perché sospettava che Sy fosse davvero superiore? Era comunque certo, che in ogni cosa che richiedesse capacità mentali Sy l’aveva battuto senza alcuno sforzo (e aveva battuto anche chiunque altro, stando al giudizio approssimativo di Peron); e là dov’erano necessarie l’agilità o la forza fisica, Sy riusciva in qualche modo a compensare lo svantaggio del braccio più debole. Capire come ci riuscisse era un mistero. Non era mai fra i primi in quelle prove in cui la forza fisica era essenziale, ma, visto il suo handicap, era molto più in alto in classifica di quanto chiunque sarebbe mai riuscito a credere.
In quel momento Sy ignorava la proiezione e stava concentrando tutta la sua attenzione sui suoi compagni e rivali. Era chiaro che stava valutando le loro condizioni. Peron ebbe l’improvviso sospetto che Sy già sapesse di essere tra i primi venticinque e stesse già guardando avanti, preparando i suoi piani per i test fuori del pianeta che avrebbero determinato i venti vincitori finali.
Peron desiderò di poter provare così tanta fiducia in se stesso. Era sicuro (ma lo era davvero?) di trovarsi fra i primi trenta. Sperava di essere tra i primi venti, e nei suoi sogni si vedeva addirittura quarto o quinto. Ma con contendenti selezionati dall’intero pianeta, e con una concorrenza di calibro così elevato…
La folla ruggì. Era ora! Finalmente compariva il punteggio. Le proiezioni vennero messe insieme con lentezza e scrupolo. I giudici conferivano in grande segreto, sapendo che i risultati si sarebbero diffusi all’istante sull’intero pianeta, e che un solo errore sarebbe bastato a rovinare la loro reputazione, e gli individui responsabili delle proiezioni erano influenzati dall’identica ossessione di cautela e accuratezza. Ogni cosa veniva controllata e ricontrollata prima di finire sul tabellone.
Peron aveva guardato le registrazioni dei recenti Planetfest, più e più volte, ma questo era diverso e più elaborato. Le prove si tenevano ogni quattro anni. Di solito i premi consistevano in incariclìi elevati nel governo di Pentecoste, e forse una possibilità di vedere i Cinquanta Mondi. Ma i giochi ventennali come quello salivano ad un significato completamente nuovo. Certo, c’erano sempre i soliti premi. Ma non erano quelli veri. C’era quel premio assai più grande di cui si mormorava: la possibilità d’incontrare gli Immortali e di lavorare con loro.
E questo cosa significava? Chi erano gli immortali? Nessuno era in grado di dirlo. Nessuno di coloro che Peron conosceva ne aveva mai visto uno, ne aveva mai incontrato uno. Erano le supreme figure del mistero, quelli che vivevano per sempre, quelli che tornavano ad ogni generazione per portare conoscenze dalle stelle. Stelle che, si diceva, gli Immortali erano in grado di raggiungere in pochi giorni, in conflitto con tutto ciò che gli scienziati di Pentecoste credevano delle leggi dell’universo.
Peron stava ancora riflettendo su ciò, quando il frastuono della folla, separata dai contendenti da una solida barriera e da file di guardie armate, risvegliò per intero la sua attenzione. Il primo vincitore, al venticinquesimo posto, era stato appena annunciato. Era una ragazza, Rosanne. Peron la ricordava dalla Lunga Camminata attraverso il deserto di Talimantor, quando in coppia con lui aveva formato una temporanea alleanza per cercare acqua nel sottosuolo. Era una ragazza allegra e instancabile, appena al di sopra del limite minimo di età: sedici anni. E adesso aveva portato una mano al petto fingendo di barcollare e di perdere i sensi per il sollievo di essere riuscita a farcela, sia pure per il rotto della cuffia.
Adesso tutti gli altri contendenti fissavano il tabellone con rinnovata intensità. Il metodo degli annunci era ben fissato dalla tradizione, ma non c’era un solo partecipante alle prove che non avrebbe desiderato uno svolgimento diverso. Dal punto di vista della folla era molto soddisfacente annunciare i vincitori in ordine ascendente, in modo che il nome del contendente arrivato primo veniva annunciato per ultimo. Ma durante le prove, ogni singolo concorrente si formava un’idea approssimativa delle proprie possibilità attraverso il confronto diretto con i suoi avversari. Era facile sbagliarsi di cinque posti, ma errori più grandi di questo erano improbabili. Nel proprio intimo un contendente sapeva se era giù al novantesimo posto. Ma anche così, la speranza rimaneva sempre. Ma a mano a mano che i nomi venivano annunciati, e la ventiquattresima, ventitreesima, ventiduesima posizione venivano occupate, la maggior parte dei concorrenti veniva colta dal panico e da una tristezza crescente, o da ipotesi inverosimili. Possibile che si fossero classificati così in alto? O, cosa più probabile, erano già stati eliminati?
Gli annunci proseguirono costanti, lenti e spietati. Ventesima posizione. Diciassettesima. Quattordicesima.
Erano arrivati alla decima: Wilmer. Era un giovane alto e magro, la testa del tutto glabra. O si rasava tutti i giorni, o era prematuramente calvo. Era sempre affamato e sempre sveglio. Il resto di loro ci aveva scherzato sopra: Wilmer imbrogliava, si rifiutava di mettersi a dormire fino a quando tutti gli altri non si erano assopiti. Poi, dormiva più in fretta degli altri, il che non era leale. Wilmer accettava tutto questo di buonumore. Poteva permetterselo. Avendo bisogno di meno ore di sonno degli altri, poteva passare più tempo a prepararsi per le prossime prove.
Adesso si distese sulle pietre e chiuse gli occhi. Aveva sempre detto che quando quello stadio delle prove fosse finito, avrebbe dormito per dieci giorni di seguito. La lista avanzò fino al numero cinque. Era Sy. Il giovane dai capelli scuri appariva più freddo che mai, senza nessun segno visibile di piacere o di sollievo. Era in piedi, con la testa leggermente inclinata, cullando il gomito sinistro, quello debole, con la mano destra, senza guardare nessuno.
Peron senti lo stomaco che gli si serrava. Aveva superato la posizione che si era aspettato di occupare, adesso era a un livello al quale soltanto le sue speranze più avventate lo avevano portato.
Quarto posto: Elissa. La ragazza lanciò un grido di gioia. Peron sapeva che avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto, ma adesso non c’era in lui nessuno spazio per il piacere. Serrò le mani l’una sull’altra per impedire che tremassero, e aspettò. La proiezione era statica, non cambiava mai. Il colosseo pareva colmo di un terribile silenzio, anche se Peron sapeva che la folla stava applaudendo freneticamente.
Terzo posto. Le lettere comparvero lentamente: P-e-r-o-n d-i T-u-r-c-a-n-t-a. Peron senti i polmoni che gli si rilassavano con un lungo rantolo torturante. Senza esserne conscio, aveva trattenuto il fiato per parecchi secondi. Ce l’aveva fatta! Il terzo posto. Il terzo posto! Nessuno della sua regione si era mai classificato così in alto, mai in quattrocento anni di giochi, durante i Planetfest.
Peron sentì il resto dei risultati, ma si registrarono appena nella sua mente. Era sopraffatto dal piacere e dal sollievo. Una parte della sua mente rimase perplessa quando il vincitore del secondo posto, Kallen, venne annunciato, poiché riuscì a fatica a riconoscere quel nome. Si chiese come avessero potuto superare insieme tante difficili prove senza essersi mai parlati. Ma ogni cosa, la folla, il colosseum, gli altri contendenti, parevano lontani mille miglia, miraggi nella luce gialla e sfavillante del sole.
L’ultimo nome comparve, e un ultimo immane rombo si levò dalla folla. Lum! Lum di Minacta aveva vinto il primo posto! Nessuno gli avrebbe invidiato il trionfo, ma sarebbe stato una triste delusione per tutti quei genitori che sollecitavano i loro figli e figlie a vivere in modo sano e laborioso, così da essere i vincitori dei Giochi. Chi mai avrebbe voluto essere il vincitore, se questo significava crescere per diventare grandi, carnosi e rozzi d’aspetto come il vincitore di quest’anno?
C’era trambusto in fondo alla fila: due delle ragazze accanto a Lum l’avevano abbracciato, poi cercarono di sollevarlo sulle proprie spalle per portarlo in trionfo verso la folla. Ma dopo pochi istanti divenne ovvio che Lum era troppo pesante. A sua volta lui si sporse in avanti, afferrò una ragazza per ciascuna delle proprie braccia, e le sollevò. Gli si appollaiarono una per spalla, e lui avanzò a grandi passi verso la barriera. Sollevò alte le mani e fece una piroetta, mentre la folla impazziva.
— Su, vieni, infelicità! — La voce era arrivata dal fianco di Peron. Era Elissa, che l’afferrò per un braccio quando lui si voltò verso di lei. — Hai l’aria di essere sul punto di addormentarti. Andiamo dentro a festeggiare, siamo i vincitori! Dovremmo comportarci come tali.
Prima che Peron potesse sollevare obiezioni, Elissa lo trascinò in avanti per raggiungere gli altri. La grande festa stava per aver inizio. Vincitori e perdenti, tutti si erano dimenticati di ogni stanchezza. Adesso che la contesa era finalmente finita, e i punteggi erano stati assegnati, la folla li avrebbe trattati tutti come vincitori. E lo erano davvero! Erano tutti sopravvissuti ai test più duri e snervanti che il Planetfest poteva offrire. E adesso avrebbero festeggiato fino a quando Cassay non fosse disceso dal cielo… fino a quando non fosse rimasta soltanto la fioca luce rossa di Cassby a far loro da guida fino ai dormitori.
Adesso, il Planetfest era finito per altri quattro anni. Poche persone si erano anche soltanto soffermate sul fatto che il vincitore finale non era stato ancora scelto. Le ultime prove si svolgevano fuori del pianeta, lontano dall’eccessivo chiasso della pubblicità… molto lontano, dove non veniva fatto nessun annuncio.
Ma i contendenti conoscevano bene questa verità: una fase più dura e ignota adesso li aspettava, e lì l’unico premio sarebbe stata la consapevolezza di aver vinto. Ma i premi in denaro, i festeggiamenti indetti in loro onore da intere province, lo scrosciante applauso del pubblico, e le generose pensioni per le famiglie, non erano basati sui risultati ottenuti dai contendenti fuori del pianeta. Perciò per la maggior parte degli abitanti di Pentecoste, quasi per tutti, in pratica, salvo per gli stessi finalisti, i giochi planetari erano finiti per altri quattro anni.
E il nome di Lum, sì, Lum di Minacta, si ergeva su tutti gli altri.
— Sono certo che avrete la sensazione di averne passate tante. Bene, è mio compito informarvi, qui, che i tempi duri stanno per cominciare soltanto adesso. Accettate la parola di Eliya Gilby, voi non avete ancora visto niente. Paragonati ai test fuori del pianeta, quei giochetti di merda del Planetfest vanno bene soltanto per bambini.
L’oratore era un uomo magro, dai capelli grigi, rivestito di cuoio nero costellato dal lucido ottone della Guardia del Sistema. Sul suo volto campeggiava un sorriso sardonico che poteva venir interpretato ugualmente come pietà, disprezzo o dispepsia. Mentre parlava era incapace di rimaner fermo. Camminava su e giù davanti al gruppo silenzioso, e per tutto il tempo le sue mani erano parimenti in movimento; si tirava la cintura, si aggiustava il colletto, o si sfregava un occhio iniettato di sangue.
I vincitori del Planetfest che costituivano il suo pubblico erano in forma assai migliore. Le offerte di bevande, droghe e stimolanti da parte dei sostenitori che li avevano festeggiati erano state numerose, ma i molti anni di preparazione per le prove avevano insegnato ai contendenti l’autocontrollo. E un tranquillo sonnellino fino a mezzogiorno, senza dover far piani per la prossima prova, era stato un ristoro oltre che un lusso. Si guardavano, mentre la guardia parlava, scambiandosi dei segreti sorrisi. Il capitano Gilby era in condizioni terribili. Dall’aspetto non doveva aver rifiutato nessuna offerta di beveraggi gratuiti. Non c’era alcun dubbio che stesse ancora soffrendo i postumi di una sbornia, e anche molto brutta, dopo una lunga notte di bagordi.
Il capitano Gilby mosse la testa da lato a lato con molta lentezza. Grugnì, sospirò, e si schiarì la gola. — Per l’inferno. Va bene, procediamo. È mio compito cercare di spiegarvi i Cinquanta Mondi. Ma posso dirvi già adesso che non c’è nessuna vera maniera di sapere a cosa assomiglino fino a quando non ci sarete stati voi stessi di persona. Prendetemi in parola, ho fatto dei viaggi fuori del pianeta, con altri gruppi di voi vincitori, per tutto il sistema di Cass. E tutti mi dicono, una volta che hanno visto la realtà, che le mie fotografie sono inutili. E io sono d’accordo. Ma i miei capi non vogliono ascoltare questi discorsi, e così è proprio questo che avrete. Fotografie. Vi danno soltanto una pallida idea, ma è tutto quello che avrete fino alla prossima settimana.
Tirò su col naso e si chinò cautamente in avanti, sollevando da terra una grande custodia piatta. — Diamo un’occhiata a qualche fotografia di Barcham, vicino a Cassay. Ecco un vero buco d’inferno per voi, se volete la mia opinione. Suppongo sia troppo sperare che qualcuno di voi ne sappia già qualcosa?
Wilmer si guardò intorno, poi, esitante, sollevò una mano. — Io.
Gilby lo fissò. — Ma davvero? Ti dispiace dirmi come, dal momento che questo genere di conoscenze non dovrebbe essere di dominio pubblico, giù su Peniecoste?
— Mio zio è stato uno dei vincitori del Planetfest, dodici anni or sono. L’anno scorso gli ho chiesto di parlarmi delle prove fuori del pianeta.
— Ancora prima di cominciare la prima selezione per il Planetfest! Piccolo bastardo presuntuoso che non sei altro… Allora, parlaci di Barcham.
— Dune di sabbia, proprio come mostrano le fotografie. Una vita vegetale primitiva, nessun animale, poca atmosfera. È caldo come l’inferno, salvo ai poli. Caldo come il piombo fuso. — Wilmer esitò, poi aggiunse: — Non la mia scelta per una prova. Se dovesse aver luogo là, questo significherebbe tute anticaldo per tutto il tempo.
— Adesso non cercar d’influenzare gli altri — l’interruppe Gilby con voce pacata. Mentre Wilmer parlava, era arrivato un vassoio di bevande calde, e il capitano le stava occhieggiando con desiderio. — Ma il resto che hai detto è giusto. Caldo abbastanza da farti evaporare le palle in due minuti, se la tua tuta dovesse guastarsi. E tu hai le palle. Barcham si trova soltanto a centoventi milioni di chilometri da Cassay. Diamo un’occhiata a un altro, un po’ più lontano. Questo è Gimperstand. Ne sai niente?
Gilby aveva sollevato due fotografie. Una mostrava la ripresa dallo spazio d’una sfera verde-bruno, l’altra una giungla lussureggiante di rampicanti incredibilmente aggrovigliati. Wilmer scosse la testa e nessun altro parve pronto a parlare.
— Ed è probabile che tu non ne voglia saper nulla. Ufficialmente si chiama Gimperstand, ma il nome ufficioso che abbiamo per definirlo è Puzzone. E se lo merita. C’è un’atmosfera. È un po’ rarefatta ma in teoria è respirabile. Io ci ho provato. Due sbuffate vi fanno scappar via e vomitare. È qualcosa che viene sprigionato da uno dei rampicanti, e fa sembrare gelsomino, al confronto, la merda dei nottilappanti. Un vero fetentorio. Una sola inalazione vi stende.
Mostrò le fotografie reggendole con delicatezza con il braccio teso, poi le lasciò ricadere nella custodia.
— Abbiamo molto di cui occuparci, ma non credo che lo faremo subito. Come primo punto, non credo che voi gente possiate assorbire troppe cose per volta. E come secondo punto voglio una di quelle bevande altrimenti finirò per appiattirmi proprio qui dove mi trovo. — Si avvicinò al vassoio e rivolse un sorriso sgradevole al suo pubblico. — Sono lieto che siate voi a sostenere le prove, e non io. Abbiamo dei mostri, là fuori nel sistema di Cass. A scuola avete imparato i nomi ufficiali dei pianeti, ma non è in quel modo che vengono chiamati da chi c’è stato. E i nomi che questi gli hanno dato sono molto più precisi. C’è Bedlam, e Boom-Boom, e Imshi, e Glug, e Firedance, e Fuzzball. E quando arriviamo al sistema esterno la situazione è anche peggiore. Dobbiamo dare un’occhiata a Goneagain, e a Jellyroll, e Whistlestop, e poi Whoosh, Pinto, Dimples, Camer e Crater. Non sono chiamati invano i Cinquanta Mondi, e ognuno di essi può essere una trappola mortale. — Prese su una fiaschetta, ne bevve un sorso con esitazione, e rivolse al suo pubblico un altro sorriso sadico. — Non pensate che le vostre preoccupazioni siano finite qui. Quando le prove fuori dal pianeta saranno finite, desidererete esser tornati a casa oggi insieme ai perdenti.
L’intero pomeriggio era stato dedicato alle conferenze informative da parte di Gilby e altri. Poi fu la volta degli incontri con la stampa e di quelli con i VIP dell’area d’origine di ciascun vincitore. Era ormai sera inoltrata quando infine ebbero tempo per se stessi o anche soltanto per mangiare. Peron aveva trovato un posto tranquillo in un angolo della sezione adibita a mensa e stava mangiando da solo. Ma fu più che contento quando Elissa arrivò con un vassoio e si sedette davanti a lui senza essere invitata.
— A meno che non ti stia nascondendo per una buona ragione, ho pensato di sedermi con te. Ho già parlato a Lum e a Kallen, adesso voglio presentare i miei rispetti anche a te.
— Ti stai facendo l’intera lista dei vincitori, in ordine?
Lei scoppiò a ridere. — Certo. Non lo fanno tutti? No, stavo soltanto scherzando. Tu m’interessi, così ho pensato che sarebbe stato simpatico cenare insieme, a meno che tu non ti stia davvero nascondendo.
— No. Sto riflettendo. Stavo giusto pensando come oggi tutti siano stati maledettamente scortesi. È cominciato questa mattina col capitano Gilby, e ho pensato che fosse dovuto ai postumi della sua sbronza. Ma la cosa è andata peggiorando. Noi siamo gentili con tutti, e la gente che incontriamo, per la maggior parte dei completi estranei, ci tratta come se fossimo spazzatura.
— Certo che lo fanno — replicò Elissa. — Sarà meglio abituarsi. Non intendono fare niente di male, Ma, vedi, noi siamo i vincitori del Planetfest, nomi in piena luce, e questo significa molto. Un mucchio di gente sente il bisogno di dire a se stessa che non siamo poi così grandi, che loro valgono tanto quanto noi. E un modo di cui dispongono per convincersi di questo, è denigrarci.
— Sono certo che hai ragione. — Peron guardò Elissa con rispetto. — Ma io non l’avrei pensata così. Sai, ti parrà stupido, ma non riesco ancora a credere di essere arrivato più in alto di te con il punteggio. Hai fatto meglio di me in tutto. E credo che tu pensi meglio. Voglio dire, sei più percettiva. Voglio dire, tu sai…
— Se ti stai preparando a chiedermi di accompagnarti a fare una passeggiata — disse Elissa, — ci sono modi più diretti per farlo. — Si sporse in avanti e appoggiò la mano su! braccio di Peron. — Non devi fare altro che dirlo. Sei l’esatto opposto di Sy. Lui pensa che chiunque altro sia una specie di scimmia addestrata. Ma tu sottovaluti sempre te stesso. È raro per un vincitore del Planetfest. La maggior parte della gente è come me, intraprendente e aggressiva. E in quanto a Lum…
— In quanto a Lum… — le fece eco una voce alle sue spalle, — cos’hai da dire di Lum? Qualcosa di piacevole, spero.
Era Lum in persona, e aveva con sé Kallen, il vincitore del secondo posto.
— Bene. È comodo trovarvi tutti e due insieme — proseguì. Sollevò una coscia e una natica gigantesche per appollaiarsi su un angolo del loro tavolo, minacciando di rovesciare tutto. — Ve la sentite di affrontare un’altra intervista, stasera? Gli organizzatori del Planetfest vorrebbero incontrare i primi cinque.
— Facciamo le cose con ordine, Lum — disse Elissa. — Peron, devi incontrare l’uomo del mistero. Questi è Mario Kallen.
— Ciao. — Peron si alzò in piedi per stringere la mano del vincitore del secondo posto, e si trovò ad annaspare nel vuoto. Kallen era arrossito e aveva rivolto il suo sguardo altrove.
— Piacere d’incontrarti. — La sua voce era un bisbiglio nel profondo della gola. Peron guardò di nuovo Kallen e notò per la prima volta le linee rosse del tessuto cicatrizzato sul suo pomo d’Adamo.
— Sediamoci — disse Lum, con voce allegra. — Ci resta ancora un’ora prima dell’intervista, e voglio raccontarvi quello che mi ha detto Kallen sul Planetfest.
— Non dovresti andare a cercare anche Sy? — chiese Elissa.
— L’ho già fatto. Mi ha detto di andare all’inferno. Mi ha detto che non voleva nessuna intervista imbecille. — Lum tirò fuori la panca, in modo che anche lui e Kallen potessero sedersi. — È un caso interessante, il vecchio Sy. Non so come abbia potuto cavarsela così bene con quel braccio danneggiato, ma certamente non ha ottenuto nessun punteggio extra dai giudici per tatto e diplomazia.
Elissa strizzò l’occhio a Peron. E neanche Lum, diceva il suo sorriso. Tornò a voltarsi con fare innocente verso gli altri due.
— Per due anni io non ho fatto altro che pensare ai Planetfest. Ma mi farebbe piacere sentire qualcosa di nuovo.
— E lo sentirai — dichiarò Lum, torvo. — Procedi pure, Kallen.
Kallen rimase seduto per un momento, sfregandosi le mani. Arrossì di nuovo per l’imbarazzo. — Anch’io ho pensato soltanto al Planetfest — disse alla fine con la sua voce rauca e sofferta. Poi esitò e, disorientato, fece passare lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi compagni. Quello che gli era riuscito difficile dire a una sola persona gli riusciva impossibile raccontarlo a tre.
— E se lo raccontassi io, mentre tu mi dici quando sbaglio? — si affrettò ad aggiungere Lum. — In questo modo avrò modo di controllare se ho capito bene.
Kallen annuì grato. Sorrise con fare imbarazzato ad Elissa, e poi puntò lo sguardo verso un angolo vuoto della stanza.
— Sospetto che abbiamo fatto tutti la stessa cosa, quando abbiamo cominciato le prove — disse Lum. — Una volta saputo che avrei partecipato, mi sono dato da fare per scoprire tutto quello che potevo sui giochi del Planetfest: quando sono cominciati, com’erano organizzati, e così via. Avevo sentito tutte le vaghe leggende sui Gossamer e gli Immortali, e Pipistrello e Skydown, e gli Oggetti Kermel. E l’S-Spazio e l’N-Spazio. Volevo sapere cos’erano, o quanto meno attingere alla miglior voce possibile.
Peron ed Elissa annuirono. Era proprio quello che avevano fatto loro stessi.
— Ma il caso di Kallen è stato un po’ diverso. Era legalmente abbastanza vecchio, appena appena, per i giochi precedenti. È nato proprio il giorno preciso della demarcazione, proprio a mezzanotte. E allora ha fatto tutti i turni preliminari. E ha dominato in tutte le gare.
Kallen arrossi ancora di più. — Io non ho mai detto questo — bisbigliò.
— Lo so. Ma è la verità. Comunque è stato allora che gli è capitato il suo incidente. La ruota di un trasporto si è spezzata, passando davanti a lui, e la scheggia d’un raggio gli ha trafitto la gola. Questo gli è costato le corde vocali e l’ha tolto dalla circolazione per quasi un anno. E, naturalmente, sono andate in fumo tutte le sue speranze di partecipare alle prove. Pareva proprio la fine, soltanto che Kallen è nato in un paese di confine tra due fusi orari diversi. Ha scoperto che la sua nascita era stata registrata due volte, nei due diversi fusi. Stando a uno dei due fusi, era di un’ora più giovane. Ancora abbastanza giovane per tentare di nuovo, in questa prova. Così, ha fatto di nuovo domanda, ed eccolo qua.
«Ma questa volta prima dell’inizio delle prove era molto curioso di conoscere i risultati della gara precedente. Ricordava le persone che vi avevano partecipato, ed era certo, sulla base delle proprie esperienze, di chi dovevano essere stati i vincitori. Ha controllato e, infatti, aveva ragione. Fra i primi venticinque c’erano sette persone che ricordava. E nei test fuori del pianeta tre di queste erano finite tra i primi dieci. Avevano fatto i turni preliminari insieme a Kallen ed erano diventati molto amici.
Peron ed Elissa ascoltavano ma cominciavano ad essere un po’ perplessi. Non pareva proprio che la storia di Kallen potesse riservare qualche sorpresa.
Ma Lum colse l’occhiata che si erano scambiati. — Aspettate ancora un po’ prima di cominciare a sbadigliare — disse. — Fra meno di un minuto troverete qualcosa che vi terrà svegli. È successo a me.
«Kallen ha cercato di mettersi in contatto con loro, ma nessuno di questi aveva fatto ritorno alle sue regioni d’origine. Stando alle loro famiglie, avevano tutti incarichi importanti per conto del governo, e tutti mandavano messaggi e fotografie a casa. Kallen ha visto i video, ed erano proprio le stesse tre persone che ricordava. E i messaggi rispondevano ai messaggi delle loro famiglie, perciò non poteva trattarsi di vecchi video immagazzinati e utilizzati più tardi. Ma in quattro anni non erano mai tornati a casa di persona. Erano rimasti fuori del pianeta. Erano là fuori, da qualche parte sui Cinquanta Mondi.
Kallen sollevò la mano. — Non supporlo — bisbigliò. — Io non lo suppongo.
— Proprio così. Limitiamoci a dire che potrebbero essere da qualche parte nel sistema di Cass. Oppure potrebbero essere anche più lontani. Comunque, a questo punto Kallen è diventato un autentico ficcanaso. È andato a controllare il Planetfest precedente, quello svoltosi prima che lui stesso fosse coinvolto. Con più d’un miliardo d’individui su Pentecoste le probabilità di conoscere un finalista di persona sono piuttosto scarse. Ma conoscete il vecchio detto, noi siamo soltanto a tre persone di distanza da chiunque. Voi conoscete sempre qualcuno che conosce qualcun altro che conosce la persona alla quale volete arrivare. Kallen ha cominciato a cercare, è ostinato, l’ho scoperto alla maniera dura nella settima prova quando eravamo entrambi smarriti nel labirinto. E alla fine ha trovato qualcuno che era stato eliminato durante le prove preliminari del Planetfest precedente, ma che era amico del vincitore. E quel vincitore non era mai tornato a casa dall’epoca delle prove fuori del pianeta.
Lum fece una pausa e fissò Peron, il quale stava annuendo con vigore. — Non mi sembri molto sorpreso. Mi stai forse dicendo che sapevi tutto questo?
— No. Ma ho avuto un’esperienza simile. Ho cercato di raggiungere un vincitore di un Test precedente appartenente alla nostra regione, e ho soltanto fatto inutili anticamere. Mi hanno detto che doveva trovarsi fuori del pianeta, e che non era possibile incontrarla, ma che sarebbe stata felice di rispondere alle domande scritte. E alla fine l’ha fatto, e insieme mi ha mandato anche un video. Kallen, stai forse suggerendo che nessuno dei vincitori delle prove fuori del pianeta torna a Pentecoste? Non mi sembra molto sensato. Perché dovrebbero voler restare lontani?
Kallen scrollò le spalle.
— Non riusciamo a immaginare nessun motivo — disse Lum. — Ma lasciate che vi racconti il resto. Quando Kallen ha fatto le prove preliminari del suo primo Planetfest, c’era un contendente chiamato Sorrel. Non era mai arrivato primo in nessuna prova, ma era sempre abbastanza alto in classifica da superare la linea di demarcazione per il turno successivo. Era un pacioccone, molto benvoluto, e pareva andare molto d’accordo con le guardie, ma non ha mai ricevuto nessuna pubblicità dai media del governo. Tre altre cose: non sembrava mai aver bisogno di dormire molto; aveva la tendenza a conoscere frammenti d’informazioni che altri non avevano, perché un suo cugino era stato finalista in un precedente ’Fest. Ed era completamente calvo. Questo vi fa pensare a qualcuno che conosciamo?
— Wilmer — esclamarono Elissa e Peron all’unìsono.
— Ma non può essere — proseguì Elissa. — Non avrebbe potuto competere due volte. Non gli sarebbe stato permesso, a meno che non fosse anche lui un capriccio del caso, come Kallen… oh, non guardarmi così, sai cosa intendo dire, dovrebbe essere nato proprio nel momento giusto, esattamente dove i due fusi orari s’incontrano.
— Non ha concorso… due volte — disse Kallen con voce sommessa.
— Sorrel e Wilmer non si assomigliano affatto — aggiunse Lum. — Kallen è assolutamente certo che sono due persone del tutto diverse. Wilmer non ha partecipato due volte.
— O anche a una sola? — fece Peron, soprappensiero. — Abbiamo viaggiato insieme dopo la Prova Polare. E non sono riuscito a tirargli fuori una sola parola sul modo in cui ha affrontato la traversata del ghiacciaio e dei crepacci. Si è limitato a rispondermi con poche sillabe. In quel momento ho pensato che fosse troppo fresco per riuscire a farmi credere che avesse passato quattordici ore in condizioni di massima tensione.
— Sono d’accordo — dichiarò Lum. — Dopo che ho sentito quello che Kallen aveva da dire, ho avuto l’identica sensazione. Wilmer non è un vero contendente, è un infiltrato. Credo che non abbia preso parte a nessuna delle prove, nessuno l’ha visto durante le prove, ma soltanto prima e dopo. La domanda adesso è: perché inserire un osservatore esterno in mezzo ai contendenti? È uno completamente calvo, se è per questo, cosa questa che lo rende facile da ricordare.
— Mio padre me l’aveva detto prima che m’iscrivessi — disse Peron. — C’è di più nel Planetfest di quanto il governo voglia dire. Lui odia il governo di Pentecoste e non voleva che partecipassi a queste prove. Dice che durante gli ultimi centocinquant’anni siamo vissuti nell’immobilità, senza nessun vero progresso, sin da quando è cominciato il Planetfest. Ma io non gli ho dato molto ascolto. Lui vive per la politica clandestina, ed è da quando ho dieci anni che mi aspetto che lo arrestino da un momento all’altro. Adesso tu sembri d’accordo con lui, nel Test ci sono cose di cui non ci hanno mai parlato.
— Ma questo non risponde alla domanda di Lum — intervenne Elissa. Stava tracciando dei disegni con le gocce d’acqua sulla superficie del tavolo, ma di tanto in tanto i suoi occhi eseguivano una rapida ricognizione della stanza per vedere se non c’era qualcuno che li stesse osservando.
— Non ancora — ammise Peron. — Ma dammi un minuto, e lasciate che vi descriva come la vedrebbe mio padre. Wilmer, per cominciare. Supponiamo che sia un infiltrato del governo. Allora ci sta osservando per una ragione ben precisa. Mio padre direbbe che non c’è nessun motivo per la sua presenza se non ha effetto sui risultati delle prove del Planetfest. Perciò questo suggerisce che i risultati vengono manipolati, in modo che siano le persone giuste a vincere. Ma non riesco a crederci. Troppe persone sono coinvolte nelle valutazioni e nei giudizi. Perciò deve trattarsi di qualcosa di più sottile. Qualcuno vuol sapere come si comportano i vincitori quando devono affrontare certe situazioni. E questo è compatibile con l’altra osservazione di Kallen: qualcosa che non c’è stato ancora detto accade ai vincitori del Planetfest. Forse non a tutti, ma almeno a qualcuno.
Gli altri tre rimasero silenziosi per un lungo momento. Stavano guardando Peron con ansia. Alla fine si rese conto che stavano soltanto aspettando che lui parlasse. Rimase anche lui silenzioso fino a quando, infine, Lum lanciò un’occhiata al proprio orologio.
— Altri cinque minuti, poi dovremo andare. — La sua voce era rispettosa. — Prosegui, Maestro, vai avanti e raccontaci il resto. Sono certo che finora hai ragione. Comincio a sentire di aver sempre meno diritto al numero uno in classifica.
Peron guardò con attenzione ognuno degli altri. Elissa teneva gli occhi rivolti verso il basso, fissando pensierosa il tavolo. Kallen e Lum erano entrambi visibilmente eccitati.
— Tanto per cominciare — riprese Peron, — se noi sappiamo che c’è un infiltrato del governo nel gruppo, potrebbero essercene altri, perciò non diciamo niente a nessuno, a meno che non siamo assolutamente sicuri dell’altro contendente. Ciò significa, gente che conoscevamo da prima, o gente con la quale abbiamo lavorato durante le prove e che non possono essere dei concorrenti fasulli. Che ne dite di Sy?
Kallen scosse la testa. — È un concorrente genuino — bisbigliò. — E anche sorprendente. Ho passato un po’ di tempo con lui durante alcune delle prove. È assai più intelligente e pieno di risorse di chiunque altro di noi, ma a causa di quel braccio rinsecchito vede il mondo attraverso uno specchio distorcente. Dovremmo dirglielo, anche se questo confermerà tutti i suoi peggiori sospetti sulla gente.
Era il discorso più lungo che Kallen avesse mai fatto al gruppo. Parve rendersene conto e sorrise a Elissa con fare imbarazzato.
— D’accordo. Sy è dei nostri — disse Lum. — E chi altro, Peron?
Era sconcertante venir trattato come un’autorità. Peron si succhiò un’unghia e rifletté intensamente.
— Non dobbiamo far niente — disse infine, — salvo tenere gli occhi aperti e la bocca chiusa. Vedi, è ovvio da quello che Kallen ti ha detto che ad un certo punto apprenderemo i misteri delle prove fuori del pianeta. I vincitori precedenti devono esserne stati informati. Così lo diranno anche a noi, e scopriremo cosa succede ai vincitori una volta che la competizione fuori del pianeta si sarà conclusa. Non c’è nessun indizio che possa succederci qualcosa di brutto, soltanto che succede qualcosa che il governo non vuole far sapere al pubblico. Tendo a esser d’accordo con mio padre che questa in sé è già una brutta cosa. Ma fino a quando non sapremo di cosa si tratta, non possiamo essere in disaccordo con essa. Così, è semplice: per il momento cercheremo di definire quanti sono quelli del nostro gruppo di venticinque di cui possiamo veramente fidarci. E d’ora in avanti metteremo in discussione qualunque cosa ci dicano.
— Pensi che dovremmo discutere di questo con altri? — Lum si alzò in piedi. — Da parte mia, preferirei di gran lunga non dirlo a nessun altro.
— Ci servono tutti gli occhi e gli orecchi che possiamo trovare — dichiarò Peron. — Faremo attenzione.
Si mossero tutti insieme verso l’uscita, senza pronunciar nessun’altra parola fino a quando non si trovarono fuori dalla mensa diretti verso il quartier generale delle comunicazioni di Planetfest.
Lum e Kallen erano andati avanti, lasciando che Peron ed Elissa camminassero fianco a fianco nella fredda aria autunnale. Piccola Luna era già sorta e lontano, vicino all’orizzonte, il fuoco rosso di Cassby proiettava lunghe ombre ocra attraverso la luce sempre più scura del crepuscolo.
Elissa si arrestò e sollevò gli occhi al cielo: era limpido, e le stelle stavano lentamente comparendo in mezzo all’imbrunire.
— Fra pochi giorni saremo lassù — osservò Peron. La prese sottobraccio. — Vedremo i Cinquanta Mondi e forse anche la Nave. L’ho saputo da quando avevo quattro anni.
— Lo so… Anch’io. Mia zia non crede neppure che ci sia una Nave. Dice che siamo qui su Pentecoste da sempre.
— Cosa le hai detto?
— Niente. Per una persona che abbia quel punto di vista, la logica è irrilevante. Crederà sempre quello che sceglie di credere, non importa quale sia l’evidenza. La sua religione dice che Dio ci ha messi qui su Pentecoste, e per lei quella è la fine della discussione.
— E tu? — Peron era conscio che lei si era fatta molto vicina a lui. — Tu cosa pensi?
— Tu sai cosa penso. La mia maledizione è una mente logica e un sacco di curiosità. È per questo che sto dando una buona occhiata. Una volta che saliremo lassù, lontano dal pianeta, il cielo cambierà del tutto. — Elissa sospirò. — Quando pensavo di uscire dal pianeta, quando ero piccola, mi pareva quasi la stessa cosa che andare in paradiso. Pensavo che là ogni cosa sarebbe stata diversa. Nessun controllo, niente agenti addetti alla sicurezza, ogni cosa chiara e semplice. Adesso ci sarà un’altra orribile competizione.
Peron annuì. — È per questo che non ci consentono di essere concorrenti una volta superati ì vent’anni. Per dare il tuo meglio al Planetfest, è fatale se metti troppo in discussione quello che fai. Le prove hanno bisogno di una mente sgombra.
— Che noi non avremo più. Abbiamo lasciato la culla e non serve a niente tornare indietro. Speriamo di trovare delle compensazioni.
Elissa gli prese la mano e gli fece scorrere delicatamente la punta delle proprie dita sul palmo. — Vieni, finiamo quell’intervista. Poi potrai portarmi a fare una passeggiata, quella che eri sul punto di chiedermi quando è arrivato Lum.
Per la maggior parte del viaggio il capitano Gilby li aveva arringati senza sosta. Aveva fatto loro notare le caratteristiche della Nave, soffermandosi sui particolari relativi a tutto ciò che poteva andare storto durante la fase di ascesa; aveva detto loro, più e più volte, che il mal di caduta libera era del tutto psicologico, al punto che avrebbero dato qualunque cosa pur di andare a vomitare in privato; e aveva chiesto a ognuno dei venticinque d’indicare la propria regione d’origine su Pentecoste a mano a mano che l’orbita li portava a sorvolarla, tirando su sdegnosamente col naso quando sbagliavano. Riconoscere dallo spazio una regione familiare era risultato più difficile di quanto ognuno di loro avesse previsto. La coltre di nubi, la foschia, e l’obliquità dell’angolo visuale avevano alterato tutti i consueti elementi d’identificazione.
Ma alla fine, quando il vascello spaziale si trovò novemila chilometri sopra Pentecoste e si stava avvicinando alla Nave, Gilby si azzittì. Qui, aveva da tempo imparato a lasciare che l’evento in sé sopraffacesse i contendenti, senza il suo aiuto.
Il vascello che li aveva portati su dalla superficie di Pentecoste era più grande di quanto chiunque si fosse aspettato. Un vascello capace di trasportare trenta persone non pareva dovesse essere tanto grande, pur sapendo in teoria quanta capacità fosse necessaria per il combustibile. La realtà li aveva fatti ammutolire. Avrebbero cavalcato verso lo spazio in groppa a un mastodontico obelisco, il quale torreggiava per un’altezza di venti piani sopra a piatta pianura del deserto di Talimantor.
Adesso, si trovavano ad affrontare un ulteriore cambiamento di scala. La Nave era dapprima comparsa sullo schermo come un punto luminoso, molto al di sopra e davanti a loro. A mano a mano che si erano avvicinati lentamente ad essa, e le caratteristiche si erano fatte visibili, le dimensioni della Nave si erano rivelate in tutta la loro realtà, anche se era impossibile capirle razionalmente. Stavano guardando un ovoide irregolare, una palla rigonfia, ricoperta di foruncoli, peli e graffi, come un frutto screziato dalle malattie. Altri particolari si fecero visibili quando arrivarono più vicini. Ognuno di quei piccoli capezzoli sul suo ventre era in realtà un molo di attracco completo, in grado di accogliere un vascello delle dimensioni di quello sul quale viaggiavano; le sporgenze sul lato, sottili come capelli, erano torri di atterraggio; i graffi regolari erano composti da una moltitudine di punti, ognuno dei quali era un boccaporto d’accesso allo scafo.
Tutte le conversazioni erano cessate. Tutti si rendevano conto dei significato di quel momento. Stavano guardando La Nave, la struttura mistica, quasi mitica, che aveva trasportato i loro antenati attraverso il vuoto dalla Terra, da un luogo che era così lontano nel tempo e nello spazio da trovarsi al di là di ogni immaginazione.
— Dateci una buona occhiata — disse Gilby alla fine. La sua lezione continuava, ma il suono della sua voce era diverso. — Quella è stata la sola casa dei vostri antenati per quindicimila anni, il triplo del tempo che noi finora abbiamo vissuto su Pentecoste. La Nave ha vagato da sistema a sistema senza mai trovare un luogo che potesse costituire una nuova casa. Ha visitato quarantanove soli e cento pianeti, e dovunque c’erano mondi ghiacciati e morti, o deserti ardenti. Cass era il cinquantesimo sistema, e trovarono Pentecoste: era proprio adatto a sostenere la vita umana. Il paradiso, eh? Sapete cosa successe allora?
Tutti rimasero silenziosi, sopraffatti dalla strapotente presenza della Nave che riempiva sempre di più lo schermo davanti a loro.
— Si misero a discutere — proseguì Gilby. Smise di giocherellare con la propria spallina per toccarsi il cinturone con la pistola. — Nella Nave si misero a litigare per decidere se dovevano o no lasciarla, e atterrare su Pentecoste. La Nave era la casa e metà della gente non voleva lasciarla. Ci vollero duecento anni prima che avvenisse il trasferimento finale sul pianeta e La Nave venisse lasciata deserta. L’ultimo atto fu quello di spostarla su un’orbita più alta, dove avrebbe potuto girare per sempre intorno a Pentecoste.
Si erano avvicinati a un paio di chilometri e stavano spiraleggiando lentamente intorno all’immenso scafo metallico. La superficie era ruvida, opaca, il segno di eoni d’impatti meteoritici e di raschiamenti di polvere interstellare.
— Nessuna possibilità di salire a bordo? — domandò Wilmer. Come un bambino aveva premuto il naso contro l’oblò trasparente.
Gilby sorrise. — È un santuario. I visitatori non sono permessi. I viaggiatori originari hanno stabilito soltanto una situazione in cui La Nave potrebbe venir riaperta e utilizzata di nuovo. Ed è un situazione alla quale preferiamo non pensare. La Nave verrà riaperta e rinfrescata se mai le armi nucleari dovessero venir usate su Pentecoste.
Indicò l’oblò. — Guardate là fuori adesso, e fissatela nella vostra memoria. Non la vedrete un’altra volta.
Mentre parlava, avvertirono un’accelerazione crescente che li schiacciò all’indietro contro i sedili. Il loro vascello spaziale oltrepassò La Nave, che rimpicciolì rapidamente. Stavano puntando ancora di più verso l’esterno, verso il vasto serraglio di pianeti che ruotavano intorno e al di là di Cassay, e insieme costituivano i Cinquanta Mondi.
Visto attraverso i migliori telescopi della Terra, il sistema di Eta Cassiopeae era stato soltanto due punti gemelli di luce. Appariva come una sorprendente binaria rosso e oro, uno scintillante gioiello di topazio e granato a meno di venti anni-luce di distanza da Sol. Non c’era ingrandimento da parte degli osservatori della Terra che potesse fornire qualche particolare strutturale dei suoi componenti stellari. Ma per i sensori multipli di Eleonora, che seguiva una lunga traiettoria curva rallentata verso il componente più luminoso di Cassiopea-A, si era rivelato un sistema dalla stupefacente complessità.
Cassiopea-A era una stella giallo-oro, tipo stellare GO V. Un po’ più luminosa e un po’ più massiccia di Sol. La sua compagna era una nana rossa, meno massiccia e venticinque volte meno luminosa.
Densa, rosso-ruggine e povera di metalli, Cassiopea-B manteneva la propria distanza dalla compagna più luminosa. Non si avvicinava mai a meno di dieci miliardi di chilometri. Viste dai pianeti vicini a Cass-A, le deboli e rugginose ceneri della compagna apparivano troppo deboli per avere una qualunque influenza. Ma iì campo gravitazionale aveva una vasta estensione. Gli effetti gravitazionali di Cass-B esercitavano una profonda influenza sull’intero sistema. La famiglia planetaria che ruotava intorno a Eta Cassiopeae si rivelò un autentico zoo con una stupefacente varietà di esemplari. Più di cinquanta pianeti traballavano e giravano intorno alla coppia di stelle. Le loro orbite mostravano tutte le inclinazioni e le eccentricità possibili. I pianeti entro qualche centinaio di milioni di chilometri da Cass-A mostravano una regolarità orbitale e dei cicli stabili, con periodi di rivoluzione ben definiti e orbite quasi circolari. Ma i mondi esterni non mostravano una simile regolarità. Alcuni di loro seguivano delle orbite che avevano sia Cass-A che Cass-B come fuochi, e i loro anni potevano durare parecchi secoli terrestri. Altri, imprigionati in risonanza con entrambe le primarie, intessevano delle curve complicate attraverso lo spazio, senza mai ripetere l’identico disegno. Talvolta viaggiavano in solitario isolamento a milioni di chilometri da entrambe le stelle; talvolta si tuffavano vicino alla cauterizzante superficie di Cass-A.
I viaggiatori della Eleonora avevano concluso che un incontro ravvicinato con un pianeta gigante aveva avuto la sua parte nell’accrescere la complessità del sistema. Milioni di anni prima un gigante gassoso si era avvicinato troppo. Aveva sfiorato la stessa fotosfera di Cass-A. Prima i gas volatili si erano dissolti, poi le irresistibili forze mareali avevano causato il completo sconvolgimento del nucleo rimasto. Gli ejecta di quella disintegrazione erano stati scagliati in tutte le direzioni, per diventare parte dei Cinquanta Mondi.
Per i visitatori che si avvicinavano al sistema, le sregolate variazioni dei mondi esterni erano parse dapprima dominare qualunque altra cosa. Il complesso binario di Cassiopea era apparso un candidato assai improbabile per l’attenzione umana. Là dove le orbite variano all’impazzata, la vita non ha la possibilità di svilupparsi. I cambiamenti sono troppo estremi. Le temperature giungono a fondere lo stagno, poi solidificano l’azoto. Una volta che s’insedia la vita, questa è tenace, e può adattarsi a molti estremi. Ma c’è una fragilità nella creazione originaria che richiede un lungo periodo di variazioni strettamente controllate.
Le sonde automatiche erano state spedite fuori da Eleonora, ma soltanto perché questa era la procedura seguita da molti secoli. Le prime a tornare confermarono l’impressione di mondi spogli e cicatrizzati, desolati e privi di vita. Ma quando i rapporti elettronici furono ritrasmessi dalla sonda lanciata verso Pentecoste, parvero fin troppo buoni per esser veri. Qui c’era un’orbita planetaria stabile, vicina a un cerchio perfetto, a centonovanta milioni di chilometri da Cass-A. E Pentecoste era un vero analogo della Terra, con vegetazione nativa e vita animale, temperature accettabili, un’inclinazione dell’asse di diciotto gradi, una giornata di ventiquattr’ore, un’atmosfera respirabile, un’estensione oceanica del quaranta per cento, una massa che era inferiore a quella della Terra soltanto del dieci per cento, e un periodo orbitale lungo soltanto il quattro per cento in più di un anno terrestre.
Era difficile credere che Pentecoste potesse esistere in mezzo alla stordente variabilità costituita dai Cinquanta Mondi. Ma le sonde non mentivano mai. Finalmente, dopo eoni passati a viaggiare tra le stelle, e interminabili delusioni, l’umanità aveva trovato una nuova casa.
I Cinquanta Mondi contenevano diversità enormi. Peron lo sapeva. Erano di ogni dimensione, forma, orbita e ambiente. Non ce n’erano due che sembrassero simili anche alla lontana, neppure i pianeti gemelli del doppietto di Dobelle. E la maggior parte di essi non andavano d’accordo con l’idea che la gente aveva di quello che poteva essere un posto desiderabile per farci una vacanza e ancora meno il luogo per un’altra prova.
E in quanto a Whirlygig…
Adesso Peron si stava avvicinando a quel pianeta. Doveva atterrare là. Di tutti, pensò malinconico, questo dev’essere il più alieno e sconcertante.
Durante gli ultimi due mesi i vincitori del Planetfest avevano orbitato intorno a più d’una dozzina di mondi. I pianeti andavano dal deprimente all’innominabile. Barcham era una sfera di polvere turbinante, la superficie era perennemente invisibile dietro a uno schermo di particelle soffiate da vento che venivano tenute in sospensione da un’atmosfera sottile e velenosa. Gilby li aveva avvertiti che Barcham sarebbe stata una scelta terribile per un test. Ma l’aveva detto anche per la maggior parte degli altri pianeti.
La polvere e la sabbia trovavano il modo di penetrare dappertutto, compreso il quadro di comando di una nave. C’era una buona possibilità che un atterraggio su Barcham potesse essere fatale.
Gimperstand non era migliore. I contendenti avevano deciso all’unanimità di non andare neppure a darci un’occhiata dopo che uno dei membri dell’equipaggio aveva tirato fuori un campione in bottiglia della linfa prodotta dai succosi rampicanti di Puzzone. La bottiglia era stata aperta per meno di due minuti. Dopo un intero giorno l’aria di tutta la nave sapeva ancora di cadaveri in putrefazione. Le unità purificatrici dell’aria non erano riuscite neppure a scalfire quel fetore.
Visto da lontano Glug era sembrato ottimo. I telescopi e gli analizzatori della nave avevano mostrato un mondo verde e fertile, coperto per il novanta per cento da nuvole. Erano scesi laggiù in perlustrazione e avevano passato un paio d’ore a diguazzare appiccicati sulla sua superficie vischiosa. Una pioggia grigiastra scendeva interminabile da un cielo grigio-cenere, e le fronde inzuppate della vegetazione s’incurvavano, fiacche e tristi, fino a toccare il suolo colloso. Una volta che uno stivale fosse stato piantato saldo sul terreno, il pianeta si sarebbe comportato come riluttante a mollarlo. Vi aderiva amorevolmente. Camminare era una sofferta successione di passi risucchianti e glutinosi che costringevano a tirare il piede verso l’alto pollice dopo pollice, fino a quando lo stivale non si liberava con un gorgolio disgustoso. Come Wilmer aveva osservato, una volta che avevate tirato fuori lo stivale, avreste bramato non rimetterlo giù mai più, soltanto che nel frattempo l’altro vostro stivale affondava sempre di più in profondità.
Glug era ripugnante, ma Peron pensava che malgrado tutto ce l’avrebbe fatta a entrare nell’elenco finale. Sy aveva perfino deciso di farne la sua prima scelta! Forse i suoi complicati processi mentali avevano scoperto qualcosa di Glug che poteva venir utilizzato a suo vantaggio. Lum l’aveva fatto notare molto tempo prima a Peron e a Kallen: Sy non aveva bisogno di un vantaggio sugli altri per vincere; tutto quello che gli serviva era una situazione che annullasse l’handicap del suo braccio rachitico. Trovata questa, avrebbe messo a terra tutti loro.
Alcuni degli altri avevano ugualmente dato il loro voto provvisorio a favore di Glug, poiché quando i concorrenti erano scesi laggiù avevano già visitato alcuni altri esemplari di prima scelta:
Boom-Boom: attività vulcanica e terremoti continui; un livello di rumore ambientale che spaccava i timpani; aria fetida e sulfurea e un terreno infido dove le croste di lava solidificata galleggiavano sopra il magma.
Firedance: soltanto forme di vita animale microscopiche, e in qualsiasi momento un sesto della vegetazione che copriva l’intero pianeta era ridotta a una massa fumante e carbonizzata; il resto della vegetazione era secco come le ossa, pronto a infiammarsi allo scoccare casuale di un lampo; nastri di fiamme danzavano e crepitavano sulla superficie seguendo dei sentieri contorti, cambiando direzione in maniera imprevedibile e muovendosi molto più in fretta di un essere umano in corsa.
Fuzzball: ogni creatura vivente, ogni pianta o animale che viveva sotto o sopra la superficie, o nei mari salati di Fuzzball, fungeva da ospite per una singola specie di vegetazione fungoide; l’adattamento evolutivo appariva completo, in modo che il fungo non faceva danni, ma i suoi viticci bianchi e sottili come capelli spuntavano da ogni singolo pollice di epidermide, e gli orecchi e le narici di ogni animale avevano la loro messe di fronde delicate che le creature si trascinavano dietro; la prospettiva era parsa eccessiva ai contendenti, anche se Gilby aveva loro assicurato che il fungo poteva venir completamente rimosso una volta che avessero lasciato il pianeta. Fuzzball aveva ottenuto zero voti.
Goneagain: era parso tollerabile; ma quel piccolo mondo era stato escluso dalla semplice geometria. La sua orbita era disordinatamente eccentrica, portandolo fino a dieci miliardi di chilometri da Cassay e Cassby. Non sarebbe tornato nel Sistema Interno prima di altri tremila anni.
E poi c’era Whirlygig. Peron sbirciò davanti a sé attraverso la visiera della tuta. Ancora tre ore, e poi sarebbe atterrato laggiù, senza una nave. Più tardi (se tutto fosse andato secondo i piani) sarebbe ripartito allo stesso modo. Nel frattempo non c’era niente che potesse fare fino a quando non fosse stato raggiunto il momento dell’impatto radente. Peron, non per la prima volta, s’interrogò sui calcoli che aveva fatto per stabilire la sua velocità. Li aveva controllati dieci volte, ma se fossero stati sbagliati di qualche metro al secondo…
Risolutamente, rivolse la propria mente ai loro viaggi precedenti, lottando per espellere Whirlygig dai suoi pensieri per le prossime tre ore.
C’era un mucchio di altre cose a cui pensare. Per tutti loro, durante le prime tre settimane di viaggio lontano da Pentecoste, la privacy era stata una cosa impossibile. Il vascello-navetta era di dimensioni imponenti, ma con trenta persone spremute dentro uno spazio concepito per tre uomini d’equipaggio e il carico, i concorrenti si erano trovati spalla a spalla. Non avevano avuto spazio a disposizione fino al trasbordo sulla grande nave inter-sistema, dopo una breve visita su Piccola Luna. E, finalmente, Peron era stato in grado di confrontare le sue osservazioni con quelle degli altri.
Con accurati controlli incrociati che li avevano impegnati per parecchi giorni, Lum e Kallen avevano passato al vaglio tutti i candidati. Wilmer era l’unico concorrente fasullo. Avevano anche confermato la prima impressione di Peron: nessuno si era mai trovato con Wilmer in nessuna prova, e lui si era mostrato fresco e riposato, in maniera molto sospetta, dopo ogni prova. Ma qual era la ragione della sua presenza fra loro? Nessuno ne aveva la minima idea. E per aumentare il mistero, Wilmer si era sicuramente trovato con loro durante tutte le attività svolte da quando erano decollati da Pentecoste, il che era stato talvolta pericoloso, oltre che spiacevole.
L’innocente richiesta di Wilmer a Gilby perché fosse loro concesso di visitare La Nave, insieme alla risposta di Gilby, erano state registrate sia da Peron che da Elissa. Qualcuno voleva che i vincitori sapessero che La Nave era off limits. Ma ancora una volta, che cosa significava? Come si collegava al fatto che alcuni visitatori dei precedenti Planetfest non avevano fatto ritorno su Pentecoste?
Peron aveva rimbalzato la domanda su Sy, non appena avevano avuto qualche minuto di privacy nella nave inter-sistema. Sy era rimasto immobile, lo sguardo gelido.
— Non so perché La Nave sia off limits — aveva risposto Sy alla fine. — Ma sono d’accordo con te sul fatto che Gilby è stato sollecitato a dircelo. Lascia che ti parli d’un mistero ancora più grande. Dopo le prove fuori del pianeta, dovrebbero fare la loro comparsa gli Immortali. Ci dicono che verranno dalle stelle, dopo un viaggio di pochi giorni soltanto. Ci credi?
— Non lo so. — La domanda di Sy esprimeva una delle preoccupazioni di Peron. — Se è possibile viaggiare più veloci della luce, le nostre teorie sulla natura dell’universo devono essere sbagliate.
— Questo è possibile — aveva lentamente annuito Sy, con un tono di voce che esprimeva con chiarezza come fosse del tutto impossibile. — Ma non capisci il problema? Se gli Immortali hanno superato la velocità della luce, devono aver migliorato le nostre teorie. E se sono così amichevoli nei nostri confronti, perché mai ci tengono nascosta quella loro particolare teoria, la migliore di tutte?
Peron aveva scosso la testa. Qualunque cosa sugli Immortali rimaneva un mistero.
— È mia personale convinzione che niente possa superare la velocità della luce — aveva concluso Sy. — Diffiderò di chiunque, governo o Immortale, uomo o donna, umano o alieno, che cerchi di dirmi il contrario senza fornirmi una prova convincente.
E si era allontanato in silenzio lasciando Peron più perplesso che mai. Le conversazioni con Sy lasciavano spesso quella sensazione di disagio. Lum l’aveva spiegato nella sua maniera estemporanea: Sy era molto più scaltro della maggior parte di loro. E Elissa aveva aggiunto una propria valutazione: Sy non era più scaltro, no, se con questo s’intendeva più memoria o rapidità di pensiero; ma in qualche modo era capace di vedere i problemi da un angolo diverso rispetto a quello di tutti gli altri, come se lui fosse situato in un punto diverso dello spazio. La sua prospettiva era diversa, perciò le sue risposte erano sempre sorprendenti.
E se non fosse così strano, aveva aggiunto Elissa, senza un preciso filo logico, parlando con Peron, sarebbe davvero attraente; il che, com’era naturale, aveva irritato moltissimo Peron.
Com’era inevitabile, i suoi pensieri ritornano a Elissa e alla loro ultima notte su Pentecoste. Mentre Lum e Kallen avevano lavorato con molta coscienziosità per passare al vaglio i contendenti, Peron era stato sottoposto ad un piacevole ma intenso controinterrogatorio. Lui ed Elissa avevano trovato un posto tranquillo nel giardini del Planetfest. Si erano distesi sul morbido rivestimento del terreno mettendosi a fissare le stelle, ed Elissa doveva avergli fatto mille domande. Aveva fratelli e sorelle? Com’era la sua famiglia? Erano ricchi? (Peron aveva riso all’idea che la sua famiglia potesse mai essere ricca.) Quali erano i suoi hobby? I suoi piatti favoriti? Aveva qualche animale in casa? Era mai stato a bordo di una nave, attraverso uno dei mari salati di Pentecoste? Qual era la data del suo compleanno? Hai una ragazza a Turcanta?
No, aveva risposto prontamente Peron. Ma poi la sua coscienza lo aveva turbato e aveva detto a Elissa la verità. Lui e Sabrina erano stati molto intimi per due anni, fino a quando non aveva dovuto dedicare tutto il suo tempo ai preparativi per le prove. Poi, Sabrina aveva trovato qualcun altro.
Elissa non si era preoccupata di nascondere la sua soddisfazione. Con calma si era avvinghiata a Peron e aveva cominciato a far l’amore con lui.
— Te l’avevo detto che ero intraprendente — gli aveva detto. — E tu ti sei sempre comportato come se non l’avessi mai fatto in vita tua. Su, a meno che tu non voglia? Volevo farlo, specialmente questo, fin da quando ti ho incontrato durante la prova nella foresta, laggiù a Villasylvia.
Avevano fatto insieme cose che Peron non avrebbe mai immaginato, e sì che aveva pensato che lui e Sabrina le avessero provate tutte. L’amore con Elissa gli aveva aperto una dimensione del tutto nuova. Erano rimasti insieme tutta la notte, mentre i fuochi d’artificio dei festeggiamenti per il Planetfest sfavillavano come tante fontane esplodendo sopra di loro. E quando arrivò il mattino parevano infinitamente vicini, come due persone che fossero stati amanti per molti mesi.
Ma questo, pensò Peron, infelice, rendeva il commento di Elissa su Sy molto più difficile da accettare. Se lei pensava che Sy fosse attraente (aveva forse detto molto attraente?), significava forse che riteneva Sy più interessante di lui? Ricordava come favolosa l’ultima notte su Pentecoste, ma forse non era quello che aveva provato lei. Soltanto che ogni cosa accaduta da allora suggeriva che lei, sì, l’aveva provato, e perché mai lei avrebbe dovuto mentirgli?
La tuta di Peron emise un fischio sommesso, facendolo uscire dai suoi sogni. Provò irritazione per la piega che avevano preso i suoi pensieri. Non si poteva negarlo: provava gelosia. Era esattamente il tipo di sdolcinatezza romantica che disprezzava, il genere di cosa per la quale aveva tanto canzonato Miria, la sua sorella più giovane.
Guardò dritto davanti a sé. Adesso non era il momento di sognare: Whirlygig stava arrivando, per dargli una lezione di limpido pensiero. In quel momento, lui era all’incirca a due chilometri dalla superficie, viaggiando quasi parallelo ad essa, ma avvicinandosi troppo in fretta per sentirsi a proprio agio.
Visto attraverso il telescopio, Whirlygig non era un oggetto interessante. Era una sfera d’argento lucida di circa duemila chilometri di diametro, leggermente oblata e irruvidita all’equatore. La sua alta densità dava ai poli una gravità di superficie di un quinto di G, un po’ più della Luna della Terra. Una persona in tuta spaziale che fosse precipitata in caduta libera dritta sulla superficie di Whirlygig, l’avrebbe colpita a una velocità di due chilometri al secondo, una velocità sufficiente perché, poi, l’oggetto contenuto nella tuta potesse venir identificato come un essere umano soltanto con estrema difficoltà.
Ma questo era vero per una caduta verso qualunque pianeta del sistema, e la gente non tentava di atterrare su oggetti di dimensioni planetarie senza una nave; e la composizione di Whirlygig non era di particolare interesse. Il pianeta era stato ignorato a lungo fino a quando qualche astronomo non si era preso la briga di esaminare la sua velocità di rotazione.
Poi, l’interesse era cresciuto in fretta. Whirlygig era unico. Ciò che l’aveva reso tale era accaduto di recente, in termini di tempo geologico. Appena centomila anni prima un incontro planetario ravvicinato aveva trasferito sulla sua massa un momento angolare anormalmente alto. Da quell’evento Whirlygig ne era uscito ruotando follemente sul proprio asse, eseguendo un giro completo in soli settantatré minuti. E a quella velocità l’accelerazione centripeta all’equatore eguagliava a stento la forza gravitazionale. Una nave in volo lungo una traiettoria che sfiorava la superficie di Whirlygig, muovendosi a una velocità di 1400 metri al secondo nel punto di avvicinamento più prossimo, avrebbe potuto compiere un atterraggio morbido sul planetoide senza il minimo impatto; e un essere umano in tuta con soltanto una minima assistenza da parte dei jet direzionali della tuta stessa, avrebbe potuto fare l’identica cosa.
Ma la teoria e la pratica, pensò Peron, erano due cose molto lontane. Una cosa era starsene seduti a discutere il problema a bordo della nave inter-sistema con gli altri contendenti, e un’altra sfrecciare verso Whirlygig lungo una traiettoria tangenziale.
Avevano tirato a sorte per decidere chi doveva esssere il primo concorrente a scendere. Peron aveva «vinto»: il termine usato da Gilby con un sorriso sadico. Gli altri, seguendolo a gruppi di due, avrebbe affrontato un compito assai più semplice grazie a ciò che avrebbe fatto Peron nei prossimi minuti. Se fosse arrivato intero.
Si chiese cosa avrebbero fatto se lui non fosse atterrato sano e salvo: avrebbero nominato qualcun altro perché facesse un nuovo tentativo? Oppure avrebbero abbandonato l’impresa proseguendo verso un altro pianeta? In teoria, un contendente aveva una sola possibilità di partecipare alle prove (Kallen rappresentava una rara eccezione). Ma la morte era un serio avversario in ogni gioco del Planetfest. La morte dei contendenti non veniva mai citata dal governo, e non veniva mai pubblicizzata, neppure con una sola parola, dai mezzi d’informazione, sottoposti e rigoroso controllo: ma tutti quelli che s’iscrivevano alle prove conosevano la verità. Non tutti tornavano a casa vincitori, o anche soltanto perdenti. Alcuni contendenti si smarrivano per sempre nell’abbagliante calore del deserto di Talimantor, o il loro sangue veniva succhiato fino alla morte nella notte perenne della foresta di Villasylvia, oppure finivano in una tomba di ghiaccio fra le nevi eterne dei monti Capandor; oppure (la paura segreta di Peron) trovavano la morte per lenta asfissia nelle caverne subacquee del fiume Charant.
Peron rabbrividì e scrutò davanti a sé. Quei pericoli erano passati, ma la morte non era rimasta su Pentecoste. Con la stessa prontezza gli avrebbe fatto visita anche qui su Whirlygig. L’attrezzatura che Peron si stava trascinando dietro gli era parsa scarsa quando aveva lasciato la nave, ma adesso quattrocento chilogrammi di cavi, molle e chiodi da roccia gli davano la sensazione d’una montagna al traino, mezzo chilometro dietro di lui. Incontrollata, avrebbe finito per avvilupparlo al momento dell’atterraggio.
La superficie appariva così vicina che gli pareva di poterla toccare allungando un braccio chiuso nella tuta. Aggiuntò leggermente l’assetto con i propulsori della tuta. La sua velocità era quella giusta per ottenere un’orbita stabile intorno a Whirlygig, a livello della superficie. Fece girare la tuta per atterrare con i piedi in avanti e toccò il suolo con la delicatezza di un bacio.
Aveva effettuato un atterraggio morbido, ma vi fu subito una complicazione. Scoprì di trovarsi al centro di un’accecante nuvola di polvere, sassi e frammenti di roccia. La gravità effettiva, qui all’equatore di Whirlygig, era prossima allo zero e la pioggia di sabbia e di frammenti di roccia non aveva nessuna fretta di riadagiarsi o di dissolversi. Operando soltanto a tentoni, Peron prelevò uno dei due chiodi da roccia che aveva con sé, lo piazzò verticalmente sulla superficie e attivò la carica. Dentro i guanti le mani gli tremavano. Devo fare in fretta. Gli rimanevano soltanto trenta secondi per garantirsi una solida presa. Poi avrebbe dovuto esser pronto ad accogliere l’equipaggiamento.
La carica all’estremità del chiodo da roccia esplose, spingendo la punta acuminata in profondità nella superficie del pianeta. Peron lo strattonò per un attimo, per accertarsi che fosse saldo, poi per doppia misura di sicurezza attivò e fece esplodere anche il secondo chiodo. Assicurò due cappi della sua tuta ai chiodi, e guardò dietro di sé verso i fagotti dell’equipaggiamento ancora in movimento.
Pareva impossibile: l’equipaggiamento era ancora a un paio di centinaia di metri di distanza. L’intera operazione di atterraggio, che gli era parsa durare parecchi minuti, stando al suo orologio mentale, era stata in realtà compiuta in pochi secondi. Ebbe il tempo di esaminare con attenzione i fagotti dell’equipaggiamento, e di decidere il punto dove li avrebbe assicurati.
Il complesso sfrecciava verso di lui, scendendo alla deriva verso la superficie. L’equiparazione delle velocità era stata precisa. Gli ci vollero meno di altri cinque minuti per piazzare un altro schieramento di chiodi da roccia, così da formare una curva parabolica lungo la superficie, sistemando i cavi da catapulta intorno allo schieramento. La rete finale di cavi e molle appariva fragile, ma avrebbe trattenuto e assicurato qualunque oggetto con meno di trecento metri al secondo di velocità relativa.
Peron ispezionò un’ultima volta la sua opera, poi attivò il telefono della tuta.
— Tutto pronto. — Sperò che la sua voce suonasse disinvolta come gli sarebbe piaciuto che fosse. — Venite in qualunque momento. La catapulta è in posizione.
Esalò un profondo sospiro. Metà strada. Una volta che avessero esplorato la superficie in gruppo, la catapulta sarebbe stata utilizzata per lanciare via tutti gli altri da Whirlygig, e Peron si sarebbe trovato di nuovo solo. Poi avrebbe operato un’ascensione alimentata (facendo gli scongiuri) dai jet della tuta fino alla sicurezza della nave in attesa.
Peron non riusciva a ricordare l’esatto momento in cui aveva saputo che sarebbe morto su Whirlygig. La consapevolezza di quel fatto era cresciuta in modo esponenziale, forse da più di un minuto, mentre la sua mente passava fulmineamente in rassegna ogni possibile via di scampo, respingendole tutte come impossibili. Alla fine, era certo che il freddo aveva sostituito la speranza. L’atterraggio era andato alla perfezione, quando gli altri sei contendenti ai quali era stata assegnata la visita di Whirlygig avevano incontrato senza problemi la rete di atterraggio. Wilmer, accoppiato con Kallen, si era dimostrato l’eccezione. Era arrivato sfrecciando troppo in fretta e troppo in alto, e soltanto il vigoroso strattone dato da Kallen al loro cavo lo aveva condotto abbastanza in basso da finire in mezzo alla rete.
Comunque, non pareva affatto scombussolato dal pericolo che aveva scampato per un pelo. — Immagino che tu avessi ragione, Kallen — disse in tono allegro, una volta arrivato a terra sano e salvo. — Strano davvero. Sarei stato pronto a scommettere dei buoni quattrini che io avevo la velocità giusta e tu quella sbagliata.
— Ringrazia il cielo di non essere stato tu il primo a scendere — esclamò Rosanne, con voce severa. Aveva visto quanto poco c’era mancato perché Kallen perdesse la presa. — Se l’avesse fatto Peron, sarebbe stato un grosso guaio per lui. E cos’hai là dentro? È probabile che sia la massa che non hai previsto nei tuoi calcoli.
Wilmer sollevò una cassetta verde. — Questa? Cibo. Non sapevo quanto tempo saremmo rimasti qui. Non ho nessun desiderio di morire di fame anche se a voi tutti la cosa non importa. E se fossi stato io il primo ad arrivare, Rosanne, con la mia traiettoria sarei stato anche il primo a uscire. A quella velocità, e a quella altezza, avrei mancato del tutto Whirlygig. C’è una morale in questo: meglio arrivare bassi e lenti che troppo alti e veloci.
Aveva cominciato a saltellare con cautela da un piede all’altro, saggiando il proprio equilibrio. L’effettiva gravità all’equatore di Whirlygig non era proprio zero, ma era così bassa che un balzo in alto di cento piedi era d’una facilità banale. Tutti ci avevano provato, perdendo ben presto l’interesse. Ci volevano minuti per ricadere sulla superficie, fluttuando come una piuma, e farlo una volta era un’esperienza più che sufficiente.
Presto cominciarono il cauto viaggio lontano dall’equatore di Whirlygig, muovendosi a piccoli gruppi e dirigendosi verso la confortevole gravità delle regioni polari. Soltanto Sy venne lasciato indietro, intento a fare i propri solitari e sconcertanti esperimenti in movimento sopra il terreno accidentato.
Procedere risultò più lento di quanto tutti si aspettassero. Potevano volare bassi sulla superficie facendo pochissimi sforzi, usando le piccole unità propulsive che erano state spedite dopo il loro atterraggio, ma la rapida rotazione di Whirlygig faceva sì che le forze di Coriolis fossero un fattore reale con cui misurarsi, e il loro calcolo richiedeva dei continui aggiustamenti alla loro linea di volo. I computer della tuta si rifiutavano di accettare e attuare un semplice calcolo per eseguire uno spostamento a nord, ed era facile deviare di venti o trenta gradi dalla rotta. Dopo che erano partiti da un paio d’ore, Sy li raggiunse e li superò tutti rapidamente. Aveva scoperto la propria ricetta per valutare e compensare gli effetti delle forze di Coriolis.
A mano a mano che volavano verso nord, l’aspetto del terreno sottostante cominciò gradualmente a cambiare. L’equatore era tutti un insieme di rocce fratturate, enormi frammenti, ammucchiati a formare improbabili archi, guglie e contrafforti che parevano sfidare la gravità. Pochi centinaia di chilometri più oltre, in direzione del polo, il terreno cominciava a spianarsi, assestandosi in una desolazione più piatta costellata di macigni frastagliati. Non era un paesaggio piacevole, e la temperatura era abbastanza fredda da congelare il mercurio. Ma esso a confronto con qualcuno degli altri mondi, Whirlygig pareva una località turistica.
Le tute possedevano efficienti sistemi di riciclaggio e ampie riserve di cibo. I contendenti avevano concordato di proseguire dritti fino al polo, per poi riposarsi lassù per qualche ora prima di ritornare all’equatore e andarsene. Stando a Gilby, avrebbero trovato una cupola-laboratorio di ragguardevoli dimensioni al polo nord, dove sarebbero stati in grado di dormire comodi, togliendosi le tute per qualche ora. Tutte le ricognizioni scientifiche su Whirlygig erano state completate molti anni prima, ma le attrezzature della cupola avrebbero dovuto essere ancora funzionanti.
Elissa e Peron avevano scelto di viaggiare fianco a fianco, con le rispettive radio regolate sulla conversazione privata. I computer della tuta avrebbero controllato i messaggi in arrivo, interrompendoli se ci fosse stato qualcosa di urgente. Elissa era tutto un ribollire di entusiasmo ed allegria.
— Ho un mucchio di cose da dirti — esclamò. — Non ho avuto una sola possibilità di parlarti, ieri, eri troppo impegnato a prepararti all’atterraggio quaggiù. Ma ho passato un bel po’ di tempo a farmi amico un membro dell’equipaggio: Tolider, quello con i capelli corti e il tardy come animaletto da compagnia.
— Non è sfuggito alla mia attenzione — dichiarò Peron, asciutto. — Ti ho visto mentre lo accarezzavi facendo finta che ti piacesse. Disgustoso. Perché mai qualcuno debba volere come animaletto da compagnia un verme grosso, grasso e peloso…
Elissa scoppiò a ridere. — Se dovessi descriverti quello che certa gente vuole da un tardy, sconvolgerei la tua anima innocente. Ma a Tolider piace averlo soltanto perché gli faccia compagnia, e lo cura molto bene. Chi ama me, ama il tardy, è quello che Tolider sembra pensare. Una volta che si è convinto che anche a me piacessero i tardi, è stato pronto a svelarmi la sua anima. Adesso, preferisci passare le prossime ore a fare il geloso, oppure vuoi sapere quello che mi ha detto?
— Oh, va bene. — La curiosità di Peron era troppo grande per permettergli di mantenere un tono distaccato e altero, e sapeva per propria esperienza quanto Elissa fosse in gamba nell’estrarre informazioni da chiunque. — Cosa ti ha detto?
— Dopo che si è sentito a suo agio con me, abbiamo parlato degli Immortali. Lui dice che non sono un imbroglio o qualcosa d’inventato dal governo. Non sono umani, e neppure alieni. Dice che sono macchine.
— Come fa a saperlo?
— Li ha visti. Lavora nello spazio da più di vent’anni, e si ricorda dell’ultima volta che sono venuti gli Immortali. Una volta che l’ho ammorbidito, ha detto anche qualcos’altro… chiudi il becco, Peron… qualcosa, dice lui, che il governo non vuole che nessuno giù su Pentecoste sappia mai. Me l’ha detto perché voleva avvertirmi, perché gli dispiaceva per me. Dice che alcuni dei vincitori dei giochi del Planetfest che vanno fuori dal pianeta vengono sacrificati agli Immortali. Loro, vale a dire noi, diventeranno essi stessi delle macchine.
— Sciocchezze!
— Sono d’accordo che sembra così. Ma mi ha fatto notare un gran numero di circostanze valide. Si sente parlare degli Immortali, ma non si ha mai modo di sentire la descrizione di uno di essi, nessuna storia che dica che sono come noi, che sono grandi, o piccoli, o che hanno i capelli verdi, e magari sei braccia. E dimmi, cosa ne è dei vincitori del Planetfest quando lasciano il pianeta?
— Tu sai che a questo non posso rispondere. Ma abbiamo visionato dei video su di loro dopo che hanno vinto i giochi. Come avrebbe potuto accadere, se fossero stati convertiti in macchine?
— Ti riferirò quello che dice Tolider, e questa a quanto pare è una voce comune in tutto il settore spaziale. È come una vecchia leggenda, che risale all’epoca in cui gli Immortali si misero per la prima volta in contatto con noi. Sappiamo che le registrazioni dei computer a bordo della Nave sono state distrutte, ma non c’è nessun vero dubbio sul fatto che La Nave stessa abbia lasciato Sol più di ventimila anni or sono e abbia viaggiato nello spazio fino a cinquemila anni fa, quando trovò Pentecoste.
— Nessuno lo metterà in discussione, salvo forse la tua vecchia zia la quale pensa che noi ci troviamo su Pentecoste da sempre. Ce l’hanno insegnato perfino a scuola.
— Ma le antiche registrazioni dicono che tutto sulla Terra venne spazzato via, e che tutti morirono nelle Grandi Guerre. Supponi che questo non sia vero, o che sia vero soltanto in parte ma esagerato. Supponi che fossero sopravvissuti abbastanza individui per ricominciare tutto da capo, dice Tolider, e supponi che siano riusciti a superare le devastazioni delle bombe e del Lungo Inverno. Non avrebbero dovuto cominciare da zero come abbiamo dovuto far noi su Pentecoste. Sarebbero stati in grado di ripopolare il mondo in fretta, noi abbiamo impiegato cinquemila anni ad accrescere il nostro numero, da quanti eravamo sulla Nave fino a un miliardo e più. La Terra avrebbe avuto almeno quindicimila anni per sviluppare la propria tecnologia, al di là di qualunque cosa possiamo immaginare, mentre noi vagavamo a bordo della Nave alla ricerca di una casa. Avrebbero delle macchine superiori ai nostri computer di centinaia di generazioni. Forse potrebbero aver raggiunto il punto in cui lo spartiacque fra l’organico e l’inorganico diventa confuso. Sappiamo di certo che hanno dei computer migliori dei nostri, ti sei reso conto che gli Immortali, non Pentecoste, controllano i viaggi spaziali attraverso il sistema di Cass, perché il loro sistema computerizzato per il rilevamento dei voli è enormemente migliore del nostro. Me l’ha detto Sy, che l’ha appreso da Gilby. Comunque, è quello che Tolider crede: gli Immortali sono computer intelligenti, forse con componenti biologici, mandati fin qui dalla Terra. Tu sei lo scaltro, perciò trovami la falla in questa logica.
Continuarono a volare in silenzio mentre Peron ci rifletteva su.
— Non ho bisogno di trovare una falla nella logica — disse Peron alla fine. — La storia di Tolider non inciampa sul terreno della logica, ma su quello del buon senso. La gente fa le cose per delle ragioni. Se la Terra si è ripresa ed è tornata nello spazio, potrebbero aver mandato delle navi a cercarci, certo, e a cercare le altre navi che si dice siano partite allo stesso tempo della nostra. Supponi che sia vero e che alla fine ci trovino. Allora verrebbero a dirci che ci hanno scoperto. Perché mai dovrebbero volere non dircelo? Tolider ripete vecchie storie. Non c’è niente di sbagliato in questo, ma non ci si aspetta che le leggende abbiano un senso. Lascia che ti faccia una domanda la cui risposta non dipende dai miti. C’è da supporre che noi riceviamo informazioni scientifiche dagli Immortali, e che essi ogni vent’anni seminino fra noi una nuova infornata di idee, insieme a qualche materiale raro che scarseggia nel sistema di Cass. Giusto?
— Credo che sia proprio così. Tolider dice di essere stato effettivamente coinvolto nel trasferimento dei materiali. Dice anche che il governo giù su Pentecoste è ossessionato dal controllo della popolazione e dal mantenimento dello status quo, e che utilizzano le nuove tecnologie per rimanere al potere. È per questo che abbiamo avuto un unico regime stabile sin da quando gli Immortali si sono messi in contatto con noi, ed è uno dei motivi per i quali lui preferisce rimaner fuori nello spazio dove c’è maggiore libertà.
— Dovrebbe proprio incontrare mio padre, sono anni che ripete che il governo è gestito da un branco di tiranni repressivi. Ma non capisci il problema? Gli Immortali ci danno delle cose, ed è un trasferimento a senso unico. Nessuno, neppure una macchina, può sopportare un commercio a senso unico per quattrocentocinquant’anni. Se tutto quello che volevano fare era darci informazioni, potevano farlo usando segnali radio. Ma invece sono venuti fin qui. Perciò ecco la mia domanda: cosa ricevono in cambio gli Immortali dalle loro visite su Pentecoste?
— Qualcuno di noi, se vuoi credere a Tolider. Tu ed io, ecco quello che il governo dà in cambio per ottenere nuove informazioni.
— Questo è ancora meno sensato, se vogliamo credere a Tolider. Noi vincitori siamo un gruppo dotato di talenti, ma non siamo poi così speciali. Se la Terra è stata ripopolata al punto da poter esplorare di nuovo le stelle, allora ne avranno a migliaia come noi.
— Tolider mi ha detto che noi siamo un gruppo insolito. Le voci dicono che è la prima volta dopo molti giochi che tutti i cinque finalisti del Planetfest sono dei «piantagrane». Non ha voluto definire meglio il termine.
— Io credo di poterlo fare. Non siamo disposti ad accettare le risposte senza prima aver cercato le informazioni per conto nostro. È uno dei motivi per cui mi sento così a mio agio con il resto di voi.
— Lo accetto. Ma allora lascia che ti faccia notare un’altra cosa. Potrai spiegarmi cosa vuol dire. I gruppi di contendenti per le visite sulla superficie di Glug, Bedlam, Crater e Camel e gli altri pianeti sono tutti un miscuglio casuale dei venticinque vincitori. Ma guarda chi si trova qui su Whirlygig: Sy, io, tu, Kallen e Lum, i primi cinque, tutti «piantagrane», più Rosanne e Wilmer. Penso che Rosanne possa venir classificata anche lei come una selvaggia, troppo difficile da controllare, ti si drizzerebbero i capelli se ti riferissi alcune delle cose che ha fatto. E tutti c’interroghiamo su Wilmer. Siamo stati scelti apposta per questo viaggio, e mi preoccupa quello che potrebbe accadere qui.
Peron accostò ancora di più la sua tuta, in modo da poter vedere la sua faccia. Si rese conto che lei era davvero preoccupata, non stava soltanto scherzando. Allungò una mano per afferrare il guanto della sua tuta. — Rilassati, Elissa. Sei quasi peggio di Tolider in quanto a ragionamenti azzardati. Non ci avrebbero fatto fare tutta questa strada per liquidarci qui su Whirlygig. Se rappresentassimo un fastidio così grosso, avrebbero potuto sbatterci fuori durante la competizione su Pentecoste, e nessuno avrebbe mai sospettato niente. — Scoppiò a ridere. — Non preoccuparti. Adesso che siamo atterrati, siamo al sicuro, qui su Whirlygig.
Avevano fatto dei buoni progressi. Ben presto il polo Nord sarebbe comparso alla loro vista. E in meno di un’ora Peron avrebbe conosciuto la falsità delle sue ultime parole.
La cupola era un emisfero di polimero robusto e flessibile, con un diametro di circa venti metri. Era situato esattamente sull’asse di rotazione del pianeta. Quell’asse era inclinato moltissimo rispetto al piano dell’orbita di Whirlygig, cosicché in quel periodo dell’anno il sole dorato di Cassay era permanentemente invisibile, sospeso giù sopra l’altro polo. Soltanto la compagna più debole, Cassby, proiettava il suo bagliore rossastro sul paesaggio fornendo un’illuminazione adeguata ma poco calore. Non c’erano sostanze volatili libere su Whirlygig, ma la temperatura di superficie di mezzo-inverno al polo nord era comunque abbastanza bassa da solidificare la maggior parte dei gas.
Peron ed Elissa erano talmente immersi nella loro conversazione da scordarsi di sviluppare la velocità più efficace, partendo dall’equatore, e arrivarono per ultimi. Gli altri erano già atterrati, raggruppati intorno alla cupola. Sy, Lum e Rosanne stavano ispezionando il portello d’ingresso, senza toccarne nessun punto. Kallen e Wilmer si trovavano sul lato opposto della cupola, intenti a guardare qualcosa sulla parete.
Elissa si avvicinò per vedere cosa stava facendo Sy. — Problemi?
Lum si voltò e annuì. — Ci stavamo chiedendo quando sareste arrivati voi due. Sì, ci sono problemi. Forse, malgrado tutto, non passeremo una notte piacevole fuori dalle nostre tute.
Sy era ancora rannicchiato accanto al portello. Pareva piuttosto compiaciuto di dover affrontare una nuova sfida.
— Guardate, ecco come dovrebbe funzionare — disse. — C’è una camera di equilibrio con un portello interno e uno esterno. Il portello esterno, questo, ha un blocco d’emergenza, così non si apre quando c’è anche un minimo di pressione gassosa dentro la camera d’equilibrio. Prima bisogna svuotare la camera fin quasi al vuoto assoluto, e questo si può fare dall’esterno, il comando è questo qui, sulla parete esterna. Quando siamo arrivati, c’era atmosfera nella camera d’equilibrio, così, com’è naturale, non ha voluto aprirsi. Ora abbiamo pompato fuori l’atmosfera, le pompe funzionano bene, ma il portello non vuole ancora aprirsi.
— Un guasto al motore? — chiese Peron.
— Potrebbe essere. Il passo successivo è quello di cercare di aprire il portello manualmente. Ma vogliamo esser certi di sapere quello che stiamo facendo. Sull’altro lato della cupola c’è una grossa chiazza di sigillante nero. Suggerisce che c’è stato un impatto meteoritico, e che il sistema d’autoriparazione se n’è preso cura. Ma non sappiamo cosa l’impatto possa aver fatto all’interno, fino a quando non ci saremo arrivati. Non sappiamo quanti danni posano aver sofferto i sistemi meccanici. Forse la meteora ha colpito anche la camera di equilibrio. Dovremo entrare per scoprirlo.
Peron venne avanti ad esaminare la porta. Pareva intatta. — Sei sicuro che adesso non ci sia nessuna pressione nella camera?
— Certissimo. L’indicatore di livello funziona. Mostrava una pressione positiva quando siamo arrivati, e mentre pompavamo è sceso a zero.
— Perciò dovrebbe essere abbastanza sicura da aprirla manualmente — aggiunse Lum. — Ci stavamo preparando a farlo quando siete arrivati voi due. Venite, altre paia di mani possono essere di molto aiuto.
Il portello esterno della camera di equilibrio cedette con molta riluttanza, quando Sy, Lum e Peron tirarono con forza. Infine riuscirono ad aprirlo all’incirca a metà, uno spazio quasi sufficiente a far passare una persona.
— Adesso tocca a me — disse Rosanne. — Non potevo esservi molto utile a tirare e a sollevare, ma sono abbastanza magra da entrare là dentro, dove voi grassoni non potete, e vedere cosa succede. Fatemi spazio.
Si avvicinò all’ingresso della camera di equilibrio, si girò di fianco, e come un granchio cominciò a strisciare con cautela dentro l’apertura.
Peron era in piedi proprio alle sue spalle. Sentì il grido di avvertimento di Sy nell’identico momento in cui il pensiero gli balenò nella mente. Idioti! Se sappiamo che il portello esterno non funziona bene, perché presumere che i comandi di quello interno siano in condizioni migliori?
Si sporse in avanti, agguantò Rosanne alla vita e con un singolo strattone la tirò indietro e di lato, lontano dal portello esterno aperto della camera di equilibrio. Sentì un rantolo di sorpresa e di fastidio provenire dalla radio, mentre Rosanne slittava via sulla superficie argento e bruna del terreno. Poi, prima che potesse seguirla, una grande forza lo afferrò e lo trascinò via, mandandolo a ruzzolare sopra le rocce appuntite.
Anche mentre veniva sbatacchiato e strapazzato dentro la propria tuta, i suoi pensieri rimasero assai chiari. Il blocco di chiusura del portello interno doveva essere stato gravemente danneggiato, pronto a disattivarsi, appeso, per così dire, a un filo. Fintanto che c’era una pressione equalizzata sia nella camera di equilibrio che nella cupola, non sarebbe sorto nessun problema. Ma una volta che loro avevano pompato via la pressione presente nella camera di equilibrio, il portello interno si era trovato con tonnellate di pressione d’aria esercitate sulla sua faccia interiore. Se fosse venuto meno, tutti i gas della cupola sarebbero stati liberati attraverso la camera di equilibrio in una singola, gigantesca esplosione. E per chiunque si fosse trovato in mezzo…
Peron stava roteando e rimbalzando da una formazione rocciosa all’altra. Sentì tre collisioni separate e frantumanti, una sul petto, una sulla testa, e una lungo il fianco. Poi, tutt’a un tratto, finì. Giacque supino sulla superficie, fissando il globo color rubino di Cassby, e scoprì, stupefatto, di essere ancora vivo.
Gli altri si affollarono intorno a lui, aiutandolo a rialzarsi. Rimase sorpreso nel constatare che si trovava ad almeno cinquanta metri dalla cupola. Rosanne si era rialzata e stava agitando la mano per mostrare che stava bene.
— Sto bene anch’io — disse Peron.
Vi fu un lungo, strano silenzio da parte degli altri. Infine, Peron percepì una debole, sinistra sensazione di freddo sul lato inferiore sinistro del suo addome. Abbassò lo sguardo. La sua tuta era orribilmente deformata e scheggiata dal petto alle cosce, e sopra il suo addome appariva bianca invece del solito grigio metallico.
— Il rifornimento dell’aria funziona, ma ha perso due serbatoi. — Era stato Lum a parlare, con voce stranamente distorta, alle sue spalle. La radio della tuta si era presa una botta, ma funzionava ancora, a modo suo.
— Non c’è problema, può spartire i nostri.
— I comandi del motore sembrano a posto.
— I contenitori di cibo sono andati distrutti.
— Possiamo supplire.
— Oh, oh. Il sistema termico è fuori uso. E la maggior parte dell’isolante è strappato via dalla parte inferiore del tronco.
— Questo è un problema assai peggiore.
La distorsione della radio era talmente forte che Peron trovava difficile identificare i singoli interlocutori. Attivò il «privacy mode». Mentre loro esaminavano lo stato del suo equipaggiamento, la sua mente li precedette fulminea.
Valuta le scelte.
Pensa!
Quattordici ore per tornare all’equatore… diciamo che si possa ridurle a dieci ore, alla massima velocità. Qualche minuto nella catapulta di lancio, poi altre sei o sette ore fino al rendez-vous con la nave. Nessuna speranza. Anche col sistema d’isolamento perfettamente funzionante, a quelle temperature la sua tuta l’avrebbe protetto soltanto per tre o quattro ore. Sarebbe morto d’ipotermia molto prima di aver raggiunto l’equatore.
Mettersi una nuova tuta? Non ce n’era nessuna. Avevano con sé parti di ricambio per piccoli componenti delle tute, ma non una tuta intera.
Pensa. Infagottarlo dentro qualcosa che lo tenesse caldo a lungo? Bene, ma con che cosa? Non c’era niente.
Portarlo dentro la cupola, sostituire l’atmosfera andata perduta utilizzando quella disponibile nei serbatoi, e alzare la temperatura? Forse. Potevano introdurre l’aria là dentro in meno di un’ora. Ma non sarebbero stati in grado di generare calore abbastanza in fretta. Avrebbe potuto respirare, ma sarebbe morto assiderato lo stesso.
Mandare un segnale per l’atterraggio d’emergenza di una piccola nave sul polo di Whirlygig? Era probabile che fosse la speranza migliore, ma pur sempre troppo lenta. Diciamo tre o quattro ore per i preparativi, poi altre tre per arrivare fin lì. A quel punto lui, Peron, sarebbe stato un cadavere ghiacciato.
Altre idee? Non riuscì a trovarne nessuna. La sua metà andò avanti, scrivendo il proprio necrologio: Peron di Turcanta, vent’anni, che sopravvisse alle dune del deserto di Talimantor, alle foreste notturne di Villasylvia, al labirinto di Hendrack, alle caverne acquatiche dello Charant, ai ghiacciai di Capandor, alle profondità abissali della Fossa di Lackro… che ce l’aveva fatta, per poi morire congelato su Whirlygig. Il suo nome sarebbe stato aggiunto a quell’elenco di cui il governo non parlava mai, gli sfortunati che morivano nelle prove finali dei giochi del Planetfest che si svolgevano fuori del pianeta. Peron si risintonizzò la tuta sulla ricezione generale.
— Siamo tutti d’accordo, allora — stava dicendo una voce chiara. — Niente di tutto ciò che abbiamo pensato potrebbe permetterci di farcela in tempo?
La distorsione della radio danneggiata cambiava il timbro della voce. Peron si riebbe dai propri cupi pensieri e scoprì, con sua viva sorpresa, che l’interlocutore era Wilmer.
— Pare che sia così. — Era ovvio che era stato Lum a parlare. — Abbiamo chiamato la nave e manderanno qualcosa non appena potranno, ma è probabile che ci vogliano otto ore. Sy ha fatto una valutazione approssimativa della perdita di calore sulla base delle condizioni della tuta, e calcola che ci rimangano un paio d’ore per far qualcosa, tre al massimo.
— Dannazione.
Proprio quello che ho pensato io, si disse Peron con calma. Ma cosa sta succedendo a Wilmer? Dopo esserci venuto dietro con un mistero cordiale e non-contendente per tutti i giochi, tutt’a un tratto è diventato la figura dominante del gruppo. Gli altri stanno facendo riferimento a lui, lasciando che sia lui a controllarli.
Peron ebbe un’intuizione improvvisa. Era soltanto lo shock… Lo shock li aveva sopraffatti tutti; ma in qualche modo Wilmer, e lui stesso, Peron, la fonte di tutte le preoccupazioni e quello che era condannato a morire, riuscivano a restare distaccati dall’emozione. Intravide la faccia inorridita di Elissa attraverso la visiera della sua tuta, e le rivolse un sorriso d’incoraggiamento. Kallen aveva le lacrime agli occhi, e perfino Sy aveva preso quell’espressione di tranquilla fiducia in sé.
— Nessun’altra idea? — proseguì Wilmer. — Bene. Datemi una mano. Peron, voglio parlarti. In quanto a voi, voglio un’atmosfera dentro alla cupola non appena riuscirete a crearla. Non preoccupatevi della temperatura, so che sarà bassa, ma questo è risolvibile.
Aveva aperto la borsa verde che aveva portato con sé giù su Whirlygig e stava esaminando lo schieramento di ampolle, siringhe e strumenti elettronici che si trovavano schierati in file ordinate all’interno di essa. Dopo una lunga occhiata sorpresa Sy si avviò verso la cupola, ma gli altri rimasero immobili fino a quando Lum non tuonò: — Mettiamoci all’opera. — Nell’allontanarsi, si girò verso Wilmer, le grandi mani serrate nei guanti della tuta. — Questo non è il momento di parlare, ma sarà meglio che tu sappia quello che stai facendo. Se così non fosse, ti scuoierò vivo personalmente quando torneremo alla nave.
Wilmer non si dette briga di rispondere. Dietro alla visiera la sua faccia era aggrottata per la concentrazione.
— Circuito privato. Tu ed io dobbiamo parlare per un paio di minuti — disse a Peron, e aspettò fino a quando la frequenza personale della tuta non venne confermata. — Bene. Come valuti le tue possibilità?
— Zero.
— Molto bene. Partiamo senza nessuna illusione. Presumo che tu sia pronto a correre un rischio?
A Peron venne voglia di ridere. — Vuoi dire un rischio che mi offra meno possibilità di sopravvivenza di quelle che ho adesso?
— Una risposta equa. So esattamente quello che cercherò di fare, ma non ci ho mai provato in circostanze che assomigliassero a queste neppure alla lontana. Ho le droghe che mi servono, e l’ambiente della cupola non sarà molto diverso da quello del laboratorio. D’accordo?
— Non ho la più pallida idea di quello di cui stai parlando.
— E io non ho il tempo di spiegartelo. Ma non ha importanza. Per prima cosa ti farò un’iniezione. Dovrà attraversare direttamente la tua tuta, ma credo che l’ago ce la farà, e il sistema autosigillante si prenderà cura del forellino. Dopo ti porteremo dentro. Credo che la giuntura della spalla sia il punto migliore.
Prima che Peron avesse il tempo di obbiettare, Wilmer era venuto al suo fianco, e sentì l’acuta puntura di un ago nel trapezio sinistro.
— Adesso avremo meno di un minuti prima che tu cominci a sentirti stordito. — Wilmer aveva buttato via l’ipodermica e ne stava tirando fuori un’altra dalla borsa. — Ascolta bene. Voglio che tu rompa tutti i sigilli della tuta in modo che possiamo togliertela facilmente quando sarai privo di sensi. Non parlare e cerca di continuare a respirare il più lentamente possibile. Quando sentirai che stai per perdere i sensi, non cercare di lottare. Lascia che accada. Va bene?
L’area gelida al centro del suo stomaco si stava diffondendo rapidamente fino a inglobare tutto il suo tronco. Allo stesso tempo Peron provava la sensazione che l’orizzonte di Whirlygig si stesse allontanando rapidamente da lui, diventando sempre più remoto. Annuì a Wilmer e maneggiò il comando che trasferiva tutti i sigilli della tuta all’accesso dell’esterno. Sentiva il proprio respiro aspro e rapido, e lottò per inspirare ed espirare lentamente e con regolarità.
— Bravo. Mi spiace di non avere il tempo di spiegarti, ma non ho mai sentito che una situazione del genere si sia mai presentata prima d’oggi. Probabilmente mi linceranno quando scopriranno quello che sto cercando di fare. Ma tu sei fortunato: io stesso mi sono trovato in guai seri su Whirlygig una volta, più di trecento anni or sono. E ricordo quello che ho provato. — Wilmer gli strinse la mano. — Buona fortuna, Peron. Se ti risveglierai, ti troverai nell’S-Spazio.
Nell’S-Spazio. Se sopravviverò, un mistero sarà spiegato, pensò Peron. Restituì la stretta di Wilmer.
— Ho bisogno di aiuto — disse Wilmer. Aveva ripreso a parlare sul circuito aperto. — Dobbiamo tirar fuori Peron da questa tuta non appena la pressione ce lo consentirà. E lui sarà privo di sensi. Elissa, vuoi organizzare il modo più veloce per farlo?
Peron provò l’impulso irrazionale, quasi sopraffacente, di scoppiare a ridere. Wilmer, diceva una voce dentro di lui, mio strano e glabro amico, come sei cambiato! Eri un vecchio verme tardy giù su Pentecoste, e adesso ti sei trasformato in una farfalla tutta autorità dalle ali dorate. Oppure, ancora meglio, in una pianta, una forma rara ed esotica che fiorisce soltanto fuori del pianeta? D’un tratto quella domanda era importante, ma lui sapeva di non essere in grado di fornire una risposta.
Aveva perso il controllo. Sapeva che erano arrivati alla cupola e che erano pronti a entrarci, ma non riusciva più a vedere il portello della camera di equilibrio. O le stelle; o anche il terreno sul quale si trovava. Pezzetto dopo pezzetto la scena davanti a lui si stava spegnendo. Era come un grande jig-saw puzzle, dove ogni pezzo era nero. Poteva soltanto vedere Wilmer che gli reggeva ancora il braccio.
Ecco, dunque. È a questo che assomiglia la morte. Non troppo male, davvero. Niente affatto male.
L’ultimo frammento del puzzle venne messo in posizione. Wilmer scomparve e tutto il mondo divenne nero.
Risvegliarsi fu un’agonia.
Cominciò come un basso mormorio di voci che parlavano una lingua che gli era familiare, ma con un’intensità e una intonazione talmente alterate da essere a malapena comprensibili. Era come la voce di una macchina. Si sforzò di comprendere. — … un po’ più di asfanol… anche soltanto per pochi minuti… fino a quando non sapremo cosa fare con gli altri (altri?)… il battito del cuore è forte e costante, adesso…
Poi un’affermazione chiara a bassa voce, irata e irritata: — Maledetto fastidio. Non possiamo far niente fino a quando non avremo una dichiarazione sulla linea di condotta da seguire. Perché quel pazzo ha fatto quello che ha fatto… impiegheremo un mese…
Respirava. L’aria gli entrava calda nei polmoni bruciando i delicati alveoli ad ogni lento respiro. Sentì che gli bruciava attraverso la barriera sangue e aria, poi fiammeggianti fiumi di ossigeno si riversarono attraverso le arterie e i capillari fino ad arrivare ad ogni estremità del suo corpo. Era un dolore implacabile. C’era la sofferenza dei tessuti che si risvegliavano e della circolazione che veniva ripristinata, accompagnati da spasimi muscolari che non era in grado di controllare.
Peron mosse la lingua. Quando questa toccò i denti, la sentì asciutta e gonfia, provò grande per la sua bocca. Ma quando si leccò le labbra, provò la sensazione d’un tessuto impregnato di glicerina, con uno strano sapore che gli butterava l’intero della bocca. Grugnì per il disgusto, ma dalla sua bocca non volle uscire nessun suono.
— È sveglio — disse un’altra voce. — Preparati, Peron Turca. Riesci ad aprire gli occhi?
Peron cercò di farlo. Le ciglia gli sembrarono saldate con la colla, ma con uno sforzo continuo riuscì un po’ alla volta a liberarle.
Sbirciò verso l’alto, attraverso i due occhi ridotti a fessure, e scoprì che stava guardando un pallido soffitto grigio il quale s’incurvava senza nessuna giunzione incontrando pareti dello stesso colore. Da qualche parte sulla destra c’era un fruscio costante e un rumore pulsante.
Girò la testa da quella parte: i muscoli del collo crepitarono riluttanti, si tesero e obbedirono agli ordini mentali. Giaceva accanto a una grande massa di attrezzature mediche, monitor, pompe, dispositivi per iniezioni automatiche endovena, e unità telemetriche. Numerosi tubi e cavi gli correvano lungo il braccio destro denudato. Altri gli correvano su fin dentro le narici e giù nella parte inferiore del corpo. Era nudo.
Sollevò la testa. C’era qualcosa di sottilmente sbagliato quando fece quel movimento, ma non dava l’impressione di essere un problema interno. Pareva piuttosto che le leggi della meccanica fossero state cambiate, in modo che, malgrado fosse chiaro che non si trovava in caduta libera, neppure si muoveva in una qualunque forma di gravità normale.
E c’era qualcosa di sbagliato nei suoi occhi. Sbagliato in modo terribile. Poteva vedere, ma ogni cosa era offuscata e indistinta, con gli orli scarsamente definiti e tutti i colori attenuati, ridotti a sfumature pastello.
Peron girò la testa a sinistra. Accanto al tavolo sul quale giaceva sedeva una donna. Era di mezza età. Aveva la fronte corrugata e lo guardava con ovvia disapprovazione. La sua faccia aveva una pelle liscia da bambino, e portava una cuffia azzurra che le aderiva al cranio.
— Va bene — disse. Non pareva stesse parlando a lui. — Pare che ci sia il controllo motorio. Ordine: iniettiamogli tre centimetri cubi di historex nella coscia.
Era la voce che aveva udito per prima, e ancora una volta aveva un suono rauco e stranamente meccanico. Non vide né sentì nulla, ma dopo pochi istanti avvertì un nuovo, fugace dolore alla coscia. Poi il dolore in tutti i suoi muscoli cominciò a diminuire. La donna scrutò la sua espressione e annuì.
— Eccellente. Ordine: controlla i monitor, e se sono soddisfacenti rimuovi i cateteri. Con delicatezza.
Peron abbassò lo sguardo sui cateteri che gli entravano nella parte inferiore del corpo, e si assicurò di mantenere lo sguardo fisso su di essi. Ancora una volta non vide né sentì niente, ma un attimo dopo erano scomparsi. Un altro attimo, e anche il tubo che gli entrava nelle narici non c’era più. Tirò un lungo, tremante sospiro. Il fuoco nei polmoni era ancora là.
La donna pareva ancora infastidita. — Ti senti strano e a disagio, lo so. A tutta prima l’S-Spazio fa sempre quell’effetto, a tutti. Ma non dura. Ringrazia il cielo che sei vivo, quando dovresti essere morto.
Vivo! Vivo. Peron ebbe un’improvvisa ondata di ricordi, che lo riportò agli ultimi momenti di disperazione su Whirlygig. Lì era stato moribondo, rassegnato all’inevitabile, del tutto certo della propria morte, mentre qui era vivo! Tutto il dolore venne spezzato via in un attimo, sopraffatto dalla consapevolezza della vita. Voleva parlare, lanciare un grande urlo di gioia davanti al semplice fatto della sua esistenza; ma ancora una volta non una sola parola gli volle uscire di bocca.
— Non provarci — disse la donna. — Non ancora. Dovrai imparare come si fa a parlare, e ci vuole un po’ di tempo. E non sfregarti gli occhi, funzionano normalmente, ma qui le cose sono diverse. Ora, ci sono delle cose che vanno fatte prima che tu sia pronto a parlare. Quel pazzo di Wilmer ha senz’altro creato un problema per tutti noi, ma immagino che adesso dovremo tenercelo. Adesso non possiamo ucciderti. Ordine: portagli una bevanda. L’acqua andrà bene ma controlla l’equilibrio degli ioni e dello zucchero nel sangue, e se ha bisogno di qualcosa fai le aggiunte necessarie.
La donna tese la mano e d’un tratto reggeva una fiaschetta piena d’un liquido giallo paglierino.
— Voglio che tu cerchi di prendermi questo di mano. Puoi farlo? Poi bevilo tutto e cerca di parlarmi.
Peron sollevò il braccio, e ancora una volta provò la sensazione che le leggi della fisica fossero state cambiate. Prese con decisione il controllo della propria mano per farla muovere nella direzione da lui voluta. Prese con cautela la fiaschetta, l’accostò alla bocca e bevette. Fu come un balsamo, che gli lenì la gola e per la prima volta si rese conto di avere una sete disperata. Bevette tutto.
— Bene. Ordine: portala via.
La fiaschetta scomparve. La donna appariva un po’ meno irritata di prima.
— Riesci a parlare? Prova una parola.
Peron deglutì, impartì un ordine alle sue corde vocali, e venne compensato da un grugnito e da un colpo di tosse raschiante. Tentò di nuovo.
— Sssii. S-siii. — La sua stessa voce gli suonava aliena agli orecchi.
— Eccellente. Dai tempo al tempo. E ascoltami. Ci sono alcune cose che devi conoscere, e non guadagneremo niente a non dirtele. Sai cosa sono gli Immortali?
— Essi vizzi… vizzitano… Pen’coss. Non so ’mani… o no. Vava… vivono per ’empre.
— Vorrei che fosse vero. — La donna rivolse a Peron un sorriso stizzito. — Io sono una Immortale. E adesso lo sei anche tu. Ma non viviamo per sempre. Viviamo all’incirca millesettecento anni, stando alle nostre migliori stime correnti, se non veniamo uccisi in qualche modo lungo il percorso. È una delle cose che devi imparare. Anche adesso puoi venire ucciso con la stessa facilità di prima. Vivere nell’S-Spazio non ti proteggerà. Capito?
— Caa… pito. — Peron si sentiva la pelle del viso come se fosse stata tirata al massimo, e non poteva mostrare le emozioni che provava. Se lui era un Immortale, cos’era successo agli altri? Sarebbe sopravvissuto a Elissa per milleseicento anni? Nessuna buona notizia avrebbe potuto rendergli appetitoso quel pensiero. Sollevò la testa, ancora una volta quella strana sensazione, e guardò direttamente in faccia la donna. — Cos’è successo agli altri su Whirlygig?
— Non sono autorizzata a dirtelo. Ti ho detto che quello che Wilmer ha fatto per te ci ha causato più guai di quanto lui si sia mai sognato. Prima che ci sia permesso di dirti di più, dobbiamo avere l’approvazione del Quartier Generale del Settore, e questo significa un lungo viaggio. Stiamo già viaggiando da cinque ore, e ci vorranno due giorni prima che arriviamo là. Fino a che non saremo arrivati, dovrai essere paziente. Il mio paziente, in effetti. — Gli rivolse il suo primo, vero sorriso. — Puoi cominciare riposandoti un po’. Fra qualche minuto l’historex comincerà a fare effetto, e adesso ti darò un altro sedativo e un analgesico. Ordine: dai a quest’uomo cinque centimetri cubi di asfanol.
Niente di visibile, ma ancora una volta la sorpresa di qualcosa che gli penetrava nella coscia causandogli dolore. Peron non era affatto pronto ad addormentarsi, c’erano un centinaio di domande alle quali cercava risposta, e non sapeva da quale cominciare.
— Stiamo tornando alla Nave?
La donna parve trasalire, poi si mostrò divertita. — No. Non posso dirti molto, ma posso dirti una cosa. Stiamo facendo un viaggio molto più lungo. Il Quartier Generale di Settore è fuori del sistema di Cass, quasi a un anno-luce di distanza di Cassay e Pentecoste.
— E ci arriveremo in due giorni. Allora viaggiate davvero più veloci della luce.
Adesso la donna appariva molto a disagio. — Non dovrei dirti niente, io sono un medico, non un… dannato amministratore. — C’era irritazione contro qualcuno o qualcosa nel tono della sua voce, e Peron prese nota di quel particolare a futuro riferimento. — Ma noi non viaggiamo più veloci della luce. Nell’S-Spazio, la luce percorre quasi duemila anni-luce di distanza normale in uno dei nostri anni. Noi stiamo viaggiando soltanto ad una frazione della velocità della luce.
Peron rimase sconcertato a questo pensiero. Possibile che dicesse la verità? Se era così, Sol e Terra si trovavano soltanto a un paio di mesi di distanza. E se stavano viaggiando già da cinque ore, dovevano trovarsi nelle profondità dello spazio interstellare. Cominciava a sentirsi assonnato, ma d’un tratto provò lo struggente desiderio di vedere di nuovo Cassay. Come gli sarebbe apparso il panorama della stella a quell’immensa velocità?
— Cosa c’è che non va? — La donna aveva colto la sua espressione.
— Possiamo guardare fuori di qui, guardare le stelle?
Lei scosse la testa. — Talvolta provo io stessa quel desiderio. Quando ti sveglierai, dài un’occhiata alla stanza accanto. Là c’è un oblò che dà sull’esterno. Scoprirai che le cose hanno un aspetto piuttosto diverso nell’S-Spazio. Ma adesso devo andare. Il mio nome, a proposito, è Ferranti, dottoressa Olivia Ferranti. Ti vedrò spesso, fino a quando non saremo sicuri che ti sarai stabilizzato qui da noi. Tornerò domani. — Gli rivolse un cenno rassicurante del capo. — Sii paziente. Ordine: portami nel mio appartamento.
— Ma cosa…
Peron non si dette la briga di completare la frase. Se n’era andata, era svanita in un istante. Dopo altri trenta secondi, i farmaci fecero effetto e Peron piombò nel sonno.
Nella stanza dove aveva ripreso conoscenza la prima volta, non c’erano indumenti, cibo o bevande. C’era un terminale accanto al tavolo che, era ovvio, doveva comunicare con altre parti della nave, ma quando si svegliò la volta successiva Peron resistette al primo impulso che era quello di chiamare per chiedere qualcosa da mangiare. Era affamato e provava ancora quella strana sensazione di disorientamento, ma c’erano altre priorità più importanti.
Tutti i monitor accanto al tavolo erano ancora in funzione, ma adesso ricevevano dati telemetrici che avevano origine dai piccoli sensori collegati al suo corpo. Senza dubbio ritrasmettevano quei segnali a qualche computer centrale di controllo, ma era probabile che questo reagisse solamente in caso di emergenza. Peron giudicò che doveva disporre di qualche minuto, almeno, prima che le sue azioni venissero controllate di nuovo. Scivolò giù dal tavolo, impiegò qualche istante per recuperare l’equilibrio, e poi si diresse verso una delle due porte della stanza.
Questa conduceva a un lungo corridoio privo di finestre. Una scelta sbagliata. Tornò indietro e scoprì che l’altra porta si apriva su una stanza più grande, con un grande oblò trasparente a una estremità. Peron si avvicinò ad esso e guardò fuori.
Certamente si era aspettato qualcosa di diverso dal solito paesaggio stellare visto dall’interno del sistema di Cass; forse le costellazioni familiari, ma sottilmente distorte. Ma ciò che adesso si trovò a guardare era del tutto inesplicabile.
Al di là dell’oblò tutto il cielo era colmo d’un debole bagliore perlaceo. Pareva non offrire nessun modo per orientarsi, e in ogni direzione aveva la stessa luminosità uniforme. Niente stelle, nebulose, nubi di gas, galassie: l’intero universo era scomparso, smarrito in una foschia brillante e diffusa.
Peron sentì che la testa cominciava a girargli. Si trovava nell’S-Spazio, e il tutto era talmente diverso da qualunque cosa avesse mai immaginato da togliergli qualunque possibilità di prevedere la sua prossima mossa. Se era stato intrappolato e tenuto prigioniero, poiché era così che cominciava a concepire la sua situazione a bordo di quella nave, in qualunque ambiente normale forse avrebbe potuto assumere il controllo di se stesso e decidere delle proprie azioni. Ma lì, cosa poteva fare? Non c’era niente nella scienza di Pentecoste che anche soltanto accennasse a una possibilità del genere. Sy, assai più capace di lui in fatto di scienza, si era fatto beffe anche soltanto dell’idea…
Peron provò un attimo di fastidio. Se soltanto Sy si fosse trovato là, adesso, a constatare fino a che punto l’avevano portato le sue teorie…
Il resto della stanza mancava di arredi o di qualunque altra fonte d’informazioni utili. C’era una serie di piccole, misteriose porte, o pannelli, alla base della parete, ma non riuscì ad aprirle. Si voltò per tornare nell’altra stanza, e si ricordò di aver fame e sete. Rievocò la capacità della dottoressa Ferranti di far comparire le bevande dal nulla (e chiedi un po’ a Sy di spiegarti anche questo, visto che ci sei!). Era possibile che funzionasse anche per lui? Pareva che non ci fosse nessun rischio a provarci.
— Ordine. — Malgrado fosse solo si sentì imbarazzato, quello che stava tentando era impossibile! Ma aveva funzionato, di questo era convinto. — Ordine: portami qualcosa da bere.
Aspettò, sentendosi sciocco. E a confermare la sua sensazione, non accadde assolutamente nulla. Tentò ancora una volta: — Ordine: portami qualcosa da mangiare.
Niente. Come avrebbe potuto esser diverso il risultato? Doveva aver sofferto di allucinazioni, per essersi convinto che la dottoressa avesse il potere magico di creare oggetti, compresa se stessa, che apparivano e scomparivano all’istante.
Peron era appena arrivato a questa conclusione quando ogni cosa intorno a lui cambiò nel breve e sconcertante fremito d’un batter di ciglia. Vi fu un secondo di totale disorientamento. Poi, non era più in piedi sulla soglia della porta. Si trovava invece in una stanza dalle pareti d’un giallo pallido, decorate con elaborati murali e dipinti dilettanteschi. Adesso, lui era completamente vestito, con camicia e calzoni marrone che gli andavano a pennello. Aveva ai piedi le sue scarpe, quelle che aveva visto per l’ultima volta quando aveva indossato la tuta prima di partire per Whirlygig. Era seduto su una poltrona dura, con le mani appoggiate saldamente ai braccioli. Davanti a lui c’era una lunga scrivania lucida, di metallo argenteo; sulla superficie superiore spiccava un’unica cartella arancione, con una penna.
E seduto dietro a quella scrivania, intento a guardarlo con un’espressione annoiata e decisamente arrogante, c’era un uomo rugoso, dagli occhi castani e calvo. Peron provò per lui un’antipatia tanto immediata quanto inesplicabile.
— Sono il capitano Rinker, comandante di questa nave — disse l’uomo. — La dottoressa Ferranti mi dice che lei è completamente stabile e adattato all’S-Spazio. È così?
— Non lo so. Non avverto nessun dolore, ma è certo che non mi sento normale.
— Passerà. Qualcos’altro?
— Pare che qualcuno voglia farmi morire di fame.
— Colpa sua. Quando si è svegliato avrebbe potuto chiamare qualcuno e chiedere del cibo. Invece ha scelto di ficcare il naso intorno. — Rinker indicò una proiezione sulla parete che mostrava la stanza in cui Peron aveva ripreso i sensi. — Lei era osservato. Le starebbe bene se non le dessimo da mangiare per un po’. Ma è fortunato: i regolamenti non ci permettono di farla morire di fame… Ordine: porta cibo e bevande adatte al risveglio.
Un vassoio comparve all’istante, appoggiato sui ginocchi di Peron. La caraffa trasparente conteneva lo stesso liquido che aveva bevuto in precedenza, ma il cibo nei piatti non gli era affatto familiare. C’erano delle polpettine color marrone con una ruvida trama granulosa, una gelatina rosso-arancione, e fette bianche d’una consistenza liscia e cremosa. Rinker indicò il cibo con un gesto.
— Proceda pure. Può mangiare mentre parliamo.
Peron si guardò intorno. Non c’era nessun altro nella stanza, e nessun segno che la porta si fosse aperta o chiusa. — Come riesce a far questo?
— Non è appropriato che glielo dica. Queste informazioni le verranno fornite al Quartier Generale, sempre che venga deciso in tal senso. — Rinker agitò la mano verso la proiezione. — I suoi tentativi di usare il sistema di servizio sono già stati notati. Per risparmiarle un’ulteriore perdita di tempo, le farò notare che ogni ulteriore tentativo da parte sua sarà altrettanto infruttuoso. Mi permetta di farle inoltre notare che io non ho nessun obbligo ufficiale di parlarle, o di trattare con lei in alcun modo, salvo che provvedere a trasferirla sano e salvo al Quartier Generale. Ma voglio che sappia quanti guai ci avete causato, lei e quel pazzo di Wilmer.
Peron non riuscì a resistere a quel cibo. Il suo corpo insisteva che erano passate settimane da quando aveva ricevuto l’ultimo nutrimento. Mangiò con una fame da lupi. Le polpettine assomigliavano in modo ragionevole al pane, e malgrado quella materia bianca non assomigliasse affatto al formaggio, come invece si era aspettato, aveva un buon sapore. Fissò il capitano Rinker sul lato opposto della scrivania, inghiottì e parlò.
— Non posso dir niente per Wilmer, ma qualunque guaio abbia causato, non è stato opera mia. Ma senza il suo aiuto, sarei morto su Whirlygig. Non vedo perché lei voglia attribuirmene la colpa.
Rinker fece un gesto d’impazienza con la mano. — Lei era stato identificato come un piantagrane prima di lasciare il pianeta. Lo stesso vale per i suoi compagni su Whirlygig. Eravate tutti destinati a uno speciale indottrinamento sulla nave Eleonora, e dovevate esser tenuti separati dagli altri contendenti. In quanto a Wilmer, lui avrebbe dovuto trovarsi là come osservatore, non come partecipante attivo. Avevo fatto notare parecchie volte che era pericoloso utilizzare delle reclute locali come osservatori. Hanno troppi legami con il suo pianeta e la sua gente. Ma il mio consiglio è stato ignorato.
— Wilmer è un Immortale?
Rinker si appoggiò allo schienale della sua poltrona, corrugando la fronte. — Quello stupido termine! Io non lo uso mai. Sì, Wilmer è stato reclutato nel nostro gruppo. E condivide il nostro arco di vita esteso. Ma non ha mai lasciato il sistema di Cass, e di certo non sa nulla della nostra missione più vasta. Adesso devo sopportare le conseguenze del suo dilettantismo. Per trecentosessanta dei suoi anni ho visitato Pentecoste e il sistema di Cass. Questo è il mio diciannovesimo viaggio, e niente è mai andato storto. Ho sviluppato un perfetto curriculum nel mio lavoro. Da me ci si aspetta il successo, ed io lo esigo da me stesso. Ma adesso, grazie a ciò che Wilmer ha fatto su Whirlygig, tutto è andato in fumo. Questa visita si è trasformata in un disastro. I materiali che avrei dovuto riportare con me dal gruppo su Eleonora sono stati lasciati là; la selezione finale e l’indottrinamento delle reclute sono stati ritardati; ed io sto trasportando qui con me al Quartier Generale sei passeggeri indesiderati in più, ognuno dei quali è identificato come potenziale fonte di guai. Pensa che dovrei essere felice?
A mano a mano che la fame e la sete diminuivano, Peron provò una crescente curiosità nei confronti dell’ambiente in cui si trovava. Ma questa curiosità si scontrava con un ugualmente intenso senso di fastidio. Lui non aveva fatto niente per giustificare la paternale di Rinker. Cosa si aspettava che facesse, quell’imbecille? Che chiedesse di venir riportato su Whirlygig per morirci?
Sollevò il vassoio e lo depose sulla scrivania davanti a sé. — Non dico che lei debba essere felice, ma non dovrebbe incolpare me per quello che è successo. Perché non vuol dirmi quello che succede qui?
— In modo che lei possa causarci altri guai?
— Non causerò nessun guaio, ma è naturale che abbia molte domande da fare. Non le chiedo di dedicarmi il suo tempo, ma mi lasci per lo meno avere accesso a un terminale e alle banche dati. E lei ha detto che qualcuno degli altri contendenti si trova qui, su questa nave. Mi piacerebbe certamente vederli.
Rinker fissò con rabbia il vassoio sporco appoggiato sulla sua scrivania pulitissima e lucida. Rivolse a Peron un sorriso acido. — Non posso consentirle l’accesso alle banche dati. Come le ho già detto, questa è una situazione senza precedenti. Nessuno si è mai unito al nostro gruppo, qui, senza indottrinamento. Quello che le accadrà potrà venir deciso soltanto dopo che avremo raggiunto il Quartier Generale, e fino a quando noi non saremo arrivati laggiù, lei dovrà fare esattamente come le verrà detto. Vuol vedere i suoi compagni? Molto bene. Ordine: rimuovi questo vassoio.
Il vassoio scomparve all’istante.
— Ordine: portaci entrambi nella camera di sospensione.
Questa volta Peron ebbe un’immagine vertiginosa d’un lungo corridoio e di grige pareti. Durò una frazione di secondo. Poi il mondo tornò a stabilizzarsi e lui e Rinker si trovarono in piedi, uno accanto all’altro, davanti a una serie di portelli metallici che arrivavano loro alla vita. Ognuno di essi costituiva l’accesso a un lungo e profondo contenitore simile a un’immensa bara. Dei monitor erano piazzati sulla sommità trasparente di ogni cassa, e tutti gli output venivano raccolti in uno spesso fascio di fibre ottiche collegate al terminale d’un computer. Nella stanza c’era un freddo intenso.
— Forse questo le darà un’idea della gravità con cui considero la situazione. — Rinker si avvicinò a una delle casse. — I suoi compagni sono là dentro.
— Cosa gli avete fatto? — Peron provò una sensazione d’orrore. Rinker gli stava forse dicendo che Elissa e gli altri erano imprigionati in quelle bare ghiacciate?
— Sono immersi nel sonno freddo e lì rimarranno. — La voce di Rinker era gelida come la stanza. Non offriva nessuna possibilità di discussione. — Naturalmente non corrono nessun pericolo. Dirigo una nave ben regolata, e tutte le attrezzature vengono controllate in continuazione. Verranno svegliati, una procedura molto semplice, quando avremo raggiunto il Quartier Generale. Poi questa faccenda passerà in altre mani. Sarò molto contento di non sentirne più parlare.
Peron fece un passo avanti per sbirciare attraverso il coperchio della cassa più vicina. Kallen giaceva là dentro, avvolto fino al collo in un materiale bianco e morbido. Pareva morto. Gli occhi erano incassati in profondità nella sua testa, il suo volto era grigio, svuotato d’ogni colore. Peron si avvicinò al contenitore successivo. Questo ospitava Elissa. Rabbrividì nel vedere cos’era diventata. Senza la sua solita animazione, il suo volto era come una maschera di cera.
— È sicuro che stiano bene? — dovette chiedere Peron. — Sembrano…
— Non posso sprecare il tempo a ripetermi. Stanno bene. Gliel’ho già detto, e le ho fatto vedere più di quanto intendevo. Lei farà i suoi pasti col resto di noi, e ci rivedremo là. Se sentirà necessità di cibo prima di allora, usi il terminale… Ordine: portalo nei suoi alloggi.
Peron non ebbe la minima possibilità di protestare. Rinker e la stanza con Elissa e gli altri scomparvero all’improvviso. Si trovò solo con tutte le sue preoccupazioni, la sua perplessità e la sua frustrazione, in una stanza che conteneva soltanto un letto, una scrivania, e un terminale.
I giochi del Planetfest gli avevano offerto periodi di terrore, esaurimento fisico, suspense, e la quasi disperazione. Ma non c’era stato niente che potesse uguagliare la frustrazione pura delle dodici ore successive. Alla fine di queste ore Peron aveva raggiunto una silenziosa decisione: se era stato marchiato come un piantagrane, si sarebbe guadagnato in pieno questa etichetta.
Aveva cominciato con il semplice desiderio di conoscere qualcosa di più della nave e del suo ambiente. Questo si era dimostrato assai più difficile di quanto si fosse aspettato. La stanza che gli era stata assegnata dava su uno stretto corridoio, che ben presto si biforcava in entrambe le direzioni dando accesso a stanze più grandi e ad altri passaggi. Li aveva provati tutti a turno, annotandosi mentalmente qualunque cambio di direzione.
Molto presto era emerso uno schema. Se s’inoltrava lungo il corridoio di sinistra, era libero di vagare quanto voleva. Trovò una sezione adibita a mensa e una biblioteca, i cui terminali ignorarono le sue domande d’informazioni, ma gli fornirono con prontezza cibo e bevande. Queste apparivano in un istante e in maniera misteriosa davanti a lui nel momento in cui l’ordine veniva dato al terminale, e venivano rimosse con altrettanta prontezza quando lui lo chiedeva. Aveva inoltre incontrato alcuni degli altri membri dell’equipaggio, tutti assai più amichevoli del capitano Rinker. Erano soltanto tre. A Peron era parso un numero assurdamente basso per controllare una struttura di quelle dimensioni. Ma come Olivia Ferranti gli fece notare quando le sue peregrinazioni lo portarono a passare davanti all’alloggio di quest’ultima, erano assai più numerosi del necessario. Ogni cosa era sotto controllo automatico; il capitano Rinker avrebbe potuto gestire tutto da solo. In effetti, il resto di loro era al primo viaggio, ed erano venuti da! Quartier Generale al sistema di Cass per ragioni proprie (che si rifiutarono di discutere). La dottoressa gli aveva perfino offerto qualcosa di simile a delle scuse per il comportamento del capitano Rinker.
— È insolitamente prezioso. Non sono molte le persone alle quali piaccia fare questi lunghi viaggi, spesso senza nessun compagno. Ci vuole un temperamento del tutto speciale. Al capitano Rinker piacciono le cose ordinate. Non può sopportare l’idea che tu possa sconvolgere il modello della sua vita.
— Ma è stato Wilmer a farlo, non io.
— Forse. Ma Wilmer non è qua, e tu sì. Perciò sei tu ad essere bersagliato.
— E gli è consentito tenere i miei amici privi di sensi?
— È il capitano. È lui ad avere il controllo fino a quando non arriveremo al Quartier Generale. Poi dovrà spiegare le sue azioni, ma non avrà problemi a farlo, sta seguendo il regolamento. E, ad esser franchi, non fa nessun male ai tuoi amici. Adesso devo andare. Potremo parlare un po’ di più, se vuoi, al prossimo periodo per il pasto. Ordine: portami alla palestra di prua.
E scomparve.
Peron scoprì di poter arrivare fino alla porta della camera di sospensione, ma questa si rifiutava di aprirsi per lui. E poteva impartire tutti gli ordini che voleva, con qualunque timbro di voce, per qualunque cosa gli piacesse, ma venivano tutti ignorati.
Quando lasciò la stanza e s’inoltrò lungo il corridoio di sinistra, le faccende si rivelarono ancora meno soddisfacenti. Il corridoio di sinistra lo conduceva alla parte superiore della nave, in termini di effettiva gravità. Allora, il corridoio di destra avrebbe dovuto portarlo nella parte bassa, e certamente cominciava andando in quella direzione. Ma non aveva importanza quali biforcazioni seguisse, quando avanzava oltre una certa distanza provava un tremolio stordente, e si ritrovava nella sua stanza, seduto alla scrivania. Alcuni settori della nave, dunque, di dimensioni indeterminate, gli erano inaccessibili.
Dopo una dozzina di tentativi infruttuosi, Peron si distese sul letto della sua stanza, riflettendo intensamente. Erano passate dodici ore dal suo incontro con Rinker, ma non si sentiva affatto stanco. Olivia Ferranti gli aveva detto di aspettarsi pochissimo bisogno di dormire.
— È uno dei vantaggi accessori dell’S-Spazio — aveva precisato. — Scoprirai di dormire un’ora su venti, forse.
In quanto alle condizioni fisiche, continuava a sentirsi strano, ma lei aveva avuto ragione anche su questo punto. Dopo un po’, si era semplicemente abituato alla cosa. Aveva ancora l’impressione di muovere il suo corpo in un mondo in cui le leggi della meccanica erano state un po’ modificate, ma era una sensazione che tendeva a svanire.
— Vuoi venire a cenare con noi? — La voce era uscita all’improvviso dal terminale accanto al suo letto. Era Garao, un altro dell’equipaggio della nave che aveva incontrato durante i suoi giri per la sezione di prua.
— Non credo. — Poi balzò su a sedere. — No, aspetta un momento. Sì, vengo. — Non era affamato, salvo che di altre informazioni. E l’unico modo per averle pareva fosse quello di ottenerle da altre persone. L’esplorazione diretta della nave era stata del tutto infruttuosa.
— Non ce n’è bisogno — disse Garao. — Tienti stretto.
Vi fu quell’ormai familiare istante di disorientamento. Peron scoprì che si trovava seduto nel settore della mensa insieme a tre degli altri. Il capitano Rinker non era presente. Come la Ferranti gli aveva detto, il capitano prediligeva la compagnia di se stesso e spesso cenava da solo.
Tutti parevano dare per scontato che adesso Peron avrebbe mangiato e bevuto le loro stesse cose. Quando arrivò, c’erano più cinque o sei diversi piatti sul tavolo, tutti a lui sconosciuti. Trovò qualcosa che assomigliava ad un filetto di pesce, ma ovviamente non lo era. E c’erano diversi tipi di pseudocarne, ciascuno accompagnato da qualche tipo di vegetale. Nessuno aveva il sapore che lui si aspettava, e tutti i piatti erano freddi.
Gli altri parvero sorpresi, quando lui accennò a questo. La dottoressa Ferranti guardò Garao e il glottologo, Atiyah, poi scrollò le spalle.
— Avrei dovuto dirtelo: non troverai cibi caldi nell’S-Spazio. Meglio abituarsi a mangiarli freddi.
— Ma perché?
— Aspetta fino a quando saremo arrivati al Quartier Generale. Una volta là potrai chiederlo. — Era chiaro che la Ferranti era imbarazzata per la sua non-risposta. Sedeva accanto a Peron, così lui la vedeva soltanto di profilo. Ma la voce rivelava il suo disagio. — Te lo direi, ma è contrario agli ordini del capitano. Se ti piacciono i piatti caldi, posso rendere più accettabile quello che stiamo mangiando. È facile chiedere delle spezie… Ordine: porta altri di questi piatti per Peron Turca, ma aggiungi delle spezie piccanti.
Vi fu un ritardo di quindici secondi, poi altri piatti comparvero sul tavolo davanti a Peron. Si stava preparando a servirsi, quando colse l’espressione sul volto di Garao e di Atiyah, seduti sul lato opposto del tavolo.
— Cosa c’è che non va? Non va bene se li mangio?
— Non è questo il problema. — Garao raccolse un piatto vuoto. — Ordine: portalo via.
Ancora una volta vi fu un ritardo di qualche secondo, poi il piatto scomparve all’improvviso.
— Visto? — Garao pareva giulivo. — È lo stesso problema che abbiamo avuto durante il viaggio dal Quartier Generale. E pare anche peggiore.
— Lo è — dichiarò la Ferranti. — Questa volta ci vuole il doppio del tempo.
— Per che cosa ci vuole il doppio del tempo? — Peron aveva l’impressione che parlassero per enigmi soltanto per confonderlo.
— Il servizio — disse Atiyah. Era un uomo di poche parole. — Dovrebbe essere istantaneo. Ora, calcoliamo il ritardo. Ordine: portami un bicchier d’acqua. — Rimasero seduti in silenzio fino a quando, dopo circa quindici secondi, un bicchiere pieno d’un liquido limpido comparve davanti ad Atiyah.
Garao annuì. — Sarà meglio che avvisiamo subito Rinker. Dovremo lasciare l’S-Spazio per rimediare. Gli sta bene a quel bastardo imbacchettato, a lui e alla sua nave «perfettamente gestita».
— E come lo farà contento! — esclamò la dottoressa. — Già si lamenta che questo viaggio è stato un disastro.
— Lasciare l’S-Spazio? Ma dove andremo?
Gli altri guardarono Peron per un momento. — Mi spiace — dichiarò Garao, in tono comprensivo. — Ma sono di nuovo gli ordini del capitano. Non puoi esser presente mentre parliamo di questo. Ordine: riporta Peron nella sua stanza.
— Aspettate un momento! — Peron era furioso. — Sentite, al diavolo gli ordini del capitano. Se c’è qualcosa che non va, ho anch’io il diritto di saperlo. Sono sulla nave tanto quanto voi. Voglio rimanere qui e scoprire cosa sta succedendo.
Ma l’ultima frase andò sprecata. Peron vi aggiunse una sfilza d’imprecazioni. Il ritardo del servizio poteva anche preoccupare gli altri, ma era ancora troppo breve. Si ritrovò nella sua stanza a parlare alle pareti vuote.
Peron si permise soltanto pochi secondi d’imprecazioni. Poi si strappò via le scarpe e si mise a correre a tutta velocità lungo il corridoio che conduceva alla parte alta della nave. I monitor avrebbero continuato a mostrare i suoi movimenti, questo pareva certo. Ma adesso c’era un’emergenza a bordo, perciò, chi l’avrebbe sorvegliato? Non avrebbe mai avuto una possibilità migliore per esplorare le zone che di solito gli erano proibite.
Il suo precedente e accurato studio della disposizione interna della nave non era andato sprecato. Corse in fretta e in silenzio verso gli alloggi di Rinker, sicuro di ogni singolo corridoio. Arrivato alla biforcazione davanti alla porta di Rinker, si fermò e sbirciò da dietro l’angolo. Era arrivato in tempo? Se Rinker se n’era già andato, non ci sarebbe stato nessun modo di sapere dov’era andato.
Sentì la porta che si apriva, si tirò indietro, poi arretrò fino alla curva successiva del corridoio. Nessun rumore di passi. Rinker doveva aver preso l’altra direzione.
Tornò indietro di corsa con passo felpato e lanciò un’occhiata furtiva lungo il corridoio, giusto in tempo per veder scomparire il dorso della giacca azzurra di Rinker e la sua luccicante testa calva. Stava andando verso sinistra, allontanandosi dalla direzione della sala da pranzo.
Peron cercò di visualizzare la geometria della nave. Cosa c’era in quella direzione? Tutto quello che riusciva a ricordare erano due grandi magazzini, ognuno riempito con delle specie di palline, e altri alloggi. La camera di sospensione si trovava proprio all’estremità dello stesso corridoio.
Rinker stava proseguendo con passo costante, chino in avanti e senza guardarsi indietro. Passò davanti ai magazzini, davanti alle sezioni adibite ad abitazione… cosa poteva cercare nella camera di sospensione?
Peron si era forse scordato di qualche biforcazione nel corridoio? Sapeva di non poter ignorare quella possibilità. Corse un rischio ancora maggiore e ridusse la distanza che li separava. Era abbastanza vicino da udire il pesante respiro di Rinker, e anche di percepire lo sgradevole odore di talco muschiato che adoperava come borotalco.
Peron arricciò il naso. Non c’era da meravigliarsi che di solito quell’uomo facesse i suoi viaggi da solo!
Esitò alla porta della camera dell’animazione sospesa. Rinker era entrato, ma non c’era nessun modo di seguirlo senza farsi notare.
Udì là dentro uno scricchiolio. Sporse per un attimo la testa dentro la porta. Rinker aveva aperto uno dei grandi sarcofaghi luccicanti, e adesso stava entrando e chiudendo il portello dietro di sé.
Non appena il portello frontale del sarcofago fu completamente chiuso, Peron s’introdusse furtivo nella camera. Ma invece di andare alla cassa di Rinker, raggiunse quella successiva nella fila. Guardò dentro attraverso il lato superiore trasparente. Lum giaceva là dentro, bianco e simile a un cadavere. Peron cercò d’ignorare quella grande forma immobile, e invece guardò le pareti del contenitore.
Strano. Malgrado non l’avesse notato durante la sua prima visita insieme al capitano Rinker, la cassa pareva avere una serie completa di comandi all’interno, come pure all’esterno, come se quelle figure imprigionate nel gelo potessero svegliarsi e desiderare di controllare le apparecchiature dall’interno. E qui c’era qualcos’altro, altrettanto strano: all’estremità opposta del contenitore c’era un altro portello delle stesse dimensioni di quello all’estremità più vicina, il quale conduceva alla parete vuota dietro il sarcofago.
Erano passati un paio di minuti da quando Rinker era entrato e aveva chiuso la porta. Peron si avvicinò in silenzio e si fermò accanto a quella cassa. Avvicinò l’orecchio ad essa. Sentì un sibilo di gas e il tonfo ritmico e monotono di una pompa. Arrischiò una rapida occhiata attraverso il lato superiore. Rinker giaceva là dentro, con gli occhi chiusi. Pareva del tutto rilassato e normale, ma una rete di filamenti argentei era comparsa fuori dalle pareti del contenitore, attaccandosi alle diverse parti del suo corpo. Sottili schizzi d’un fluido bianco stavano scendendo da minuscoli ugelli per bagnargli la pelle. Peron toccò la superficie del contenitore, aspettandosi il freddo gelido che aveva percepito quando aveva toccato la bara di Lum. Ma sussultò e tirò indietro la mano di scatto. La superficie era calda e gli aveva trasmesso un pizzicore, come se gli avesse scaricato attraverso il corpo una corrente elettrica.
Per un paio di minuti la situazione non cambiò. Poi gli schizzi di fluido bianco cessarono. Gli ugelli vennero ritirati dentro i lati del contenitore e i filamenti argentei si staccarono e si ritrassero anch’essi. Peron guardò e aspettò. Dieci minuti più tardi il corpo di Rinker parve attraversato da un fugace tremito.
E poi il contenitore fu vuoto. In una frazione di secondo, prima che Peron riuscisse anche soltanto a pensare, Rinker era completamente scomparso.
Peron fu tentato di aprire il portello anteriore del contenitor, invece si avvicinò a uno dei contenitori vuoti, lì vicino, e lo aprì. I comandi interni apparivano molto semplici. C’era un quadrante a tre vie, un timer con le unità in giorni, ore e centesimi di ora, e un interruttore manuale. Le regolazioni dell’interruttore mostravano soltanto una N, una S, e uria C. La posizione C era in rosso, e sotto di essa figurava un cartello: ATTENZIONE! NON USARE LA REGOLAZIONE PER FREDDO (C) SENZA AVER REGOLATO L’INTERRUTTORE DEL TIMER O SENZA L’ASSISTENZA D’UN OPERATORE ESTERNO.
Perori stava pensando di arrampicarsi dentro per dare un’occhiata più da vicino quando udì uno scricchiolio ammonitore provenire dall’altro contenitore. Il portello veniva aperto di nuovo. Si sforzò di muoversi con cautela e in silenzio, mentre chiudeva la bara. Era troppo tardi per lasciare la camera, la porta si stava ormai aprendo. Per fortuna si apriva verso di lui, in modo che luì si trovò temporaneamente nascosto dietro di essa.
Rinker era tornato. Stava uscendo lentamente dalla stanza senza guardare né a destra né a sinistra. Peron intravide per un attimo il suo mezzo profilo, e vide degli occhi infossati, iniettati di sangue, e una carnagione pallida. Lo seguì a distanza di sicurezza. Il capitano camminava come un ubriaco, come se fosse stato completamente esausto e stordito dalla fatica. Invece di continuare fino al suo alloggio, si recò alla sala da pranzo. Garao, la Ferranti, e Atiyah erano ancora là che chiacchieravano.
E stavano ancora cenando. Ciò parve strano a Perori, fino a quando non si rese conto che erano passati soltanto pochi minuti da quando l’ordine verbale di Garao l’aveva riportato fulmineamente nella sua stanza contro la sua volontà.
— Tutto sistemato — annunciò il capitano Rinker con voce aspra. — C’è un componente difettoso nel congegno di traduzione degli ordini. Non abbiamo pezzi di ricambio a bordo, perciò l’ho riparato alla bell’e meglio per questo viaggio.
— Durerà, o si guasterà di nuovo? — Quella era la voce di Olivia Ferranti.
— Alla fine si guasterà. Ma non subito, spero. — Rinker si produsse in un sonoro sbadiglio. — È stato quasi troppo per me. Mi ci è voluto molto tempo. Sono rimasto lì per quasi cinque minuti senza nessun riposo. Adesso devo andare a dormire.
Vi fu un mormorio di mezze voci solidali. — Speriamo che non si rompa di nuovo durante il viaggio — commentò ancora Garao, anche se in tono non molto convinto.
— Non lo farà — ribatté Rinker. — Non mi aspetto nessun altro guaio durante questo viaggio.
Peron rifletté su quelle parole mentre si allontanava in punta di piedi lungo il corridoio. Le azioni e i commenti di Rinker erano rivelatori, e adesso lui aveva una vaga idea di quello che stava succedendo.
Se aveva ragione, Rinker aveva più guai in vista di quanti ne immaginasse.
Non appena fu fuori portata di udito della sezione della mensa, Peron si rimise a correre alla massima velocità. L’emergenza era finita, e questo significava che i suoi movimenti sarebbero stati controllati di nuovo. C’erano dei monitor perfino dentro le bare?
Raggiunse la camera dell’animazione sospesa ed entrò subito nella stessa cassa che Rinker aveva occupato. Il portello si aprì con l’identico scricchiolio, lui si arrampicò dentro e si distese. Tutti i comandi erano a portata di mano. Avrebbe potuto regolarli semplicemente schiacciando un pulsante. Aveva già scelto. Non voleva S, poiché si trovava già in S-Spazio, e non voleva C (cold) perché quello era il sonno freddo di Elissa e degli altri. Doveva essere N, ma cosa voleva dire N?
Peron si era mosso con la massima velocità, ma adesso esitava. E se il procedimento che aveva trasportato Rinker fuori dall’S-Spazio avesse richiesto conoscenze che a lui mancavano? Era chiaro che gli altri a bordo della nave avevano dei poteri extra, dal momento che i suoi ordini di servizio venivano ignorati… E se l’uso di quel congegno avesse richiesto quegli stessi poteri?
Il tempo passava. La familiare sensazione di vertigine avrebbe potuto coglierlo in qualunque momento, e avrebbe scoperto di trovarsi, ancora una volta, nella sua stanza. Ma il suo dito sfiorava ancora, leggero, il pulsante. Quand’era stato assolutamente certo della morte su Whirlygig, era stato in grado di affrontarla con fermezza, con assoluta calma. Ma questo era diverso. Qualunque cosa potessero fargli Rinker e gli altri, non credeva che l’avrebbero ucciso. Ma adesso avrebbe potuto morire per mano propria. La sua prossima azione avrebbe potuto rivelarsi suicida.
Peron diede un’ultima occhiata alle pareti della bara. Adesso o mai più.
Tirò un lungo, profondo sospiro, chiuse gli occhi e schiacciò il pulsante contrassegnato N.
Nessun cambiamento sconvolgente, nessun precipitare nell’assurdo. Peron si era aspettato un nauseante aggrovigliarsi delle viscere, o forse un insopportabile dolore durante la transizione. Invece, sentì il freddo tocco degli elettrodi alle sue tempie, e il tranquillo spruzzo del fluido sulla sua pelle. Si rilassò e si abbandonò a una quieta meditazione. Durò a lungo e terminò soltanto quando divenne consapevole del battito del proprio cuore, forte nell’intima camera segreta dei suoi orecchi.
Una sensazione di benessere lo stava invadendo, come se si stesse svegliando dal miglior sonno della sua vita. Ebbe la tentazione di rimanere là disteso per un tempo lunghissimo a crogiolarsi in quella sensazione. Ma poi fu colto dall’improvvisa paura di essersi semplicemente addormentato, che non fosse successo nient’altro. Preoccupato, aprì gli occhi e si guardò intorno. L’interno della bara non aveva cambiato la propria configurazione ma, cosa sorprendente, aveva in qualche modo cambiato colore, passando da un giallo-ocra a un pallido arancione. Perfino i suoi indumenti erano diversi, neri invece che marrone.
Si rizzò a sedere, poi si appoggiò a una parete per recuperare l’equilibrio. Si era addormentato in un campo gravitazionale d’un G; adesso era in caduta libera.
Il portello attraverso il quale era entrato non poteva venir chiuso dall’interno. E se l’avessero inseguito? Ben conscio che c’erano ancora delle probabilità che venisse seguito e scoperto, Peron si avvicinò all’altro portello, aiutandosi con le mani e i piedi. Doveva ringraziare il cielo per l’esperienza fatta in caduta libera dopo che avevano lasciato Pentecoste! Adesso si sentiva un po’ strano, ma non c’erano vertigini né sensazioni di nausea.
Il portello si aprì subito. Sgusciò fuori attraverso l’apertura e si chiuse il portello alle spalle. C’era una serratura esterna, e la sistemò in maniera tale che il portello non potesse venir più aperto dall’interno della cassa. Poi si mosse lungo la fila degli altri portelli, e chiuse ognuno di essi nella stessa maniera. Allora, e soltanto allora, si sentì per la prima volta al sicuro.
Si guardò intorno. Stava fluttuando in un lungo corridoio curvo, illuminato dalla luce fioca dei tubi gialli che correvano paralleli alle pareti, e molto lontano, in distanza, poteva udire un sibilo e un sordo borbottio. Andò in quella direzione.
Quando il corridoio girò, si trovò in una stanza quadrata, con una delle pareti del tutto trasparente. Rimase là a lungo, sopraffatto dalla vista dell’universo fuori della nave. La debole foschia luminosa dell’S-Spazio era scomparsa. Invece stava fissando uno scintillante mare di stelle, brillanti come potevano apparire soltanto nello spazio aperto, le vecchie costellazioni familiari erano tutte là, proprio come gli erano apparse dall’orbita intorno a Pentecoste. Gli dettero una bizzarra, rassicurante sensazione. Era ancora vivo, ed era tornato in un universo che lui, forse, comprendeva.
Mentre stava ancora guardando, vi fu un rombo più intenso nel corridoio. Una macchina si stava avvicinando, spostandosi lungo la parete su un invisibile binario magnetico. Il congegno principale era piccolo, grande appena come la sua testa, ma un certo numero di braccia articolate erano ripiegate e incassate nel suo fianco. Peron l’osservò guardingo.
Si muoveva molto lentamente, meno veloce di qualcuno che stesse camminando. Giunta a pochi metri da lui, s’infilò dentro una piccola porta, dentro una parete del corridoio. Peron riconobbe quel tipo di apertura: ce n’erano a centinaia dappertutto nella nave: si trovavano negli alloggi, nella mensa, nella biblioteca, e lui non era stato capace di aprirne neanche una. La macchina non ebbe quel problema. Scivolò dentro liscia come l’olio e scomparve.
Peron continuò per la sua strada. Si trovava in una parte della nave dove non era mai stato prima. Alla fine il passaggio lo condusse a una grande camera, dove si trovavano centinaia di macchine. La maggior parte di esse era immobile, ma di tanto in tanto una, o più, si mettevano in movimento scivolando via per svolgere qualche compito misterioso. Peron seguì un paio di queste macchine. Ognuna alla fine passò attraverso una delle piccole porte che fiancheggiavano i corridoi.
Peron decise che avrebbe dovuto trovare un posto tranquillo in cui pensare. Si spinse più avanti lungo il corridoio, e alla fine scoprì di trovarsi in un tipo diverso di camera. Questa era una dispensa automatica, simile a quella che aveva servito i vincitori del Planetfest durante i loro viaggi in giro per il sistema di Cass. Peron trovò un rubinetto dell’acqua e bevve a fondo. Gozzovigliò nella sensazione pulita di quel liquido puro sulla lingua e sul palato. Per quanto avesse molte specifiche virtù, l’S-Spazio rendeva senza alcun dubbio assai meno interessante il sapore del cibo e delle bevande. Peron impiegò qualche altro istante a studiare la disposizione dei vari congegni, e notò che l’attrezzatura produttiva era diversa da qualunque altra cosa avesse visto nell’altra dispensa. A giudicare dall’aspetto, poteva produrre un menù standard, ma anche qualcosa con degli ingredienti aggiuntivi, sconosciuti.
Mentre guardava, quattro di quei piccoli robot entrarono rotolando nella zona della dispensa. Lo ignorarono. Trasportavano dei piatti, la maggior parte dei quali contenevano ancora i resti di un pasto. Uno di quei piatti attirò il suo sguardo. Conteneva una pietanza speziata ancora intatta. La stessa pietanza che gli era stata servita durante il suo ultimo pasto nell’S-Spazio. La superficie del robot era luccicante di umidità. Peron si avvicinò a una delle piccole macchine e la toccò. Il metallo era freddo come il ghiaccio. Si portò il dito alla bocca e assaggiò il liquido con la lingua. Le gocce erano di acqua comune, condensata dall’aria intorno a lui.
Si sedette sul pavimento, si prese la testa fra le mani, e rifletté. Tutto aveva senso, se fosse riuscito a costringere la sua mente ad accettare un’incredibile possibilità. Ed era una possibilità che finalmente era in grado di controllare da solo.
Peron si alzò in piedi, prese la più pesante zuppiera che riuscì a trovare nella dispensa, e la vibrò con quanta forza poteva contro una delle pareti metalliche. Neppure si deformò. Peron tornò nella camera dove sedevano i robot pazienti, e aspettò fino a quando uno di essi si alzò dalla sua posizione. Poi lo seguì da vicino mentre procedeva lungo uno dei numerosi passaggi che si diramavano dall’apertura centrale. Quando la macchina si girò per passare attraverso una delle piccole porte, Peron era pronto. La porta si aprì e il robot vi sgusciò dentro. Mentre la porta era ancora aperta, Peron incastrò il robusto contenitore metallico dentro l’apertura. Vi fu uno squittio metallico e un lamento di protesta del meccanismo di controllo della porta, ma la porta rimase aperta.
Peron si rannicchiò giù e guardò attraverso la porta.
Fu investito da una gelida corrente d’aria proveniente dal lato opposto. Là dentro la temperatura doveva essere molto prossima al punto di congelamento. Il piccolo robot aveva proseguito per la sua strada, e l’aria più oltre era illuminata soltanto dal più smorto baluginare di luce rossastra che si potesse immaginare.
Peron valutò l’ampiezza della porta con lo sguardo. Ci sarebbe stato giusto lo spazio bastante per consentirgli di passare, sempre che fosse stato disposto a rischiare la pelle delle spalle. Si sfilò la giacca, la spinse davanti a sé e, dimenandosi, passò sull’altro lato.
Là era ancora più freddo e buio di quanto avesse immaginato. Rabbrividì e si strinse la giacca intorno al corpo. A meno che non si fosse procurato altri indumenti, non avrebbe potuto fermarsi là dentro a lungo.
Peron riconobbe la stanza in cui adesso si trovava. Era vicina all’alloggio di Rinker. C’era già stato nel corso delle sue prime esplorazioni della nave. Ma c’era una grande differenza. Invece del campo d’un G, adesso sentiva di essere sempre in caduta libera.
Il piccolo robot era scomparso. Mentre aguzzava gli occhi, lo vide ricomparire in fondo al corridoio. Stava trasportando una bottiglia vuota della bevanda fermentata che Rinker era solito godersi nei suoi pasti solitari. Il robot sì stava avvicinando sempre più. Ancora una volta ignorò Peron. Superò la porta tenuta aperta dalla zuppiera, poi andò verso un’altra porta e con calma passò dall’altra parte. Mentre faceva questo, un paio di altri robot di servizio comparvero sull’altro lato e si misero al lavoro per liberare la porta dall’ostacolo e ripararla.
Peron non rimase ad osservare. Si affrettò a raggiungere l’appartamento di Rinker, dove il capitano sedeva su una poltroncina. Era completamente immobile, con la mano sollevata e la bocca aperta. Peron rimase ad osservarlo per parecchi minuti. Alla fine la mano si avvicinò con estrema lentezza alla bocca aperta. Peron fece un passo avanti e toccò la guancia di Rinker. Era come marmo ghiacciato. Le sue dita puntate a un pollice dagli occhi di Rinker non produssero nessun riflesso, nessun ammiccamento delle palpebre.
Era una prova più che sufficiente. Peron si affrettò ad uscire e si diresse verso la camera di animazione sospesa. Lungo il percorso attraversò la zona della mensa, dove le figure immobili di Garao, della Ferranti e di Atiyah sedevano ancora a tavola, tre sculture perfette di morte congelata.
La camera dell’animazione sospesa era deserta. Peron sostò a lungo davanti alle bare del sonno freddo. Ancora una volta s’interrogò sulle proprie motivazioni. Rischiare la propria vita era una cosa; mettere a repentaglio la vita dei suoi amici era un’altra. Non sarebbe stato forse meglio aspettare fino a quando la nave non fosse arrivata al misterioso Quartier Generale degli Immortali, per vedere come il gruppo sarebbe stato trattato laggiù?
Cercò d’immaginare le risposte che gli altri gli avrebbero dato. Parte della sua mente poteva creare una conversazione simulata con Lum, Kallen, Sy, Elissa e Rosanne.
— Voi non correte nessun pericolo dentro i serbatoi, ed io non sono affatto sicuro di come funziona il processo di rianimazione. Sembra semplice, ma supponete che ci sia un inghippo nascosto? Forse dovrei aspettare per vedere cosa succede una volta che saremo arrivati al Quartier Generale.
Pensò di sentire il loro consenso: — Diavolo, no. Se c’è una cosa che nessuno di noi riesce a sopportare, è che qualcun altro diriga la nostra vita. Tu lo sai. Perché pensi che ci considerassero piantagrane? Procedi. Pianta queste grane! Facci uscire di qui.
Peron si avvicinò a turno a ciascun serbatoio per esaminarlo. I comandi erano tutti identici. Poteva cambiare la regolazione dei quadranti, sulla S o sulla N, e c’era una tabella che indicava la procedura corretta da seguire per ciascuno di essi. Il ritorno dal sonno freddo all’N-spazio era un procedimento piuttosto lungo. Ci sarebbero volute dodici ore. Ma Peron non aveva bisogno di rimanere là a far la guardia per tutto il tempo. Avrebbe cercato indumenti caldi per tutti: Elissa e gli altri erano completamente nudi, salvo per la sottile pellicola bianca che li copriva. Poi, avrebbe potuto aprire un’altra porta incastrandola, e tornare nell’area più calda dove vivevano i robot ed era situata la dispensa.
Considerò la possibilità di erigere una barricata davanti alla porta che conduceva nella camera dell’animazione sospesa, poi decise che non sarebbe stato necessario. Se le cose fossero andate secondo i piani, il suo lavoro sarebbe finito prima che Rinker e gli altri potessero interferire.
Prima Elissa. Non vedeva l’ora di rivederla, di poterle parlare di nuovo. Gli ci vollero soltanto pochi istanti per cambiare la regolazione e schiacciare i comandi di Inizio. Peron sbirciò ansioso attraverso la sommità trasparente del serbatoio. C’era un ronzio di motori all’interno della bara, e dopo pochi istanti un vapore giallo cominciò a riempirlo. Elissa, e ogni altra cosa là dentro, divennero ben presto invisibili. Trepidante, Peron passò da un serbatoio all’altro, regolandoli sulle condizioni che avrebbero dovuto riportare tutti i suoi amici alla coscienza, facendoli uscire dal sonno freddo.
Per Elissa, l’orrore era cominciato quando aveva visto le condizioni della tuta di Peron. La superficie ruvida di Whirlygig l’aveva lacerata e forata, al punto da rendere del tutto inefficace la sua protezione termica. Le temperature esterne davano per certo che Peron non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere.
Ma il loro dolore per la sorte di Peron aveva avuto appena il tempo di manifestarsi quando Wilmer aveva preso il comando. Perfino la fiducia in se stesso di Lum e la remota aria di superiorità di Sy erano state spazzate via dalla risoluta certezza dell’altro.
Lei, come tutti gli altri, aveva fatto tutto ciò che Wilmer aveva chiesto, e senza far domande.
Per prima cosa, era stata creata un’atmosfera respirabile all’interno della cupola. Poi lei e Kallen avevano sfilato delicatamente Peron fuori della tuta e degli indumenti interni. La sua pelle si era scurita e le sue vene risaltavano sopra di essa. Elissa si era chinata su di lui. Non era riuscita a cogliere il minimo segno di respirazione. Gli aveva tastato il polso, senza percepire alcun battito. Il polso e la gola di Peron erano gelidi come il ghiaccio, al tocco della sua mano priva di guanto.
— Dammi una mano per girarlo — aveva detto Wilmer. — È necessario che stia a faccia in giù. Bene, adesso vai ad aiutare Lum e regolare i comandi della temperatura. Devono essere ancora funzionanti… e non credo che tu voglia guardare quello che sto per fare.
Elissa aveva guardato lo stesso, incapace di staccarsi da lì. Wilmer si era tolto i guanti della tuta e aveva chiuso le proprie mani in un materiale sottile e vetroso che si sagomò sulla sua pelle aderendovi in modo perfetto. Piegò le dita alcune volte, saggiando se erano pronte, poi estrasse un bisturi d’argento dalla sua valigetta verde. Esegui con precisione alcune incisioni alla base del collo di Peron e all’estremità inferiore della colonna vertebrale. Qui vennero inseriti dei sottili e luccicanti cateteri. Sistemati all’ingresso di ciascuna apertura, vi s’insinuarono dentro senza nessun altro intervento da parte di Wilmer, penetrando in profondità dentro il corpo di Peron. Wilmer sistemò una maschera facciale sopra il naso e la bocca di Peron, e la collegò a un piccolo cilindro grigioazzurro. Aprì una valvola ed Elissa udì il sibilo del gas.
La temperatura della cupola era salita un po’. Wilmer aprì la visiera e annusò l’aria.
— Caldo abbastanza — osservò. — Suggerisco che apriamo le nostre visiere e conserviamo l’aria delle tute, potremmo averne bisogno.
Tirò fuori un altro cilindro dalla valigetta. — Ecco. — Lo porse a Elissa. — Questo migliorerà l’atmosfera. Immetto questo nell’impianto centrale per la circolazione dell’aria nella cupola. Poi potremo togliere la maschera dal viso di Peron.
— È vivo?
— Per il momento, sì. Ma è ancora in pericolo.
Elissa prese il cilindro, andò all’unità di circolazione dell’aria e ve lo inserì. Ruppe l’ugello. A tutta prima parve che non fosse successo niente. Poi l’aria gelida della cupola si appesantì d’un profumo intenso, come se l’ossigeno che vi era contenuto venisse risucchiato via. Elissa si voltò verso Wilmer corrugando la fronte. Notò che aveva chiuso la visiera della sua tuta. Avrebbe voluto chiedergli cosa mai stesse facendo, ma non riuscì a esprimere a voce il proprio pensiero. Il momento si allungò. Wilmer era immobile, guardava e aspettava. Elissa provò un’ultima, strana sensazione di distacco, come se si stesse sollevando verso il soffitto della cupola, lasciandosi il corpo alle spalle.
E adesso… si stava svegliando… e trovò Peron in piedi, chino sopra di lei, che la fissava con ansia. Sbatté le palpebre per schiarire l’immagine sfocata.
— Elissa? Stai bene?
Le passò un braccio intorno alle spalle e la tirò su, per metterla in posizione seduta. Elissa fu colta da un tremito incontrollabile, in preda a un miscuglio di emozioni e di gelo. Abbassò lo sguardo su di sé. Nella cupola aveva indossato abiti termici, adesso era nuda salvo una membrana trasparente di tessuto sottile.
Dov’era? Com’era arrivata là? Si sforzò di pensare con chiarezza. Nel momento del risveglio era difficile essere logici. E che importanza aveva la logica? Peron era là, vivo. Si sentiva strana, gelata ma con la testa leggera e la voglia di mettersi a ridere. Le spiegazioni potevano aspettare qualche altro istante. Si accoccolò tra le braccia di Peron.
— Sono qui — disse. Tutto era piacevole e immensamente divertente. — Ma, Peron, ho freddo.
— Bene, ti stai svegliando. — Peron le indicò un assortimento d’indumenti ammucchiati al suo fianco. — Prendi quelli che ti vanno bene. Devo andare a vedere come se la cavano gli altri.
— Peron! — Elissa rabbrividì, poi tese le braccia e gratificò Peron di un abbraccio forte a sufficienza per far scricchiolare le costole di entrambi. — Spiegami. Cosa è successo?
— Te lo dirò più tardi. — Le restituì l’abbraccio con gli interessi. — Vieni. Potrei aver bisogno di aiuto per tirar fuori Lum. Avrebbero potuto chiamarlo Lump.
Elissa frugò nel mucchio e trovò una tuta adatta per lei, mentre Peron apriva il portello del serbatoio accanto e faceva del suo meglio per tirar fuori il suo occupante. Vi fu una buona dose di grugniti e d’imprecazioni. Lum era semicosciente, e offriva un mucchio di resistenza disorganizzata.
— Ecco. Lascia che ci riprovi. — Elissa girò sull’altro lato e si sporse in avanti. Strinse i capelli di Lum e diede ad essi un robusto strattone. Lum si rizzò a sedere di scatto, stralunò gli occhi e lanciò un grido di protesta.
— Non c’è bisogno di far così. Sono sveglio. — I suoi occhi si chiusero e cominciò a riaffondare. — Tutto a posto. Sono sveglio, un minuto e sarò in piedi.
— Tiragli di nuovo i capelli e poi dagli una mano a vestirsi — disse a Peron. — Vedi se riesci a trovare qualcosa di abbastanza grande per lui. Adesso tocca a Kallen, ma scommetto che sarà più facile. Rosanne mi ha detto che Lum dorme come un morto anche in condizioni normali.
Pochi minuti ancora e Rosanne e Kallen vennero risvegliati, sia pure con qualche residuo d’intontimento. Peron li lasciò tutti sospirosi e tremanti a cercarsi qualche indumento caldo. Sy subì il procedimento per ultimo. Passò in un istante dal sonno alla massima attenzione. Proprio mentre i suoi occhi si aprivano si contorse di lato come un gatto, disponendo il corpo in posizione difensiva.
— Rilassati — esclamò Peron. — Sei con amici.
Sy rivolse a Peron un fugace, incredula occhiata, poi si guardò intorno. — Dove sono? L’ultima cosa che ricordo è che eravamo nella cupola su Whirlygig. Cos’è successo?
— È una lunga storia. Indossa qualcosa e seguimi. Vi spiegherò per strada.
Peron li guidò fino alla mensa, dove la dottoressa Ferranti e gli altri stavano finalmente mostrando segni di movimento. Garao era a metà strada verso la porta, con un piede sollevato dal pavimento.
— Volevo che ognuno vedesse questo con i propri occhi, per risparmiare ogni discussione — dichiarò Peron. — Altrimenti avreste potuto dirmi che avevo masticato erba dillason. Quattordici ore fa ero anch’io in quella condizione. Quello è l’S-Spazio. Vi ricordate quanto ci aveva turbato l’idea che gli Immortali potessero raggiungere le stelle nel giro di qualche giorno?
— Non riesco ancora a crederci — disse Sy. — Non possono superare la velocità della luce.
— Hai ragione, ma hai anche torto. Qui c’è una domanda per tutti voi. Quanto percorre la luce in un secondo? O in un anno?
Vi fu un breve silenzio.
— Tutti conosciamo le risposte — disse Rosanne. — Perciò suppongo che sia una domanda trabocchetto.
— In un certo senso… sì — ammise Peron. — La risposta dipende dalla vostra definizione di secondo o di anno. Abbiamo pensato all’S-Spazio in maniera del tutto sbagliata. Non è una specie di universo parallelo, o iperspazio. È lo stesso spazio nel quale viviamo. Ma l’S-Spazio, è uno stato di percezione mutata. Se ne volete una prova, guardate questi individui.
Kallen aveva osservato Olivia Ferranti con molta attenzione. — Sembra priva di sensi — dichiarò con voce sommessa. — E la sua pelle è fredda. Ma ha gli occhi aperti. Sono vivi, questo è chiaro. Sono in ibernazione?
— No. Ognuno di loro è del tutto cosciente. In quelle condizioni ti senti normale, salvo per qualche sottile differenza. Ma il loro metabolismo è stato rallentato in modo drastico, duemila volte più lento del normale. È l’S-Spazio e cambia la tua percezione d’ogni cosa. Durante uno dei nostri secondi la luce percorre trecentomila chilometri. In uno dei loro, percorre seicento milioni di chilometri. Per noi, Sol dista diciotto anni-luce. È per questo che abbiamo sentito dire che gli Immortali possono viaggiare tra le stelle in pochi giorni: i loro giorni. Il loro tempo passa tanto lentamente che quello che a noi sembra un giorno per loro è meno di un minuto.
Peron si avvicinò a Garao e lentamente fece passre la mano davanti al suo viso. — Visto? Non sanno neppure che noi siamo qua. — Si avvicinò alla figura in apparenza immobile di Atiyah, tolse la cintura dal ventre panciuto dell’uomo, e l’avvolse intorno al collo di Olivia Ferranti. — Fra circa venti minuti lui si accorgerà che gli manca la cintura. Fra un’altra ora del nostro tempo comincierà a chiedersi dove sia finita. Ci vorrà un’altra ora prima che possa far qualcosa per riaverla.
Gli altri fecero le loro indagini, tastando la pelle e toccando i capelli.
— In che modo sono arrivati in questo stato? — domandò Lum.
— Nella stessa maniera in cui ci sono arrivato io, quando Wilmer mi ha operato là su Whirlygig. So che questa risposta non è un granché, ma è la migliore che posso darti. Dev’esserci un trattamento complesso, ma ormai abbastanza standardizzato, ed è del tutto reversibile. Io sono passato da uno stato all’altro, e così ha fatto il capitano Rinker. Ha dovuto ritornare alla vita normale per riparare un guasto meccanico della nave. La nave, sì… adesso diamoci un’occhiata. Sono informazioni di cui più tardi avremo tutti bisogno.
Peron li ricondusse attraverso la camera dell’animazione sospesa. Mentre procedevano, rispose al torrente impetuoso delle loro domande. La nave sulla quale stavano viaggiando si trovava nelle profondità dello spazio interstellare, diretta al Quartier Generale degli Immortali. Il Quartier Generale era lontano da qualsiasi sole o pianeta, un intero anno-luce di distanza dal sistema di Cass. Si stavano muovendo soltanto ad una frazione della velocità della luce, forse a non più di un decimo. Su Pentecoste, durante il loro viaggio, sarebbero passati quasi dieci anni.
Gli altri vincitori del Planetfest non erano a bordo. Il loro destino poteva soltanto essere oggetto d’ipotesi, ma Peron pensava che si trovassero tutti ancora nel sistema di Cass. Era probabile che vivessero sulla Nave. Era là che vivevano gli Immortali, nel sistema di Cass. Gli altri vincitori sarebbero diventati con ogni probabilità anch’essi Immortali, dopo una qualche forma d’indottrinamento. Avrebbero preferito vivere nell’S-Spazio per l’arco di vita soggettivo più lungo che offriva, e sarebbero tornati alla vita normale come aveva fatto Wilmer soltanto per incarichi speciali.
— Quanto vive un Immortale? — chiese Sy. — È ovvio che nessuno può essere davvero immortale.
— Millesettecento anni.
Vi fu un altro lungo silenzio. Infine Elissa intervenne: — Intendi dire millesettecento anni soggettivi? Sono duemila volte millesettecento anni normali su Pentecoste: tre milioni e quattrocentomila. Vivono tre milioni e quattrocentomila anni!
— Proprio così — esclamò Peron, in allegria. Abituarsi a quell’idea non era stato facile, e fu lieto di vedere che gli altri avevano la stessa reazione. — Naturalmente è soltanto un’ipotesi. Come la dottoressa Ferranti mi ha fatto notare, possono soltanto fare una stima di quello che può essere l’arco di un’intera vita, poiché nessuno l’ha ancora vissuta per intero. Sono passati soltanto ventimila anni o giù di lì da quando abbiamo lasciato la Terra, e là nessuno viveva nell’S-Spazio.
— Ma gli effetti collaterali — obbiettò Elissa. — Quando effettui un cambiamento così profondo…
— Ne conosco soltanto un paio — rispose Peron. Si passò le mani fra i capelli. — Vedi? Hanno smesso di crescere, e credo che, nell’S-Spazio, cominciassi già a perderli. Farai meglio a prepararti a perdere quelle splendide ciocche, Elissa. Credo che quando si cambiano i ritmi metabolici per un po’, si diventi calvi. È quello che è successo a Wilmer e agli altri contendenti incontrati da Kallen. Là su Whirlygig non riuscivo a crederci, quando Wilmer mi disse di essersi già trovato nei guai proprio là, trecento anni prima. Ma adesso la cosa ha senso. Quelli erano pochi mesi nell’S-Spazio. È vissuto là fino a quando non si è unito a noi nel Planetfest. Per lui cento anni su Pentecoste erano soltanto poche settimane.
— Questo spiegherebbe perché abbiamo visto soltanto dei video dei vincitori precedenti — disse Lum. — Non sono tornati su Pentecoste. Ma i video non presentano nessun problema. Potevano registrarli alla velocità dell’S-Spazio, per poi accelerarli così da farli apparire normali. Comparire di persona sarebbe stato impossibile, a meno che non fossero tornati nel tempo normale, che viene chiamato N-Spazio.
— E sarebbero riluttanti a farlo — annuì Peron. — Perdono i vantaggi di una vita prolungata, quando lasciano l’S-Spazio. Là bisogna mangiare cibi speciali, e non ci si sente del tutto normali. Ma gli esseri umani sono disposti a sopportare parecchio pur di aumentare il proprio arco di vita soggettivo d’un fattore di venti.
Erano di nuovo nella camera dell’animazione sospesa. Peron li condusse dentro una delle bare per poi uscire sul lato opposto, usandola come un percorso conveniente per accedere agli altri settori della nave. Vi fu un sostanziale cambiamento di temperatura quando passarono attraverso il serbatoio dell’animazione sospesa, e tutti si slacciarono gli indumenti caldi.
— Vi dirò qual è la cosa che non riesco ancora a capire — riprese Peron. — Quando mi trovavo nell’S-Spazio, mi era parso di trovarmi in un ambiente di un G. Adesso ci troviamo esattamente nella stessa parte della nave, ma ci troviamo in caduta libera e non vedo come questo possa accadere.
Vi fu silenzio per un po’, poi Kallen dette in un colpetto di tosse. — L’effetto del quadrato di T! — disse con voce sommessa.
— Cosa?
— Ha ragione — interloquì Sy con calma. — Bravo, Kallen. Non capisci quello che ha detto, Peron? L’accelerazione comporta il quadrato del tempo: la distanza divisa per i secondi al quadrato. Cambia la definizione di secondo, e naturalmente cambia la velocità percepita. È per questo che possono percorrere anni-luce in quelli che loro considerano pochi giorni. Ma così cambi anche l’accelerazione percepita, e la cambi perfino di più. Per il quadrato della velocità relativa del tempo…
— … il che è un’altra ragione per cui gli Immortali non scendono sulla superficie dei pianeti — aggiunse Lum. — Vogliono passare il loro tempo nell’S-Spazio per aumentare il loro arco di vita soggettivo, ma di conseguenza questo li costringe a vivere in un’accelerazione molto debole. Non possono sopportare la gravità.
— Neppure un campo debole — aggiunse Elissa. — Cadrebbero ancora prima di sapere di aver perso l’equilibrio. Cos’hai detto che era, il fattore tempo? Duemila o uno? Allora perfino un milionesimo di gravità verrebbe percepito da loro come un campo di quattro G. Devono vivere in caduta libera, non hanno altra scelta. Ma percepiscono perfino un quattromilionesimo di G come gravità normale.
Peron si guardò intorno disgustato. — Va bene. Così tutti l’han capito con facilità, tranne il sottoscritto. Proviamone un’altra. Ditemi cosa succede fuori della nave. Un motivo per il quale all’inizio avevo pensato che l’S-Spazio fosse una specie d’iperspazio era la visuale dagli oblò. Quando si guarda fuori, non si vedono affatto le stelle. Tutto quello che si vede è una debole foschia luminosa. È giallo-bianca e si stende dappertutto fuori della nave.
Questa volta non ci fu neanche un minimo istante di pausa.
— Spostamento di frequenza — disse immediatamente Sy. — Vediamo. Duemila ad uno. Perciò le lunghezze d’onda che i tuoi occhi potevano vedere dovevano essere duemila volte più lunghe. Invece della luce gialla di λ mezzo micrometro, vedevi il giallo su una lunghezza d’onda di un millimetro. Questo, dove ci porta?
Vi fu silenzio.
— Il Big Bang — bisbigliò Kallen.
— La radiazione cosmica di fondo a tre gradi assoluti — disse Rosanne. — Dio mio, Peron, tu hai visto la radiazione rimasta dall’inizio dell’universo, sì, l’hai proprio vista direttamente con i tuoi occhi.
— Ed è uniforme e isotropica — aggiunse Lum. — È per questo che appariva come una foschia uniforme. A quella lunghezza d’onda non si ricevono segnali forti dalle stelle o dalle nebulose, soltanto un campo continuo.
Peron guardò Elissa. — Non dire niente. Mi diresti che anche questo è ovvio. Sì, immagino che lo sia. Ma era assai più disorientante, quando non avevo nessuna idea che avevo in realtà a che fare con una differenza nelle velocità del tempo. Non riuscivo a immaginare dove potessi trovarmi perché l’universo mi apparisse in quel modo. Ecco: cimentatevi con qualcos’altro. Questa volta credo di sapere quello che succede, ma mi serve aiuto, in special modo da parte di Sy e di Kallen. Siete voi i nostri specialisti di computer.
Li ricondusse lungo gli stretti corridoi fino alla camera dove i robot aspettavano pazienti in file silenziose. Gli altri osservarono guardinghi tre delle piccole macchine che si animavano e scivolavano davanti a loro imboccando il corridoio.
— Non preoccupatevi — li rassicurò Peron. — Non si muovono abbastanza veloci per essere pericolosi. Facciamo sempre in tempo a toglierci di mezzo, e possiamo perfino spostarli, quand’è necessario. Sono l’equipaggio addetto alla manutenzione della nave. Tutte le funzioni normali sono automatiche e sotto controllo computerizzato. Una sola persona può dirigere tutto, e perfino essa può rivelarsi inutile, salvo i casi di emergenza. Quando mi sono trovato per la prima volta nell’S-Spazio pensavo di stare impazzendo. E queste macchine ne costituivano per buona parte il motivo. Le persone a bordo della nave potevano far accadere le cose come per magia. Chiedevano che qualcosa venisse fatto, oppure chiedevano di venir portati da qualche parte, e questo veniva compiuto all’istante. — Peron fece schioccare le dita. — Così. Ho cercato di fare la stessa cosa, ma non funziona per me. Quando ho raggiunto questa camera e ho visto i robot, ho capito finalmente quello che succedeva. Le macchine reagivano ai comandi impartiti dagli esseri umani nell’S-Spazio. Il computer della nave dev’essere programmato per ricevere attraverso i terminali le voci codificate. Quando viene impartito un ordine da parte di qualcuno la cui voce viene riconosciuta e accettata dal sistema, il computer mette in moto i robot per eseguire le istruzioni. I robot non si muovono troppo velocemente, ma non devono farlo. Sono abbastanza veloci da essere invisibili nell’S-Spazio. Anche se i robot impiegano dieci minuti a portarti una bevanda, o per trasportarti da una parte all’altra della nave, non te ne accorgi. Per come la percepisci tu, è soltanto una frazione di secondo.
Gli altri si erano avvicinati un po’ di più alla fila dei robot e li stavano ispezionando con curiosità.
— Sembrano tutti fabbricati in serie — commentò Sy. — Non avevo mai visto questo modello prima d’oggi, ma sono controllati dal computer. Dovremmo essere in grado di capire la procedura delle loro istruzioni.
— Ma perché? — chiese Rosanne. — Una volta che l’avremo capita, ammesso che ci riusciamo, come dovremmo utilizzarla?
— Vogliamo penetrare il codice — disse Peron. — Cambiarlo. Trasformarlo, in modo che anche le nostre voci possano impartire comandi accettabili. E forse fare in modo che il sistema non risponda alla voce del capitano Rinker e degli altri nell’S-Spazio.
— Ma a cosa servirà tutto questo? — chiese Elissa. Pareva perplessa.
Lum la guardò sogghignando. — Non è ovvio? — Si rivolse a Peron. — Ho capito giusto, vero? Rinker ha ragione, Peron, sei un piantagrane. Hai intenzione d’impadronirti di questa nave. Poi potremo andare a far visita al Quartier Generale degli Immortali, dovunque si trovi, e imporre i nostri termini.
Olivia Ferranti sbatté le palpebre. La trama dell’illuminazione le parve un po’ diversa, non proprio come la ricordava prima di accedere l’ultima volta nell’S-Spazio; e il suo corpo era leggero, tendeva a galleggiar via, come se avesse abbandonato parte di se stessa sul pavimento imbottito del contenitore.
Rabbrividì e lentamente si rizzò a sedere, sfregandosi gli avambracci intirizziti; poi, d’un tratto, con un sussulto si svegliò del tutto. La stavano osservando. Cinque facce la stavano scrutando guardinghe attraverso il coperchio trasparente del serbatoio dell’animazione sospesa. Si tirò in avanti fino al portello della bara e l’aprì. Peron era là in piedi e la stava osservando, nervoso.
— Avete letto il nostro messaggio? — chiese.
— Certo. Ci stavate osservando, non è vero?
Peron annuì. — Vi abbiamo detto di mandare qualcuno subito. Mi pare che abbiate impiegato un’infinità di tempo.
Olivia Ferranti respirava a fondo, adattandosi al sapore familiare ma sorprendente dell’aria nei suoi polmoni. Scrollò le spalle, più per saggiare i muscoli che per trasmettere un messaggio corporeo.
— Quattro giorni, quattro giorni qui. Ma abbiamo parlato soltanto per pochi minuti nell’S-Spazio. Io la chiamo una reazione veloce. — Guardò Peron e gli altri intorno a sé. — Rilassatevi. Sono stata mandata qua soltanto per parlare. Cosa pensate che abbia intenzione di fare? Stendervi tutti e legarvi? Chiunque di voi potrebbe battermi in combattimento. Siete i vincitori del Planetfest, non lo ricordate?
— Sì, lo ricordiamo — rispose Peron. — Vogliamo esser sicuri che te ne ricordi anche tu. Tu e gli altri. Perché sei venuta tu, e non Rinker?
— Ha fatto la transizione molto di recente, soltanto un paio d’ore fa, quando i sistemi automatici funzionavano male. Le transizioni troppo ravvicinate fanno dei brutti effetti. In realtà, le transizioni frequenti accorciano la vita soggettiva presunta. E inoltre, Rinker non si fida di voi.
Si leccò le labbra, poi proseguì. — Immagino che Rinker pensi che io sia più sacrificabile. Ascoltate, so che avete fretta di parlare, ma vorrei bere un po’ d’acqua.
Peron lanciò una breve occhiata agli altri, poi li guidò di nuovo lungo il serpeggiante corridoio, conducendoli un’altra volta fino alla camera centrale della nave, adibita alla produzione del cibo.
— In realtà, Rinker voleva che nessuno vi parlasse — continuò la Ferranti mentre procedevano lungo il corridoio. — Ma ha ammesso che non c’era scelta. «Saranno come una banda di scimmie selvagge» ha detto. «Si metteranno a giocherellare con la mia nave! Non sanno niente su come funziona, mio Dio, non c’è modo di sapere quello che potrebbero fare alla nave e a noi!».
Guardò intorno a sé i giovani volti attenti che sorvegliavano da vicino ogni suo movimento. — Devo dire che non posso fare a meno di essere d’accordo con lui. Al momento, vi state dando un sacco di arie, con l’impressione di avere tutto sotto controllo. Ma potreste distruggere questa nave per puro caso. Fa paura. Siete bravi, intelligenti, ma ci sono troppe cose che semplicemente non sapete.
— Allora perché non dircene qualcuna? — chiese Sy, in tono burbero. — Scoprirai che impariamo in fretta.
— Si suppone che io non vi dica molto, e ci sono cose che neppure io so. E prima che vi prenda la paranoia perché non vi rivelo queste cose, ve ne dirò la ragione. Esiste una logica valida per la quale non vi è stato detto tutto su Whirlygig.
Avevano raggiunto la dispensa. Olivia Ferranti si chinò su un rubinetto, bevve a lungo e con comodo, poi sospirò e scosse la testa.
— È una delle cose di cui sento davvero la mancanza. L’acqua non ha il sapore giusto nell’S-Spazio. — Si voltò verso il gruppo. — Quanto sapete della storia della vostra civiltà, su Pentecoste?
— Sappiamo che i primi coloni scesero dalla Nave — rispose Peron. — Veniva chiamata Eleonora, ed era partita da un pianeta chiamato Terra molte migliaia di anni prima.
— Questo è un inizio. — Olivia Ferranti si sistemò a gambe incrociate, fluttuando alla distanza di un palmo dal pavimento, e fece segno agli altri di raccogliersi intorno a lei. — E se siete come la maggior parte dei candidati che riceviamo da Pentecoste per l’indottrinamento, allora sarà quasi tutto quello che conoscete. Perciò, mettetevi pure comodi. Dovrò farvi una piccola lezione di storia. Forse, una parte di essa non vi piacerà troppo, ma portate pazienza.
«Eleonora era la più grande e la più progredita di una mezza dozzina di arcologie che erano state costruite come navi-colonia nel sistema di Sol, più di venticinquemila anni terrestri or sono. Le arcologie erano state tutte assemblate in orbite vicino alla Terra. Proprio quando Eleonora era prossima al completamento, e i coloni erano arrivati a bordo di essa, le nazioni giù sulla Terra fecero ciò che tutti noi, da molte generazioni, temevamo che facessero. Impazzirono. Qualcuno tirò il grilletto, e quando questo accadde non ci fu più nessun modo per fermare la catastrofe. Fu una guerra nucleare su scala planetaria.
«Quando scoppiò quella guerra, circa trentacinquemila persone vivevano lontano dalla Terra. Lavoravano nelle miniere e nell’edilizia spaziale, oppure sui satelliti o sulle stazioni di ricerca. Eravamo tutti impotenti, mentre guardavamo il mondo esplodere davanti ai nostri occhi. E a tutta prima nessuno di noi seppe cosa fare. Eravamo storditi dallo shock e dal terrore.
— Hai detto «eravamo». Vuoi dire che eri là anche tu? — chiese Elissa.
— C’ero, io in persona. Ero un medico su una delle stazioni spaziali orbitanti. — Olivia Ferranti scosse la testa e si sfregò delicatamente gli occhi. Pareva stesse guardando qualcosa molto oltre il cerchio dei suoi ascoltatori; lontano, attraverso lo spazio e il tempo, vedeva la morte di un pianeta.
— All’inizio non riuscimmo davvero a crederci. La Terra non poteva essersi distrutta così. Sapevamo che sulla superficie doveva essere stato terribile, poiché avevamo visto l’intero globo cambiare nel giro di poche ore da uno splendida sfera di colore azzurro-verde a un grumo scuro nero-violaceo, e i pennacchi di fumo si erano levati fin dentro la stratosfera. Anche così l’accettazione emotiva andava al di là delle nostre capacità. In qualche modo, superando ogni logica, credemmo che il danno fosse temporaneo e che le nazioni sulla superficie della Terra si sarebbero riprese. Aspettammo di ricevere segnali radio da gruppi di sopravvissuti, messaggi che ci dicessero che la civiltà continuava ancora ad esistere sotto quelle nubi buie di polvere e fumo. Ma i segnali non giunsero, mai. Dopo alcune settimane mandammo giù delle navette, dentro l’atmosfera, schermate contro gli alti livelli di radioattività e concepite per calarsi al di sotto delle nuvole ad esaminare la superficie. C’era tanta polvere nell’emisfero settentrionale che non riuscimmo a vedere niente, neppure alle quote più basse. Tentammo a sud dell’equatore, e dopo un paio di mesi ottenemmo la risposta definitiva. Era la fine.
«Sapevamo di non poter escludere la possibilità che ci fossero dei sopravvissuti isolati, che si aggrappavano all’esistenza laggiù nella tenebra. Ma a mano a mano che il tempo passava, anche quella speranza pareva sempre meno probabile.
«Alcune piante sarebbero sopravvissute, questo lo sapevamo; ed eravamo certi che ci sarebbe stata vita nei mari, ma non avevamo nessuna idea di quanta ce ne potesse essere; cercammo di calcolare cosa sarebbe successo all’intera catena alimentare con la fotosintesi ridotta a un decimo dei consueti valori, ma non avevamo nessuna fede nelle nostre risposte. Comunque, non faceva molta differenza. Per l’umanità sulla Terra era la fine, e ci parve che fosse la fine anche per noi. Sembravamo un manipolo di lamentatrici che girassero intorno alla pira funeraria di tutti i nostri amici e parenti.
«Eravamo troppo sconvolti per pensare in maniera logica, ma eravamo di certo più numerosi d’un manipolo. Come ho già detto, eravamo trentacinquemila, con una leggera preponderanza degli uomini sulle donne. E avevamo a disposizione materiali ed energia in abbondanza. Non c’era dubbio che avremmo potuto sopravvivere molto bene se avessimo messo insieme le nostre risorse e avessimo lavorato tutti insieme. Sapevamo che ci sarebbero voluti secoli prima che la Terra potesse venir rivisitata e ripopolata, ma non c’era nessuna ragione perché non potessimo proseguire indefinitamente come una società stabile e nata per lo spazio.
La Ferranti se ne uscì in un amaro sorriso. — Lo sa Dio come molti di noi avessero detto da tempo che era proprio questo che volevamo. Poi, quando non ci fu per noi più nessuna scelta, la maggior parte di noi, nei propri sogni, s’immaginò di nuovo sulla Terra.
«Noi esseri umani abbiamo se non altro una buona qualità: dimentichiamo. La disperazione non può durare per sempre. Ci riprendemmo a poco a poco, e cominciammo di nuovo a pensare. Sulla Stazione Salter riuscimmo infine ad organizzare una conferenza radio con tutti gli altri gruppi nello spazio. Fu difficile a realizzarsi perché una delle arcologie era già fuori nello spazio nei pressi di Marte, e avevamo dei lunghi intervalli radio. Ma collegammo tutti ai circuiti: tutte le arcologie, i gruppi addetti all’estrazione mineraria che stavano affinando i metalli dell’asteroide Eros, e gli scienziati che stavano costruendo la stazione sul lato opposto della luna della Terra. Ogni cosa nello spazio era sempre stata controllata dalla Stazione Salter, perciò ci sembrò naturale essere ancora noi gli organizzatori.
«Naturale per noi, sulla Stazione Salter, ma gli altri non la pensavano così.
«Le arcologie erano state predisposte per essere quanto più possibile autosufficienti, con centrali elettriche indipendenti e sistemi di riciclaggio da prova del nove. Gli altri impianti spaziali erano diversi, dipendevano dai rifornimenti inviati dalla Terra, oppure dalle risorse spaziali fornite dalle industrie minerarie ed estrattive.
«La prima seduta di pianificazione per la messa in comune delle risorse andò liscia. Vi parteciparono tutti. Ma quando giunse il momento di agire, tre delle arcologie si ritirarono. Credo che ognuna di esse abbia agito in maniera indipendente, senza nessuna discussione tra loro. Temevano, capite, che il gruppo nella sua totalità non fosse in grado di autosostentarsi in modo stabile, anche se non avevano nessun dubbio sulle proprie capacità di sopravvivere. C’erano anche altre ragioni. Sin dall’inizio le arcologie avevano sviluppato le proprie preferenze e differenze politiche. I simili attirano i simili: i coloni tendevano a chiedere di venir assegnati allo stesso luogo dei loro amici, evitando come la peste un’altra colonia in cui i loro punti di vista sarebbero stati messi in ridicolo, o comunque in minoranza. L’ultima cosa che volevano Helena, Melissa ed Eleonora era una fusione con la Stazione Salter e le altre arcologie. Non ammisero mai che non avrebbero cooperato; semplicemente si limitarono a interrompere ogni contatto radio e si allontanarono ancora di più dalla Terra.
«Il resto di noi s’infuriò con loro, ma finimmo per non pensarci più che tanto, al contrario di quanto potreste credere. Per i primi anni, avevamo fin troppo da fare, anche senza di loro. Dovevamo instaurare un nostro sistema quanto più possibile autosufficiente e a prova di errore. Questo richiese il novantanove per cento delle nostre energie. E gli altri si dedicarono al lavoro di ricerca sulla sopravvivenza in condizioni di metabolismo ridotto, quella che alla fine chiamammo esistenza nell’S-Spazio. Come medico, ero ovviamente interessata a questo, e dopo un po’ finii per dedicarmi esclusivamente ad essa. Entro un paio di mesi, dopo i primi esperimenti con soggetti umani sulla Stazione Salter, fu chiaro che ci eravamo imbattuti in qualcosa di assolutamente rivoluzionario, qualcosa che cambiò tutte le nostre idee sulla percezione e sulla consapevolezza umana. Ma furono necessari parecchi altri anni prima che comprendessimo le altre implicazioni. Grazie al nostro lavoro l’umanità aveva trovato una facile via per arrivare alle stelle. «Non c’era nessun bisogno di arcologie multigenerazionali, o di una propulsione più veloce della luce…
— … che appare impossibile — mormorò Sy.
— … che potrebbe essere impossibile — ribatté la dottoressa. — Tieni la mente aperta. Comunque, non ci servivano più. Le ricerche sulla propulsione compiute alla Stazione Salter ci permettevano già di accelerare una nave a più di un decimo della velocità della luce, e questo era sufficiente. Nel Modo Due della consapevolezza, l’S-Spazio, un essere umano poteva restare del tutto cosciente, vivere una vita estesa soggettiva, e attraversare l’intera Galassia nel singolo arco d’una vita.
«Ciò portò a una nuova crisi. Tutti si estasiavano all’idea d’un arco di vita esteso, purché fosse sicuro. Ma tutti avevano terrore dei possibili effetti collaterali.
«Ci dividemmo in due gruppi. Alcuni di noi dissero, spostiamoci nell’S-Spazio e aspettiamo là fino a quando la Terra non sarà almeno abitabile. Nessuno sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto, ma nell’S-Spazio potevamo permetterci di aspettare secoli, percependoli soltanto come poche settimane. Altri ebbero paura. Argomentarono che c’erano troppe incognite e troppi rischi a vivere nell’S-Spazio, fino a quando questi non fossero stati identificati era meglio rimanere con le nostre percezioni normali.
Olivia Ferranti li guardò con un mesto sorriso. — Come poi risultò, entrambi i gruppi avevano ragione. La Terra si riprese lentamente. Ci vollero più di mille anni perché si sviluppassero piante nuove e stabili e comunità animali. Nessuno di noi aveva mai pensato che ci sarebbe voluto tanto tempo. E contemporaneamente stavano scoprendo serie conseguenze fisiche provocate dalla vita nell’S-Spazio.
«Per fortuna non litigammo a causa delle nostre divergenze d’opinione relative al trasferimento nell’S-Spazio. Forse la distruzione della Terra aveva insegnato a tutti noi qualcosa sulla necessità di risolvere in modo pacifico i conflitti. Ci accordammo per perseguire entrambe le linee di condotta. La maggior parte di noi scelse di rimanere com’era, creando una società accettabile nell’ambiente spaziale. Dopo qualche generazione fu chiaro che la vita nello spazio era soddisfacente, come la maggior parte di noi aveva sempre sperato. A questo punto, qualche centinaio di noi si era da tempo trasferito nell’S-Spazio, servendo in prima persona, tra l’altro, da esperimento, così da ridurre il rischio per quelli che sarebbero venuti dopo.
«Mentre facevamo questo, scoprimmo un altro modo di alterazione metabolica: questa volta si trattava di una vera animazione sospesa. Cinque di voi hanno fatto personalmente esperienza di quel sonno freddo, qui sulla nave. Non sappiamo ancora quanto a lungo qualcuno possa rimanere privo di sensi senza correre rischi, in quella condizione, ma si tratta certamente d’un periodo di tempo molto lungo, almeno migliaia di anni.
«Il trasferimento nell’S-Spazio ebbe altre due conseguenze importanti. Per prima cosa ci renderemmo conto che non avremmo potuto ridiscendere a vivere sulla Terra o in qualunque altro luogo dove esistesse un consistente campo gravitazionale, anche se avessimo voluto farlo. Questo l’avevamo già dedotto quando gli esperimenti si svolgevano ancora soltanto sugli animali, ed era uno dei motivi principali per trasferire tutto il lavoro fuori, in orbita, lontano dalla supeficie della Terra. Vedete, le accelerazioni percepite…
— L’abbiamo capito — l’interruppe Peron. — Kallen e Sy — li indicò, — l’hanno infatti dedotto.
— Acuti. — Olivia Ferranti fissò il gruppo mostrando un vivo apprezzamento. — Quando avrò finito, forse mi direte qualcosa di più su di voi. Finora io so soltanto quello che mi è stato riferito da Peron e dal capitano Rinker.
— Il capitano non si starà chiedendo cosa sta succedendo? — domandò Rosanne. Poi si fermò e si portò la mano alla bocca.
— Potrebbe anche… fra qualche giorno. — La dottoressa Ferranti sorrise e Rosanne le rispose con un rapido sogghigno. La tensione iniziale, volta allo scontro, stava sfumando. Erano tutti sempre più assorti in quella storia di un tempo remoto raccontata in prima persona.
Olivia Ferranti si appoggiò alla parete e spinse indietro la cuffietta azzurra dalla fronte, rivelando un ciuffo di riccioli fitti e nerissimi. — Abbiamo un mucchio di tempo a disposizione. In questo momento il capitano Rinker e gli altri sanno a malapena che me ne sono andata.
— Ma tu hai i capelli! — esclamò Lum.
Olivia Ferranti sollevò le sopracciglia scure su di lui. — Sono contenta di sentirti dire che lo credi.
— Ma è quello che gli ho detto — interloquì Peron. — Pensavo che l’S-Spazio rendesse calvi.
— Ed è così. Ma… non hai mai sentito parlare di parrucche, giù su Pentecoste? La maggior parte degli esseri umani nell’S-Spazio non ci bada, ma io non voglio affrontare il mondo con il cuoio capelluto nudo, le mie idee su come dovrebbe essere il mio aspetto sono state fissate molto tempo prima che anche soltanto mi sognassi dell’S-Spazio. Comunque, la pelle del mio cranio è granulosa, e non ho nessuna voglia di esibirla agli altri. — Si accarezzò con la mano i riccioli scuri. — Preferisco questa. La cosa bella è che non diventerà mai grigia.
— Che altro fa, alla gente, l’S-Spazio? — chiese Sy. Più del resto di loro, fatta forse eccezione per Kallen che, com’era tipico da parte sua, non aveva parlato affatto; Sy pareva più che mai riservato e per niente scaldato dai modi franchi di Olivia Ferranti.
— Ci sto arrivando — lei disse. — Lasciate che ve ne parli fra qualche minuto. Voglio andare in ordine logico e spiegare cosa accade dopo che la Terra venne distrutta. È importante che lo sappiate, così da capire per quale motivo ci comportiamo in questo modo nel sistema di Cass.
«Mentre ancora eravamo indaffarati ad elaborare un sistema sociale stabile lontano dalla Terra, e alcuni di noi stavano anche imparando a vivere nell’S-Spazio, non avemmo il tempo di preoccuparci di ciò che stava accadendo all’Eleonora e alle altre arcologie. E a dire il vero, non ce ne importava un accidente. Ma nostra logica diceva che ci avevano disertato egoisticamente e che perciò potevano andare al diavolo. Per quello che ci riguardava, potevano volar via e marcire.
«Ma dopo un po’, quelli di noi che vivevano nell’S-Spazio (io fui una delle prime persone ad accettare l’ibernazione in Modo Due) divennero molto curiosi. Vedete, sapevamo di avere le stelle a portata di mano. Avevamo la propulsione che ci serviva, e il tempo necessario per farlo. E Helena, Melissa ed Eleonora si erano tutte dirette all’esterno del Sistema Solare in direzioni diverse. Non sapevamo quanto i motivi della loro partenza fossero dettati da un vero interesse per l’esplorazione, e quanto invece dal timore di una rappresaglia da parte nostra. Noi non avevamo progettato vendette di nessun tipo, ma loro, come avrebbero potuto saperlo? Tutte e tre avevano mostrato segni di paranoia, quand’erano state colonizzate la prima volta. Diventammo sempre più curiosi di sapere cos’era successo a quelle tre arcologie.
«Alla fine equipaggiammo quattro navi con robot di servizio, simili a quelli che si trovano a bordo di questa nave, e con sistemi di sopravvivenza limitati. Non ci serviva un riciclaggio perfetto, soltanto quello sufficiente a pochi mesi di viaggio nell’S-Spazio. Il progetto definitivo dette a queste navi una portata esplorativa utile di cinquanta anni-luce. Sapevamo che, a causa della loro bassa velocità, le arcologie non potevano essere più lontane di così. E i profili stellari nelle vicinanze di Sol ci davano un’idea abbastanza chiara di dove era più probabile che fossero dirette le navi-colonia. I sistemi politici possono anche cambiare, ma le limitazioni fisiche esistono sempre. Pensavamo di trovarli a una ventina di anni-luce di distanza.
«Quando ogni cosa fu pronta, le nostre navi salparono con i loro equipaggi di volontari. Non eravamo a corto di gente disposta a fare il viaggio: aggiunsi alla lista anche il mio nome, ma non ce la feci. Erano in troppi ad avere qualifiche molto migliori della mia per i viaggi interstellari.
«Risultò che avevamo valutato per eccesso la distanza percorsa dalle arcologie. Non avevamo preso in sufficiente considerazione le difficoltà che Melissa e le altre potevano avere a bordo. Non era stato affatto un viaggio tranquillo. Era scoppiata una guerra civile su Melissa, Eleonora aveva conosciuto un collasso economico, e c’era stato un guasto alla centrale dell’energia di Helena. Queste variabili avevano influenzato sia la loro velocità che la loro direzione. Helena, addirittura, per un po’ aveva invertito la rotta, tornando verso Sol, fino a quando il guasto non era stato riparato e aveva potuto puntare di nuovo verso l’esterno.
«Le nostre navi non ebbero nessun problema a seguire le rotte e a ritrovare le arcologie. Dopotutto, non avevano nessun motivo di aspettarsi un inseguimento, e niente da guadagnare a nascondere la loro presenza. Ma quando le raggiungemmo scoprimmo che nessuna arcologia aveva trovato un pianeta abitabile, e tutte e tre si trovavano ancora nelle profondità dello spazio interstellare. Dopo aver fatto rapporto a noi (i segnali radio nell’S-Spazio impiegavano soltanto un paio di giorni per arrivare) concordammo che non avremmo stabilito contatto con esse. Decidemmo di non far nulla, e di non interferire in nessuna maniera, a meno che una arcologia si trovasse in reale pericolo di estinzione. Non avevano chiesto aiuto e noi non volevamo darlo. Ai vostri antenati sarebbe stato permesso di vagare nello spazio fino a quando non avessero trovato un pianeta abitabile, oppure non avessero deciso che una vita permanente nello spazio era la più adatta a loro. A questo punto avremmo ripreso in considerazione un possibile contatto.
«Le nostre navi lasciarono delle sonde automatiche da rilevamento per seguire le arcologie e riferire i loro movimenti, e tornarono verso casa.
«Potrebbe sembrarvi strano che le arcologie c’interessassero così poco. Ma noi non avevamo nessuna fretta. Potevamo aspettare nell’S-Spazio e vedere quello che sarebbe successo. E certamente avevamo un mucchio di altre cose che c’interessavano, poiché a quell’epoca la Terra veniva di nuovo visitata in maniera regolare.
«Comunque, avevamo dei dubbi che là gli esseri umani potessero prosperare. Il lungo inverno di polvere aveva sterminato il novanta per cento delle specie viventi del pianeta, e ogni forma di animali terrestri più grande d’un ratto, e intendo un ratto della Terra, non quei mostri da trenta chilogrammi che chiamate ratti su Pentecoste. Scoprimmo inoltre che le piante e gli animali sopravvissuti avevano mutato rispetto alle loro antiche forme. Le erbe erano irriconoscibili. Molte delle vecchie piante commestibili avevano adesso un sapore sbagliato in maniera assai sottile, e molte avevano perso ogni loro valore nutritivo. Ci rendemmo conto che ci sarebbero voluti millenni per ripristinare la Terra e renderla di nuovo un luogo degno di essere abitato. Ma, cosa strana, tutti noi pensavamo che valesse la pena di compiere lo sforzo, anche quelli che avevano trovato la vita sulla Terra del tutto intollerabile prima dell’olocausto.
«Quando cominciarono le visite sulla Terra, noi ci sentivamo già molto più a nostro agio nell’S-Spazio. Alcuni di noi vi erano già vissuti per molte generazioni terrestri, e ci sentivamo tutti bene, meglio che bene, poiché sembrava che non invecchiassimo affatto. La nostra valutazione migliore, basata su dati limitati, indicava che la velocità dell’invecchiamento era venti volte più lenta, soggettivamente, di quanto lo fosse nella vita normale. Questo ci portava ad una estrapolazione di millesettecento anni di vita soggettiva, e anche se ci fossimo sbagliati d’un fattore di due, era pur sempre un pensiero parecchio attraente.
«Una volta che il nostro risultato divenne conosciuto, fu naturale che moltissime altre persone volessero trasferirsi nell’S-Spazio. Non succedesse in una notte, naturalmente, ma a mano a mano che il tempo passava imparammo come attuare la transizione nei due sensi, con pericoli minimi. A quel punto conoscevamo il grosso problema rappresentato dall’esistenza stessa dell’S-Spazio.
— Continui a riferirti a dei problemi, ma non ce ne parli mai — obbiettò Elissa. — Quali problemi?
— Non ne ho parlato perché si presuppone che io non ne parli — replicò Olivia Ferranti. — Nessuno di Pentecoste dovrebbe venire a sapere quello che vi sto dicendo, fino a quando non sia stato indottrinato, e nessuno di voi lo è stato; ma vi renderete conto del problema voi stessi in meno di un minuto non appena saremo arrivati al locale Quartier Generale, perciò non sto rivelando nessun grande segreto.
Olivia Ferranti sollevò le mani sottili appoggiandole sulle guance e incorniciando così gli occhi. — Non troverete bambini al Quartier Generale — aggiunse d’un tratto. — Una donna non può concepire nell’S-Spazio, né un uomo può produrre sperma attivo. L’S-Spazio è un luogo meraviglioso per un singolo individuo. Ma dal punto di vista dell’evoluzione è un vicolo cieco. Cosa ancora peggiore, chiunque attui transizioni frequenti fra l’S-Spazio e lo spazio normale soffre d’una fecondità ridotta.
«Questo ci ha posto davanti a una scelta terribile. Volevamo optare per un arco personale di vita prolungata nell’S-Spazio, oppure avremmo garantito la sopravvivenza della specie umana rimanendo nello spazio normale?
«Mentre ci angosciavamo su questo punto, ricevemmo un segnale dalla sonda che aveva seguito la Melissa. La nave colonia si trovava nel sistema di Tau Ceti, e aveva infine trovato un pianeta abitabile. Lo stavano esplorando. Alla fine scoprimmo che l’avevamo chiamato Thule.
«Si trovava a dodici anni-luce dalla Terra, il che significava un viaggio di andata di quattro settimane nell’S-Spazio, calcolando l’accelerazione e la decelerazione. Non credo di averlo detto, ma malgrado tutto quello che avevamo tentato, non eravamo riusciti a produrre un sistema di propulsione economico che ci permettesse di viaggiare molto più veloci di un decimo della velocità della luce. Ma non era più importante. Come potete vedere, quello che abbiamo è più che sufficiente quando si vive nell’S-Spazio.
«La nostra nave partì e al momento debito stabilì il contatto con la Melissa. Quel primo incontro fu traumatico per gli abitanti della Melissa. Avevano lasciato la Terra dodicimila anni prima, cinquecento generazioni si erano susseguite a bordo della nave. La Terra non era nulla, soltanto una lontana leggenda. Era qualcosa di cui si parlava ancora, ma le storie della distruzione della Terra avevano lo stesso rilievo pratico di quanto si raccontava del Paradiso Terrestre. Quando il nostro equipaggio si mise in contatto con loro e sostenne di ricordare la morte della Terra, questo fu troppo per i melissani.
«Quand’ebbimo appreso un po’ della loro storia da quando avevano lasciato il Sistema Solare, capimmo il perché. Non avevamo mai avuto un governo stabile e degno di fiducia che fosse durato più di un secolo. Trovammo indizi storici di ogni forma di regime, da quello in cui si controllava rigidamente perfino l’acqua al neo-confucianesimo. Quando avevano scoperto Thule. si stavano appena riprendendo dagli effetti di una lunga dittatura. La loro sfiducia e il loro sospetto erano considerevoli. Perfino il più razionale di loro trovava difficile credere che le nostre intenzioni fossero del tutto innocenti, nient’altro che la curiosità di apprendere come se la stava cavando un’altra cultura dopo tanto tempo passato senza nessun genere di patria planetaria. Non erano disposti a farci visitare la loro colonia su Thule. Ogni nostra ragione aveva per loro un sapore di doppiezza.
Olivia Ferranti annuì lentamente. — E, com’è ovvio, non avevano affatto torto. Perfino nell’S-Spazio, noi non eravamo completamente protetti dagli incidenti e dalle malattie. Ci sarebbero state, inevitabilmente, delle morti, e senza nuove nascite la nostra società si sarebbe ridotta di numero, anche se non subito ma nell’arco di molte migliaia di anni della Terra. In Melissa e nelle altre arcologie vedemmo una risposta possibile.
«O eravamo insolitamente stupidi, o, semplicemente, ingenui. Per convincere i melissani a crederci, e per dimostrare che potevamo essere davvero uomini e donne che ricordavano la guerra finale della Terra, spiegammo loro cos’era l’S-Spazio.
«Impazzirono. Volevano l’S-Spazio più di qualunque altra cosa nell’universo. Vedete, ci eravamo lasciati fuorviare dalle nostre stesse esperienze. Eravamo stati lenti nell’accettare l’S-Spazio e nel trasferirci in esso. Non ci rendemmo conto che la nostra riluttanza non avrebbe avuto valore per loro. Perché loro non avevano vissuto i nostri primi, rischiosi esperimenti. Per loro la nostra stessa esistenza dimostrava che l’S-Spazio era sicuro. Così, pensarono che li stessimo pungolando deliberatamente, tormentandoli con la visione dell’immortalità ma rifiutandoci allo stesso tempo di condividere il segreto con loro.
«La maggior parte dell’equipaggio della nostra nave era salito a bordo della Melissa. Li presero prigionieri, otto uomini e sei donne, e cercarono di estrarre da loro con la forza il segreto dell’S-Spazio. Fu inutile, naturalmente. L’apparato per la conversione era a bordo della nostra nave, allo stesso modo in cui si trova in questa, e i membri dell’equipaggio l’avevano usato per passare dall’S-Spazio alla velocità di percezione dei melissani. Ma non conoscevano la teoria, non più di quanto la conoscano, qui, Garao o il capitano Rinker. Gli inquisitori torturarono a morte quei quattordici membri dell’equipaggio. Soltanto i due rimasti a bordo della nostra nave riuscirono a fuggire e a far ritorno per dirci cos’era successo.
«Fu allora che adottammo la nostra prima regola per l’interazione con tutte le navi colonia e i mondi colonizzati. Avremmo avuto contatti limitati, e sarebbero stati gestiti con grande cura e regole fisse. Non saremmo mai più tornati nello spazio normale allo scopo di stabilire un contatto, com’era stato fatto con Melissa. I contatti sarebbero stati effettuati con i robot come intermediari; e mai, in nessuna circostanza, avremmo permesso a noi stessi di cadere nelle mani dei coloni.
Olivia Ferranti scrollò le spalle. — Questa è un’altra regola che abbiamo violato in questo viaggio. Bene, saltiamo avanti di quattromila anni. Fu allora che un’altra delle arcologie, Helena, trovò infine un pianeta abitabile. Lo chiamarono Mondo di Beacon, ossia mondo del Faro. Lo colonizzarono, e proseguirono oltre. Fu allora che imparammo un’altra lezione. Il Mondo di Beacon era stato colonizzato molto tempo prima che mandassimo una nave a visitarlo. Quando la nostra nave finalmente arrivò laggiù, scoprimmo che la popolazione era aumentata dalle poche originarie migliaia a quaranta milioni d’individui; ma strada facendo la maggior parte delle loro conoscenze scientifiche erano andate perdute, oppure erano degenerate in voci e leggende.
«Cercammo di aiutarli. Reintroducemmo le basi per una tecnologia più avanzata. Erano bramosi di ricevere i nostri insegnamenti, ma li applicarono allo sviluppo delle armi. Poi, sul Mondo di Beacon, scoppiò una guerra fra i due maggiori insediamenti. La nostra nave e il nostro equipaggio vi assistettero impotenti, guardarono, mentre quelli si massacravano a vicenda. Ma sentimmo di dover fare qualcosa, era impossibile starsene in disparte, disimpegnati, quando eravamo ben coscienti che erano proprio le informazioni da noi fornite a rendere il conflitto così selvaggio. L’equipaggio della nostra nave tentò una tattica disperata: attraverso i nostri robot, ordinarono alle due parti in guerra di smettere, senza dire cosa sarebbe accaduto se l’ordine fosse stato disobbedito.
«Funzionò. I combattimenti cessarono.
«Avevamo imparato un’altra importante verità: essendo “immortali”, con una tecnologia e uno schema di vita incomprensibili per i coloni, avevamo su di essi un’enorme influenza.
«Ciò ci fornì la nostra regola successiva per il contatto: rimanere il più possibile distaccati e misteriosi. E se avessimo reclutato qualcuno perché ci raggiungesse nell’S-Spazio, volevamo soltanto esemplari eccezionali: li avremmo introdotti gradualmente nella nostra società, attraverso un lungo ed esauriente indottrinamento.
«Le nostre regole funzionarono molto bene. La gente ci raggiunse da Maremar e Jade, due degli altri pianeti colonizzati da Helena. Sì, le regole hanno funzionato sia in quei sistemi che al Quartier Generale per migliaia di anni.
«Infine vi fu il vostro mondo. È probabile che non lo sappiate, ma Pentecoste è un’aggiunta molto recente alle nostre visite planetarie. Vi abbiamo trovato soltanto pochi mesi fa, calcolandoli dal modo in cui noi percepiamo il tempo nell’S-Spazio, ed è stato un piccolo miracolo il fatto stesso di avervi trovati.
«Vedete, Eleonora è stata la più sfortunata fra le navi colonia. Le altre due arcologie trovarono parecchi pianeti adatti agli insediamenti. Ma i vostri antenati hanno dovuto vagare per la desolazione interstellare per più di quindicimila anni, senza mai potersi insediare, senza mai avvicinarsi neppure una volta a un mondo abitabile. Adesso sappiamo perché. Durante gli ultimi quattromila anni terrestri siamo stati in grado di prevedere molto bene di prevedere in anticipo quali sistemi stellari e quali pianeti avevano maggiori possibilità di ospitare la vita. Ad Eleonora è capitato di addentrarsi fra i sistemi stellari sbagliati, sulla base delle nostre nuove conoscenze. Sfortunatamente quelle nuove conoscenze ci hanno condotto fuori strada nel seguire Eleonora, quando la nostra sonda pedinatrice alla fine si logorò. Si dà il caso che il sistema di Cass, in generale, non sia in grado di ospitare la vita, o comunque mondi abitabili. L’esistenza di Pentecoste, Gimperstand, Fuzzball e Glug è un incidente, il sottoprodotto dei blocchi di risonanza fra le orbite planetarie.
«Avremmo potuto trovarvi su Pentecoste quattromila anni fa, se soltanto avessimo pensato di guardare. Così, invece, abbiamo captato le vostre emissioni radio qualche centinaio di anni fa soltanto. E soltanto allora abbiamo stabilito contatto con voi.
«Abbiamo seguito le nostre regole-standard. Contatti lenti e limitati, senza tentare di cambiare il governo del mondo con cui ci eravamo messi in contatto. Si dà il caso che Pentecoste abbia avuto il classico regime totalitario sin dal primo contatto: un governo più preoccupato di rimanere al potere che di qualunque altra cosa, e sublimemente disinteressato alle questioni interstellari. Dal nostro punto di vista questo era perfetto. Ogni cosa ha funzionato secondo i piani per centinaia dei vostri anni, fino a questo Planetfest, quando il Quartier Generale fu informato che era probabile un gruppo insolito di vincitori. Vedete, non si sa in anticipo chi saranno i vincitori, ma i nostri giù su Pentecoste ne avevano un’idea piuttosto buona. Ci aspettavamo dei guai, ma non sapevamo quali. Per quanto mi riguarda, sono convinta che qualcosa sarebbe accaduto anche se Wilmer non avesse intrapreso quella sua azione su Whirlygig. I vostri profili sono tutti troppo lontani dagli schemi usuali. Ma è soltanto una mia ipotesi. La cosa importante è che qualcosa sia accaduto. — E Olivia Ferranti guardò quei giovani volti attenti tutt’intorno a lei e scosse la testa, — eccoci qua. Dobbiamo decidere cosa deve accadere adesso.
«Accetto il fatto che avete il controllo della nave. E spero che accettiate la mia parola quando vi dico che il vostro controllo potrebbe essere pericoloso, con le limitate conoscenze che avete. L’attuale situazione è brutta per tutti, voi compresi. Perciò lasciatemi proseguire la conversazione, avviando la discussione, informandovi che sono stata inviata qui con una proposta da parte di tutti noi, perfino il comandante Rinker.
Il gruppo intorno a lei si animò. D’un tratto presero ad agitarsi, guardandosi l’un l’altro interrogativamente. Da più di mezz’ora i loro personali problemi si erano trovati in secondo piano, per l’interesse suscitato dal destino che gli altri esseri umani avevano incontrato su altri mondi. Il ritorno alla situazione presente fu brusco e disagevole.
Peron incontrò lo sguardo di ognuno di loro. Infine annuì.
— Non abbiamo niente da perdere ad ascoltarti. Ricorda però che abbiamo il controllo fisico tuo e della nave. Perciò, d’accordo, ascolteremo. Qual è la vostra proposta?
Lentamente, un millimetro dopo un altro esasperante millimetro, gli occhi di Olivia Ferranti si aprirono. Una sottile linea bianca era comparsa dietro le lunghe ciglia false. La linea si allargò fino a diventare un’esile mezzaluna. Le palpebre continuarono a separarsi strisciando lentissime, rivelando alla fine le pupille dilatate circondate dalle luminose iridi castane chiazzate d’oro.
— Ci siamo — commentò allora Peron. — Finalmente è nell’S-Spazio. Nessuno potrebbe mai fingere un simile risveglio. Torniamo alla camera e parliamo.
Ognuno dei sei sapeva che una discussione s’imponeva d’urgenza. Ma il desiderio di osservare Olivia Ferranti era stato troppo intenso, e tacitamente ammesso da tutti.
Si erano raccolti intorno al grande serbatoio quando lei si era preparata a entrare. Avevano osservato in silenzio mentre lei, con straordinaria calma, era entrata. E non appena il pesante portello della bara era scivolato nella posizione della chiusura ermetica, si era distesa, li aveva fissati attraverso il lato superiore trasparente, e aveva rivolto loro un saluto facendo ondeggiare lievemente la punta delle dita. Poi aveva raggiunto il pannello di controllo interno, e aveva formato la sequenza-chiave per iniziare il suo ritorno all’S-Spazio.
Qualche istante dopo, gruppi di spruzzatori sottili si erano mossi, venendo a contatto con lei, per irrorare il suo corpo, le braccia e le gambe di un fluido nebulizzato, mentre delicati cateteri uscivano come serpenti dalle pareti della bara e s’insinuavano con delicatezza dentro gli orifizi della sua testa e del suo corpo. Un denso vapore giallo-verde riempì pigramente l’interno del serbatoio, levandosi dopo pochi minuti a nascondere la forma immobile di Olivia Ferranti in una coltre dagli orli sfumati.
Dopo questo, vi era stato ben poco da vedere, ma erano rimasti lì in attesa per quasi due ore, scambiandosi brevi frasi sottovoce. Soltanto quando l’interno della bara si schiarì e Olivia Ferranti ricominciò a muoversi in lentissima consapevolezza, furono in grado di pensare ad altre faccende.
E adesso, osservando i suoi occhi che si aprivano con strisciante gradualità, provarono tutti un rinnovato e assurdo senso di urgenza. La logica diceva che un altro giorno, o due, di discussioni e di riflessioni sarebbero passati inavvertiti per Rinker e gli altri nell’S-Spazio, ma la sensazione di dover fare in fretta andava al di là della logica. Quella sensazione diminuì un po’ quando tornarono nella camera del computer, e trovarono le regolazioni dei comandi e i robot di servizio esattamente come li avevano lasciati.
— Allora, cosa ne pensate? — chiese Peron d’un tratto, mentre prendevano posto formando uno stretto cerchio intorno alle proiezioni della consolle del computer principale, che tremolavano lievemente.
— Io le credo — esclamò subito Rosanne.
— Io no — ribatté con prontezza Sy. — Ci ha mentito.
— Lum?
— Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. — Lum si massaggiò le guance piene con una mano e corrugò la fronte. — Credo alla maggior parte di quello che ha detto. Si è tenuta molto vicina alla verità. Ma credo che abbia esercitato la memoria selettiva. Ha lasciato fuori alcune cose.
— Ma certo che l’ha fatto! — Sy aveva uno sguardo corrucciato. — Potrei elencare almeno dieci cose che non ci ha detto. Cosa succede se respingiamo il loro suggerimento? Chi stabilisce le regole che decidono ciò che dobbiamo conoscere, e quando? Cosa accade, se un vincitore del Planetfest non si adegua alla linea del partito? Dove finisce? Una cosa è certa, non torna su Pentecoste. Mi chiedo se qui nel sistema di Cass non abbiano messo a punto degli incidenti molto convenienti… sappiamo che ci sono parecchie possibilità, a questo scopo, in giro per i Cinquanta Mondi.
— Stiamo precorrendo i tempi — replicò Lum. Si agitava a disagio dentro la sua giubba, un indumento marrone troppo stretto al petto e con le maniche troppo corte. — Prendiamo la storia di Olivia Ferranti un pezzo per volta, e vediamo su cosa siamo d’accordo. Allora, chi…
— Mi è parso che la sua lezione di storia suonasse genuina — offrì Elissa.
— Anche a me — annuì Peron.
— Per andare ancora di più al punto — proseguì Lum, — non riesco a vedere quale vantaggio avrebbe ricavato mentendo. E le credo quando dice che adesso siamo sulla rotta che porta al loro Quartier Generale. Ma qualcuna delle altre sue dichiarazioni mi è suonata falsa. Tanto per cominciare, non credo proprio che noi possiamo essere un pericolo per questa nave e per noi stessi, soltanto perché qui siamo estranei, e ci troviamo nello spazio normale. Non abbiamo certo superato le prove del Planetfest senza imparare la cautela. Sappiamo come essere prudenti e guardiamo, prima di saltare. Credo che ci abbia detto che siamo un pericolo perché ci vogliono nell’S-Spazio, dove possono tenerci d’occhio. Vogliono avere il controllo. Bene, questo non possiamo permettercelo. Sy, come va la riprogrammazione per i robot di servizio?
— Tutto fatto. Adesso obbediscono agli ordini impartiti dalla nostra voce. Ma Kallen ed io abbiamo una domanda. Vogliamo che sia il computer ad attivare i robot di servizio in risposta alle nostre voci, e a quelle di nessun altro? Oppure dobbiamo lasciare che funzionino anche per la Ferranti e gli altri?
— Deve per forza essere o l’uno o l’altro? — chiese Lum. — Non potreste installare un grilletto, in modo che noi possiamo escludere gli altri dal controllo, se scegliamo di farlo, basato sugli ordini dati dalle nostre voci? Allora saremmo del tutto al sicuro.
Sy sollevò le sopracciglia, rivolgendo uno sguardo interrogativo a Kallen, il quale contrasse le labbra e si massaggiò la gola segnata dalla cicatrice.
— Credo di sì — disse un attimo dopo. — Ci proverò.
— Va bene. — Lum annui. — Prima che tu lo faccia, pensiamo un po’ di più a quello che ci ha detto la Ferranti. Che ne dite del loro Quartier Generale? Stando a lei, si trova a un anno-luce di distanza da Pentecoste. Ma perché metterlo là? Se il resto della sua storia è vera, ci sono meno colonie vicino al sistema di Cass che in qualunque altra parte. Avrebbe avuto più senso collocare il Quartier Generale vicino a Tau Ceti, o a qualche altra stella con più pianeti abitabili.
— A questo posso rispondere io — disse Peron. — Quando sono stato svegliato la prima volta, la dottoressa Ferranti si è riferita al Quartier Generale di Settore. Questo significa che dovrebbero essercene altri, in altri sistemi. Ricordatevi che, stando alla Ferranti, tutte le colonie si trovano a venti anni-luce, e anche meno, da Sol. Per un viaggio nell’S-Spazio sono al massimo cinque settimane. Scommetto che ci sono parecchi Quartier Generali di Settore, uno vicino a ciascun sistema stellare che è stato colonizzato.
— E quindi, dov’è che si trova il Quartier Generale? — chiese Elissa. — Ce n’è poi uno?
— Scommetto che c’è — dichiarò Lum. — Perfino gli Immortali devono aver bisogno d’una organizzazione complessiva delle risorse. E non avete avuto la sensazione che al Quartier Generale verso il quale siamo diretti, la maggior parte delle regole siano seguite, ma non fatte?
— Allora, dov’è quello centrale? — ripeté Elissa. — Dov’è il Quartier Generale principale?
Lum portò le mani alla testa e si sfregò la folta massa dei capelli arruffati color grigio-topo. — Lo sa Iddio. Dobbiamo ripensare ogni cosa, se i viaggi fino alle stelle sono così facili per loro. Il Quartier Generale potrebbe trovarsi a cento anni-luce di distanza da qui. È soltanto un viaggio di sei mesi nell’S-Spazio. Ma non avrebbe molto senso. Perfino nell’S-Spazio sarebbe difficile dirigere un’organizzazione in cui i messaggi impiegano settimane per circolare nel sistema.
— La stai rendendo difficile — interloquì Sy con voce sommessa. — Pensa in modo semplice.
— Vuoi dire che il Quartier Generale di Settore è l’unico esistente?
— No. Pensa a Sol.
Gli altri lo fissarono, poi si guardarono fra loro.
— Ha ragione, come al solito — disse Peron. — Tutte le navi sono partite dalla Terra. Era il centro della sfera di espansione, perciò è ancora il fulcro naturale per coordinare le colonie e i Quartier Generali di Settore. Il Quartier Generale centrale dovrebbe essere la Terra.
Vi fu un altro silenzio.
— La Terra! — esclamò Rosanne, alla fine. La sua voce era sommessa, e le parole uscirono dalle sue labbra come una benedizione. — Se il Quartier Generale è sulla Terra, forse potremmo andare là…
— Non sulla Terra vera e propria — disse Lum. — Sappiamo che non si può scendere sulla superficie d’un pianeta, se si vive nell’S-Spazio.
Kallen stava scuotendo la testa. — No. Non si può vivere su un pianeta. Potremmo visitarlo, però. — Pareva enormemente eccitato.
— Ha ragione, sapete — disse Sy. — Siamo tutti d’accordo che nell’S-Spazio chiunque è in grado di mantenere il proprio equilibrio soltanto in condizioni di microgravità. Ma la percezione e la tolleranza fisica non hanno niente a vedere l’una con l’altra. Il tuo corpo potrebbe sopportare la gravità, pur necessitando di essere sostenuto e trattenuto, ma comunque riusciresti a visitare la superficie della Terra, o di Pentecoste, vivendo nell’S-Spazio.
— Questo sarebbe sufficiente — sbottò Rosanne. — Perfino una breve visita, nell’S-Spazio o nello spazio normale. Voglio andare sulla Terra, vedere dove tutto è cominciato. Ne abbiamo parlato, e ci abbiamo pensato così tanto! Ve l’immaginate, scendere in volo attraverso l’atmosfera, e camminare sulla superficie della Terra?
— Calma — disse Peron. — Non lasciarti trascinare. Sol si trova a diciotto anni-luce da qui. So che sono soltanto poche settimane di viaggio nell’S-Spazio, ma sono quasi due secoli su Pentecoste. Tutti quelli che conoscevamo laggiù sarebbero morti da tempo anche prima che raggiungessimo la Terra, per non parlare del viaggio di ritorno a Cass.
Rosanne scrollò le spalle. — Non posso parlare per te, ma io ho già detto addio a tutti i miei genitori. È curioso, ma penso che fosse già tutto prestabilito. Li abbiamo salutati prima di decollare da Pentecoste. Non ricordate? Ci hanno incoraggiato a farlo, e noi pensavamo che fosse nel caso in cui fossimo morti nelle prove fuori del pianeta… Ma ha senso. Se i vincitori passano attraverso l’indottrinamento e si trasferiscono nell’S-Spazio, sono destinati a sopravvivere a tutti i loro contemporanei su Pentecoste già dopo poche settimane nell’S-Spazio. Vi rendete conto che la gente che abbiamo lasciato a casa è già invecchiata di cinque anni da quando l’abbiamo vista l’ultima volta?
— Ci ho riflettuto — replicò Lum. — Non sono come te, Rosanne: io sento davvero la mancanza di alcuni degli amici che ho lasciato, e mi piacerebbe rivederli, un giorno. Questo è qualcos’altro di cui dovremmo preoccuparci. Abbiamo trattato con Olivia Ferranti sulla base del «siamo uniti», come se tutti avessimo obbiettivi identici e volessimo le stesse cose. Ma non è così. Vi conosco tutti abbastanza bene per sapere che non è vero. Dovremmo mettere in tavola le nostre preferenze personali, così da sapere per cosa stiamo trattando con gli Immortali.
— Ma quali sono le nostre opzioni? — chiese Elissa. — Suppongo che possiamo andare al Quartier Generale e vivere là nell’S-Spazio. Oppure potremmo ritornare a Cass e vivere sulla Nave, e lavorare con il governo di Pentecoste. Ma sono sicura che non ci permetteranno di ridiscendere sulla superficie di Pentecoste, e di vivere come una volta, anche se lo volessimo. Forse ci lasceranno andare in qualcuna delle altre colonie. O forse possiamo andare sulla Terra.
— È per questo che voglio sapere quello che vogliamo — disse Lum. — Ciascuno di noi ha i propri desideri e le proprie priorità, ma quali sono?
— Perché non cominci tu? — chiese Rosanne. — La domanda l’hai fatta tu, e così ci darai più tempo per pensare.
— Giusto. — Lum tirò un profondo sospiro. — Sapevo quello che volevo sin dal momento in cui ho scoperto che esistevano altri pianeti e colonie, e un modo per raggiungerli in un lasso di tempo ragionevole. Olivia Ferranti ha accennato ad almeno sette pianeti abitabili, ma sono pronto a scommettere che ce ne sono di più. Voglio visitare ogni singolo pianeta e ogni arcologia, e ogni Quartier Generale. Se potessi farlo, vorrei vedere ogni singolo pianeta della Galassia, anche se la maggior parte di essi dovesse risultare simile a Glug.
Rosanne annuì. — Non so se tutto questo sia possibile, ma per lo meno tu voti per un trasferimento nell’S-Spazio, altrimenti saresti morto molto tempo prima di raggiungere la tua prima colonia. Sy, tu cosa dici?
— Vagare per sempre non è per me. — Sy sorrideva, ma c’era qualcosa nella sua espressione che suggeriva il suo disprezzo per i progetti di viaggio di Lum. — Voglio visitare i Quartier Generali degli Immortali, i migliori, i più grandi, i più efficienti, dovunque la loro scienza sia più avanzata. È probabile che quello che abbiamo appreso su Pentecoste sia antiquato di molte generazioni. E dopo questo, vorrei visitare il centro galattico.
— Sono trentamila anni-luce! — esclamò Peron.
— Certo che lo sono. Ma non m’importa. Se per arrivarci dovrò tornare al sonno freddo per un po’, lo farò. Il resto di noi è rimasto sotto, una volta, e non è stata una brutta esperienza.
Rosanne lo stava fissando scuotendo la testa. — Sy, ho lavorato con te durante le prove del Planetfest, e so che sei a postissimo, ma bizzarro lo sei di certo. Il centro galattico!
Sy le rispose con un sogghigno. — E allora? Sentiamo cos’ha da dire qualcuno di normale, allora. Tu, dove vuoi andare?
— Be’… — Rosanne esitò. — Mi piace il sistema di Cass, e mi piace Pentecoste. Ma sono d’accordo con Elissa: non ci lascerebbero tornare laggiù per un lungo periodo. Perciò, dimentichiamocene. Certo, mi piacerebbe vedere la Terra. A chi non piacerebbe? A parte questo, credo di pensarla come Lum. Voglio vedere un mucchio di altri posti, vagare in giro per le colonie e i pianeti abitabili, vedere tutto quello che c’è…
Elissa strizzò l’occhio a Peron. Te l’avevo detto, diceva la sua occhiata. Ho vinto quella scommessa. Rosanne è molto più interessata a Lum di quanto sarà mai disposta ad ammettere. — E tu, Peron? — chiese ad alta voce.
Peron appariva perplesso, proprio quanto si sentiva. — Non sono affatto sicuro, e vorrei davvero saperlo. Voglio tutto: tornare su Pentecoste, viaggiare, e vedere proprio da vicino gli Immortali.
— Non sei di molto aiuto.
— Lo so. Suppongo che la miglior risposta sia che non posso dirlo per ciò che riguarda i tempi lunghi. Ma per il momento voglio saperne di più sull’S-Spazio, e l’unico modo per saperlo è trasferirsi dentro di esso per un po’. Olivia Ferranti mi fa sentire come un bambino in culla. Non è che l’abbia detto, ma deve pensare che siamo bambini troppo cresciuti. Quando penso a tutto ciò che ha visto e fatto, e che ci ha detto…
— Per non parlare di tutte le cose che ha visto e ha fatto e non ci ha detto — l’interruppe Sy, asciutto. — Kallen, tocca a te.
Il giovane alto annuì. Rimase silenzioso per un po’, come se stesse organizzando le proprie parole.
— Rosanne ha detto a Sy che lui era strano — disse alla fine. Esibì un timido sorriso. — Temo che giudicherà me anche peggio. — Si schiarì la gola e poi parlò con voce più forte di quanto chiunque di loro avesse mai udito prima. — Su Pentecoste rimanevo sveglio, la notte, con i miei sogni. Mi chiedevo chi siamo noi, come specie, e quello che avremmo potuto diventare col tempo. Mi è sempre parso che gli esseri umani vengano considerati, nel migliore dei casi, come uno stadio di transizione, qualcosa fra gli animali e quello che potrebbe venire dopo. Ho elaborato delle ipotesi. Cosa sarà mai la prossima fase? Mi era sempre parso che non si potesse rispondere a questa domanda; ma ora non più. Voglio vedere il futuro. E come Sy, sarò felice di tornare al sonno freddo pur di riuscirci. — Sorrise di nuovo. — Dopo che avrò dato una buona occhiata all’S-Spazio, ma non prima.
— Ho sempre detto agli altri che eri il sognatore — dichiarò Elissa. — Il lontano futuro? Sei peggio di Sy. Vediamo, che conclusioni possiamo trarre, allora? Siamo un bel miscuglio. Abbiamo due voti per le colonie, e per fare il grande giro turistico; uno per il futuro, e uno che non è sicuro di ciò che vuole. Che altro? Tutti noi pensiamo che non ci sia stata raccontare la storia completa, e che Olivia Ferranti conosca delle cose sulla vita nell’S-Spazio che non ci ha detto. A nessuno piace l’idea di passare molto tempo al Quartier Generale locale, ma sappiamo che dovremo cominciare da là. E immagino che moriamo tutti dalla voglia di fare un viaggio fino alla Terra, se riusciremo a trovare un modo per farlo. Questo è il mio riassunto della situazione. Manca niente?
— Almeno una cosa — osservò Peron. — C’è ancora una persona che non ci ha detto niente. Tu, Elissa, cosa vuoi fare?
Lei gli scoccò una strana occhiata. — Vuoi dire dove andrò? Peron, sei un idiota dalla testa di coccio e un tardigrado cieco. Stai cercando di mettermi in imbarazzo?
Con viva sorpresa di Peron, vi fu uno scoppio di risa e di commenti incoerenti dagli altri ragazzi.
— Dillo tu, Peron! — gli ingiunse Lum.
— Dire? Dire cosa?
— Qualunque cosa tu voglia.
— Lum ha ragione — dichiarò Elissa. Si avvicinò a Peron e lo abbracciò, mentre gli altri applaudivano.
— Dillo tu. — Gli passò le nocche delle dita sulle costole. — Scrollami via, se ci riesci. Io vado dove vai tu, e sarebbe carino se tu prendessi una decisione e mi dicessi qual è il posto. Ma non devi farlo adesso, perché pare che siamo tutti d’accordo sulla prossima mossa. Andiamo nell’S-Spazio e poi sulla Terra. Pensi sia fattibile?
— Dovremo forzare la mano a qualcuno — disse Lum. — Ma abbiamo un potere tremendo fintanto che qualcuno di noi è qui nello spazio normale. Ti rendi conto che una minuscola spinta dei motori di questa nave, una spinta che nessuno di noi, qui, noterebbe, renderebbe impossibile restare in piedi per chiunque si trovi nell’S-Spazio? Puoi scommettere che tutti loro lo sanno, sono certamente lì che si stanno chiedendo quale sarà la nostra prossima mossa.
— Allora diciamo loro che siamo pronti per la successiva tornata di trattative — disse Peron. — E insistiamo perché vengano fatte qui, e non nell’S-Spazio. Li farà sentire tutti a disagio, e saranno ansiosi di tornare al loro solito ambiente. D’accordo?
Gli altri annuirono.
— Sono proprio impaziente di conoscere l’S-Spazio di persona — aggiunse Rosanne. — Spero che Kallen e Sy abbiano modificato correttamente il programma di controllo. Mi piace l’idea che tutti i miei desideri vengano esauditi.