PARTE PRIMA NICHOLAS IL BUGIARDO

1

Il pianeta sul quale Anna era di postazione si trovava nella stessa posizione della Terra: 148 milioni di chilometri da una comune stella G2 non visibile dalla Terra. Nella parte interna, c’era un pianeta doppio, una di quelle anomalie tanto comuni da far impazzire i teorici. Entrambi i mondi avevano atmosfere, dense e velenose e, viste da lontano, d’un bianco accecante. Sul pianeta di Anna erano la stella mattino/sera, che spuntava e calava quando la coppia ruotava l’uno attorno all’altro. Al loro punto di massima separazione, la stella diventava due stelle, lucenti l’una accanto all’altra nel cielo grigio azzurro del tramonto o dell’alba.

Nella parte esterna… oltre il pianeta di Anna… c’erano quattro giganti gassosi, tutti visibili nel cielo notturno, sebbene nessuno di loro avesse tanta luce come i Gemelli. Nessuno si era mai preso la briga di dare un nome ai giganti. Non avevano proprio nulla di speciale.

E poi i soliti detriti spaziali: comete e asteroidi, lune e anelli e il buio compagno che viaggiava attorno al sole G2, a una buona distanza. Era una singolarità, e faceva del sistema un punto di trasferimento.

Il pianeta sul quale si trovava Anna era abitabile per gli umani. L’atmosfera era molto simile alla vecchia atmosfera preindustriale della Terra. L’oceano era H20. C’erano due continenti. Uno nell’emisfero meridionale e aveva grosso modo la forma di una clessidra; l’altro, molto più grosso, si estendeva dall’equatore al polo nord e assomigliava a un boomerang.

La stazione di Anna si trovava al centro della clessidra, sulla costa orientale della strozzatura. Fino a poco tempo prima, era stata l’unica località sul pianeta con vita sicuramente intelligente.

Ora c’era un’altra base sul pianeta: sulla costa meridionale del boomerang, proprio sulla curva. L’avevano costruita alieni che si chiamavano hwarhath. Gli umani li chiamavano "il nemico"; e la postazione di Anna… la sua bella e tranquilla postazione di sopravvivenza biologica… era piena di fottuti diplomatici.

2

Nuvole scure si avvicinavano dall’oceano. C’erano cavalloni nella baia. Anna si abbottonò la giacca quando uscì dall’edificio principale, poi si avviò alla spiaggia. La forma locale di copertura del terreno… qualcosa che assomigliava a muschio giallo… aveva buttato steli di spore negli ultimi giorni. Erano alti, soffici e curvi per via del vento.

Primi d’autunno. Presto le correnti dell’oceano sarebbero cambiate e avrebbero spostato la sua area di studio lontano dalle acque fredde attorno al polo. Era in baie come quella che si sarebbero riuniti, mandandosi segnalazioni con elaborate manifestazioni luminose e si sarebbero scambiati il materiale genetico (con cura, con molta cura, viticci d’accoppiamento che spuntavano tra molti altri, pungenti), e avrebbero infine prodotto i giovani. Dopo di che, se in vena, alcuni avrebbero bighellonato nei dintorni e si sarebbero messi a chiacchierare con gli umani.

Anna salì sul pontile, che si estendeva nella baia, lungo e snodato.

Quella era la parte della giornata che preferiva. Muoversi sugli stretti segmenti era una specie di microviaggio. Come in tutti i viaggi, Anna si sentiva (per una volta) fuori della vita. Non era la persona che aveva lasciato la stazione di ricerca, né la persona che sarebbe arrivata alla barca di ricerca; poteva considerare passato e futuro con calma.

Si soffermò perlopiù sul presente. Il pontile si alzava e si abbassava, rispondendo al suo peso e al movimento dell’acqua. Il vento soffiava ora freddo ora soltanto fresco.

Sulla Terra, una giornata come quella sarebbe stata piena di gabbiani e del loro rumore; ma quel pianeta non aveva uccelli e le condizioni atmosferiche avevano indotto gli insetti del luogo a rintanarsi. Anna rimase in ascolto, udendo soltanto l’acqua e il vento e il cigolio metallico che i segmenti del pontile producevano sfregando l’uno contro l’altro.

La barca era alla punta estrema del pontile. Più in là, ancorato al centro della baia, c’era un galleggiante per le comunicazioni: lungo dieci metri e bianco, chiamato (inevitabile) Moby Dick.

Anna salì a bordo e si chinò nella cabina. Yoshi era lì che beveva tè e guardava gli schermi. Le lanciò un’occhiata. — La scorsa notte, è venuto Rosso-rosso-blu, battendo i flagelli e divertendosi un po’.

— In anticipo di tre settimane — osservò lei.

Yoshi annuì.

— La solita routine?

Lui annuì di nuovo, il che significava che l’alieno aveva lampeggiato una serie di luci che volevano dire "salute… benvenuti… non aggressione".

— Ho risposto. Le luci su Moby funzionano tutte bene. Rosso ha fatto un paio di volte il giro, poi ha mandato il segnale di riconoscimento e se n’è andato. — Batté su uno schermo con un punto luminoso. — Ecco Rosso. Vicino all’entrata e non si muove. Aspetta qualcuno sessualmente più interessante di Moby.

Dopo cinque anni, gli alieni… gli alieni di Anna… conoscevano Moby e sapevano che Moby non scambiava materiale genetico. Finché non avessero finito di accoppiarsi, non avrebbero mostrato alcun interesse per il galleggiante.

Anna guardò fuori dal finestrino la baia grigio-verde. C’erano gocce d’acqua sul plexiglass: spruzzi o l’inizio della pioggia. La sottobase hwar era là fuori, su un’isola al largo che sarebbe stata a malapena visibile in una giornata limpida, abbastanza vicina perché gli hwarhath potessero andare e venire dalla zona diplomatica, ma abbastanza lontana perché potessero essere ragionevolmente sicuri della loro privacy.

— Voleranno avanti e indietro tutti i giorni — osservò lei. — Proprio sulla baia. Spero che non diventi un problema.

— Non credo che Rosso e compagnia abbiano in mente qualcos’altro oltre al sesso e alla paura, ammesso che abbiano delle menti. — Yoshi si alzò e chiuse il thermos. — Divertiti, Anna.

Anna si sistemò per le otto ore che le toccavano, il thermos aperto, il caffè fumante in una tazza. Non appena Yoshi se ne fu andato, attivò il sistema audio.

Yoshi trovava che i rumori prodotti dagli animali della baia fossero un po’ irritanti. Ma ad Anna piacevano: i gemiti e i fischi dei vari tipi di pesci e gli scoppi secchi che provenivano (ne erano quasi sicuri) da creature che assomigliavano a trilobiti che vivevano nella melma sul fondo.

Ah! Quel giorno era di turno il pesce-fischio. Anna sorseggiò il caffè e rimase in ascolto, controllando di tanto in tanto gli schermi.

Alle dieci e zero-zero, udì il rumore di un motore, si alzò e uscì in coperta. Eccolo… l’aereo hwarhath… che arrivava da est. La pala di un ventilatore, le parve, quando passò sopra di lei. Assolutamente comune, forse un po’ tozzo, smussato e non elegante come le navi degli alieni. Sebbene stesse forse memorizzando; noi vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere. Adesso cadeva una pioggia regolare. Una giornata schifosa per il primo incontro tra l’umanità e l’unica altra specie interstellare conosciuta.

Rientrò e accese l’unità di comunicazione. Come promesso, c’era il campo d’atterraggio, un’ampia striscia di cemento battuta dalla pioggia. Una dozzina di figure erano ferme sulla pista tra le pozze d’acqua: i diplomatici umani. Erano tutti civili, con lunghe palandrane scure e gli ombrelli in mano, e tutti uomini. Gli alieni avevano insistito. Non avrebbero negoziato con donne, il che non prometteva niente di buono sulla loro apertura mentale. Ma forse c’era una spiegazione che andava al di là di un semplice fanatismo; era sempre una buona idea sospendere i giudizi quando si aveva a che fare con una cultura veramente estranea.

Gli umani militari non erano ripresi, e tutti gli altri si trovavano all’interno della stazione. Il campo sarebbe stato off-limits fino a quando il benvenuto ufficiale non fosse finito e gli alieni non fossero stati tutti al sicuro all’interno della zona diplomatica. Ma, come gesto di cortesia, era stata piazzata una telecamera ed era collegata col sistema di comunicazione della stazione. Ogni umano sul pianeta avrebbe potuto assistere a quel momento storico. Anna si versò dell’altro caffè nella tazza.

L’aereo atterrò sollevando nuvoloni d’acqua. Le lunghe palandrane svolazzarono e gli ombrelli cercarono di fuggire, sollevandosi come grandi avvoltoi neri. Uno si rovesciò. Anna rise. Ridicolo!

Il portello del velivolo si aprì. Anna attese, la tazza ferma a metà strada dalla bocca. Una scaletta venne srotolata e degli individui uscirono. Erano larghi e solidi, umanoidi, e grigi come il cielo e la foschia. Niente palandrane e niente ombrelli. Al contrario, gli alieni indossavano vestiti attillati dello stesso colore del pelo.

Si muovevano sotto la pioggia a loro agio… con casualità… come se le condizioni atmosferiche non avessero importanza, come se la pioggia non esistesse. I primi portavano fucili in spalla, un braccio sulla canna, la bocca delle armi rivolta verso il basso. Sembravano rilassati ma si muovevano (Anna notò) con precisione, sebbene non fosse una precisione militare. Come atleti o attori.

Bello, pensò. Davvero impressionante. Gli alieni avevano il senso della drammaticità.

Si sistemarono su due file, lasciando tra di loro un passaggio. Fu poi la volta delle persone importanti: corpi grigi più massicci e, tra loro, un corpo che era molto più alto e più magro, con spalle curve contro la pioggia.

Per un momento… chi era l’operatore? …la telecamera zumò. Anna vide un viso senza pelo, lungo e stretto, capelli che gocciolavano e occhi semichiusi. Un umano.

A quel punto, la trasmissione terminò.

Anna cominciò a premere pulsanti, cercando dapprima di far tornare l’immagine, poi di raggiungere qualcuno alla stazione. Inutile. La sua unità era ancora in funzione. Poteva sentirlo: un ronzio debole e basso. Ma nient’altro, solo un ronzio. L’intero sistema doveva essere stato chiuso.

Uscì in coperta. La zona diplomatica si trovava in cima alla collina che sorgeva alle spalle della stazione di ricerca. Era un agglomerato di cupole prefabbricate, a malapena visibili attraverso la pioggia. La pista d’atterraggio era al di là della zona, interamente nascosta.

Riusciva a vedere la stazione di ricerca, e aveva l’aspetto di sempre: basse costruzioni disposte in un paesaggio di muschio giallo. C’era luce a tutte le finestre. Una persona uscì da una porta e si affrettò ad attraversare uno spazio aperto, poi sparì oltre un’altra porta. Senza correre, si disse lei, solo affrettandosi a causa della pioggia.

Tornò dentro e provò di nuovo con la Uc. Ancora niente. Che cosa stava succedendo?

Provò a mantenere la mente ferma al problema che aveva davanti ma la mente continuava a tornare alla pista d’atterraggio e all’uomo che scendeva dalla scaletta, che usciva dall’aereo degli alieni.

L’umanità aveva incontrato i hwarhath… quando? Quarant’anni prima? In tutto quel tempo, nessuno aveva mai cambiato parte, per quanto ne sapeva lei, perlomeno.

Erano gli altri, gli inconoscibili, gli esseri su orribili e tozzi vascelli più veloci della luce che venivano nel nostro spazio e fuggivano se le nostre navi li trovavano, o combattevano e venivano distrutti. Dopo quarant’anni di schermaglie e di spionaggio, che cosa sapeva l’umanità di loro? Una delle loro lingue. Qualcosa sulla loro capacità militare. Avevamo tracciato i confini del loro spazio ma non avevamo mai trovato un loro pianeta, solo navi e navi e qualche stazione nello spazio profondo. (Anna aveva visto l’ologramma di una di esse: un enorme cilindro che girava nella luce di un cupo sole rosso.)

Tutto era armato. Per quello che potevano dirne gli umani, gli alieni non avevano una società civile. Non c’era mai stata una cultura umana… una Sparta, una Prussia, un’America… perciò tutto era interamente rivolto alla guerra.

Allora quell’uomo… quell’essere dall’aspetto così ordinariamente umano, con il viso pallido e i capelli biondi e lisci… che cosa ci faceva tra gli alieni? Era un prigioniero? Perché si erano portati un prigioniero con la squadra dei negoziatori?

Anna tornò in coperta. Non era cambiato niente. Forse doveva andare a chiedere che cosa stesse accadendo. Ma se c’erano problemi, preferiva starne fuori; ma poi, se ci fossero stati problemi, non avrebbe dovuto veder correre persone, il saettare dei lampi di luce delle armi?

Nell’ora che seguì, continuò a camminare avanti e indietro tra la cabina e il parapetto. Non accadde niente, tranne che i pesci-fischio continuavano a muoversi nell’acqua profonda e lei non ne poteva più di sentirli. Merda. Merda. Se avesse voluto partecipare a una guerra, si sarebbe unita ai militari e avrebbe ricevuto un’istruzione adeguata.

Alle tredici e zero-zero, lo schermo delle comunicazioni tornò a funzionare; Anna vide il viso di Mohammed, scuro e magro.

— Che cos’è accaduto? — domandò.

— Abbiamo avuto una temporanea interruzione di corrente — rispose lui, cauto. — Difficile che accada di nuovo. Me l’hanno assicurato.

Mohammed era il loro esperto di sistemi di comunicazione. Non sarebbe mai andato da un altro per un problema tecnico; perciò non si era trattato di un problema tecnico. Qualcuno aveva tolto la spina.

— E gli alieni?

— Sono andati nella zona diplomatica, come programmato.

Lei aprì la bocca per parlare ma lui sollevò una mano. — Non so altro, Anna.

Anna spense la Uc e si dedicò agli altri schermi.

Alle quattordici e zero-zero, uno dei compagni di Rosso entrò nella baia. Anna lo rilevò sul sonar, che nuotava rapidamente lungo lo stretto canale d’entrata e si fermava quando vedeva Rosso. Gli alieni non usavano luci durante il giorno. Comunicavano invece con escrezioni chimiche nell’acqua. Nessuno degli strumenti di Anna poteva rilevare sostanze chimiche a quella distanza. Anna poteva soltanto guardare i due punti sullo schermo. Restarono a lungo immobili.

Poi il nuovo alieno si mosse. Non si avvicinò a Moby Dick, anche se non era possibile che non avesse notato il galleggiante, e Moby assomigliava grosso modo a un alieno. Abbastanza da confondere Rosso, almeno a prima vista. Ma quel compagno non mostrava alcun interesse, il che sembrava indicare che aveva ricevuto una qualche informazione da Rosso.

Anna immaginò una conversazione.

C’è qualcun altro, qui?

Solo quella buffa creatura che sa parlare come noi, ma non tenta mai di mangiare nessuno o di accoppiarsi.

Oh, be’, allora è persino inutile prendersi la briga di salutarla.

L’alieno si fermò in mezzo alla baia. Alle quindici e zero-zero arrivò Maria.

— Sei in ritardo.

— Sono stata trattenuta alla stazione. Roba da farti impazzire, Anna. Cento ricercatori, tutti che fanno congetture contemporaneamente, e nessuno di loro con informazioni sufficienti per dire qualcosa che abbia senso.

— Grande. Rosso ha compagnia. È appena arrivato e non ha tentato di fare qualcosa con Moby. Se non sono intelligenti, ne danno un’imitazione davvero buona.

Maria scosse la testa. — Ciò che abbiamo qui, Anna, è un branco di enormi meduse con strani sistemi nervosi. Una specie intelligente si potrebbe definire quella gente sulla collina.

— Può darsi — disse Anna.

Tornò lentamente alla stazione. La pioggia si era trasformata in foschia e gli animali della sera stavano uscendo dai loro nascondigli. Appartenevano perlopiù a una specie: lunghi e segmentati e con molte zampe. I dorsi scintillavano alla luce dei lampioni stradali. (Era quello il nome giusto per delle cose che distavano decine di anni luce dalla strada più vicina?)

Cacciatori, avrebbe detto lei, alla ricerca di vermi che venivano spinti in superficie dall’umidità e assolutamente privi di intelligenza, anche se splendidamente adatti a ciò che facevano. Gli alieni di Anna erano diversi. Avevano cervelli, non meno di dieci per ogni singolo animale, tutti collegati; sebbene Rosso e i suoi amici nella baia non ne avessero più di cinque. Erano sviluppati soltanto per metà. Quelli grossi, con viticci lunghi cento metri, non si accoppiavano mai né si allontanavano dall’oceano profondo.

Quanto alla stazione, Maria aveva ragione. La sala da pranzo era piena di gente e il livello del rumore era più alto del normale. Anna si servì e andò a cercare Mohammed. Lui sedeva a un tavolo d’angolo, circondato da altri tutti con l’espressione attenta. Era ovvio che volevano sapere che cos’era successo al sistema di comunicazione.

Anna si fermò, il vassoio in mano, e Mohammed sollevò lo sguardo. — Non volevo parlare del sistema di comunicazione, Anna. C’era un militare con me durante la teletrasmissione dell’atterraggio. Quando ha visto che cosa usciva dall’aereo, mi ha tolto la corrente e non l’ha rimessa per oltre un’ora. Criptofascista! Ero furibondo, te l’assicuro.

— Qualcuno sa cos’è accaduto all’uomo? — domandò qualcuno al tavolo.

— Dev’essere nella zona diplomatica, no? Non è alla stazione e non è possibile che abbiano lasciato quel poveraccio sotto la pioggia e al buio.

Anna sorrise. Era tipico di Mohammed. Aveva usato la parola "fascista" come se ne conoscesse il significato, e, nel contempo, credeva che quella gente fosse civilizzata. C’è un modo giusto di comportarsi; non si può lasciare sotto la pioggia un membro di una missione diplomatica.

Qualcun altro disse: — Quelli non potranno passarla liscia, no?

Anna non sapeva chi fossero "quelli"… i hwar? I militari umani? E le semplici congetture non le interessavano. Annuì a Mohammed e si allontanò alla ricerca di un tavolo libero.

Più tardi, durante il tragitto tra una costruzione e l’altra, udì il rombo basso dell’aereo degli alieni e sollevò la testa. Ne vide le luci… bianche e ambra… che si muovevano sopra di lei e puntavano verso il mare.

3

L’aereo degli alieni tornò il mattino seguente e ripartì la sera. Questo sembrava indicare che i negoziati continuavano, come stabilito.

Dalla zona diplomatica non arrivò niente di ufficiale. I colloqui erano segreti; lo erano sempre stati, con nessun servizio su nessuna delle reti. La gente della stazione aveva ricevuto qualche notizia, per pura cortesia e perché erano troppo vicini per essere tenuti completamente all’oscuro; ora anche loro erano stati esclusi.

Dopo tre giorni, Anna ricevette le prime notizie ufficiose. Arrivarono da Katya, che se la intendeva con uno dei diplomatici: un uomo molto giovane che parlava troppo. Katya otteneva informazioni dal diplomatico… che si chiamava Etienne Corbeau… e le passava agli amici scelti, persone di cui si poteva stare tranquilli che avrebbero taciuto. Sarebbe stato un peccato se gli altri diplomatici l’avessero scoperto.

— Usano l’uomo come traduttore — spiegò Katya. — Il loro principale traduttore. Secondo Etienne, il primo giorno ha presentato il hwar più importante… una specie di generale… e poi ha detto: «Mi chiamo Nicholas. Non commettete l’errore di pensare che la mia lealtà sia in qualche modo divisa, e non pensate che ciò che dico abbia qualcosa a che fare con me. Quando parlo, parla il generale». O quello che è. A Etienne piace esagerare le storie. Quelli della Mi hanno mandato una sonda-messaggio fuori sistema. Vogliono sapere chi è questo tizio.

— Come vanno i colloqui? — domandò Anna. — Approdano a qualcosa?

Katya sorrise con dolcezza. Gran parte dei suoi antenati provenivano dall’Asia sudorientale; alcuni erano africani. Era piccola e scura e di ossatura minuta e la donna più bella che Anna avesse mai visto fuori da un ologramma. Era anche una botanica di prima classe; nessuno sapeva più di lei sul manto giallo simile a muschio del terreno.

— Etienne non lo dice. È un’informazione confidenziale; ma siamo d’accordo che mi passerà i pettegolezzi. È fluente, molto fluente, nella sua parlata hwar.

— L’uomo del mistero? — domandò Anna.

— Certamente. I traduttori dicono che usa almeno un’altra lingua… non spesso e non a lungo e solo quando parla con il generale. I nostri non sanno cosa sia. Stiamo registrando tutto, naturalmente, ma i traduttori dicono che non ne sanno abbastanza per decifrare l’altra lingua.

Anna non era certa che quelle notizie la interessassero. Non condivideva la passione di Katya per l’intrigo, una passione che Katya diceva di aver preso dallo studio delle piante. — Sono meravigliosamente complicate e tortuose, un’ispirazione costante per me. Quelle che non possono trasformarsi devono trovare modi più interessanti per sopravvivere.

Ma tutto ciò non aveva niente a che fare con l’uomo che diceva di chiamarsi Nicholas.


Il tempo cambiò; ebbero giorni e giorni di sole. L’estate indiana, l’avrebbero definita a casa. Il vento sparì. Di tanto in tanto, c’erano i cavalloni nell’oceano, ma non nella baia. Rosso e i suoi compagni nuotavano tranquillamente, non facendo quasi niente che gli strumenti potessero registrare. Risparmiavano energia, immaginò Anna. Non avrebbero mangiato finché non si fosse concluso il periodo degli accoppiamenti.

Non li raggiunse nessun altro alieno. E nessuno aveva qualche buona teoria sui motivi. Forse era il tempo. Anna sedeva nella cabina della barca e si metteva a leggere… i più recenti bollettini professionali arrivati per sonda-messaggio… o a scrivere lettere da inviare sulla Terra.

Le lettere erano tutte brevi, in parte a causa delle restrizioni della sicurezza… nessuno poteva dire niente dei negoziati… ma anche perché non aveva molto da dire. Come poteva spiegare qualcosa della sua vita a persone che vivevano in mezzo a nove miliardi di altri umani? Non sapevano niente di oscurità o di vuoto o di silenzio o di altre stranezze. Per loro, la realtà era l’umanità. Non esisteva nient’altro accanto a loro. I hwarhath erano leggenda e le creature che lei studiava erano incomprensibili. Anna aveva più cose in comune con i soldati, quelli almeno che erano lì con lei.

Una mattina, gonfiò una piccola zattera di gomma, vi attaccò un motore e si allontanò nella baia. Era una giornata d’autunno perfetta: chiara, calma e calda. In alto c’era la stella primaria del pianeta; Anna non aveva problemi a guardare dentro l’acqua limpida che si muoveva appena.

Inseguì Rosso, avvicinandosi lentamente, guardando su un sonar portatile. L’alieno non si muoveva. Quando gli arrivò vicino, fermò il motore e andò alla deriva per gli ultimi pochi metri. Eccolo lì, che galleggiava poco sotto la superficie.

La parte superiore dell’animale… la campana o l’ombrello… era larga tre metri e trasparente; e si increspava dolcemente. All’interno, appena visibili, c’erano i tubi d’alimentazione e cumuli di materiale neurologico. All’estremità inferiore della campana c’erano i tentacoli. Anna riuscì a notarne di tre varietà: quelli lunghi e consistenti che Rosso usava per nuotare; i tentacoli sensori, più corti e più sottili; e i tentacoli che producevano luce, poco più che monconi. Tutto ondeggiava gentilmente, al tempo con il movimento della campana.

Anna non riusciva a vedere il resto dell’animale: i viticci che pungevano, lunghi venti metri, e i viticci per l’accoppiamento, ancora più lunghi. Quelli erano attaccati sotto la campana.

Attorno a lei c’erano la baia azzurro cielo e le basse colline, coperte di vegetazione dorata. Vicino c’era l’animale, trasparente come vetro e pulsante come un cuore. Anna provò un tremendo senso di felicità e di benessere: era per quelle cose che viveva.

Dopo un po’, attaccò una bottiglia per i campioni a una corda e la calò nell’acqua… molto lentamente e con estrema cura. Rosso la notò. Dalla parte più vicina alla barca si allungarono dei tentacoli. Le bocche alle loro estremità si aprirono e inghiottirono l’acqua per saggiarla.

Una luce guizzò attorno alla campana. Interessante. Rosso si sarebbe servito di sostanze chimiche per parlare con un altro pseudosifonoforo. Ma doveva aver capito che lei non avrebbe colto un simile messaggio perciò provava il linguaggio notturno.

Rosso-rosso-blu, dissero le luci. (In realtà, il primo colore era un rosa intenso. Avevano anche pensato di chiamare l’animale Rosa, ma il nome non si addiceva. L’animale era troppo grosso e troppo pericoloso.)

Il primo messaggio percorse due volte il perimetro dell’animale. Poi fu seguito da un secondo messaggio: Arancione-arancione-arancione.

L’arancione era un colore preoccupante.

Io sono Rosso-rosso-blu, stava dicendo l’animale, e non mi piace quello che stai facendo.

Anna recuperò la bottiglia e l’animale si ritrasse, borbottando: un guizzo di luce priva di colore che girò attorno alla campana. Lei attese ancora un momento. Rosso si spense. Ora era meglio riaccendere il motore e allontanarsi a velocità minima, pensò Anna, ricordandosi dei lunghi viticci che pungevano… là sotto, nascosti, nell’acqua come una rete di seta.

4

Tre settimane dopo, cominciarono ad arrivare gli altri animali, nuotando attraverso la stretta entrata della baia. Adesso iniziava il vero lavoro. Anna cambiò i suoi orari. La maggior parte delle informazioni più importanti giungevano di notte, quando le creature galleggiavano in prossimità della superficie dell’acqua, lanciando messaggi avanti e indietro. A volte (e questo era un comportamento notato soltanto durante la stagione dell’accoppiamento) ripetevano tutti lo stesso messaggio, all’unisono o uno dopo l’altro, cosicché la baia era tutta una combinazione di luci.

Entravano nella baia solo gli animali relativamente grossi. Avevano viticci più o meno della stessa lunghezza e si tenevano a distanza di sicurezza l’uno dall’altro. Altri pseudosifonofori… ce n’erano a centinaia… galleggiavano nell’oceano al di là del canale d’entrata, attratti da qualcosa, più verosimilmente un feromone, ma riluttanti a entrare.

— Non c’è alcuna prova d’intelligenza, qui — diceva Maria. — Quelli piccoli hanno paura di quelli grossi; il che è naturale; e ognuno è attratto dalla possibilità di sesso. Il che è altrettanto naturale.

Anna non ribatteva. Era troppo stanca e occupata. Sapeva che i negoziati andavano avanti… l’aereo continuava a passare… ma ormai aveva perso il filo di ciò che poteva succedere.

Una mattina, dopo il lavoro, salì sulla collina sopra la stazione. Il cielo era scuro e chiaro e la stella mattino/sera scintillava sopra l’acqua: due brillanti punti di luce.

Le creature avevano cominciato a segnalare poco prima che lei smontasse e ora ci davano dentro con forza. Impulsi di luci blu e verdi andavano e venivano per la baia, poi attraverso il canale verso l’oceano. Il ritmo… la combinazione… restava lo stesso, ma i colori cambiavano, sbiadivano un po’. Di tanto in tanto, Anna scorgeva un arancione che, in quel contesto, era probabilmente un’indicazione di frustrazione sessuale. Per un qualche motivo, che nessuno capiva ancora, le creature si accoppiavano soltanto nelle baie, mai in oceano aperto. (Un’altra prova che non erano intelligenti, diceva Maria; segno di intelligenza sarebbe stata una certa flessibilità.) Gli animali piccoli sapevano che non avrebbero generato quell’anno e mandavano scintille come tanti fuochi. Più ci si allontanava dalla spiaggia, più gli animali diradavano, ma ce n’era ancora qualcuno, che punteggiava l’acqua scura fino all’orizzonte, che lampeggiava a tempo con gli esemplari grossi nella baia.

Uno spettacolo stupefacente.

Dopo un po’, un paio di giovani soldati molto educati uscirono dalla zona diplomatica. Marine. Il nome non era cambiato, anche se le navi sulle quali viaggiavano ora andavano tra le stelle. Indossavano le uniformi e avevano le teste rasate tranne che per una stretta striscia centrale. Quella del ragazzo era di capelli biondi e lisci; la ragazza, invece, li aveva scuri e ricci.

— La collina è off-limits, signora — disse la ragazza. — Deve andarsene.

Il ragazzo guardò la baia e l’oceano. — Cos’è quella roba?

— Animali — rispose Anna. — Questa è la loro stagione dell’accoppiamento. È come se le rane cantassero Verdi. Non sappiamo ancora se sono intelligenti.

— Perché no? — disse il ragazzo. — Le balene lo sono. E i delfini.

Si sbagliava ma Anna non aveva voglia di discutere. — Sono salita quassù per guardare.

— Sì, vale davvero la pena.

— Andrà avanti per settimane.

— Ehi — disse lui. Era un’esclamazione di gioia.

Poi la ragazza fece: — Adesso deve andare, signora.


Il giorno dopo, l’aereo non ripartì alla solita ora. Katya le disse che i hwarhath erano stati invitati a rimanere per un party.

— Etienne dice che stanno cercando di intrattenere rapporti più cordiali ora che la questione dell’arredamento è sistemata.

— Arredamento? — domandò Anna.

— Non chiedermelo — disse Katya. — Etienne si è chiuso a riccio. Si tratta di un’informazione confidenziale.

— Ah — ribatté Anna e tornò al lavoro.

Accadde col buio, dopo che Yoshi ebbe lasciato la barca. Anna uscì in coperta. La baia era tranquilla. Gli alieni galleggiavano immobili, senza mandare segnali.

Tre persone venivano avanti sul pontile, verso di lei. Una in testa, le altre due seguivano. Anna non riuscì a vederle chiaramente se non quando arrivarono sotto la luce posta all’estremità del pontile vicino alla sua barca.

La prima persona era un umano. Anna lo notò appena perché stava guardando uno dei due che seguivano: un individuo massiccio, vestito di grigio. Aveva un viso largo e piatto, coperto da una peluria grigia, e gli occhi erano completamente azzurri; nessuna traccia di bianco. Le pupille erano larghe sbarre orizzontali che, per reazione alla luce, si restrinsero rapidamente.

Per un momento, l’alieno la fissò, poi abbassò lo sguardo.

L’altro dei due che seguivano era un marine: il ragazzo che Anna aveva conosciuto sulla collina. Portava un fucile, come l’alieno.

L’uomo in testa al gruppetto non aveva armi, o, perlomeno, Anna non riuscì a vederne. Aveva le mani infilate nelle tasche della giacca la quale era disadorna e fatta di una specie di tessuto marrone. Sembrava anche che gli stesse male, come se fatta per qualcuno che non ne capiva assolutamente nulla di moda umana. Stessa cosa per il resto del suo vestiario: disadorno, scuro e in qualche modo inadatto.

Era parte del prezzo del tradimento da pagare?, si domandò Anna. La cattiva fattura degli abiti? L’essere fuori moda?

L’uomo disse: — Uno sguardo diretto è una sfida. È una delle cose che valgono per entrambe le specie. Ecco perché lui guarda giù. Indica che non è interessato in alcun genere di lotta.

— Bene — commentò Anna.

— Mi è stato detto che lei è la persona con la quale dovrei parlare a proposito delle luci nell’oceano.

Anna annuì, senza staccare gli occhi dall’uomo grigio.

— Posso salire a bordo? Temo che loro saliranno con me e vorranno controllare che non ci sia nulla che io possa danneggiare o che possa danneggiare me.

Anna lo guardò dritto negli occhi. Era ordinario come la prima volta che lo aveva visto sullo schermo. Solo che adesso i capelli erano asciutti; un po’ ricci e con parecchio grigio. Il viso era molto pallido come di chi avesse trascorso molti anni dall’ultima volta che era stato al sole.

— Lei è il traduttore — disse Anna, pensando che fosse più educato che chiamarlo traditore.

Lui annuì.

Che diamine? Perché no? Avrebbe potuto non presentarsi più l’occasione di trovarsi di nuovo tanto vicina a un hwarhath. Anna annuì.

L’uomo parlò all’alieno. I due soldati salirono a bordo e cominciarono la perquisizione.

— Fate attenzione — gridò loro Anna. Nicholas aggiunse qualcosa in lingua aliena, poi salì anche lui a bordo. Si appoggiò al parapetto e guardò la baia. Uno dei pseudosifonofori cominciò a lampeggiare, giallo, verde, bianco, giallo: quasi certamente un nome. Sono io. Sono io.

— Okay — fece Nicholas. — Che cosa sono?

Lei glielo disse, poi aggiunse: — Il problema è… Sappiamo che la loro intelligenza è in rapporto alla dimensione. Lo abbiamo scoperto dallo studio degli esemplari piccoli. Questi nella baia sono medi e, probabilmente, mediamente sviluppati quanto a intelligenza. Quelli davvero grandi se ne stanno nell’oceano e non sappiamo ancora come arrivare fino a loro.

I soldati uscirono dalla cabina e rimasero in attesa, ora guardandosi a vicenda, ora guardando Nicholas. Il ragazzo… il marine… sembrava nervoso. Anna non riusciva a vedere l’espressione dell’alieno, ammesso che ne avesse avuta una. La posizione del suo corpo indicava uno stato d’allerta ma non di tensione. Non era preoccupato ma attento, sebbene non guardasse mai nessuno in faccia.

— Molto interessante — disse Nicholas. — Ma non vedo alcuna ragione perché lei pensi che gli animali possano essere intelligenti.

Erano una mezza dozzina a lampeggiare, adesso. Quella sera, i messaggi erano completamente diversi. Non un coro; forse un sestetto, o forse un’emissione di rumore casuale.

— Cosa posso dirle? È facile decidere che una specie è intelligente quando è simile a noi. Come il suo amico, per esempio. Nessuno si è mai fatto domande sui hwar. Abbiamo saputo tutto fin dalla prima volta che abbiamo visto una delle loro navi… Fin dalla prima volta che sono venuti a darci un’occhiata.

Lui la guardò ma non disse nulla.

— Questi qui… — Anna fece segno verso la baia. — …sono davvero alieni; e noi non siamo sicuri di che cosa possa costituire una prova di intelligenza in un animale che va per mare e che non usa attrezzature. Perché me lo chiede, comunque?

— Sono curioso. Negli ultimi giorni, siamo sempre ripartiti dopo il buio e quando ho guardato di sotto li ho visti che lampeggiavano; e sono anche visibili dall’isola… macchie di luce che ballonzolano nell’oceano. E quelli sono i piccoli, ha detto lei. E ho tempo da perdere. Questa sera, stanno cercando di organizzare un evento sociale. Un’idea pazzesca, ma il generale è curioso. Non ha mai visto un gruppo di umani che si divertono. Non penso che funzionerà. I hwarhath non mangiano per divertirsi: per loro è tanto una necessità quanto una legge sacra. Per divertirsi bevono, questo sì, ma i loro festini sono disgustosi. Li evito quanto più mi è possibile. — Nicholas tacque per un momento, guardando la baia. — Mi sono concesso l’orribile fantasia di osservare il generale che cercava di fare conversazione da cocktail party o alle prese… per la prima volta… con una tartina.

— Come vanno i negoziati? — domandò lei.

Lui si strinse nelle spalle. — Sono i primi giorni, e la mia area di competenza non è la diplomazia.

Anna avrebbe voluto domandargli come avesse fatto a mettersi in quella situazione, ma le parve difficile trovare il modo di porgli la domanda. Come si poteva tradire la propria specie? Continuò a parlare degli animali nella baia, formalmente conosciuti come Pseudosiphonophora gigantans. Poi tacque e tutti e due rimasero a guardare in silenzio la baia.

Lui sembrava rilassato, riverso sul parapetto, le mani strette davanti a sé. Ma lei avvertiva un senso di tensione e di solitudine. Il senso di tensione proveniva forse da qualcosa nel corpo di Nicholas, tanto esile che Anna quasi non ne avvertiva consciamente la presenza. Non sapeva bene perché quell’uomo le desse un’impressione di solitudine. Forse per introspezione. Nicholas si raddrizzò. — È tempo di andare. Se conosco bene il generale, si starà annoiando a morte e forse si sarà anche ubriacato. L’alcol non fa assolutamente nulla ai hwarhath. Ma lui si è portato la sua robaccia. — Fece una pausa. — Grazie dell’informazione. Ho letto qualcosa su un vecchio libro… di cui non ricordo il titolo… sull’imparare. È l’unica fonte sicura di piacere e l’unica consolazione che non fallisce mai. — Sorrise. — E tutto quello che ho imparato di recente riguarda certi equipaggiamenti. Mi creda, non è soddisfacente.

Se ne andò con i due soldati alle calcagna. Anna rimase a guardare fino a quando non scomparvero nell’oscurità. Che strana conversazione.

5

Il mattino dopo, Raymond la chiamò proprio mentre lei stava per andare al lavoro.

— Vieni nel mio ufficio, per favore, Anna. — Vide l’espressione del suo viso e aggiunse: — È importante.

Anna prese caffè e un muffin in sala da pranzo e poi andò, arrabbiata. Il più delle volte, Ray non le piaceva e lei non aveva sicuramente votato per lui all’ultima elezione. Ma, a voler essere onesti, era un direttore della stazione perfettamente adeguato e sapeva come trattare con diplomatici e militari. Al momento, quella era una capacità utile.

C’era qualcuno con lui, seduto di fronte alla grande scrivania, una donna in uniforme. La sua pelle aveva lo stesso colore scuro del caffè di Anna. Il taglio dei capelli era quello imposto dal regolamento e il cranio luccicava come se fosse stato lucidato. I capelli, la stretta striscia regolamentare, erano bianchi perché scoloriti. Gli orecchini che le pendevano dalle orecchie erano piccoli grani di vetro.

Ray disse: — Questo è il maggiore Ndo.

— Si sieda, prego — fece il maggiore.

Anna obbedì, a disagio. Aveva delle briciole sulla camicia e i pantaloni. Se le spazzò via, poi cercò un posto dove posare la tazza. Non trovò altro che il pavimento.

Il maggiore disse: — Lei ha avuto una conversazione con Nicholas Sanders, ieri sera. Vuole riferirmela? La prego di essere più precisa possibile e di spiegare la biologia.

— Perché?

— Anna, ti prego — intervenne Ray.

Lei obbedì.

Quand’ebbe finito, il maggiore annuì. — Molto bene. Si avvicina molto alla registrazione, salvo che lei ha dato maggiori dettagli. Ha qualcos’altro da aggiungere? Qualche osservazione?

Ad Anna piaceva l’uomo, ma non aveva intenzione di dirlo alla donna militare. — No. Chi è?

La donna esitò. — Non c’è niente che possa dirle, signora Perez. Tutte le informazioni sono delicate. Non protette ma assolutamente delicate.

— Non voglio apparire una bambina, ma la cosa non mi sembra affatto giusta. Le ho appena detto tutto quello che mi ha chiesto.

Il maggiore annuì. — Ha ragione. Non è giusto. Non ho intenzione di dirle una fandonia sul fatto che la vita non è giusta, perché ho sempre pensato che fosse stupido e inutile. Il suo problema non è che la vita è ingiusta. Il suo problema è che io sono ingiusta. — Sorrise. — È sempre una buona idea fare una netta distinzione tra le forze armate e l’universo. Io posso soltanto dirle cose ovvie. I negoziati sono importanti; la situazione è delicata; lui sta nel mezzo; ed è protetto dall’immunità diplomatica.

— Grazie per il tuo aiuto, Anna — disse Ray.

Anna se ne andò, dimenticando la tazza. Era ancora piena per metà. Con un po’ di fortuna, forse Ray l’avrebbe rovesciata.


La volta successiva in cui vide Nicholas, lui era davanti alla porta della sua camera, il sole che gli splendeva attorno. Indossava lo stesso genere di vestiario dell’altra volta, fatto di stoffa marrone e con un taglio strano. Alla luce del sole, i suoi capelli sembravano molto più grigi che castani.

— Come ha fatto a trovarmi?

— Ho fermato un uomo e gliel’ho chiesto. — Lui sorrise. — Non sapevo il suo nome ma ho detto: «la donna che parla sempre di quelle cose nella baia». È stato sufficiente. Le andrebbe di fare una passeggiata?

— E i negoziati?

— Ho chiesto al generale un giorno di libertà. Non sono l’unico traduttore e sono veramente stanco di stare seduto. Lui sa come sono quando non faccio abbastanza movimento.

Anna ci pensò sopra un momento. — Okay.

— Vengono anche i Gemelli. — Lui si scostò leggermente e Anna vide il ragazzo marine e un alieno. Non avrebbe saputo dire se fosse sempre lo stesso.

— Mi conceda un istante.

Lui rimase davanti alla porta aperta, appoggiato all’intelaiatura. La tensione nel suo corpo aveva un che di maniacale. Dapprima Anna pensò che potesse essere drogato. Ma i suoi occhi si muovevano e mettevano a fuoco normalmente. Le iridi, notò lei, erano di uno strano verde scuro, il colore della giada del Nuovo Mondo. Anna non aveva mai visto un colore simile, prima. Non conosceva alcuna droga che mutasse il colore delle iridi, anche se, naturalmente, le droghe non erano la sua specialità. In ogni caso, l’espressione sul suo viso era d’allerta. L’uomo non era drogato. Era felice.

Si mise la giacca. Si allontanarono dalla stazione.

— Andiamo sulla collina? — domandò Nicholas.

— È off-limits.

Nicholas si girò a guardare il marine. — Soldato?

— Sì, signore, è riservata al personale della stazione.

— Ma non a me?

— Non ne sono sicuro. Credo che potrebbe andarci. Ma non con la signora.

— Il che non ha senso. — Lui si guardò attorno. — Voglio salire in cima a qualcosa di alto e guardare in lontananza. Lassù. — Indicò un’altra collina all’estremità meridionale dell’insediamento umano. — Lì va bene?

— Non ho ordini in proposito, signore. Dovrebbe andare bene.

La giornata era limpida e molto ventosa. La collina era scoscesa e il manto del terreno era umido e scivoloso per uno spesso strato di gelo che stava sciogliendosi. Procedettero lentamente, con i due soldati in grande difficoltà, perché portavano le armi.

— Ehi — gridò infine il ragazzo. — Rallentate.

Anna si girò, come Nicholas. I soldati erano rimasti molto indietro.

— Aspetteremo in cima — fece Nicholas e continuò.

— Signore! — Il ragazzo incespicò e scivolò. Un attimo dopo, stava rotolando verso i piedi della collina, il fucile ancora in mano.

Nicholas gridò nella lingua dei hwarhath. L’altro soldato scese ad aiutare il ragazzo.

— Scadente — commentò Nicholas. — Dovrebbero addestrarsi meglio. Certo, loro li addestrano a obbedire agli ordini, non a pensare: e i suoi ordini sono probabilmente un po’ contraddittori. Non credo che la gente della zona diplomatica sia giunta a una qualche specie di accordo su di me.

— Qual è la distanza utile per un registratore? — domandò Anna.

Il ragazzo aveva smesso di rotolare. Aveva finalmente lasciato andare il fucile. L’alieno lo raccolse e lo tenne, in attesa che il ragazzo si alzasse e lo riprendesse. Il corpo dell’alieno esprimeva una indifferente cortesia.

— Come quello che ha il marine? Forse ci sta ancora registrando. — Lui si guardò attorno. — Dio, che bella giornata! È tutto dorato e azzurro. Sento veramente la mancanza della vita all’aria aperta. Se la preoccupano i registratori, io ne ho uno. Non dica niente che non vuole che gli uomini della sicurezza dei hwarhath analizzino.

— Mi sembra un modo noioso di vivere. — Erano abbastanza in alto da godere una bella vista dell’oceano punteggiato di cavalloni. Nicholas aveva ragione: una giornata veramente bella.

— Al momento, lo trovo divertente. Probabilmente è per via del tempo e del fatto che non devo stare seduto quasi immobile per ore in una stanza senza finestre.

I due soldati li raggiunsero. Il ragazzo era rosso in viso e aveva l’uniforme stropicciata e macchiata.

— Non lo rifaccia, signore.

— Cosa?

— Andare avanti quando le chiedo di aspettare. Avrei potuto trovarmi nella condizione di doverle sparare.

Nicholas scosse la testa. — Ci pensi a lungo prima di farlo, soldato. Hattin è qui per mantenermi vivo. Ha degli ordini molto precisi al riguardo.

Il ragazzo mostrò un’espressione ostinata. — Farò quello che devo fare.

L’alieno li guardava con un’aria di distacco. Come al solito, non guardava nessuno direttamente negli occhi, ma Anna aveva la forte sensazione che vedesse tutto alla perfezione.

— Non conosce l’inglese, vero? — domandò Anna.

— No e non vuole. Hattin è un ragazzo molto dolce, ma manca di curiosità. Non ha alcun interesse per le anomalie forestiere.

— E non guarda mai nessuno negli occhi.

— Io gli sono anziano di grado. I hwarhath rispettano molto la gerarchia. Un uomo di grado inferiore non fisserà mai chiunque gli sia superiore. Il marine è un suo pari ma è anche un nemico; se si fissa un nemico lo si invita alla lotta; e io gli ho detto che lei è una donna. Gli uomini hwarhath non guardano le donne, a meno che le donne non siano membri della stessa stirpe.

Ripresero a salire. I soldati si tennero vicini. Quando arrivarono sulla cima della collina, Anna disse: — Che cosa intende per anomalie forestiere? Demoni stranieri?

— Qualcosa del genere. Hattin è… come posso descriverlo? …tradizionale. Riconosce il giusto comportamento quando lo vede; è il genere di comportamento che ha imparato a casa, da bambino. Qualunque cosa di diverso lo annoia e lo turba. Guardi che vista!

Da un lato c’erano la baia e la stazione, la zona diplomatica che sovrastava tutto il resto. Le cupole erano state trattate con qualcosa che le rendeva rapidamente corrodibili, perlomeno in superficie; erano verde rame, rosso ruggine e di un opaco dorato.

Dall’altra parte, la collina scendeva verso un’ampia spiaggia e l’oceano. Il fondo era basso. Le onde si rompevano in lunghe linee bianche.

— Com’è finito in questa situazione? — domandò Anna.

Nicholas si mise a ridere. — È il genere di domanda che farebbero i hwarhath. Sono molto diretti, come gruppo. Se vogliono sapere qualcosa, lo chiedono e non si preoccupano molto dell’educazione. Se non si vuole rispondere, basta dire: "non ne voglio parlare".

Fece una pausa e guardò l’oceano. — Non mentono molto. Ricorda i versi sugli antichi Persiani? Sono probabilmente di Erodoto. Ai loro uomini insegnavano ad andare a cavallo, a tirare con l’arco e a dire la verità. I hwarhath assomigliano a loro, solo che le armi che insegnano a usare sono molto più imponenti.

— Il che vuol dire che non ne vuole parlare?

Lui fece un’altra pausa. — Non per il momento.

Camminarono lungo la cresta della collina. Gli steli avevano perso tutte le spore e la loro morbidezza. Il vento li piegava come canne.

Molto bello. Molto rilassante. O forse quella non era la parola giusta. Quella vista rendeva felici. Il vento portava via preoccupazione e stanchezza.

Dopo un po’, Nicholas disse: — Non voglio che si faccia l’idea che i hwarhath siano tutti come Hattin. Variano molto, come l’umanità, anche se in modo diverso. Il generale, per esempio, è molto meno conservatore e molto più curioso.

— A chi sta parlando? — domandò Anna.

Lui sorrise. — A lei, tra le altre persone. Torniamo giù. Voglio saperne di più sui suoi animali.

Scesero alla baia, seguiti dai soldati. Quando raggiunsero la barca, Nicholas si fermò e disse qualcosa all’alieno. Anna entrò nella cabina.

— Abbiamo compagnia, Yosh.

Nicholas entrò a sua volta, chinandosi sotto la porta piuttosto bassa. Yoshi si alzò, educato e un po’ a disagio. Non si sentiva mai del tutto a suo agio con gli estranei.

— Questo è… — Anna esitò. — Ha un titolo o un grado?

Nicholas annuì. — La traduzione letterale sarebbe "addetto". Equivale più o meno a capitano.

— Il capitano Sanders. Il dottor Nagamitsu Yoshi. Il capitano è interessato ai nostri amici nella baia.

Yoshi parve sorpreso. Cercava senza riuscirci di inquadrare Nicholas. Qualcuno della zona diplomatica, ovviamente. Non c’erano stranieri alla stazione. Ma non andava oltre. Anna poteva quasi vedere la sua mente al lavoro nel tentativo di ricordare quale comunità umana usasse un grado come addetto.

— Perché non illustri l’attrezzatura, Yosh?

Yoshi lo fece: il sonar e il radar, le telecamere subacquee e i microfoni, gli strumenti che misuravano il flusso d’acqua nella baia. Spiegò come venivano presi e analizzati i campioni. Alla fine, parlò di Moby.

Durante tutto questo tempo, i soldati rimasero fuori. Il ragazzo era visibile sulla soglia. (Yoshi gli lanciava di tanto in tanto un’occhiata, divertito.) Anna non vedeva l’alieno.

— Parlate con loro, servendovi del galleggiante — osservò Nicholas.

— Comunichiamo — disse Yoshi. — Quanto a questo non ci sono dubbi; ma non siamo sicuri di fare delle conversazioni. Prima di tutto, loro non sembrano avere una grammatica. Abbiamo la tendenza a credere che qualsiasi creatura intelligente debba avere un modo per fare enunciati di relazione, per parlare di causa ed effetto. Diciamo loro delle parole e loro ne dicono altre di rimando o, a volte, le stesse. Possono comportarsi come pappagalli, soprattutto durante la stagione dell’accoppiamento. Deve aver visto le segnalazioni nelle ultime settimane. È qui da tanto?

— Da quando sono arrivati i hwarhath - rispose Nicholas.

— Ah — disse Yoshi. Ancora non si era fatta un’idea di chi fosse l’uomo.

Anna stava assistendo a un bell’esempio di pensiero Watsoniano, cosiddetto (naturalmente) in onore del compagno di Sherlock Holmes, un uomo sul quale si era malignato molto. Il buon dottore non era stupido. Semplicemente non faceva certi tipi di collegamenti… come Yoshi in quel momento, che continuava a spiegare come avessero insegnato agli animali a cantare "Mary ha un Agnellino".

— L’abbiamo tradotto nel codice d’emergenza internazionale e l’abbiamo fatto trasmettere da Moby… durante il periodo dell’accoppiamento, naturalmente… e loro l’hanno colto. Non siamo riusciti a indurli a farlo a turno; continuano a volersi sincronizzare. Una splendida vista, ma non il comportamento di una specie intelligente.

— Perché no? — domandò Nicholas. — Lei parla del cantare in coro. Gli umani lo fanno e lo fanno anche i hwarhath.

— Davvero? — disse Yoshi. — Non lo sapevo. — E ancora l’unità monetaria internazionale non si decideva a cadere. — Mi riferisco alla ripetizione pappagallesca. Ripetono anche troppo… con noi e l’uno con l’altro. Questo non è un segno d’intelligenza.

— Non si tratta di un falso problema? — chiese Nicholas. — Intelligenza è una parola ambigua e lo sono la maggior parte delle parole che possono essere sinonimi. Comprensione, coscienza, apprendimento nell’antico senso, ragione. Fino a che punto è significativo parlare d’intelligenza in un qualsiasi tipo di essere? Gli umani o i hwarhath, i computer, i delfini e le balene? E, comunque, perché se ne cura?

Yoshi lo rimproverò con lo sguardo. — Vogliamo qualcuno con cui parlare. Qualcuno che capisca.

— Allora parli con i tizi sulla collina, anche se non scommetterei che capiscano molto. — Nicholas guardò il marine. — Ha l’ora?

Il ragazzo guardò il calcio del fucile. — Le quindici e cinquanta.

— Sarà meglio che vada. L’aereo parte in anticipo, a volte. — Si girò verso Yoshi che era rimasto a bocca aperta. — La ringrazio, dottor Nagamitsu. Arrivederci, Anna.

Si chinò per uscire dalla cabina e Yoshi disse: — È quello l’uomo…

— Uh-uh — rispose Anna. — Continuavo ad aspettare che tu lo capissi. Non hai notato i suoi vestiti?

— Pensavo che fosse accaduto qualcosa alla moda sulla Terra o che potesse trattarsi di una specie di uniforme. Non presto molta attenzione ai militari. Ce ne sono talmente tanti e ne arrivano di talmente tante specie. Chi riesce a tenere il conto? In cosa ti sei fatta coinvolgere, Anna?

— In niente che abbia importanza. La gente della zona diplomatica sa quello che succede. Lui non se ne va in giro libero. Non farà alcun male a nessuno.

6

L’ufficio del generale (quello attuale, sull’isola) ha l’aspetto spoglio e sobrio di qualcosa che vuole essere temporaneo: pareti grigie, moquette grigia da muro a muro, un tavolo e due sedie.

Non ci sono finestre. Un arazzo è appeso di fronte al tavolo. È grande e semplice e ha l’aria di qualcosa che appartiene a uno spazio pubblico. Non l’ho mai visto in nessuna delle sue stanze. Deve averlo preso dal deposito principale della nave: qualcosa per coprire una parete vuota.

Al centro dell’arazzo c’è un fuoco, rosso, arancione e giallo. I colori si irradiano, meno intensi di quelli del fuoco, e tuttavia brillanti e caldi, quasi che il fuoco illumini il terreno circostante. A mano a mano che la distanza dal fuoco aumenta, i colori cominciano a smorzarsi e volgono al grigio. Infine, a metà strada dall’orlo dell’arazzo, i colori che s’irradiano incontrano le spade, che sono decisamente grigie… un colore freddo, che dà l’idea del duro. Sono disposte in cerchio, punta contro elsa, che si toccano l’un l’altra, cosicché il cerchio è continuo. Ho sempre pensato che avrebbe più senso se le punte fossero rivolte verso l’esterno. Ma questa disposizione ha effetto dal punto di vista visivo. Oltre le spade, l’arazzo è nero con punti bianchi: spazio e stelle.

Il Focolare in un Cerchio di Spade. Per quel che ne so, è l’emblema più antico per il Popolo, sebbene questa versione sia, ovviamente, relativamente recente, creata dopo che il Popolo si è reso conto che il suo mondo… la sua terra… era circondata dall’oscurità. (Sì.) Per il Popolo, l’immagine ha un grande potere. A me è sempre sembrata… come posso dire?… una specie di palla fatta con i semi di una pianta da cibo prelibato cresciuta al centro del Nord America, sulla Terra. (?)

Ogni due giorni, mi reco all’ufficio. Il generale siede tranquillo dietro il suo tavolo e guarda l’arazzo. Cerco di sedere tranquillo sull’altra sedia, anche se penso meglio quando sono in movimento.

Discutiamo dei negoziati, li critichiamo, cerchiamo di immaginare cosa pensino gli umani, analizziamo la reazione dell’altro popolo del team dei hwarhath. Alcuni di loro hanno stretti legami con altri frontisti. La loro lealtà al generale non è assoluta.

Se il generale si lascia coinvolgere nella discussione… se diventa seriamente interessato, pensieroso… allora è verosimile che prenda uno stilo e se lo rigiri tra le mani. È un gesto umano, anche se le mani sono molto diverse: il mignolo è parecchio più lungo di quello di un umano, anche il pollice è molto lungo, e stretto. Il dorso delle mani è ricoperto di peluria che assomiglia a velluto grigio. Le unghie sono strette, se paragonate a quelle umane, e spesse. Se non vengono tagliate, crescendo si curvano e si trasformano in artigli.

Posso passare giorni e settimane senza veramente vederlo e… tutt’a un tratto… eccolo lì, reale e solido e alieno.

Ho detto: — Il ragazzo, il soldato umano, mi ha detto che avrebbe potuto uccidermi.

Il generale ha aspettato, le mani intrecciate.

— Tu hai messo bene in chiaro che dovevo essere persona gradita e i diplomatici umani si sono detti d’accordo.

Mi ha chiesto di spiegare "persona gradita".

— Significa che non devono uccidermi. Penso che noi abbiamo forse sottovalutato l’equilibrio di potere tra i diplomatici e i militari. Il ragazzo prende ordini dai militari. Se diceva la verità, e non sembra affatto un bugiardo, allora i militari non ascoltano i diplomatici.

È sembrato irritato. — Gli umani non riescono a fare nulla in modo ordinato? Perché mandano due diversi gruppi di persone a trattare la direzione dei negoziati? Parliamo di guerra e delle regole della guerra. Non dovrebbe esserci nessuno, qui, tranne gente che sappia come e perché combattere.

— Al momento, preferirei trattare con i diplomatici. I soldati mi fanno sentire a disagio.

Si è seduto a guardare per un po’ l’arazzo. — Non abbiamo abbastanza, qui. Tu mi hai riportato delle parole, pronunciate da un portatore. Non sappiamo se abbia parlato correttamente o abbia capito i suoi ordini. Non sappiamo cos’abbiano in mente quelli che gli stanno di fronte.

Ho aperto la bocca. Ha sollevato la mano. — Non getterò via quest’informazione ma la metterò da parte. Continueremo come prima e vedremo quello che accadrà.

Parlava con il tono che usa in pubblico, il che significava che il tempo della conversazione era finito. Mi sono alzato.

Ha detto: — Scopri dell’altro sugli animali nell’oceano, quelli che potrebbero essere intelligenti.

— Non destano alcuna preoccupazione come nemici. Probabilmente non posseggono neppure alcun genere di tecnologia e certamente non andranno mai nello spazio.

Ha fatto un gesto vago. Vale sempre la pena stare in guardia da nuovi nemici. (Vero.)

La base si trova al centro dell’isola. (Se i hwarhath vogliono guardare un oceano, attivano un ologramma.) Dopo aver lasciato l’ufficio, sono andato sulla spiaggia. La marea era finita, quel poco di marea che c’è. Ho passeggiato lungo la stretta spiaggia sassosa.

Ho incontrato alcune delle persone che si occupano di azione per la Military Intelligence. (Non tra i hwarhath. Quelli sono stati attenti a tenermi alla larga da quelle zone. Ma tra gli umani.) Non mi piacciono. C’è troppo complotto, troppa finzione… soprattutto riguardo la linea d’azione dura… troppa segretezza, troppo fascino per la tecnologia, troppa elaborazione inutile.

Gente pericolosa. Divoratori di topi e avvelenatori. (?) Sono qui, su questo pianeta, ne sono quasi sicuro. Ho visto gente che ne ha l’aspetto nei corridoi della zona diplomatica; e quando mi guardano, sembrano affamati.

Ho girato per tutto il tempo attorno all’isola. Una buona idea. Il vento soffiava, le onde spumeggiavano e ho fatto una buona dose di esercizio.

A un certo punto, su una spiaggia di sabbia nera, ho trovato qualcosa che sembrava appartenere al Museo di Storia Naturale Field di Chicago, in una di quelle belle bacheche antiche e polverose. La vita nel Devoniano.

Era lungo circa un metro con un corpo stretto e segmentato e una testa larghissima, con la forma approssimativa di un martello. La maledettissima cosa si muoveva lentamente, uscendo dall’oceano su tante zampette, agitando la testa goffa, ovviamente a caccia. Non sono riuscito a vederne la bocca o gli occhi.

Mi sono fermato. Mi è passato accanto, a pochi centimetri dalle scarpe. Evidentemente, non ero importante: non ero mangiabile né rappresentavo un pericolo. Ha proseguito lentamente sulla sabbia nera e bagnata, muovendo la testa avanti e indietro. Me ne sono andato.


Dal diario di Sanders Nicholas,

addetto alle informazioni presso lo staff

del Primo Difensore Ettin Gwarha

CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA

7

Il mattino seguente, Anna ricevette un’altra telefonata da Ray. Lui sembrava stanco e preoccupato.

— Ancora la stessa cosa? — domandò lei.

Lui disse di sì.

Anna andò nel suo ufficio. Il maggiore era sulla stessa sedia dell’altra volta. Ora portava orecchini d’argento: piccoli pipistrelli con le ali spiegate, lucenti alla luce del sole del mattino presto.

Anna si sedette e si sporse in avanti, dando un’altra occhiata.

Il maggiore disse: — Faccio parte di un’organizzazione che si dedica alla conservazione dei pipistrelli.

Pipistrelli?, pensò Anna.

— Sono animali utili e interessanti e Dio sa quante specie si sono estinte negli ultimi duecento anni. Abbiamo fatto cose terribili sulla Terra, signora Perez. — Tacque per un momento, pensando ovviamente a qualcosa che la faceva arrabbiare. — Nove miliardi di persone! Come abbiamo potuto? — Lanciò un’occhiata a Ray, dietro la sua grande e imponente scrivania come dietro a una barricata. — Può andare, Sab Medawar. La ringrazio per l’aiuto.

Ray aprì la bocca, poi la richiuse e si alzò. Dopo che la porta si fu chiusa, il maggiore guardò Anna. — Nicholas Sanders è venuto a cercarla.

— Sì.

— Ha idea del perché?

Anna ci pensò sopra un momento. — Posso dirle cosa mi ha detto. Voleva informazioni sulla mia ricerca, e fare una passeggiata in compagnia.

Il maggiore mosse la testa, mettendo da parte il problema. — Le persone non hanno sempre delle buone ragioni per quello che fanno. Certo non hanno sempre ragioni che noi riusciamo a comprendere. Le chiedo il suo aiuto nel trattare con quest’uomo.

— Perché?

— È possibile che non venga più a farle visita. Se lo facesse, vorremmo che si portasse dietro un registratore e che ci facesse un rapporto. La sua vita è l’osservazione; ci interesserebbe quello che pensa di vedere.

— Perché dovrei aiutarla?

Il maggiore guardò uno schermo che aveva su un ginocchio. Premette un pulsante. — Mi piace fare liste di tutto. Mi sono venute in mente tre ragioni. Aiuterà il suo governo e la sua specie. Il suo campo è l’intelligenza non umana; e l’unico, indiscutibile esempio di intelligenza non umana… — Fece una pausa e rimase in ascolto. — …vola sopra di noi, proprio in questo istante. I hwarhath. Molte delle informazioni su di loro sono protette. Io posso accedere a qualcuna di esse per lei. Non potrà renderle pubbliche ma ne sarà a conoscenza.

— La cosa mi tenta molto — disse Anna.

— La ragione numero tre è la sua medusa. — Il maggiore tacque di nuovo. — Ci troviamo di fronte a un dilemma, in questa zona. Se a Sanders interessano quelle creature, allora deve essere interessata anche la gente per cui lavora e, se lo è, allora forse le informazioni su di loro sono strategiche. Anche se non possiamo immaginare come. E, in ogni caso, forse dovrebbero essere protette.

— Aspetti un momento — disse Anna.

Il maggiore sollevò una mano. — Aspetti ad arrabbiarsi. Noi propendiamo per lasciare la situazione così com’è. Siamo interessati di più a Sanders.

— Quello che credo di capire — fece Anna — è che dovrei lavorare per lei per proteggere lo stato della mia ricerca. Se non lo faccio, potrebbe pensarci lei e io non potrei renderla pubblica.

Il maggiore annuì. — Esatto. Una minaccia, una fregatura per lei e un appello al patriottismo. Ecco cosa le offro.

— Devo pensarci sopra.

— È naturale — commentò il maggiore.

Anna si diresse alla porta. Alle sue spalle, il maggiore disse: — Sappiamo che ha parlato a Sanders del registratore che il marine Ling si porta dietro. Se decidesse di aiutarci, signora Perez, si ricordi che la sua lealtà dev’essere assoluta.

— D’accordo — ribatté Anna.

La giornata era mite, con pochissimo vento. Anna camminò lungo la stretta spiaggia ghiaiosa che delimitava la baia. Qualche insetto correva tra i sassi e il sole del mattino si rifletteva nell’acqua esattamente ad angolo retto. Qua e là, Anna riusciva a scorgere qualcosa di scintillante sotto la superficie. Una campana ondeggiante. Un tentacolo che si muoveva. A quell’ora, gli pseudosifonofori avevano cominciato il lento e attento rituale della rassicurazione e della… Esitò. Era giusto chiamarla seduzione?

Gli animali erano abbastanza vicini da toccarsi l’un l’altro, ora. Gli aculei-tentacoli venivano tenuti giù e, di tanto in tanto, si contorcevano. Era molto difficile per quegli animali non attaccarsi. A quel punto, ne era quasi sicura, i tentacoli dell’accoppiamento erano ancora arricciati al sicuro. Ma presto… nei giorni seguenti… si sarebbero distesi. L’attuale scambio di materiale era molto breve: e poi c’era il lungo e lento processo di svincolamento… non fisico, il che era facile e quasi immediato, ma emotivo. Stava di nuovo usando parole grosse, introspettive.

In seguito, per giorni, gli animali avrebbero ripetuto i loro messaggi di rassicurazione e le loro affermazioni di identità. Sono io. Non rappresento niente di male. Poco per volta, i colori si sarebbero sbiaditi; i ritmi avrebbero rallentato; gli schemi sarebbero diventati più irregolari; a uno a uno, gli pseudosifonofori si sarebbero trasferiti nell’oceano.

Si fermò a guardare la baia. Amava gli animali. Non sopportava l’idea di non rendere di dominio pubblico la loro esistenza. Chi era Nicholas per lei? Uno straniero, un traditore. Avrebbe detto di sì al maggiore.

Tornò velocemente in camera sua, temendo di cambiare idea, e telefonò in giro finché non trovò il maggiore.

Quando diede la sua risposta, il viso scuro si illuminò in un sorriso. — Brava. Venga alla zona diplomatica, questa sera. C’è qualcuno che voglio che incontri. Credo che le piacerà. E, signora… d’ora in poi, per quel che riguarda la nostra conversazione di questa mattina, tutto ciò che le dirò sarà confidenziale.

Anna annuì.

Andò a letto ma non riuscì a dormire. Non era una bella situazione. Si stava mettendo in qualcosa che era eticamente ambiguo e forse stupido e sicuramente al di sopra delle sue forze. Dopo un po’, si addormentò ed ebbe degli incubi in cui c’erano sempre la barca e molti tentacoli.

Fu svegliata dall’orologio. Si alzò, si fece una doccia, si vestì e andò nella zona diplomatica. La sera era ormai vicina e il cielo era abbastanza scuro per mostrare le stelle. Il centro della galassia risplendeva sopra di lei, striscia di luce pallida. Erano visibili due dei giganti gassosi: uno proprio sopra la sua testa (rossastro), l’altro sopra la zona (giallo).

La guardia alla porta aveva il suo nome. Un altro soldato la condusse nell’ufficio del maggiore: una stanza ampia, con le pareti ricoperte da un qualche cosa che non poteva essere legno ma ne dava una convincente impressione. Su una parete un ologramma della Terra, ripresa dallo spazio, con bianche nuvole che si muovevano e l’intero pianeta che ruotava molto lentamente.

Non c’erano scrivanie ma solo quattro sedie, basse e comode, messe in cerchio attorno a un tavolo. Sul tavolo, un servizio da tè d’argento e tre tazze di porcellana. Più o meno l’ultima cosa che Anna si era aspettata di vedere. Forse non era entrata nel mondo dello spionaggio. Forse quello era il Paese delle Meraviglie, oppure Oz.

Guardò il maggiore. Non si era trasformata nel Cappellaio Matto o nello Spaventapasseri, e l’ometto che sedeva nella sedia accanto era perfettamente comune.

— Questo è il capitano Van — disse il maggiore. — È uno dei nostri traduttori.

Lui si alzò, strinse la mano ad Anna e si sedette nuovamente. Il maggiore versò il tè. Era scuro. Indiano. C’era un piatto di piccole tartine. Il maggiore le offrì.

Il capitano Van disse: — Il maggiore ha uno strano senso dell’umorismo. Se lavorerà con noi, sarà meglio che lo sappia. Non tocca la qualità del suo lavoro.

Il maggiore sorrise e mangiò una tartina, poi prese uno schermo-computer. — Tutto quello che le dirò e che le dirà il capitano è protetto. Formalmente protetto, con sigilli e chiavi d’accesso e codici per "uso confidenziale". Ora, in certi casi, questo non sarebbe mai dovuto accadere. Il materiale non è delicato e non lo è mai stato. In altri casi, il materiale era delicato vent’anni fa ma non lo è più. In qualche caso, le daremo informazioni che non vogliamo che si sappiano in giro. In tutti i casi, lei finirebbe in grave imbarazzo se parlasse. È chiaro?

Anna annuì e prese un’altra tartina. Era deliziosa.

Il maggiore attivò lo schermo-computer. — Okay. C’è stata una nave, la Free Market Explorer, che è scomparsa vent’anni fa. — Fece una smorfia. — Il nome fa pensare a una nave da carico. Era una nave per le lunghe distanze, velocissima, la migliore che avessimo a quel tempo, ed è scomparsa nello spazio hwar. Abbiamo sempre pensato che fosse stata distrutta.

— Dell’equipaggio della Free Market Explorer faceva parte un certo Nicholas Sanders. Era un capitano della Military Intelligence. Non sarebbe dovuto esserlo. Non aveva la personalità adatta. Ma, a quel punto, era una delle poche persone che conoscessero veramente bene la lingua principale hwar.

— Il nostro uomo — osservò Anna.

Il maggiore annuì. — Non abbiamo un’identificazione sicura ma io ne sono quasi del tutto certa. Sanders aveva ventisei anni quando la nave scomparve. Ne avrebbe quarantasette, adesso, e io penso che questa sia approssimativamente l’età del nostro Nicholas. Ha vissuto per vent’anni dietro le linee del nemico.

— Desidera dell’altro tè? — chiese il capitano Van.

Anna annuì.

Il capitano lo versò e il maggiore proseguì. — Dovrò spiegarle qualcosa sul problema della raccolta d’informazioni in questa… come possiamo chiamarla? Non è mai stata dichiarata una guerra e non abbiamo mai combattuto una vera battaglia. Per quasi quarant’anni, ci sono stati viaggi d’esplorazione, missioni di spionaggio e, di tanto in tanto, qualche schermaglia.

Guardò il suo schermo. — Ci sono diversi problemi. Tanto per cominciare, l’immensità dello spazio e la natura del viaggio Ftl. Non abbiamo garanzie che gli alieni provengano da qualche posto qui vicino. Pensiamo… ma non ne siamo sicuri… che si siano espansi molto rapidamente dal loro sistema originario, come abbiamo fatto noi. Pensiamo di trovarci di fronte a due sfere enormi e quasi vuote che siano giunte a contatto, che si sfiorino. Ho detto che le sfere sono vuote. Sono piene di stelle… migliaia, forse milioni, e siamo alla ricerca di una dozzina di mondi magari abitati.

Una buona oratrice, pensò Anna, che tuttavia aveva la sensazione di partecipare a una specie di tea party per pazzi. Forse per la combinazione di enormi distanze e di piccole tartine e del piccolo capitano che sedeva tranquillo, quasi addormentato. Cominciava a sembrare un ghiro.

— Questo è un genere di problemi — disse il maggiore. — Problemi di scala. L’altro genere ha a che fare con la psicologia. Gli alieni sono paranoidi o sospettosi o forse qualcos’altro che non sappiamo, qualcosa di veramente alieno. La prima volta che li abbiamo incontrati erano pronti alla guerra. Aspettavano noi o un altro nemico. Le loro navi e le loro stazioni erano armate e delle vere trappole esplosive. Non abbiamo mai catturato una nave col suo sistema di navigazione intatto.

"E abbiamo sempre avuto problemi a interrogare gli alieni, i pochi che siamo riusciti a catturare. Dapprima, non sapevamo come parlare con loro. Alla fine, siamo riusciti a decodificare… sarebbe il termine giusto? …la loro lingua principale. E Nicholas Sanders faceva parte della squadra che l’ha fatto. È molto bravo con le lingue."

Il piccolo capitano annuì.

— Nel contempo, abbiamo avuto un altro problema, e questo non siamo stati capaci di risolverlo. Gli alieni muoiono facilmente. Se si dà loro l’occasione, si uccidono. Se ciò non è possibile, allora si rifiutano di mangiare e, se vengono nutriti forzatamente, non sopravvivono.

Quasi nessuno sopravviverebbe, pensò Anna. Si sentì male al pensiero di gente come Hattin legata da qualche parte, piena di tubi infilati da tutte le parti. Era una specie di violenza.

— È stato difficile mantenere vivi quel tanto che bastava per sapere qualcosa i pochi che siamo riusciti a catturare. Forse i primi… quelli con cui non siamo riusciti a comunicare… avevano informazioni che sarebbero state davvero utili; ma sono morti prima che potessimo interrogarli; e quelli che siamo riusciti a interrogare… — Il maggiore sembrava frustrato. — …non sono a conoscenza delle cose che vogliamo davvero sapere. Forse si è trattato di puro caso. Quanti esperti di ingegneria militare ci sono in un equipaggio, anche nell’equipaggio di una nave Ftl? E quanti esperti di navigazione? E quante le possibilità di mantenere viva una di queste persone?

"Può anche darsi che, una volta saputo che eravamo qui, il nemico abbia trasferito al sicuro, chissà dove, le persone in possesso di informazioni delicate." Fece un sorriso. Un sorriso cattivo. "Ci sono volte in cui penso di non riuscire a dire altro che: ’Non lo so. Non lo sappiamo. Non lo sanno. Nessuno lo sa’."

— Questo che cosa ha a che fare con me? — domandò Anna.

— Dopo quasi quarant’anni di tentativi, tutto ciò che conosciamo è un po’ della loro tecnologia militare e della loro cultura. Ora, ci troviamo di fronte a un uomo che ha vissuto per vent’anni tra gli alieni. E Dio solo sa cos’ha raccontato loro. Dio solo sa cos’ha imparato.

— Che cosa avete intenzione di fare?

— Di cercare di farlo tornare indietro. Una volta, è stato convinto. Forse può essere convinto di nuovo.

— E volete il mio aiuto.

Il maggiore annuì.

— Non credo che sarei brava nei panni di Mata Hari.

— Chi? — domandò il piccolo capitano.

— Una spia — rispose il maggiore. — Nella storia dell’Occidente, una donna che otteneva informazioni seducendo gli uomini.

— Ah… — Il capitano posò la tazza. — Credo che farei meglio a dirle qualcosa di più su Sanders. Ciò che ho appreso nel corso dei negoziati. — Rimase per un momento seduto, ovviamente pensieroso. — Dovrò parlarle della lingua principale dei hwarhath. Mi scuso per questo. Il maggiore le ha già dato molte notizie sul loro background.

Anna aveva la sensazione che il capitano ritenesse che le fossero già state date troppe informazioni. Perché? Le riteneva delicate? O irrilevanti? Niente di ciò che non sapeva o che non era riuscita a scoprire lo era, per quel che poteva dire, tranne il materiale sui prigionieri alieni. Non le piaceva pensare a quella gente che moriva.

— La lingua ha cinquantasei forme della seconda persona singolare — spiegò il capitano. — Le variabili sono il sesso della persona alla quale ci si rivolge, il rango comparativo delle due persone coinvolte, il grado di parentela, se ne esiste uno. Sono parenti prossimi? Lontani? O niente affatto parenti? Per finire, c’è il grado di vicinanza emotiva. Si tratta di un buon amico? Di una persona alla quale si vuole bene? Sanders ha fatto gran parte della traduzione. È sempre molto formale, molto rispettoso verso i hwarhath. Il suo titolo… addetto… non è molto importante.

— È l’unico particolare della sua situazione che mi soddisfa — disse il maggiore. — Era capitano vent’anni fa e lo è anche ora. Il fatto di aver cambiato parte non ha giovato alla sua carriera.

Il capitano Van annuì. — Quando si rivolge ai hwarhath, usa sempre una forma di "tu" che indica che sta parlando con un maschio di grado superiore, non imparentato con lui e col quale non ha alcun legame emotivo. E loro… quasi sempre… hanno risposto usando la forma reciproca, indicando che parlano con un maschio di grado inferiore, non imparentato e relativamente straniero. In ogni caso, i hwar si comportano stranamente con lui. — Il capitano fece una pausa. — Devo procedere con cautela, al riguardo. Parlo di qualcosa che è tutt’altro che sicuro. Sono… tranne il generale… troppo cortesi. Nel modo in cui si muovono attorno a lui. Gli concedono molto spazio e sono attenti a dove si trova e a quello che fa. Non si aspettano che lui ceda loro il passo; e non incontrano il suo sguardo. Sanders sta con questa gente da tanto tempo. Dovrebbe aver imparato a tenere gli occhi bassi. Ma, a volte, se ne dimentica e soltanto il generale lo guarda negli occhi. Gli altri lo evitano.

"Si comporta… e anche loro… come se fosse più importante di quello che sembra. Il che porta a una seconda considerazione. Lui e il generale, a volte, parlano in una lingua che, a quanto pare, non è conosciuta dagli altri hwar. È quasi sicuramente una lingua hwarhath, anche se non assomiglia molto a quella che abbiamo imparato. Secondo me, si tratta della lingua del generale che, sempre secondo me, non appartiene alla etnia della lingua che conosciamo." Il capitano Van sorrise. "Lo si comprende più facilmente degli altri hwarhath o di Sanders.

"Dopo aver notato tutto questo, ho cominciato a prestare maggiore attenzione a Sanders e al generale. Io non sono il traduttore principale. Non ho dovuto passare tutto il tempo a pensare ai problemi tecnici della lingua. Ho potuto, invece, concentrarmi sugli alieni come popolo.

"Una volta, alla fine di una lunghissima giornata, il generale ha cambiato lingua. Ha detto qualcosa nella sua lingua, poi è passato all’altra, e credo che ciò sia accaduto per il fatto che non ha cambiato abbastanza rapidamente il corso dei suoi pensieri. Si è rivolto a Sanders usando la forma intima del ’tu’. È una forma che non dice niente sul grado o sulla parentela. Indica soltanto il sesso della persona alla quale ci si rivolge. Il sesso è sempre importante per i hwarhath.

"Per quel che possiamo dire noi, questa forma viene usata verso i membri di una famiglia vicina alla persona, per i carissimi amici… che sono di solito amici fin dall’infanzia… e per amanti riconosciuti.

"Più tardi, ho controllato la registrazione" continuò il capitano. "Ho sentito bene il generale e poi, guardando la registrazione, sono riuscito a esaminare le altre persone del gruppo hwarhath addetto ai negoziati. Erano rimaste gelate. Un paio avevano espressioni che sarebbero potute essere di sconforto o di imbarazzo. Ho una certa difficoltà a leggere le espressioni dei hwar. La loro lingua è più facile e così pure il linguaggio dei loro corpi.

"Chi mi interessava era Sanders. Non ha affatto reagito e me ne sarei accorto se un umano fosse rimasto scioccato o imbarazzato; e quando ha risposto al generale, ha usato il titolo per intero. Non Primo Difensore, che è ciò che usa quasi sempre, ma Difensore della Terra con Onore Primo Davanti."

— Non sono sicura di seguirla — disse Anna.

— Credo che il generale stesse usando la forma che abitualmente usa con Sanders, molto verosimilmente quella che aveva usato un momento prima nell’altra lingua.

— Quando Sanders ha usato il titolo per intero, gli stava ricordando: "Quello non è appropriato, qui".

Anna ci pensò sopra un momento. — Quello che mi sta dicendo… quello che penso che mi stia dicendo… è che Nicholas ha una relazione sessuale con una persona che è ricoperta di pelo grigio.

— Be’ — disse il maggiore — lui non fa parte della famiglia del generale, e non è un amico d’infanzia, e per quello che possiamo dire, il nemico non ha ciò che chiameremmo una normale vita sessuale. Nessuno di loro ce l’ha.

Anna si mise a ridere. — Che cosa vuol dire?

— Voglio dire esattamente quello che ho detto. Abbiamo scoperto un’intera cultura, forse un’intera specie, che non pratica l’eterosessualità, se non forse… e non ne siamo sicuri… come una perversione.

— Come si riproducono?

— Lei come pensa che facciano? — Il maggiore era ovviamente a disagio. Strano, dal momento che non aveva problemi a parlare di guerra e di gente che moriva. — Moderna tecnologia medica. Inseminazione artificiale.

Il che aveva senso. Ma come si era sviluppata una cultura simile? E perché? E che cosa aveva fatto prima dello sviluppo della moderna tecnologia medica? Anna aprì la bocca per porre la prima di molte domande.

— Sono andato a vedere la scheda di Sanders — disse il maggiore. — Non c’era niente… assolutamente niente… che indicasse qualche problema in relazione alla sessualità. Tutti i suoi test psicologici erano buoni. Non si è mai sposato, ma molta gente della Mi trova difficile avere relazioni a lungo termine.

Come si verifica la predisposizione a lasciarsi sessualmente coinvolgere con degli alieni? Soprattutto se nessun alieno è disponibile? Anna tentò di immaginare una nuova versione del Mmpi.

Rispondi sì o no:

Trovo la peluria grigia sessualmente eccitante.

Ho fantasie su persone con gli occhi azzurri chiari e le pupille orizzontali.

Posò la tazza. — Credo di aver ricevuto informazioni sufficienti, per il momento: e sono in ritardo al lavoro. Si potrebbe continuare un’altra volta?

Il maggiore guardò il capitano, che annuì. Sembrava a disagio ma Anna aveva la sensazione che non fossero tanto gli alieni a infastidirlo quanto il maggiore. Doveva essersi sicuramente laureato in una delle scienze del comportamento. Era molto probabile che fosse meno disturbato dalle varianti che si potevano trovare nella gente e nelle loro culture.

Anna si alzò.

Il maggiore disse: — Si ricordi, nessuna di queste informazioni è per uso pubblico.

Anna non moriva dalla voglia di correre giù per la collina e di raccontare al primo che incontrava le abitudini sessuali degli alieni o di Nicholas Sanders, o che si fosse messa in qualcosa di tremendamente strano. — Non si preoccupi, maggiore. In questo momento, voglio soltanto andare a guardare un branco di creature, che sono tutte di entrambi i sessi e il cui maggiore impegno in questo momento è di organizzare la loro unica copulazione annuale. Buonasera.

Aveva un’eccellente vista della baia mentre scendeva per la collina. Era splendente di luce, come lo erano il canale e l’oceano. Sentì dapprima d’essere soprattutto sorpresa, poi cominciò a pensare alla cultura hwar. Era interessante. E prometteva di essere anche divertente. Dopo un momento, provò l’impulso irresistibile di mettersi a ridere e lo fece.

8

Ho trascorso la serata negli alloggi del generale, a guardare un poema epico. Gwarha beveva… non velocemente, ma con costanza, il che significava che, per la fine della serata, si sarebbe sbronzato. Questo è un problema che non migliora. (Grazie per l’avvertimento.)

Io ho bevuto del vino. Lui ne aveva portato una mezza dozzina di bottiglie dal party sulla terraferma. Non ho bevuto molto. Non sono più abituato all’alcol e se tutti e due ci fossimo ubriacati, avremmo finito col metterci a discutere della recita o dei negoziati.

Lui aveva messo l’olografo sulla parete lontana, di fronte al divano, che era lungo e basso e non particolarmente comodo. L’arredamento hwarhath non è disegnato per gente della mia altezza. Quando ha attivato la macchina, il muro è scomparso; c’era il palco con due uomini, vestiti con armature dai colori vivaci. Lunghe piume erano attaccate agli elmi e ondeggiavano a ogni minimo movimento. Sarebbe dovuto essere divertente, ma non lo era. Gli uomini stavano l’uno quasi di fronte all’altro e i loro sguardi si incrociavano, come spade all’inizio di un duello. C’era musica, gli strani rumori hwarhath che, dopo vent’anni, sono finalmente riuscito a sentire come musica. Il pezzo era nuovo, ma ripeteva una vecchissima storia, e gli strumenti erano deliberatamente antichi: ritmi, una campana, un fischietto e un tamburo.

Gwarha aveva lo sguardo intento che ha quando si appresta a guardare una di queste maledettissime sciocchezze. (?) Mi sono preparato a non ascoltare.

La musica è cessata. Gli uomini si sono messi l’uno di fronte all’altro e la rappresentazione è cominciata.

All’inizio, la cosa mi interessava, quando ancora avevo tutto da imparare sui hwarhath. I costumi sono sempre splendidi e i lavori in sé possono avere la bellezza frugale di una recita Noh. Non durano quasi mai più di un mezzo ikun. Non hanno quasi mai più di cinque personaggi. I dialoghi sono brevi e le scene pressoché inesistenti. Trattano sempre di uomini alle prese con spiacevoli problemi etici: un conflitto tra due tipi di onore, un conflitto tra due lealtà pari e opposte.

L’onore personale contro una stirpe.

Una stirpe contro il Popolo.

Scelte impossibili, che devono essere fatte in poco più di un’ora. E la maggior parte delle volte, si muore, alla fine, qualunque sia stata la scelta.

Mi hanno interessato un po’ più a lungo i drammi in cui sono coinvolte le donne. (I ruoli femminili sono ricoperti da uomini, naturalmente. Questa è una forma artistica interamente maschile.)

Che cosa fa un uomo quando scopre che sua madre è un pericolo per la stirpe? Si tratta di un problema pauroso. Non c’è modo per un qualsiasi uomo hwarhath sano di fare violenza a una donna o a un bambino. Ma la stirpe… come donne e bambini… dev’essere difesa.

Un dilemma serio.

Sono rimasto interessato, credo, perché era così difficile scoprire qualcosa sulle donne hwarhath… perlomeno per me, che vivo sul perimetro. (Gwarha non è tipo da prendere una casa umana per far visita alla sacra famiglia e alle zie.) (Penso che non farò commenti, qui.)

Alla stessa categoria dei drammi delle donne, o forse a una categoria leggermente diversa, appartengono i drammi sull’amore eterosessuale. Mi hanno sempre colpito perché strani. La mia reazione è scioccante per i hwarhath. Per loro, questi drammi hanno un fascino negativo. Ai bambini non viene mai concesso di vederli: e, a volte, quando la tendenza dell’Intreccio è conservatrice, sono stati interamente banditi. Sono sempre violenti e spesso al limite dell’abiezione. Finiscono sempre nella follia e nel sangue.

Frequentemente, alla fine, dopo che i corpi sono usciti di scena, il personaggio principale torna e recita un epilogo. (Le morali d’amore dei hwarhath.) Questo è ciò che avviene quando la violenza dal perimetro viene portata al centro. Tutto è distrutto. La famiglia non può sopravvivere.

C’è un ultimo tipo di poema epico che (credo) mi interessa ancora. I lavori sui rahaka: gli uomini che non muoiono, che continuano a vivere quando ogni persona normale sceglierebbe l’opzione.

Per esempio, un uomo la cui stirpe è stata distrutta: gli uomini uccisi tranne lui, le donne e i bambini integrati in un’altra stirpe. Ogni legame che ha col mondo è stato interrotto, ma lui lotta per sopravvivere. Verso quale fine? Perché? È un problema che affascina i hwarhath. Loro muoiono facilmente, in confronto agli umani, e non capiscono cosa induca certa gente a continuare senza alcuna buona ragione. Immaginano, perlopiù, che si tratti di un qualche difetto di carattere; ma, a volte, hanno il sospetto che sia un altro genere di eroismo.

C’è un famoso e vecchio pezzo su un guerriero che sta lentamente morendo per una qualche terribile malattia. Si siede sul palco. Fantasmi e persone lo vengono a trovare. Parlano. Gli viene offerta l’opzione. Non la coglie. Continua, invece, lentamente a morire. Più tardi, nel dramma (dura più del normale), si sdraia, troppo debole per stare ancora seduto. Alla fine della rappresentazione, respira a malapena.

Tutto sommato, preferisco la commedia.


Dal diario di Sanders Nicholas,

addetto alle informazioni presso lo staff

del Primo Difensore Ettin Gwarha

CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA

9

Il giorno dopo, Anna si procurò un registratore. Sembrava un orologio da polso e, in realtà, segnava anche il tempo. Se lo mise in una tasca. Nicholas forse aveva notato che non portava mai alcun genere di cronometro.

Diversi giorni dopo, Nicholas chiamò e combinò un incontro alla barca per il tardo pomeriggio, un paio d’ore prima che lei iniziasse il turno. Il tempo era rimasto mite e calmo. Si sedettero in coperta. Questa volta, Nicholas portava un’uniforme grigia hwarhath, attillata. Sembrava perfetta. Apparentemente, il problema non consisteva nei sarti hwar quanto nel senso che i hwar avevano della moda umana. Nicholas aveva un paio di occhiali da sole umani: montatura di metallo dorato e lenti che luccicavano come il dorso di uno scarafaggio, verde iridescente.

Hattin portava occhiali da sole hwar rettangolari, con lenti nere e pesantissima montatura di plastica anch’essa nera. Sembravano belli sulla faccia piatta dell’alieno. Sarebbero stati malissimo su un umano.

— Non è soltanto una questione di stile — disse Nicholas. — Le orecchie dei hwarhath sono più spostate verso l’alto sulla testa e il naso è molto più largo e più piatto del naso di un umano. Io non riesco a portarli. Potrei farmene fare un paio, ma non sembra valerne la pena. Trascorro la maggior parte del tempo al chiuso.

Appoggiò i piedi sul parapetto e guardò la baia, che scintillava nella luce bassa e obliqua. — In teoria, sono qui per chiederle delle sue creature. Come penso di averle detto, il generale ha una curiosità a vasto raggio. Gli interessa l’intelligenza aliena… quella umana, soprattutto, ma qualunque cosa riesca a trovare. Credo di essere dell’umore adatto per qualcos’altro che le gigantesche e forse intelligenti meduse. Perché non mi parla della Terra?

Il soldato umano si mosse a disagio. Era una persona nuova, questa volta: un ragazzo robusto con lineamenti che non appartenevano ad alcun gruppo etnico che lei conoscesse. Del Mar Nero, forse? La stretta striscia di capelli era tagliata corta e tinta d’un color rosso mattone che si adattava molto bene alla sua pelle leggermente scura. Anna non avrebbe saputo dire di che colore fossero le sue iridi. Erano coperte da lenti a contatto nere e lucide.

— Niente d’importanza strategica — aggiunse Nicholas, dopo aver lanciato un’occhiata al soldato.

Anna aveva bisogno di tempo per stabilire che cosa potesse essere di importanza strategica. — Le manca?

— La Terra? A volte. — Lui fece una pausa. — Non credo nei rimpianti. Ci sono emozioni che ti intrappolano, che fanno finire la tua vita al punto in cui è arrivata e ti fanno rimpiangere che sia una sola. Preferisco stare in movimento, il che significa che cerco di pensare alla situazione in cui mi trovo proprio in questo momento e a cosa posso farne. — Guardò da sopra il bordo degli occhiali e sorrise. — Non credo poi nella sofferenza della solitudine. Mi mancano soprattutto le cose pratiche e normali. Lenti a contatto umane decenti. Il caffè. Ci sono giorni… ancora, dopo tutti questi anni… in cui penso che ucciderei per una tazza di caffè.

— A questo si può rimediare. — Anna si alzò, entrò nella cabina e chiese a Maria di preparare un bricco di caffè.

— Spero che tu sappia quello che fai, Anna — disse Maria.

— Forse. — Anna tornò fuori, si sedette e gli raccontò della sua ultima visita a New York, che non era cambiata molto dai tempi in cui l’aveva vista lui. Era ancora enorme, sporca, malandata e splendida. Come sempre, in fase di costruzione. Le mostruose torri di vetro del trascorso ventesimo secolo, folli divoratrici di energia, erano quasi tutte sparite. (Qualcuna era stata conservata come cimelio storico.) Lo stile architettonico più recente era Nostalgia dell’Età dell’Oro.

— Lo chiamano così? — domandò Nicholas.

Lei annuì. — Muri di mattoni e pietra. Pozzi di ventilazione. Finestre che si aprono. Doccioni.

— Che cos’ha fatto? Un giro architettonico?

Lei annuì di nuovo. — E un giro del sistema di dighe e di argini. Alla fine, hanno dovuto chiudere completamente il porto. Era l’unico modo per tenere l’oceano lontano dalla città. Il porto non esiste più.

— È un peccato.

Maria portò il caffè e lo posò, poi si mise sulla porta della cabina, ad ascoltare. Proveniva dall’America centrale ed era quasi un’indiana pura con la pelle color rame scuro e lunghi capelli neri, belli e dritti.

Anna gli raccontò degli spettacoli che aveva visto durante la visita. Sicuramente non c’era niente di strategico in La vendetta dell’Uomo Lupo o Misura per misura.

— Quello è uno spettacolo che non mi dispiacerebbe rivedere — osservò lui. — Ricorda il discorso che il duca fa a Claudio, quando quel povero pazzo è in prigione, condannato a morte per fornicazione? È quello che comincia con: "Sii perfetto per la morte". È un verso che suona meravigliosamente! E poi lui continua con un’argomentazione dopo l’altra sul perché non valga la pena continuare a vivere.


Ragiona perciò con la vita:

Se perdo te, perdo una cosa

Che nessuno se non un pazzo terrebbe.


"Che lingua meravigliosa! E che cumulo di stronzate!" Assaggiò il caffè. "Non è come me lo ricordo."

— Quello è caffè buono che arriva dal Nicaragua — spiegò Maria. — E io so come prepararlo.

Lui sollevò una mano, in un gesto di scusa. — È passato tanto tempo, signora. Sono sicuro d’averlo dimenticato.

— Per vent’anni ha ricordato quel passaggio di Shakespeare? — domandò Anna.

— No. I hwarhath hanno raccolto molti strani pezzettini di cultura umana, incluse tutte le commedie di William Shakespeare e molta letteratura cinese tradotta. Mi chiedo se questa sia un’informazione strategica. Le dice qualcosa di utile sui hwarhath sapere che non hanno mai avuto l’occasione di leggere Ibsen?

La conversazione continuò per un po’, poi sconfinò nella moda. Nicholas aveva soltanto un blando interesse in proposito, fatta eccezione per le nuove divise militari. Il che, disse, era qualcosa che lo affascinava. — E mi fa sentire contento d’aver cambiato parte. Per niente al mondo mi farei tagliare i capelli come Maksud.

Il soldato umano aggrottò la fronte.

— Fermiamoci alla nuova moda dei civili — disse Anna. — Non può essere di alcuna importanza strategica.

— Non è neppure attraente — commentò Maria. Aveva una rivista nella cabina della barca, non di moda ma di cultura popolare. — È sempre la stessa cosa, soprattutto al nord. Gli yankee hanno sempre avuto uno stile di vita confuso. Non hanno una vera politica o una vera religione.

— Da dove viene lei? — domandò Anna.

— Originariamente? Dal deserto. Il Kansas. Me ne sono andato non appena ho potuto. Ricordo d’aver letto, una volta, un’intervista a qualcuno… non ricordo chi… una scrittrice del Kansas. Diceva che da bambina amava Il Mago di Oz perché le diceva che era possibile andarsene dal Kansas. — Nicholas sorrise. — Mi è sempre piaciuta quella storia.

Maria andò a prendere la rivista. Nicholas l’accese, spostandosi leggermente perché lo schermo fosse in ombra. (Ma, questa volta, il sole era basso, quasi dietro la zona diplomatica.) Ci fu un’esplosione di colori e di musica. Nicholas abbassò il volume.

Anna non riusciva a vedere le immagini dal punto in cui sedeva. Ma non aveva importanza. Preferiva guardare Nicholas. Lui guardò per un momento la rivista, poi sospirò e si tolse gli occhiali da sole. — Non si è provato l’inferno finché non si è costretti a portare le lenti bifocali degli alieni — disse e tirò fuori un altro paio di occhiali da una tasca. Erano di fattura decisamente hwar: lenti rettangolari e pesante montatura metallica. — Questi sono fatti su ordinazione. Vanno benissimo e le lenti fanno il lavoro che devono fare, ma li guardi… — Se li mise. Erano assolutamente orribili. Maria si portò una mano alla bocca.

— Continuo a sperare che i hwarhath catturino una nave con un buon ottico, ma finora non ho avuto fortuna.

— Sono veramente bifocali? — domandò Anna. — Non glieli ho mai visti, prima d’ora.

— Grazie a Dio, non mi serve quasi alcuna correzione per la vista da lontano. È più facile farne a meno, salvo quando leggo. — Nicholas premette Play sulla rivista. Altri colori ondeggiarono. Di tanto in tanto, diceva: — Non scherziamo.

Hattin guardò da sopra la spalla. Il soldato umano distolse lo sguardo, il che significava… quasi certamente… che apparteneva a una setta religiosa conservatrice.

Dopo un po’, Hattin parlò. Nicholas sollevò la testa e sorrise. — Dice che è tutto ridicolo o disgustoso. È un peccato che lui e Maksud non parlino la stessa lingua. Potrebbero mettere insieme un bel duetto di indignati prima di scoprire quanto siano diverse le loro culture.

Il soldato umano aggrottò di nuovo la fronte. Hattin aveva l’aria serena di sempre, anche se non guardava più la rivista. Guardava invece la baia, tralasciando la cultura popolare umana senza neppure scrollare le spalle. Anna, naturalmente, non aveva idea se gli alieni scrollassero le spalle o avessero un qualche gesto equivalente.

— Che cosa pensa di lei Hattin? — chiese.

— Fa parte della guardia personale del generale ed è molto leale. Se Ettin Gwarha dice che sono a posto, questo gli basta. Non tocca a lui ragionare sul perché. Se vuole scusarmi, finirò questo articolo. Chi mai chiamerebbe un gruppo musicale Stalin ed Epigoni?

Lesse, le spalle curve, lo sguardo intento. Anna guardò il cielo sopra la zona diplomatica. Era striato da piccole nubi.

Una strana giornata. Le era piaciuta, fatta eccezione per il registratore che aveva in tasca. Si sentiva una traditrice, anche se era lei la persona leale.

Nicholas finì l’articolo, poi ascoltò il saggio di registrazione di Stalin ed Epigoni che era incluso. — Orribile, ma, del resto… se ho capito l’articolo… dev’esserlo. — Spense la rivista e la restituì a Maria. — Grazie. Qualcuno sa l’ora?

Anna non tirò fuori il registratore. Fu Maria, invece, a entrare nella cabina per controllare.

Nicholas si tolse gli occhiali alieni e li mise via. — La prossima volta, le chiederò delle sue creature. Come stanno?

— Benissimo. La settimana prossima o giù di lì si dovrebbe avere la massima esibizione di luci. Poi, diminuiranno e si attenueranno.

— Incredibile da vedere. Ho fatto delle passeggiate sulla spiaggia, di notte. Naturalmente, non si ha neanche la metà della vista che offre la baia. Tuttavia, per quello che sono riuscito a vedere, l’oceano è punteggiato di luci. — Tacque per un momento, pensieroso. — Suppongo che dovrei aggiungere che l’isola ha delle difese perimetrali molto buone.

Se ne andò, seguito dai soldati.

Maria commentò: — Hai degli amici molto strani.

— Non lo definirei un amico. Un conoscente.

— Qualunque cosa sia, mi pare di capire che ti piaccia. Ma non c’è alcun genere di futuro nel fare la sua conoscenza.

— Questo è poco ma sicuro.

La sera dopo, Anna salì alla zona diplomatica e fece rapporto al maggiore nell’ufficio con le pareti ricoperte di pannelli di finto legno scuro. La Terra continuava a girare sul muro; le nuvole erano più vaste di prima.

Quando ebbe finito, il maggiore disse: — Sfortunatamente, Sanders ha ragione sulle difese dell’isola. L’unico modo per arrivare a lui è qui. — Tacque per un po’. — E c’è una domanda su quanto dureranno ancora i negoziati. — La donna guardò la Terra.

Il capitano Van versò il tè. — Dovevano essere solo dei preliminari… per scoprire se potevamo veramente incontrarci faccia a faccia, per stabilire una procedura per ulteriori negoziati e per prendere decisioni su particolari minori. L’arredamento, per esempio.

— È la terza volta che sento parlare di arredamento — disse Anna.

Il capitano sorrise. — Ai hwar piace sedere più vicino al pavimento di quanto facciamo noi, e non vogliono che li sovrastiamo; perciò, nella sala delle conferenze, dobbiamo negoziare l’altezza delle sedie. E desiderano che ci liberiamo del tavolo. Dicono che non si può fare una conversazione seria con un grosso pezzo di plastica in mezzo; per loro parlare faccia a faccia significa parlare in ginocchio.

Il maggiore, alla fine, distolse lo sguardo dal pianeta rotante. — Continui così, signora Perez. E grazie.

Anna se ne andò. Lo spettacolo di luci nella baia era veramente grandioso, quella sera. Scese giù per la collina, diretta alla stazione, pensando per tutto il tempo a Nicholas che passeggiava sull’isola, all’estremità buia di quel mare dai lampi azzurro-verdi e arancione.

10

Gran parte del mio diario è altrove: alla stazione Tailin o sulla nave. (La Maratoneta dello Spazio Hawata. Un bel nome, sebbene mi sia appena reso conto di non essere del tutto sicuro di che cosa sia una hawata. Ci sono cose sul Popolo che ancora non conosco e alcune di esse sono normali e ovvie.) (Sì.) Tutto ciò che ho qui sono le registrazioni che ho fatto da quando sono arrivato su questo pianeta. Non posso fare una ricerca e trovare il filo del discorso che ci ha condotti alla situazione attuale. Tutte quelle conversazioni hanno avuto luogo prima, sulla nave o a Tailin. Perciò, vado a memoria. Il generale direbbe che è una perdita di tempo. Abbiamo preso la nostra decisione. Non ci sono informazioni nuove, motivi di ripensamento. Meglio dedicarci completamente a qualcos’altro. Immagino, che diavolo. Non può farci alcun male.

(Non farò alcun commento.)

L’idea era semplice. Fare un piccolo… un piccolissimo… cambiamento nella situazione che esisteva in merito agli umani. Provare a piazzare qualche piccola informazione dall’altra parte.

Il generale non era sicuro di quanto lontano volesse spingersi in questa direzione. (Sì.) E a me non piacciono i piani complicati. Funzionano nell’olografo, ma nella vita reale ti si ritorcono contro e ti colpiscono tra gli occhi. Esistono troppe variabili nella realtà.

Va meglio una piccola azione. Falla. Vedi cosa accade. Poi fa’ qualcos’altro.

La nostra piccola azione era di portare me ai negoziati. Non è stato del tutto facile. Gli altri frontisti (alcuni di loro, perlomeno) volevano tenere segreta la mia esistenza. Ma il generale è riuscito a convincerli. Io sono in prima linea come esperto di umanità.

C’era… c’è… un elemento di rischio che turba me più di quanto non turbi il generale. Ma bisognava accettarlo. È un così bel modo di raccogliere informazioni!

Drammatico. Sapevamo che gli umani avrebbero prestato attenzione.

Veloce. Sarebbe bastato un momento… un’occhiata a me… per trasmettere tutto quello che volevamo dire.

E pubblico. Il generale non vuole trattare col nemico in privato.

Io non dovevo fare altro che scendere dall’aereo sotto quel diluvio.

Abbiamo detto al nemico che era possibile per degli umani vivere con e tra i hwarhath.

Abbiamo detto loro che era possibile per degli umani avviare trattative con i hwarhath.

Abbiamo detto loro che era possibile per degli umani lavorare con e per i hwarhath.

(Quest’ultima cosa è ambigua. Ma a me sembra che impiego, oppressione e schiavitù siano tutti rapporti tra esseri che, almeno fino a un certo punto, sono simili. Non ci si serve di un grosso squalo bianco o di un albero, o non li si schiavizza. Si ignora o si distrugge ciò che è veramente alieno.)

(Questo è un brutto discorso. Posso già dirlo. E, allora, gatti e cani? E le mucche? E le pecore? Muschi e licheni? Lieviti? Come non detto.)

(Prego spiegare tutto subito e faccia a faccia.)

Abbiamo attirato la loro attenzione sul generale, come su qualcuno con un interesse e una conoscenza insoliti dell’umanità, e su di me. Abbiamo detto al nemico che c’era qualcuno che non è alieno, qualcuno che loro possono… senza ombra di dubbio… capire, che vive tra i hwarhath.

Fortunatamente, i diplomatici hanno ricevuto il messaggio. La Mi è un’altra cosa. Sono loro il motivo della mia preoccupazione.


Ho guardato hawata. È un grande animale predatore che vola, simile a un uccello, e che vive sul pianeta hwarhath d’origine, su due dei tre continenti settentrionali. Prima si trovava su tutti e cinque i continenti, ma la civiltà ne ha ridotto la diffusione. Lo si trova adesso nei racconti popolari e in mitologia, sebbene solo nell’emisfero settentrionale. A quanto pare, si è estinto da troppo tempo al sud.

Secondo la leggenda, l’hawata ruba neonati e bambini. (Si tratta solo di una leggenda. Secondo gli scienziati, non esiste alcun caso autenticato.) Nella normale stesura del mito o della storia dell’hawata, un bambino viene rubato ma non mangiato. Lui, o lei, viene invece salvato dalla gente di un’altra stirpe e cresciuto come uno di loro.

Col tempo, naturalmente, viene scoperta la vera linea di discendenza del bambino, attraverso un qualche oggetto (un gioiello che il bambino portava quando l’hawata lo ha preso) o attraverso una peculiarità fisica. Il bambino ha strani occhi o una striscia scura lungo la schiena.

Se la storia è una commedia, la scoperta porta a una riconciliazione: i discendenti del nemico mettono fine alla guerra quando scoprono di avere in comune un figlio o una figlia. Spesso, comunque, la storia è tragica. Gli amanti scoprono di essere fratelli e che il loro amore è proibito. Un uomo scopre, all’inizio della battaglia, che i nemici sono suoi parenti stretti. E deve scegliere.

Per un qualche motivo, l’hawata non compare mai in nessun lavoro sugli animali e per quello che posso scoprire non c’è mai stato un poema epico che si ispiri a un rapimento da parte dell’hawata. Sembra una scelta naturale. Riesco perfino a immaginare l’atroce scena finale.

Sarà meglio che mandi un messaggio a Eh Matsehar.


Dal diario di Sanders Nicholas,

addetto alle informazioni presso lo staff

del Primo Difensore Ettin Gwarha

CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA

11

Per più di una settimana, Anna non ebbe notizie di Nicholas. Meglio. Il rito dell’accoppiamento nella baia stava raggiungendo l’apogeo. Era quella la parola giusta? Avrebbe controllato su un vocabolario quando ne avesse avuto il tempo.

Di giorno, l’acqua era pervasa di messaggi chimici, alcuni dei quali venivano captati da sensori piazzati sotto piccoli galleggianti o boe. Li aveva sistemati Yoshi, una mattina, quando la migrazione era appena iniziata. Punteggiavano la baia. Per il momento non c’era modo di raggiungerli senza disturbare gli animali in corteggiamento; ma trasmettevano analisi via radio a brevi intervalli di tempo.

Gli animali si servivano anche di segnali visivi. Ciò non serviva tanto a comunicare, pensava Anna, quanto a eccitare. Nelle giornate limpide, i segnali erano a malapena visibili. Ma il più delle volte le giornate erano coperte. L’acqua grigia scintillava e luccicava sotto un cielo pieno di nubi grigio scuro.

Di notte, naturalmente, lo spettacolo era incredibile: rosa, rosso, verde, blu, giallo, arancione chiaro e bianco. I colori riempivano la baia e si spostavano verso l’oceano aperto. In un paio di occasioni, con le nubi particolarmente basse, le luci avevano scintillato sopra la sua testa, nel cielo della notte: riflessi, tenui e pallidi, e difficili a vedersi, ma c’erano. Anna dormiva pochissimo.

Un pomeriggio, Nicholas chiamò. — Il generale parteciperà a un altro party. Altra sbornia e altre tartine. Non voglio saperne. Posso venire a disturbarla?

Merda, pensò Anna. Non riusciva a tenere aperti gli occhi e le sembrava di avere la testa piena di polvere grigia.

— Alle sedici e zero zero — disse. — Dovrei essere sveglia, a quell’ora. Vediamoci alla barca. È degli animali che vuole parlare, questa volta?

— Anche. — Lui sorrise brevemente e spense. Anna tornò a letto.

Mezz’ora dopo, la Uc suonò di nuovo. Anna imprecò e strisciò fuori da sotto la coperta.

Questa volta era il maggiore Ndo. — Può venire qui? Il più presto possibile.

Anna aprì la bocca.

Il maggiore aggrottò la fronte. — È importante, signora Perez.

— D’accordo.

— Bene. — Il maggiore fece un largo sorriso, mettendo in mostra i denti. Predatore, pensò Anna.

Si vestì e salì sulla collina. Il cielo era nuvoloso. Soffiava un vento freddo che piegava gli steli nudi delle spore rossastre e che le agitava i capelli, facendoglieli ricadere sul viso. Di tanto in tanto, sentiva una goccia di pioggia.

Il capitano Van l’aspettava all’entrata della zona, con aria preoccupata.

— Che cosa succede?

Lui si mise un dito davanti alle labbra: il gesto che nel linguaggio internazionale indica di fare silenzio.

Anna annuì e lui la condusse all’ascensore. Scesero di un piano e uscirono in un corridoio. I tubi sul soffitto emanavano una luce istituzionale pallida e dura. L’aria aveva un aroma sterile. Di cosa?, si chiese lei. Di metallo e cemento.

— Che cos’è questo? — domandò Anna.

— Un seminterrato.

Superarono una porta di metallo grigio e scesero per una rampa di scale, poi entrarono in un altro corridoio. La cosa diventava sempre più curiosa. Perché una costruzione temporanea aveva bisogno di un sottoseminterrato? Alla fine del corridoio c’era un’altra porta metallica. Lui si fermò e premette un pulsante nel muro. Anna udì un ronzio e sollevò la testa. Una telecamera, piccola e nera, girava lentamente. Si fermò e puntò su di lei la luce rossa.

La porta si aprì; il capitano le indicò di entrare e Anna obbedì.

Fece fatica ad assorbire la scena. Era troppo complessa. Una stanza con le pareti di cemento, una scrivania di metallo grigio e il maggiore, seduto dietro la scrivania: quella fu la prima immagine. In piedi, a destra della scrivania, c’era un uomo. Era alto e magro, portava dei pantaloni marroni, una camicia marrone e la giacca. Nicholas, pensò lei per un istante, che stringeva un patto con la Terra.

Poi vide tre persone sul lato sinistro della stanza, contro il muro. Un uomo seduto su una sedia, la testa china, le braccia sulle ginocchia e le mani strette. Due soldati, entrambi umani, lo affiancavano. Uno era Maksud. L’altro, un indiano meridionale piccolo e scuro, le era sconosciuto.

L’uomo seduto sollevò la testa. Nicholas. Aveva il viso a chiazze bianche e rosse e una stranissima espressione negli occhi. Anna non avrebbe saputo leggerla. Lo sguardo passava da lei, al capitano Van, al maggiore per posarsi poi sulla porta, che era chiusa.

Nicholas era terrorizzato. Il che spiegava il cambiamento di colorito e l’espressione degli occhi.

— Che cosa succede? — domandò Anna. — E dov’è l’altra guardia? L’alieno? Hattin?

— Dovrebbe essere ovvio cosa succede — rispose il maggiore. — Questa è la migliore occasione che ci è capitata di prendere Sanders. I hwar non si aspettano di vederlo fino a questa sera tardi. Abbiamo cinque ore, forse sei o sette, per portarlo via da qui. Ci serve il suo aiuto.

— Perché?

— Una diversione — disse il maggiore. — Vogliamo che lei vada sulla barca col tenente Gislason. — Annuì in direzione dell’uomo che assomigliava a Nicholas. — Che porti la barca al largo. Vogliamo che i hwar guardino nella direzione sbagliata. Vogliamo far loro credere che Sanders possa essersene andato di sua spontanea volontà. Ha mostrato per lei un evidente interesse.

— Lei è pazza. Non c’è alcun posto dove andare su questo pianeta. È vuoto. E io non interesso a lui. Per amor del cielo, proprio lei mi ha detto che il generale hwar è il suo amante.

Anna continuava a guardare Nicholas con la coda dell’occhio. Lui faceva piccoli movimenti nervosi, sollevando la testa, abbassandola, spostandosi come se si preparasse a correre, poi esitando sempre. Non aveva alcun posto dove andare, nessuna speranza di uscire dalla porta. Era chiaro che lo sapeva, ma non riusciva a stare immobile. La reazione combatti-o-fuggi era troppo forte.

Il maggiore disse: — Secondo le nostre registrazioni, lui era un maschio perfettamente normale ed eterosessuale, vent’anni fa. Forse è tornato tale. Come farebbero a saperlo gli alieni? Non possono essere degli esperti in fatto di sessualità umana; e a noi non interessa molto di quello che pensano che succeda… una gita, un weekend romantico… purché guardino verso l’oceano. — Fece una pausa e fissò Anna. — Non possiamo lasciarci scappare quest’occasione. Ci sono vent’anni di informazioni in quest’uomo. Dobbiamo trattenerlo.

— Non crederanno che se ne sia andato di sua spontanea volontà — replicò Anna. — Pensate chi è quest’uomo. Non lo lasceranno scomparire. Metteranno sottosopra la zona diplomatica.

Il maggiore scosse la testa, la luce che colpiva il cranio calvo e scuro. — Grazie a Sanders, i hwar sanno di noi più di quanto noi sappiamo di loro, ma noi abbiamo imparato alcune cose. Farebbero di tutto per proteggere o salvare donne e bambini. Ma per loro, tutti gli uomini sono sacrificabili. La nostra gente è sicurissima di questo. Credono… gli alieni, intendo… che sia nella natura degli uomini litigare e combattere. È destino degli uomini morire in modo violento. Quando accade, accade. Que sera sera. Così vuole la Dea. Il generale Ettin non rischierà di mettere fine ai negoziati a causa di un uomo.

— Nick? È vero?

Lui sollevò la testa, quella strana espressione vacua ancora negli occhi. — Sì — rispose dopo un momento.

— Non abbiamo tempo per continuare a discutere — disse il maggiore. — Ci aiuterà, signora Perez?

— Ho scelta?

— Nessuna, se vuole pubblicare la sua ricerca e se ci tiene a portare in salvo la barca senza danneggiare alcuno dei suoi animali. Noi andremo avanti, signora Perez, con o senza il suo aiuto.

La loro storia… il weekend romantico… richiedeva che lei sparisse. Anna ebbe l’improvvisa sensazione che se avesse rifiutato, sarebbe rimasta in quella stanza, prigioniera come Nicholas.

Perciò, ecco che scelta aveva. Da una parte, la sua libertà, la ricerca e la salvezza degli animali nella baia. Dall’altra, solo la sua integrità personale e la spiacevolezza di essere usata. Non era neppure il caso di prendere in considerazione Nicholas. Non poteva fare niente per lui. Se rifiutava di collaborare, il maggiore avrebbe trovato qualche altra strada per portarlo via dalla zona diplomatica.

Lo guardò. Anche lui la stava guardando, lo sguardo fermo, che prima non aveva avuto, e un’ovvia tensione nel corpo. Si teneva immobile per uno sforzo di volontà, servendosi dello sguardo per supplicarla. Per cosa?

Anna annuì al maggiore. — D’accordo.

Nicholas abbassò la testa.

— Bene — fece il maggiore. — Yoshi Nagamitsu adesso è sulla barca. Lo chiami e gli dica che arriverà in anticipo. Che può andare.

Anna fece un passo verso la scrivania.

— Non qui — l’avvertì il maggiore. — Gislason l’accompagnerà in un’altra stanza. Quando lascerà questo piano della zona diplomatica, faccia attenzione a ciò che dice. I hwar hanno dei congegni d’ascolto veramente sofisticati. Non per causa nostra. A quanto pare, si spiano l’un l’altro.

Huh, pensò Anna.

— Grazie per il suo aiuto, signora Perez. Ce ne ricorderemo.

Anna se ne andò con Gislason. Quando la porta si aprì, lanciò un’ultima occhiata a Nicholas. Lui fissava il pavimento, le spalle curve: la posa di un uomo che ha ricevuto… cosa? Una sentenza di morte?

La porta si chiuse. Gislason disse: — Da questa parte, signora. — E la scortò per il corridoio fino a una stanza simile alla prima: muri di cemento grigio chiaro, moquette grigia e una scrivania di metallo grigio con un’unità di comunicazione. Anna chiamò Yoshi.

Di solito, lui era meticoloso quanto al restare fino alla fine del turno ma, questa volta, era ansioso di andarsene. Anna non sapeva se fosse un bene o un male. Se Yoshi fosse stato riluttante a lasciare la barca, lei sarebbe forse sfuggita a quello stupido complotto. Ma forse no. Il maggiore sembrava deciso. Spense la Uc e guardò Gislason.

Non era poi così somigliante a Nicholas. L’altezza era la stessa e anche la costituzione e il colorito. Aveva la stessa pelle pallida e i capelli biondo-grigio. Gli occhi erano verdi, ma molto più chiari di quelli di Nick. Il viso, però, era diverso: dall’ossatura forte, nordico. Bello, anche se non del tipo che a lei piaceva in modo particolare.

— Che cosa gli accadrà? — domandò Anna.

— A Sanders? Dovrebbe chiederlo al maggiore. — Gislason aveva un leggerissimo accento scandinavo.

— Era terrorizzato.

Lui scrollò le spalle. — Si aspetta del coraggio da un uomo simile? Abbiamo un programma intenso, signora. Dobbiamo andare.

12

Risalirono al pianterreno senza incontrare nessuno né sulle scale né in ascensore. A causa del party? Del ricevimento diplomatico? Erano tutti lì? Oppure quella gente smetteva presto di lavorare?

Non rifecero la strada che Anna aveva fatto con il capitano Van. Gislason la condusse invece per un altro corridoio e a una porta con l’indicazione SOLO USCITA D’EMERGENZA, ALLARME ATTIVATO. Aprì e non accadde nulla, fatta eccezione per la raffica di vento freddo e pioggia che irruppe dentro.

Le fece un gesto. Anna si allacciò la giacca, si tirò su il cappuccio e uscì. Il cielo cominciava a imbrunire e la temperatura stava calando. E pioveva. Una brutta sera.

Lui la seguì fuori, chiudendosi la porta alle spalle.

— In realtà, con questo tempo, non dovremmo uscire con la barca — osservò Anna.

Lui si portò un dito alle labbra. Girarono attorno alla zona diplomatica, seguendo un sentiero tracciato nella folta e spugnosa vegetazione simile a muschio. Davanti all’ingresso principale, il loro sentiero incontrava quello che scendeva giù per la collina. Quest’ultimo era meglio disegnato: fatto con macchine e pavimentato di ghiaia presa da una delle spiagge. Le pietre erano tonde e scivolose, l’appoggio per i piedi incerto. Anna s’avviò lentamente, Gislason dietro.

Più ci pensava, più era colta da incertezza su quel piano. Nicholas sapeva molto più di lei sulla Mi. Non pensava che il comportamento che gli aveva visto assumere fosse dovuto a codardia. Nicholas sapeva quello che stavano per fare e ne aveva semplicemente paura. Anna non aveva mai visto nessuno più spaventato di lui.

Pensò ai servizi segreti della storia moderna: le Ss, la Cia, il Kgb e altri con nomi che non ricordava più per averli sentiti soltanto a scuola per le atrocità commesse. In teoria, le cose erano andate migliorando. Ma poteva darlo per certo?

Le venne in mente, mentre scivolava giù dalla collina verso le luci gialle della stazione di ricerca, che non aveva alcuna prova che qualcuno dei diplomatici fosse coinvolto in quel rapimento. Se le cose stavano così, se il maggiore stava operando di sua iniziativa, allora lei… Anna… stava tradendo il suo governo, come pure Nicholas e se stessa.

Era una situazione di merda.

Quando arrivarono ai piedi della collina, procedere fu più agevole. Il sentiero passava tra gli edifici dell’insediamento, davanti a finestre con le luci accese. Anna poteva vedere gente, dentro, in laboratori e uffici. Da una delle finestre più grandi vide una sala con gente che prendeva aperitivi prima di cenare. Anna vide i bicchieri e immaginò cosa contenessero: sherry, vino, qualche tipo di acqua speciale. Dio, com’era confortevole quell’interno!

Fuori, invece, la pioggia cadeva attorno ai lampioni e brillava come argento. Creature simili a vermi azzurri e pelosi si contorcevano sul sentiero tra i ciottoli neri e lucenti.

— Che cosa sono quelle cose orribili? — domandò Gislason.

— Essenzialmente vermi. E il pelo non è pelo e non serve loro per proteggersi. Lo usano per cibarsi.

— Che cosa?

— Yasmin… la donna che li studia… li ha chiamati provvisoriamente "cigliati pelosi". I cigliati producono enzimi che digeriscono il cibo e lo assorbono quando è già stato digerito. Hanno un intestino, ma non la bocca. Soltanto un orifizio anale. Il cibo passa attraverso le ciglia ed esce dall’orifizio.

— Che cosa mangiano?

— Tutto quello che trovano, secondo Yasmin. La base principale della loro dieta è formata da microrganismi del suolo; ma scavano, anche, e Yasmin pensa che forse mangiano le radici delle piante viventi. Vivono in gallerie fatte di una specie di zuppa nutritiva costituita dai loro succhi gastrici e di quant’altro hanno digerito. È come se vivessero all’interno dei loro stomaci. Che creature meravigliose!

Gislason emise un suono scettico.

— Sono saliti qui per la pioggia. I loro tunnel sono inondati.

I vermi divennero più numerosi. Anna li evitava con cura, in silenzio perché doveva concentrarsi su dove mettere i piedi e perché doveva pensare. Non voleva portare la barca al largo, di notte e sotto la pioggia, e non voleva essere coinvolta in un incidente internazionale. Inoltre… anche se irrazionalmente… non voleva collaborare a far del male a Nicholas Sanders.

Che cosa poteva fare? Fuggire? Gridare? Gislason era al suo fianco, alto e forte. Se lo immaginava nell’atto di afferrarla, di soffocarla e di annientarla con un qualche colpo esoterico di arti marziali. Si sarebbe risvegliata prigioniera, col maggiore incazzatissimo, e la barca sarebbe stata comunque persa. La vedeva affondare nella baia, spaventare i suoi alieni, mettere fine alla fragile calma dell’accoppiamento.

Se fosse riuscita ad attirare l’attenzione, sarebbe stata l’attenzione di scienziati umani. Come se la sarebbero cavata, poi, con la Mi?

Superarono un’ultima costruzione. Davanti a loro si stendeva la baia, assolutamente buia, per il momento. I suoi alieni non avevano cominciato le segnalazioni serali; oppure, se l’avevano fatto, i messaggi erano oscurati dalla pioggia. Al molo, però, la luce era accesa e lei poteva scorgere la tenue forma della barca.

Imboccò il molo, muovendosi con cautela. Lì non c’erano vermi, ma la superficie metallica era scivolosa a causa della pioggia. Nelle vicinanze, una luce si accese nell’acqua, fioca e pallida. Anna non avrebbe saputo dire di che colore fosse. Uno degli alieni si stava identificando, ma senza autorità o convinzione. Sono io. Credo… ne sono quasi sicuro… sono io.

Gislason era alle sue spalle. Non c’era modo di fuggire. E Anna, di certo, non aveva intenzione di tuffarsi in acqua. Era piena di aculei-tentacoli.

Yoshi aspettava sulla barca, alla porta della cabina, con un ombrello di carta gialla oliata.

Non appena salirono a bordo, lui disse: — Questa è una vera fortuna, Anna. Ti spiegherò più tardi. Buonasera… ah, Addetto. Esatto?

— Sì — rispose Gislason. Lei lo guardò. Con il cappuccio della giacca che gli copriva il viso non era possibile distinguerlo da Nicholas.

— È tutta vostra. Buon divertimento. — Yoshi aprì l’ombrello e se ne andò, facendo un cenno col capo a Gislason.

Anna entrò nella cabina. Un attimo dopo, Gislason la seguì. — Se n’è andato. Possiamo salpare.

— Dobbiamo prima staccare i cavi collegati al galleggiante — spiegò Anna. — E devo avvertire i pseudosifonofori.

— Che cosa vuol dire?

— La baia ne è piena e hanno raggiunto il punto in cui non prestano attenzione ad altro che a se stessi. Potremmo finir loro addosso. E taglieremmo di sicuro i tentacoli.

Lui aggrottò la fronte. — Come fa ad avvertirli?

— Ci sono delle luci sul galleggiante, quello grosso al centro della baia, e abbiamo un programma che traduce l’inglese in segnali luminosi. Ecco come comunicano… gli animali… con lampi luminosi.

Lui scosse la testa. — No.

— Non porterò fuori la barca senza prima aver avvertito le creature nella baia. Forse sono intelligenti. Sono sicuramente vulnerabili. Non voglio assumermi la responsabilità di fare loro del male.

Gislason la fissò con i suoi occhi verdi, il lungo viso pensieroso. Stava considerando le opzioni, soppesando le conseguenze, e Anna aveva la sensazione… una sensazione molto netta… che qualcuna di quelle opzioni sarebbe stata spiacevole.

Alla fine, lui disse: — Va bene. Mandi il suo messaggio. Ma la terrò d’occhio.

Anna annuì e accese il computer, chiamando la directory della traduzione. C’erano due programmi. Uno traduceva l’inglese nel linguaggio delle luci. L’altro era stato inserito da Yoshi quando aveva deciso di insegnare agli animali "Mary Aveva un Agnellino". Questo programma traduceva l’inglese nel codice d’emergenza internazionale.

Lei chiamò il secondo programma. Era codificato come "Lp2-Iec". Provò a pensare a una spiegazione per le lettere gialle che luccicavano sul video; ma Gislason non le fece domande.

— Scriverò otto parole, che il programma tradurrà in luci colorate. Il messaggio è: "Pericolo. Strano amico". La barca è lo strano amico. — Scrisse le parole. — Il resto del messaggio è: "Agite subito. Andate verso riva".

— Sarà quello giusto? — domandò Gislason.

— Mm… — Anna finì di scrivere il messaggio e premette Enter. Delle domande apparvero sulla parte bassa dello schermo. Che colore doveva avere il messaggio? Ogni quanto doveva essere ripetuto e con che rapidità? Rispose velocemente, sperando che Gislason non capisse che le domande indicavano che il messaggio non veniva tradotto nel linguaggio degli pseudosifonofori, e poi premette di nuovo il tasto Enter. Lo schermo si pulì, fatta eccezione per il cursore, che lampeggiava all’angolo superiore sinistro.

— Ora possiamo sganciarci. Il galleggiante è sull’automatico. Continuerà a segnalare da solo.

— Spero di fare la cosa giusta — disse Gislason.

— La sta facendo.

Uscirono in coperta. Il buio era assoluto, ora, e gli alieni avevano cominciato la loro conversazione serale: pallidi tentativi di azzurro e verde, resi più fiochi del solito dalla pioggia. Moby Dick galleggiava al centro della baia, illuminato come una lussuosa astronave che entrasse in porto. Tutta la superficie… sopra e sotto l’acqua… lampeggiò dapprima d’arancione e poi d’azzurro chiaro.

— Muoviamoci — disse Gislason. — Siamo veramente incalzati dal tempo, signora Perez.

Cominciarono a staccare i cavi di collegamento con Moby.

Il messaggio in sé… lo schema di punti e linee… non aveva significato per gli alieni che dovevano capire soltanto i colori. L’arancione era rabbia o pericolo; l’azzurro significava non aggressione. Era un avvertimento amichevole. C’era pericolo, stava dicendo loro Anna, ma nessuna cattiveria.

Quando i motori della barca si fossero messi in moto, avrebbero capito la fonte del pericolo. Sapevano che le barche erano pericolose. Quando gli umani erano arrivati per la prima volta sul pianeta, le barche erano state usate per dar loro la caccia. E quella era stata la prima indicazione che gli animali potessero essere intelligenti: che avessero imparato velocemente a temerle e che la paura delle barche si fosse rapidamente diffusa per tutta la specie.

In qualsiasi altro periodo dell’anno, il rumore dei motori sarebbe stato un avvertimento sufficiente; ma, al momento, loro erano concentrati sull’accoppiamento. Forse non avrebbero prestato attenzione alla barca o forse si sarebbero fatti prendere dal panico, dimenandosi con gli aculei-tentacoli e facendosi male l’un l’altro.

Il messaggio non era per loro. Anna non sapeva bene per chi fosse. Nicholas aveva detto che il generale hwarhath era interessato agli pseudosifonofori. Era possibile che avesse raccontato al generale della sua conversazione con Yoshi. Forse i hwar avrebbero capito che il galleggiante lanciava un nuovo tipo di messaggio. Forse sarebbero stati in grado di decodificarlo.

Un tipo molto lungo. L’unica speranza di Anna era riposta in Yoshi. Lui avrebbe sicuramente riconosciuto che il messaggio era stato lanciato nel codice d’emergenza internazionale e di certo l’avrebbe tradotto. C’erano anche buone probabilità che non lo comprendesse. Ma avrebbe parlato con Maria e Maria non soffriva minimamente della malattia del dottor Watson. Avrebbe immaginato il significato del messaggio. Il mio strano amico è in pericolo. Agite subito e non guardate in direzione dell’oceano. Guardate verso terra.

Forse avrebbe dovuto mettersi a gridare mentre passavano per la stazione o cercare di fuggire, anche se era molto più piccola di Gislason e non era mai stata un asso nella corsa.

Gli ultimi cavi caddero in acqua. — Molli pure — annunciò Anna a Gislason e si sedette sul sedile del pilota. Parte del tettuccio si estendeva sopra il pannello degli strumenti e il sedile e, in teoria, avrebbe dovuto mantenere asciutti gli strumenti e il pilota; ma Anna era già completamente bagnata e il vento freddo sbatteva la pioggia contro i lati aperti. Anna aveva davanti a sé un parabrezza striato dalla pioggia, il tetto della cabina e la prua. A prua, da un’asta penzolava una bandiera flessibile: la bandiera della spedizione. VERSO LE STELLE PER SAPERE, diceva.

Anna premette un interruttore. Le luci degli strumenti si accesero. Una voce maschile calda e profonda disse: — Buonasera e benvenuti nel meraviglioso universo del power boating! Sono il vostro Mark Ten Marine Mind computer. Se avete bisogno di qualche informazione per manovrare la vostra nuova Star Craft Modello Settecento, vi prego di lasciarmi acceso. In caso contrario, premete il pulsante rosso a sinistra del timone.

Anna premette il pulsante rosso.

— Adesso, rimarrò silenzioso — disse la voce — a meno che non succeda qualcosa che richieda un avvertimento o qualche altro tipo di azione.

Anna avviò i motori.

Gislason gridò: — Tutto libero.

Anna aumentò la potenza. La barca si mosse in avanti e Anna ruotò il timone per portarla fuori dall’imbarcadero; poi ruotò nuovamente per puntare verso la baia.

La maggior parte degli animali stavano ancora emettendo luci azzurre o blu-verdi, ma il ritmo dei loro messaggi era cambiato. Era rapido e staccato, ora, il ritmo del codice. Anna vedeva qua e là rapide esplosioni di arancione, simili a bombe.

— C’è un qualche impedimento davanti a voi — avvertì il computer della barca. — Vi prego di controllare lo schermo sonar.

Lei guardò. Lo schermo mostrava molti puntini, tutti verdi: gli animali. Mentre guardava, loro cominciarono a spostarsi a destra e a sinistra verso i confini dello schermo. Anna sollevò lo sguardo. Un passaggio buio si stava aprendo davanti alla barca.

— Gesù — fece Gislason.

L’intera baia lampeggiava d’un arancione deciso e d’un azzurro freddo: Pericolo. Strano amico. Pericolo. Nonostante la pioggia… che cadeva sull’acqua e rigava il plexiglass di fronte a lei… Anna poteva leggere il messaggio.

— L’hanno sentita veramente — disse l’uomo. — L’hanno vista, voglio dire. Hanno compreso il suo messaggio.

— Non sono stupidi.

Il passaggio buio portava nei pressi di Moby Dick, in direzione dell’oceano. Anna lo seguì con la barca. I tergicristalli del parabrezza si muovevano avanti e indietro e le gocce di pioggia che non spazzavano luccicavano come gioielli: arancioni e azzurre.

— E hanno buona memoria — aggiunse Anna. — Alcuni di loro devono essere stati qui in altre occasioni in cui la barca è uscita. Lo vede il passaggio che stanno liberando? Sanno dove siamo probabilmente diretti. — Fece una pausa. — O forse hanno mangiato qualcuno che è stato qui, precedentemente.

— Si mangiano a vicenda? — domandò Gislason, con aria terrorizzata.

— Non è il termine giusto. Dovrei dire che sono cannibali. Si catturano l’un l’altro. Di solito, i grossi mangiano i piccoli. Il vincitore o predatore paralizza la vittima, la scompone e ne usa le parti.

— Ogni cosa ha abitudini disgustose, su questo pianeta?

Erano ormai giunti nel canale che portava fuori dalla baia. L’acqua era scura e il sonar non segnalava animali davanti alla barca.

— La vita ha abitudini disgustose — rispose Anna. — Sulla Terra, ci sono animali… soprattutto bachi o vespe parassiti… che hanno modi agghiaccianti di riprodursi.

Gislason fece un verso, un grugnito che non significava niente per lei. Consenso? Repulsione? Dispepsia, forse. Anna si concentrò sulla guida della barca finché il sonar non l’avvertì che erano usciti dal canale. Non che avesse bisogno che fossero gli strumenti a dirle che avevano raggiunto l’oceano. L’aria cambiò: una brezza sostenuta soffiava da oriente; poteva sentire il sale e gli spruzzi. La barca rollava mentre saliva e scendeva sulle grosse onde.

— E le vite sessuali degli umani non sono sempre affascinanti — proseguì lei, completando il corso dei suoi pensieri.

— Questo è vero — commentò Gislason, con tono deciso, e Anna ebbe l’impressione che pensasse a Nicholas Sanders.

Ora erano circondati dagli alieni. L’oceano era punteggiato di luci che si accendevano e si spegnevano: azzurre, verdi, gialle, arancioni e rosa. Alcuni avevano ricevuto il messaggio di Anna. Altri continuavano a lanciare i loro: Sono io. Non voglio fare male.

— Si diriga a sud, signora — disse Gislason.

Lei fece girare la barca. Alle loro spalle e a destra era tutto buio: la terra. Davanti e a sinistra si estendeva l’oceano. La maggior parte degli animali si trovavano subito all’esterno dell’ingresso della baia, tenuti lì dai messaggi chimici che emettevano gli animali più grossi che si preparavano all’accoppiamento; ma delle luci lampeggiavano verso sud ed est: animali isolati che galleggiavano al buio e, qua e là, altre luci di animali che si erano riuniti in gruppi.

Anna decise di tornare ai cannibalismo. Aveva la sensazione che fosse un argomento meno controverso di quello sul comportamento sessuale umano. — Sono colonie piuttosto che organismi singoli.

— Che cosa sono?

Lei indicò l’oceano luminoso. — Le varie parti conservano molta della loro integrità originaria. Non è molto difficile per loro scomporsi. Una sostanza chimica paralizza l’animale che è stato catturato, ma senza fare alcun danno permanente, e poi un’altra sostanza chimica… o, più verosimilmente, una serie di sostanze chimiche… dice alle parti di separarsi l’una dall’altra e di unirsi al nuovo animale. Per quello che possiamo dire, è così che crescono; e noi sappiamo dagli esperimenti che le singole parti mantengono la memoria. Quando uno pseudosifonoforo mangia un suo simile, ne acquista il passato. Non sappiamo però fino a che punto possano crescere o quanto possano vivere o quanto riescano a ricordare. Forse secoli, forse millenni. La storia della specie può essere là, che galleggia nel profondo oceano.

Stava di nuovo dando spiegazioni, come aveva fatto con i vermi. Perché? Forse per paura. Anna aveva sicuramente paura.

— A questo punto — disse Gislason — posso occuparmi io della barca. So dove dobbiamo andare.

Anna scese dal sedile e lui la rimpiazzò.

13

La barca proseguì verso sud sotto la pioggia. Secondo gli strumenti, stavano viaggiando parallelamente alla costa, sebbene la stessa, al buio, non fosse visibile. Gli alieni si manifestavano sempre meno: un lampo d’azzurro che presto svaniva, poi un altro, verde, o azzurro, o, raramente, arancione. Sono io. Pericolo. (O forse Collera.) Non voglio fare male.

Anna se ne stava vicino a Gislason. Il tettuccio riparava dalla pioggia, la quale aveva rallentato, ma non dalla spuma delle onde.

— Abbiamo bisogno della copertura di quella nuvola — disse lui. — Spero che non si sollevi.

— Perché? — domandò Anna.

— C’è una nave nemica sopra di noi, signora, e possiede ottimi strumenti di rilevamento. Le nuvole rappresentano una buona protezione.

Due navi, pensò Anna, in orbita sincronizzata. Una aveva portato i diplomatici umani. L’altra aveva portato gli alieni dal pelo grigio. Nelle notti chiare erano visibili entrambe nel cielo sopra la stazione e i suoi colleghi… gli astronomi, dilettanti e professionisti… gliele avevano indicate. La nave hwarhath a est, sopra l’oceano. La nave terrestre sopra la zona diplomatica. Andavano tutt’e due avanti e indietro sopra la stazione, senza cambiare mai posizione.

L’osservazione di Gislason non aveva senso per Anna. Se la strumentazione hwarhath era così buona, avrebbe dovuto rilevare la barca, forse non sulla parte visibile dello spettro, ma altrove. L’imbarcazione, dopotutto, non era una macchina tanto sofisticata. Non aveva schermi di protezione. Il cielo sapeva… lei no… che razza di radiazioni emetteva, ma certamente qualcosa che i hwarhath erano in grado di individuare senza possibilità di scambiarla per qualcos’altro. Era l’unica barca esistente sul pianeta.

Guardò il suo compagno. Il viso lungo era illuminato dal chiarore del pannello della strumentazione: verdastro, come uscito da una storia di fantasmi. E non era una visione rassicurante. Decise di non fare altre domande e si girò a guardare l’oceano.

Passò del tempo. Anna aveva freddo ma rimase in coperta, riluttante a lasciare solo Gislason.

Superarono un ultimo gruppo di alieni: piccoli individui, che dovevano aver avuto paura di avvicinarsi ulteriormente alla baia. Galleggiavano sul lato est della barca: una grande macchia di luce che si sollevava e si abbassava con le onde, attraversata da colori, azzurri e verdazzurri, perlopiù. C’erano anche scintille di arancione e di giallo: collera, frustrazione, eccitamento, avvertimento. In un’occasione, per circa un minuto, l’intero branco divenne di una straordinaria tonalità di rosa. Di che cosa si trattava? Anna non riuscì a decifrare il messaggio. Era una variante della rassicurazione che gli individui adulti si mandavano l’un l’altro? Sono io. Non avere paura.

Fiotti di luce uscivano dall’agglomerato e altri agglomerati più piccoli vi si radunavano attorno. Questo Anna, nonostante il buio e la pioggia, riusciva a vederlo. Se soltanto avesse avuto un aereo e un cielo sgombro! Avrebbe tanto voluto poter guardare dall’alto.

— Che cosa succede? — domandò Gislason.

— Non lo so. Non abbiamo mai prestato molta attenzione agli individui troppo piccoli per accoppiarsi. Potremmo esserci sbagliati. Vorrei tanto sapere che cosa fa scattare quel genere di comportamento. Non penso che questi esemplari siano neppure a contatto visivo con altri alieni, perciò non stanno reagendo a una manifestazione luminosa. E vorrei tanto conoscere lo scopo di questo raduno. Non stanno scambiandosi materiale genetico. Sono troppo giovani. — Anna tacque, fissando quel dondolio di luci. — E vorrei tanto sapere se la loro azione è casuale o se sanno quello che fanno.

L’agglomerato di alieni si dissolse. La barca proseguì verso sud, sud-est per un’altra ora e nessun altro alieno fu avvistato. Dio, era così freddo là fuori! E faceva paura. Nel buio, erano a malapena visibili soltanto le creste bianche delle onde.

— Scusate — disse infine una voce calda. — Qui è il vostro Mark Ten Marine Mind computer che interviene una seconda volta. Se date un’occhiata allo schermo radar, rileverete un oggetto proprio davanti a voi; distanza stimata, mille metri. L’oggetto è solido e galleggia sulla superficie dell’acqua. Non si muove. Se non volete entrare in contatto con l’oggetto, prego cambiare rotta. Se volete entrare in contatto, prego rallentare.

Gislason colpì il bottone rosso.

— Avete indicato che desiderate gestire da soli questa situazione. D’ora in poi, rimarrò in silenzio.

— Stronzo — disse Gislason.

La barca rallentò.

Anna spiò nell’oscurità davanti a loro. Non riusciva a vedere niente. — Che cos’è?

— Un aereo — rispose Gislason. — Qui noi decolliamo.

— Noi cosa? Siamo in mezzo all’oceano.

— Il nemico può individuare questa barca, signora. Di questo si renderà conto. Non possiamo rimanere a bordo. Lascerò che sia Mark Ten Marine Mind a proseguire da solo. Dovrebbe farcela tranquillamente.

— Questa è l’unica barca nel raggio di anni luce ed è piena di attrezzature per la ricerca. Non possiamo abbandonarla.

— Non l’abbandoneremo, signora. Mark sembra ansioso di subentrarci. Lasceremo fare a lui.

— No — disse Anna.

— Non ha scelta, signora.

Anna vide delle luci davanti a loro che andavano su e giù sulla superficie dell’oceano. Ce n’erano tre, piccole e fioche e decisamente artificiali.

La barca rallentò ulteriormente. Anna rilevò la forma scura dell’aereo. Le luci ne segnavano il muso, la coda e un’ala.

— Non possiamo farlo — disse Anna. — Potrei perdere il lavoro.

— Mi creda, signora Perez, potrebbe trovarsi in guai peggiori se non collabora con il maggiore.

La barca virò per presentarsi di fianco, rollando più violentemente di prima quando Gislason manovrò per accostare all’aereo. Quando furono vicini, che quasi toccavano la fiancata scura del velivolo, una porta si aprì, disegnando un rettangolo di luce gialla. Anna sbatté le palpebre e vide una persona stagliata contro la luce. — Tenente? — La voce era maschile.

Gislason disse: — Dovremo ancorarla qui, per un po’. Aiuti Zhang e poi salga sull’aereo.

Lei aprì la bocca per obiettare, ma lo sguardo sul suo viso la indusse a tacere. Una persona tutt’altro che gradevole, pensò mentre aiutava l’uomo sulla porta a legare le funi d’ormeggio. Quand’ebbero finito, l’uomo allungò la mano e la issò sull’aereo, al di sopra della stretta striscia d’acqua. Ora lei poteva vederlo chiaramente: un alto asiatico orientale, in uniforme. Aveva il solito taglio moicano di capelli, tinti di turchese. Le sopracciglia erano dello stesso colore, più che mai esotiche. Anna si chiese che cosa ne avrebbe pensato Nicholas. Non che fosse verosimile che lui pensasse a qualcosa se non ai guai nei quali si trovava.

— Benvenuta a bordo della Shadow Warrior. - Il soldato indicò uno spazio lungo e stretto. A un’estremità c’era una fila di sedili, di fronte a una parete metallica che era vuota, fatta eccezione per una porta chiusa. I sedili sembravano appartenere a un aeroplano a razzo o a un maglev interurbano terrestre; sebbene i sedili del maglev non avrebbero avuto le cinture. Tranne che per i sedili, lo spazio era vuoto. Un aereo da carico, pensò Anna.

— Temo che non potremo offrirle amenità, e io devo consegnare un pacco al tenente Gislason. Se si siede, le porterò del caffè in un paio di minuti.

Anna si avvicinò ai sedili e prese posto, di fronte alla parete vuota, distante un metro sì e no. Tutta quella luce la spaventava anche di più che navigare nell’oceano aperto.

Un paio di minuti dopo, il soldato asiatico riapparve. Oltrepassò la porta nella parete di metallo e tornò quasi subito con un boccale. Era di ceramica e tutto bianco. — Dovrà accontentarsi di quello nero, temo. E per quanto cattivo sia, devo dire che il tè è anche peggio.

Anna prese il boccale e bevve. Il caffè era effettivamente spaventoso. — Ma non pulisce mai la caffettiera?

— Non è ai primi posti delle priorità. Se vuole scusarmi. — Il soldato se ne andò.

Anna sorseggiò il suo caffè… poco… fissando la parete di metallo.

Una ventina di minuti dopo, Gislason salì a bordo. Sedette accanto a lei e si allacciò la cintura. — Fatto. Mark adesso fa tutto da solo.

Il soldato asiatico chiuse il portello esterno, prese la tazza del caffè di Anna e proseguì verso la parte anteriore dell’aereo. Anna non aveva idea di cosa si trovasse al di là della porta interna. La macchinetta del caffè o la cabina dell’aereo.

I motori partirono.

— È legata? — domandò Gislason. — Il decollo non sarà dolce.

E non lo fu, e Anna ricordò che non le era mai piaciuto molto volare. Si aggrappò ai braccioli del sedile. Accanto a lei, Gislason si portò le mani al viso.

Anna ebbe un momento di terrore. — Che cosa c’è? Ci sono problemi?

L’aereo fece ancora qualche rimbalzo, poi si stabilizzò nell’aria. Gislason sollevò la testa. I suoi occhi avevano cambiato colore. Erano azzurri, d’un colore così intenso che sembravano accesi dall’interno.

— Gesù Maria — disse Anna.

Lui afferrò la ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte, tirandola verso l’alto e all’indietro. — Merda! Fa male. — I capelli si staccarono. Sotto, c’era un cranio pallido, calvo all’infuori della solita striscia alla moicano, gialla come il burro.

Se la strofinò, raddrizzando i capelli gialli. Adesso sembrava proprio uno scandinavo e un soldato, niente affatto somigliante a Nicholas.

L’aereo stava virando; Anna poteva sentire la cabina che si inclinava.

— Dove siamo diretti?

— Abbiamo un posto che il nemico non conosce. — Lui lanciò la parrucca sul sedile accanto. — Sarà meglio che si appoggi bene. Ci vorrà un po’.

Lei si appoggiò allo schienale, cercando di rilassarsi. Non era facile. Non aveva idea di quale direzione stessero prendendo. Est sopra l’oceano? Ovest o sud, verso terra? Se andavano a sud, sarebbero passati su una parte del continente che… per quel che ne sapeva… non era stata esplorata. Esistevano fotografie aeree, naturalmente, e i suoi colleghi biologi avevano colto alcuni campioni di vita. Le foto mostravano basse montagne spoglie e pianure coperte di vegetazione gialla simile a muschio. Di tanto in tanto c’erano delle foreste di grossi cespugli e/o piccoli alberi. Un animale che assomigliava a un incrocio tra un granchio e un armadillo andava al pascolo sulle pianure gialle di muschio. Era lungo due metri dalla punta delle zampe anteriori all’estremità della coda ricoperta da una corazza: il più lungo animale terrestre presente sul continente. Nessuno scheletro interno e, secondo i suoi colleghi, con un quoziente d’intelligenza zero; ma aveva un interessante sistema respiratorio.

Dopo un po’ Gislason tirò fuori qualcosa da una tasca e la svolse come se si trattasse di un pezzo di carta: una, due, tre volte.

Una scacchiera, dimensione standard. La toccò sul bordo e, d’un tratto, la scacchiera si solidificò: un unico pezzo di metallo e silicone. I quadrati rossi cominciarono a mandare una morbida luce rosata. Quelli neri rimasero neri, come finestre nello spazio.

Impressionante, pensò Anna.

Lui toccò di nuovo la scacchiera. Ed ecco che si materializzarono i pezzi, sebbene pezzi non fosse la parola giusta. Erano ologrammi, fatti di luce, non di sostanza.

Due file di guerrieri cinesi. Dietro, c’erano elefanti e consiglieri, generali a cavallo e un paio di splendidi imperatori accanto alle loro esili ed eleganti mogli. Uno degli imperatori era vestito di rosso, l’altro di bianco e d’argento.

— Sa giocare? — domandò Gislason.

— Conosco le mosse.

— Non basta. — Gislason toccò la scacchiera. Uno dei guerrieri sfoderò una spada. La minuscola lama scintillò. La figurina la brandì sopra la testa e fece un passo avanti.

Come resistere? Anna osservò il gioco. I guerrieri brandivano spade e stendardi. Gli elefanti si muovevano pesantemente. I cavalli dei generali si impennavano. I consiglieri scivolavano come su rulli. Gli imperatori compivano passi maestosi e le pericolose regine venivano avanti con un curioso oscillare di passettini.

Molto impressionante, sebbene chiaramente un ologramma. I colori erano troppo pallidi. I rossi e i bianchi avevano una certa iridescenza perlacea, e le figure mancavano di solidità, sebbene fossero tridimensionali e magnificamente dettagliate. Di tanto in tanto, vibravano o svanivano per brevi momenti.

Una coppia di eserciti fantasmi, pensò Anna. Che lottavano per cosa?

— Costa molto? — domandò.

— La scacchiera? Sì. Ma nello spazio non c’è modo di spendere molto denaro. Mi piacciono gli scacchi e i giocattoli costosi.

Gislason andò avanti fino a quando l’aereo non cominciò a scendere. Poi spense la scacchiera. Le minuscole figure spettrali svanirono. Riavvolse la scacchiera e la mise via mentre l’aereo planava… sull’acqua, decise Anna. Rallentò, girò e finalmente si fermò. La porta davanti a loro, quella che conduceva alla macchinetta del caffè, si aprì. Il soldato con le sopracciglia azzurre riapparve.

— Dobbiamo muoverci alla svelta, tenente. La nuvola che ci fornisce la copertura comincia a rompersi.

Gislason annuì e si alzò. — Signora?

Anna seguì i due verso lo sportello esterno. Sopracciglia azzurre lo aprì e saltò nell’oscurità. Anna udì un tonfo nell’acqua.

— Profondità un metro — disse sopracciglia azzurre. — E fredda.

— Signora — fece Gislason.

Anna saltò e colpì prima l’acqua, poi il fondo. Sabbia cedette sotto i piedi e sarebbe caduta se il soldato non l’avesse sostenuta.

— Tutto bene, signora?

— Sì.

Guadarono fino alla spiaggia, Gislason in coda. Quando fu sul terreno asciutto, Anna si guardò indietro. Un altro soldato era fermo nel vano dello sportello aperto dell’aereo, una donna, questa volta. Chiuse lo sportello e la luce scomparve. Un momento dopo, un’altra luce apparve in mano al soldato dalle sopracciglia azzurre. La diresse davanti a loro, su una spiaggia rocciosa.

— Andiamo.

Di nuovo, come in un sogno, Anna seguì l’indicazione. Il raggio della torcia rischiarò dapprima un terreno sassoso, poi uno ricoperto di similmuschio. Si inerpicarono per un pendio. C’erano oggetti attorno a loro, alti come persone ma immobili e silenziosi. Cos’erano?, pensò Anna. Il soldato sollevò la torcia e ne indirizzò il raggio verso un albero. Una folta lanuggine ne copriva il tronco e i rami. Non c’erano foglie.

— Dove siamo? — domandò Anna. — Sulla parte meridionale del continente?

— Temo di non poterglielo dire — rispose Gislason.

Fosse stato giorno, Anna avrebbe potuto cercare i grandi animali con la corazza e le zampe. Ma quelli erano animali diurni e, come i loro predatori, amavano il calore del sole.

Il raggio della torcia mostrò una sporgenza rocciosa davanti a loro, bassa e di pietra scura, con un’apertura per la quale entrarono: una caverna bassa. Sul fondo, c’era una porta. Anna non l’avrebbe notata neppure di giorno tanto era ben occultata.

Il soldato spinse e la porta si spalancò. Oltre, c’era un corridoio di cemento con tubi per l’illuminazione lungo il soffitto. La luce che quei tubi emanavano era pallida e aveva una venatura d’azzurro.

— Benvenuta a Campo Libertà — disse il soldato.

14

Entrarono, prima Anna, poi Gislason, infine il soldato il quale chiuse la porta dietro di sé. Dall’altra parte, era di metallo e aveva una ruota. Il soldato la girò come se stesse chiudendo una delle antiche casseforti di banca.

Gislason disse: — Vada avanti lungo il corridoio.

I loro passi echeggiavano debolmente. Per il resto, Anna non udiva altro che il ronzio di un sistema di condizionamento. Dopo un centinaio di metri, arrivarono a un’altra porta. Il soldato l’aprì. Dall’altra parte, c’erano molta luce e della musica. Anna riconobbe la canzone. Era stato un motivo in voga quando era venuta la prima volta ai confini della Confederazione: Vivere ai confini della Confederazione. Non ricordava più il nome del gruppo. Erano apparsi e svaniti come una cometa. Ma quella canzone era stupenda: la descrizione migliore di ciò che aveva sentito che fosse vivere "Dove nessuno è stato prima di me/e tutte le regole sono nuove" e "il messaggio di casa diventa rumore".

In quel momento, però, la musica era troppo forte e le parole non erano comprensibili. Un sistema sonoro di second’ordine.

— Che cosa succede? — domandò Gislason.

Il soldato con le sopracciglia azzurre si strinse nelle spalle.

Quel nuovo ambiente era contraddistinto da molte porte. Ne superarono diverse, tutte chiuse, poi arrivarono a una già aperta. Gislason la prese per il gomito e la guidò dentro.

Un ufficio ordinario, con una donna dall’aspetto ordinario seduta a una scrivania. Non aveva neppure la capigliatura alla moicana: i suoi capelli… folti e ricci e neri… le andavano da tutte le parti sulla testa. Indossava una specie di uniforme anche se non militare: una casacca azzurro marina e una camicetta d’argento con il collo alto. La cravatta era scura e stretta e appuntata con una spilla a forma di delfino.

Gislason chiuse la porta. La musica divenne a malapena udibile. — Perché tutto questo rumore?

— Abbiamo qualche problema con l’insonorizzazione — disse la donna. — Tra le stanze e il corridoio. E altrove. Non si riesce a sentire da una stanza all’altra e all’esterno il suono non filtra. Di questo sono sicura. Ma, tutto sommato, direi che quella della musica è una buona idea. — Tacque per un momento. — E aiuta il morale. Ci ricorda che stiamo combattendo per la civiltà umana. Lei dev’essere la signora Perez.

— Sì. Vorrei sapere esattamente in che cosa sono stata cacciata. Dove sono? Che cos’è questo posto? E che cosa ne sarà della mia barca? Il nemico… i hwarhath, voglio dire… non la individuerà? Che cosa penseranno quando scopriranno che è vuota?

— Non risponderò a tutte le sue domande — disse la donna. — Le dirò della barca. In questo momento… — Si guardò il polso. — …dovrebbe essere affondata.

— Che cosa?

— Tutto ciò che il nemico troverà sarà un relitto e troppo in profondità per essere riportato facilmente a galla. E anche se ci riuscissero, che cosa scoprirebbero? — La donna guardò Gislason.

— Che nella cambusa è scoppiato un incendio — disse lui. — Impianto elettrico difettoso della caffettiera. Il fuoco ha raggiunto i serbatoi del carburante e… bum.

— Figlio di puttana — sbottò Anna.

— Lei non ha alcun motivo per credere che la madre del tenente Gislason sia in qualche modo responsabile dell’attuale comportamento del figlio — disse la donna. — Il nemico non troverà cadaveri, naturalmente. Questo succede, nell’oceano. La corrente li porta via. E chi sa dove finiscono… È però sempre possibile che saltino fuori prima o poi.

— Che cosa? — fece Anna.

— Un corpo — disse la donna in tono rassicurante. — Non il suo, naturalmente. Quello di Sanders. Preferiremmo tenerlo vivo. È sempre possibile ottenere da lui il massimo delle informazioni in una settimana o due o tre. Dopo di che, potremmo disporne a piacimento, se fosse necessario.

Ma chi era quella persona? Anna ripassò mentalmente i nomi di famigerati mostri degli ultimi duecento anni. Nessuno aveva mai presentato la prova certa che il dottor Mengele fosse morto. Ma dopo centonovant’anni… E il colonnello Peterson giaceva sotto un nero monumento di granito dopo aver dedicato la sua vita (così diceva l’iscrizione sulla lapide) alla Causa della Salute Pubblica in America.

— Ricomparirà soltanto se i hwarhath insisteranno per avere la prova della sua morte. Be’, se proprio insisteranno, allora il suo cadavere finirà su qualche spiaggia. — La donna fece una pausa. — Non nelle migliori condizioni, ma riconoscibile e con resti sufficienti a determinare che è morto per annegamento.

Gesù Maria, quella persona stava gioiosamente trastullandosi con l’idea di un assassinio; lo si capiva dalla voce; e godeva anche all’idea di terrorizzare Anna Perez.

— Se riusciremo a convincerli, se vorranno credere a un incidente, lei e Sanders lascerete il pianeta. Ma non subito. Per il momento, Anna… posso chiamarla così? …lei starà a Campo Libertà.

— Non sarà un nome serio.

— È l’unico posto del pianeta dove siamo liberi dalla sorveglianza del nemico. — La donna tacque. — E liberi dalla interferenza dei civili. Sì, Anna, il nome è serio. — Si alzò. Adesso Anna poteva vedere anche i pantaloni di ottima fattura che completavano la sua tenuta. — Le mostro la sua stanza.

Lasciarono Gislason in ufficio. La donna fece strada lungo il corridoio. Adesso c’era una nuova canzone, una che Anna non conosceva. La musica era sempre troppo forte e ancora Anna non riusciva a capire le parole anche se le parve che fossero inglesi.

Svoltarono in un corridoio laterale. Il livello del rumore diminuì appena.

— Ecco — disse la donna e aprì una porta.

Un’altra stanza assolutamente ordinaria. Sembrava quella di un dormitorio. Un tavolo, una sedia, un cassettone, un letto, una seconda porta che dava in un piccolo bagno. Niente finestre, naturalmente.

— Ci sono degli asciugamani nel bagno, e l’altro occorrente… spazzolino, pettine e così via. Il cassettone contiene un cambio di indumenti. C’è un computer nel tavolo. Le ho ordinato la cena, riso al curry con verdure. Temo che tutto il nostro cibo sia vegetariano. Spero non le dispiaccia.

Anna si scoprì a rispondere: — No, certo che no, non mangio quasi mai la carne.

— Bene. — La donna sorrise. — La porta sarà chiusa a chiave. Non possiamo davvero permetterle di girare per il campo. La prego di entrare.

Lei lo fece senza protestare, poi si girò e aprì la bocca. La porta sbatté. Ci fu il clic di un chiavistello che scattava.

Si sedette sul letto. Era una prigioniera, tenuta da gente che aveva deliberatamente distrutto l’unica barca di ricerca esistente nel raggio di anni luce, proprietà del governo che dava lavoro a quella stessa gente. Che razza di stronzi criminali erano?

Assassini, pensò dopo un momento. Questo spiegava certamente perché Nicholas era parso così terrorizzato. Doveva aver saputo.

Aveva fatto la cosa giusta mandando quel messaggio.

E se non fosse arrivato? Se nessuno si fosse comportato di conseguenza? Si tirò indietro i capelli e si massaggiò il viso. Aveva tutti i muscoli tesi. E se il messaggio fosse finito in mano alla Mi? Era possibile, forse probabile, si rese conto.

Il suo corpo sarebbe stato ritrovato su una spiaggia, e forse allora non avrebbero neppure avuto bisogno di uccidere Nicholas. Se trovavano lei, allora i hwarhath si sarebbero convinti che l’incidente era vero.

Il messaggio poteva perfino essere inutile. Forse doveva già rassegnarsi alla sconfitta. Aveva fatto quello che volevano. Non era più di alcuna utilità e poi… sapeva troppo.

Nicholas, invece, era assai più prezioso. Aveva senso uccidere prima lei.

Cominciò a tremare. Come aveva fatto a finire in quel casino?

Parlando con un uomo piacevole. Accettando qualcuno non appena lo aveva visto. Piacendole qualcuno soltanto perché era curioso e faceva buone domande.

La porta si aprì e il soldato con le sopracciglia azzurre entrò. — La cena — disse e depose un vassoio sul tavolo. — Tutto bene? Ha bisogno di qualcosa?

— Uscire di qui.

— Spiacente, signora. Meglio che le dica che questa stanza è sotto sorveglianza. Potrebbe risparmiarle qualche situazione imbarazzante. — Il soldato sorrise. — Facciamo cose che non vogliamo altri vedano. Buonasera.

Se ne andò. Anna si alzò. Non aveva fame, ma c’era mezza bottiglia di vino bianco sul vassoio. Certamente non adatto alla giornata che stava vivendo ma doveva fare di necessità virtù. Aprì la bottiglia e riempì un bicchiere, rimettendosi a sedere. Era un po’ dolce. Uno Chardonnay?

Dopo che ebbe finito il vino, decise che era troppo presto per lasciarsi prendere dal panico. Non sapeva ancora abbastanza. Il suo consigliere alle scuole superiori le aveva detto che era il suo grande difetto. Formulava teorie e traeva conclusioni prima di avere dati sufficienti.

Aprì il cassettone e trovò una camicia da notte: lunga e di vera flanella, con un grazioso motivo floreale.

Che razza di gente era quella? E cosa significava la camicia da notte? Era possibile uccidere qualcuno dopo avergli procurato una camicia da notte di flanella?

Sì, decise dopo un po’. Era possibile ma non era giusto.

Portò la camicia da notte in bagno e fece una doccia. L’acqua era calda e c’era anche la schiuma da bagno. Doveva essere stata la donna senza nome, il capo… almeno in apparenza… di Campo Libertà. Era da lei: l’ospite perfetta. Quel posto faceva parte di una guida ai Country Inn e ai Campi di concentramento. Usò la schiuma da bagno. Schiumava in modo davvero soddisfacente.

Dopo, si lavò i denti e andò a letto. Rimase a lungo al buio a pensare alla possibilità della morte, poi finalmente scivolò in un sonno agitato e frequentemente interrotto. I suoi sogni furono frammentari e spiacevoli. Cose le davano la caccia. E lei non poteva correre.

Si svegliò un’ultima volta e udì la musica, forte e confusa. La porta della stanza era aperta. Il soldato con le sopracciglia azzurre era fermo sulla soglia. — Spiacente di disturbarla, signora. Me ne andrò tra un minuto. — Mise un vassoio sul tavolo e ritirò quello della cena. — E mi scuso anche per la colazione. Abbiamo qualche problema in cucina. Il dottore vuole vederla quando sarà pronta.

— Chi?

— L’ha conosciuta ieri.

La donna con i capelli ricci.

Il soldato se ne andò e Anna si alzò. Il vassoio conteneva fagioli neri, riso e caffè nero. Niente male, dopotutto. Il caffè era molto meglio della brodaglia sull’aereo. Dopo che ebbe finito di mangiare, indossò i suoi vestiti. Erano stropicciati e rigidi di salsedine ma desiderava avere il meno a che fare con la Military Intelligence.

Sopracciglia azzurre ritornò e la condusse nell’ufficio del dottor Senzanome. Il dottore c’era, seduto dietro la scrivania. Quel giorno indossava una camicetta rosso fiamma e una casacca nera. La cravatta, d’argento, era di maglia. C’era Gislason, appoggiato contro un muro, le braccia incrociate, con un’aria… come? Sardonica? Anna non era neppure sicura di cosa volesse dire "sardonico". Ma c’era qualcosa che non andava; era la sua espressione a non convincere Anna. E c’era il capitano Van, in un angolo, raggomitolato in una sedia, con un’espressione infelice.

— Si sieda, la prego — disse il dottore.

Anna occupò l’ultima sedia.

— Si è sviluppato un problema — disse il dottore.

— Che cosa?

Intervenne Gislason. — Questa notte il nemico ci ha colpiti. Poco dopo che l’abbiamo scortata nella sua stanza.

Anna aprì la bocca ma lui sollevò una mano. — Non qui, signora. Al momento, questo è l’unico luogo di tutto il pianeta che sia controllato da esseri umani. Hanno espugnato il campo d’atterraggio con razzi e hanno paracadutato truppe nella zona diplomatica e alla stazione. Rapidi. Efficienti. I nostri hanno appena avuto il tempo di lanciare un messaggio. E la cosa seguente che abbiamo sentito è stato un annuncio da parte dei hwarhath che avevano preso tutto e tutti. Tengono in ostaggio l’intera popolazione umana del pianeta. I suoi amici, i miei amici, i diplomatici.

No, merda.

— Vogliono due cose: Nicholas Sanders e il tempo sufficiente per andarsene sani e salvi. Se non le ottengono entrambe, uccideranno tutti gli umani del pianeta. Maschi e femmine, hanno detto.

— Penso che sulle donne stiano bluffando — disse il capitano Van. — Ma uccideranno certamente gli uomini, militari e civili. Nella loro cultura, non esiste il concetto di maschio civile. Tutti gli uomini sono soldati; e non hanno alcun problema con l’uccidere dei soldati.

— Che ne è stato del vostro piano? — domandò Anna. — La storia su me e Nicholas?

— Non lo sappiamo — disse il dottore.

— Non devono averci creduto — disse Gislason.

— Perciò adesso dobbiamo decidere come rispondere — disse il dottore.

— Date loro quello che vogliono — disse Anna.

Gislason sorrise senza allegria.

Il capitano Van disse: — C’è una terza cosa che vogliono, signora Perez. Lei. E in buone condizioni, hanno detto. Indenne. Perché, signora?

Il messaggio, naturalmente. Gli alieni lo avevano captato. Ma non poteva dire a quel trio di villani che era lei la persona che aveva mandato all’aria il loro piano. — Non ne ho idea — rispose Anna.

— E invece sì — disse Gislason.

— Pensiamo che lei abbia trovato un modo per tradirci — disse il dottore.

Anna non disse nulla.

— Ma ha importanza? — chiese il capitano Van.

Il dottore annuì. — Certo che ne ha. Se abbiamo ragione, la signora Perez è colpevole di tradimento.

— Non pensate che sarebbe meglio decidere cosa fare sull’ultimatum dei hwarhath? — domandò Anna.

Gislason districò le braccia e si raddrizzò — Sappiamo che cosa fare. Non abbiamo mezzi di trasporto, qui. Questo è stato un errore ma volevamo tenere gli aerei il più lontano possibile nel caso in cui il nemico avesse trovato il modo di individuarli. Perciò siamo bloccati. Non possiamo andare da nessuna parte; e c’è della gente nella zona diplomatica, gente nelle mani del nemico, che sa di Campo Libertà. Qualcuno finirà per parlare. Penso che ci restino soltanto un giorno o due prima che il nemico arrivi.

— Se decidessimo di combattere — disse il capitano Van — centinaia di persone morirebbero.

— Abbiamo pensato di uccidere Nicholas Sanders — disse il dottore. — Perlomeno, non sarebbe più di alcuna utilità al nemico.

Gislason fece una smorfia. — Lei lo ha visto, ieri, dottore. Recitava come se stessimo facendolo a pezzi, e lo avevamo appena toccato.

— Qualche droga — disse il dottore ad Anna. — Niente di più. Per renderlo più malleabile e disposto a collaborare. Invece… — Il dottore aggrottò la fronte. — Dev’essere stato un effetto paradosso. È diventato più agitato. Sembrava in preda alle allucinazioni.

— L’uomo non serve a nessuno, umano o alieno — disse Gislason. — Tutto ciò che hanno potuto cavargli fuori sono state le informazioni, e lui deve aver raccontato tutto già da molti anni. — Guardò Anna. — Non combatteremo, signora. Non c’è modo di portare Sanders fuori dal pianeta, per non dire dal campo. Perciò lo abbiamo perso e abbiamo perso qualsiasi informazione abbia da darci sul nemico. Non vedo alcuna necessità di ucciderlo, e neppure il capitano. — Guardò Van il quale aveva ancora quella sua espressione miserabile. — Oggi chiameremo il nemico e negozieremo uno scambio: lei e Sanders in cambio di tutti gli altri. Però vorremmo tanto sapere che cos’ha fatto.

Il dottore si sporse in avanti. — Possiamo scoprirlo, signora. Le droghe che hanno atterrito Nicholas Sanders funzionano su ogni essere umano.

Era come vivere in un brutto sogno. Da un momento all’altro, uno di quei maniaci avrebbe cominciato a torcersi un baffo inesistente. — Aha, mia fiera bellezza. Sei in mio potere! — Solo che questi facevano sul serio. Questo era l’aspetto peggiore. Avevano davvero intenzione di fare quello che avevano detto parlando di droghe e di assassinio. C’era un detto, che Anna non riusciva a ricordare, sulla banalità del male. Un vecchio detto, forse del ventesimo secolo, un secolo difficile da battere in fatto di male. La mente di Anna esplorava tutte le possibilità. Che cazzo doveva fare?

— Suppongo che dovrete usare le droghe — disse. — È l’unico modo per convincervi che non ho fatto nulla. Forse vogliono solo sapere che cos’è accaduto. Forse vogliono solo farmi delle domande.

— Bene, allora — disse il dottore.

Il capitano Van disse: — Tutto questo è ridicolo. Io sono l’ufficiale in comando, qui, e non vi permetterò di interrogarla ulteriormente. La consegneremo al nemico in buone condizioni, come hanno richiesto. Non metterò in pericolo le vite di centinaia di persone solo per soddisfare la sua curiosità, dottore.

Guardò Gislason. — Riporti la signora Perez nella sua stanza. Poi… — Fece un sospiro. — …decideremo che cosa dire ai hwarhath.

15

Anna trascorse il resto della giornata nella sua stanza. Un soldato… una donna latino-americana… le portò la colazione: un sandwich al formaggio e del caffè. Anna chiese notizie.

— Non posso dirle nulla — rispose la donna, in spagnolo.

Dopo che ebbe finito di mangiare, tirò fuori il computer ed esaminò la directory. Conteneva un programma di intrattenimento generico: scacchi, dama, bridge, la nuova edizione di Monopoli e Rivoluzione, una mezza dozzina di romanzi. Guardò la lista dei romanzi. Aveva sempre desiderato leggere Moby Dick, perché non farlo adesso?

Cominciò.

La soldatessa le portò la cena di verdura e riso. Anna mangiò, fece una doccia e andò a letto presto. Questa volta non fece fatica ad addormentarsi.

Il mattino seguente, continuò a leggere. Era al capitolo sul biancore quando la porta si aprì. La colazione, pensò; e in ritardo.

Entrò un hwarhath: piccolo di statura e ordinato, con la solita uniforme grigia. Il suo pelo era grigio scuro, quasi nero.

Anna sollevò la testa, sorpresa. Lui abbassò immediatamente lo sguardo.

— Anna Perez? — domandò.

— Sì?

— Mi chiamo Hai Atala Vaihar. Il mio rango è di osservatore quello-davanti e faccio parte dello staff del primo difensore Ettin Gwarha. Sono stato mandato a liberarla.

— Il suo inglese è eccellente — disse Anna.

Lui mostrò brevemente i denti. Era un sorriso? — Ho imparato da uno di madre lingua, sebbene Sanders Nicholas dica di non essere del tutto soddisfatto del mio accento. La mia lingua natia è tonale, e sembra che non mi riesca di perdere la cadenza.

Anna spense il computer, prese la giacca e se la mise. Dopo un attimo di ripensamento, si infilò il computer nella tasca. Moby Dick stava diventando interessante. — Vogliamo andare? Questa stanza mi fa venire i brividi.

— Prego?

— Mi fa sentire a disagio.

— Sì. Andiamo. Prego, vada avanti lei. Usciremo subito. Ho ordini di prendere lei e l’addetto senza perdere tempo.

Anna ricordò la strada per uscire e la prese decisamente, l’alieno alle sue spalle.

— Come sta Nicholas? — domandò.

— Al momento, è fortemente sedato. È stato il nemico. Hanno detto che era sconvolto e che non riuscivano a calmarlo.

— Hanno cercato di interrogarlo.

Silenzio, poi il hwarhath disse: — Sanders Nicholas è famoso per non amare rispondere alle domande.

Non c’era nessuno nei corridoi, né umani, né alieni. La musica era stata spenta. Anna sentiva soltanto il leggero ronzio del sistema di circolazione dell’aria e il rumore dei loro passi che echeggiava tra le pareti di cemento.

Che cos’era accaduto? Gli alieni controllavano anche quel posto?

Passarono davanti a una porta aperta. Anna guardò dentro e vide un hwarhath curvo su un computer che batteva sulla tastiera con discreta rapidità.

Poteva essere la risposta alla sua domanda.

Arrivarono al primo corridoio, quello che portava direttamente fuori. I tubi nel soffitto erano accesi come prima ma in fondo al corridoio la porta con la ruota era aperta e la luce del sole irrompeva all’interno.

Quando emersero all’aperto, Anna fece un respiro. Ah! Aria fresca! C’era vento e il cielo era punteggiato di piccole nuvole. Attorno a lei, le colline erano di un giallo acceso. Sotto di lei, un laghetto azzurro al centro di una piccola valle. Ai margini dell’acqua crescevano degli alberi, tutti (per quello che riusciva a vedere) della stessa varietà: arancione cupo con tronchi corti e robusti e rami tozzi. E senza foglie.

L’alieno le si fermò accanto e fece un gesto. A destra c’era uno spazio livellato. Vi si trovavano due aerei: hwarhath, di quelli con le ali a pale di ventilatori per il decollo e l’atterraggio verticale.

— Dove siamo? — domandò Anna.

— Ho ancora dei problemi con le distanze umane — rispose l’alieno. — Anche se ho finalmente imparato come misurate il tempo. Siamo a due ore a sudovest della stazione umana di ricerca. Sanders Nicholas è già sull’aereo. Per favore, prosegua, signora.

Lei camminò sulla vegetazione di similmuschio giallo… era fitta, morbida ed elastica, e l’aria profumava del suo leggero aroma secco… poi salì per una scala di gradini metallici, entrando infine in una cabina che assomigliava a quella di un aereo umano. C’era un corridoio al centro, tra due file di sedili. Ma quanti modi c’erano per trasportare tanti umanoidi?

I sedili erano più larghi di quelli di qualsiasi aereo umano: ampi e bassissimi, con larghi braccioli e molto spazio per le gambe. Strano, tenuto conto che gli alieni erano… come gruppo… più piccoli degli umani. Non c’erano finestrini. Curioso. Quella gente non voleva sapere dove andava?

L’alieno le indicò la parte anteriore dell’aereo. Anna proseguì in quella direzione. A metà del corridoio si imbatté in Nicholas. Era seduto vicino alla parete della cabina, accasciato, con la testa reclinata da un lato. Era avvolto in una coperta. Il viso era bianco come un lenzuolo e gli occhi erano chiusi. Al suo fianco sedeva un hwarhath.

— Nick. — Anna si fermò.

L’alieno accanto a lui sollevò brevemente lo sguardo, poi l’abbassò di nuovo.

— Nicholas.

Lui alzò la testa e aprì gli occhi. Anna ebbe l’impressione che non riuscisse a vederla. Dopo un momento, Nick parlò in una lingua incomprensibile. La voce era stanca.

L’alieno che accompagnava Anna spiegò: — Non credo che l’abbia riconosciuta, signora. Parla nella nostra lingua.

— Che cos’ha detto?

— Che non sa nulla. Credo che dovremmo proseguire.

Anna si sedette qualche sedile più avanti. Il suo alieno… come si chiamava? Vai qualcosa?… prese posto al suo fianco e le spiegò come allacciarsi la cintura.

Un paio di minuti dopo, i motori si accesero. L’aereo decollò. Anna tirò fuori il computer che si era portata dalla cella, lo accese e finì di leggere il capitolo sulla bianchezza della balena.

L’alieno sedeva tranquillamente, le mani intrecciate, senza fare assolutamente nulla.

Due ore dopo, secondo l’orologio del computer, l’aereo cominciò a scendere. Anna spense Moby Dick. Il velivolo rallentò. Il rumore dei motori cambiò mentre si fermavano a mezz’aria e poi atterravano. Un atterraggio dolcissimo; Anna lo avvertì appena. Quella gente sembrava essere brava in tutto quello che faceva. Un lato non umano.

I motori tacquero. Anna si slacciò la cintura.

— La prego di restare dove si trova, signora. Sanders Nicholas verrà portato fuori per primo. Posso chiederle che cosa stava leggendo?

— La storia di un uomo che si era lasciato ossessionare dal pensiero di dare la caccia e uccidere un grosso animale marino.

— Ci è riuscito?

— L’animale lo ha ucciso.

Lei sentì la portiera che si apriva e una corrente d’aria umida e che sapeva d’oceano che entrava. Alle sue spalle, ci fu del movimento. Qualcuno parlò nella lingua degli alieni.

— È una storia famosa — aggiunse Anna.

— È una buona storia? — domandò il hwarhath.

— Credo di sì. In realtà non so cosa intendiate voi per buona.

— Storie su uomini o donne. Ma non storie su uomini e donne. Abbiamo scoperto che è difficile studiare la vostra cultura. Sembrate ossessionati dalle attività che sono contrarie al volere della Divinità.

Per una qualche ragione, la sua voce cauta le ricordò quella della guardia di Nicholas, il giovane alieno che si chiamava Hattin.

— Uno dei vostri faceva da guardia a Nicholas. Che fine ha fatto? Sta bene?

— Abbiamo trovato il suo corpo. Le sue ceneri verranno mandate a casa. È importante. A noi piace… alla fine… tornare a casa.

L’alieno si girò a guardare verso il fondo dell’aereo. — Possiamo scendere, ora, signora.

Lei lo seguì fuori, sotto una pioggerella fredda, velata di nebbia. Non appena si guardò attorno, disse: — Questa non è la stazione.

— La vostra stazione? No.

Le costruzioni erano squadrate, grigie e anonime. Non c’erano finestre né particolari architettonici, solo muri piatti. Dovevano esserci delle porte ma lei non le vedeva.

— Perché mi trovo qui?

— Il primo difensore vuole parlarle.

— Perché?

— Io non sono una persona importante, signora. Il primo difensore non mi dice cosa ha in mente.

Anna si fermò ancora un momento a guardare le costruzioni grigie e squadrate, poi scrollò le spalle. — Mi dica dove andare.

— Da quella parte. — L’alieno indicò la direzione.

Quando furono vicini alla costruzione, Anna scorse una porta, a filo di muro e difficilmente visibile. Entrarono in un corridoio con le pareti di metallo grigio. Il pavimento era ricoperto da moquette: una tonalità di grigio leggermente più scura. Ragazzi, agli alieni piaceva quel colore. L’aria aveva uno strano odore. Di cosa? Di un qualche animale sconosciuto. Due alieni armati di fucili erano fermi ai lati della porta. Uno parlò al compagno di Anna. L’altro rispose. Il primo che aveva parlato mosse leggermente la testa. Aveva annuito?

— Signora? — fece l’alieno di Anna.

Proseguirono per il corridoio. C’era grande attività. Alieni che passavano, muovendosi velocemente e con una grazia atletica che sembrava caratteristica della specie. Non c’erano persone goffe tra i hwarhath? Nessuno la guardava direttamente, ma lei aveva la sensazione d’essere osservata, e di traverso, anche. Metà degli alieni erano armati, tutti di fucili, ma Anna vide anche quelle che dovevano essere delle pistole infilate nelle fondine.

Raggiunsero un altro posto di guardia. Il suo compagno parlò a un altro alieno armato. Questo era grande e ben piazzato, con una peluria grigio chiaro che tendeva all’azzurro. I suoi occhi… li sollevò solo per un istante… erano dello stesso colore della peluria. Alla fine annuì e Anna e il suo alieno proseguirono.

La guardia era un fenomeno oppure esistevano hwar di colori diversi? Apparivano perlopiù in tutte le sfumature del grigio medio ma il suo compagno era quasi nero e lei aveva visto un altro individuo con una peluria di due tonalità: scura in punta e argentea sotto.

Un terzo posto di guardia. Un’altra conversazione e un altro cenno con la testa. Di nuovo andarono avanti e arrivarono alla fine del corridoio. C’era una porta con sopra un simbolo: una fiamma all’interno di uno strano anello di spine.

La guida toccò la porta e l’aprì. — Entri, signora. È attesa.

Anna entrò. La porta si chiuse alle sue spalle. Davanti a lei c’era un tavolo dietro al quale sedeva un alieno, grosso e dall’aspetto solido; Anna ebbe l’impressione che fosse più piccolo della media della sua gente. La peluria era ispida, d’un grigio quasi metallico. Sollevò la testa. Gli occhi erano azzurri e la guardavano direttamente.

— Perez Anna. — La voce era profonda e morbida. — È difficile per me guardare qualcuno negli occhi a meno che, naturalmente, non sia un parente o un amico. Ma Nicky mi dice che tra la vostra gente uno sguardo diretto indica onestà e spirito onorevole. Perciò, proverò. Si accomodi, la prego. — Mosse la testa per indicarle una sedia libera di fronte alla scrivania.

Anna si sedette. — Lei parla inglese.

— Conosco Nicholas da quasi vent’anni. Questa è la sua lingua d’origine ed è la lingua dei miei nemici. Certo che ho imparato l’inglese. — Lui prese un oggetto, una striscia di metallo, e lo rigirò tra le mani. Che cos’era? Una specie di penna? — Perché ha lanciato il messaggio?

— L’avete captato.

Lui rimase per un momento silenzioso. — Non direttamente e non subito. L’abbiamo scoperto questa mattina, quando stavamo interrogando i suoi… qual è la parola? Compagni? Compatrioti? Colleghi di lavoro? Avevamo già agito, signora. Il suo messaggio è stato intelligente e… credo… coraggioso. Non necessario.

— Allora perché avete chiesto di me, se non eravate a conoscenza del messaggio?

— Lei è una donna. Pensavo che potesse essere in pericolo. Non confidavo che gli umani la trattassero con rispetto.

Lui posò qualunque fosse la cosa con cui stava giocherellando e si appoggiò allo schienale della sedia. — Non intendo essere ingiurioso, ma perché la vostra specie dà potere a degli idioti? E questi prodotti di un’inseminazione mal riuscita come hanno potuto pensare… anche solo per un momento… che avrei creduto alla loro storia? Nicky, partito su una barca con un umano e donna per giunta? Perché?

— Li avevo avvertiti che non avrebbe retto.

Lui aggrottò la fronte. — Non capisco.

— Li avevo avvertiti che la storia non era plausibile.

— Aveva ragione. Naturalmente, abbiamo finto di credere alla storia. Abbiamo dovuto farlo, finché non siamo riusciti a tornare alla nostra base; e quei pazzi sconsiderati hanno creduto alla nostra finzione. Ci hanno lasciati partire. — Lui sollevò lo sguardo e parve arrabbiato. Dopo un momento o due, si rilassò. Anna lo vide lasciar cadere leggermente le spalle. Una mano ricoperta di peluria grigia si allungò e toccò l’oggetto di metallo. — Perché ha lanciato il messaggio?

Lei rimase zitta per un po’, cercando di capire esattamente perché aveva agito così. — Nicholas mi piace e non mi piacciono molto quelli della Intelligence militare. Mi hanno costretta a lavorare per loro. Io non intendevo farlo; e ho visto Nick dopo che l’avevano catturato. Era spaventato. Credo di non aver mai visto qualcuno tanto spaventato. Uno della Mi ha detto che Nick era un codardo. Io non la pensavo così. Mi sono detta: lui conosce questa gente e sa cosa gli faranno, e si tratta di qualcosa di veramente terribile.

Il primo difensore parve pensieroso. Lo era veramente? Anna interpretava correttamente la sua espressione? — Ha ragione sul fatto che Nick non è un codardo. Hah! È una brutta parola! Ma forse non ha compreso ciò che vedeva. Avevano intenzione di interrogarlo, signora. Lui deve averlo capito. Era ovvio. Non gli piace essere interrogato. — Fece un’altra pausa e parve di nuovo pensieroso. Poi si sporse in avanti, le braccia sul tavolo. Anna ebbe la sensazione che avesse preso una qualche decisione.

— Vent’anni fa, quando lo catturammo, era la prima volta che eravamo in possesso di un nemico che parlasse bene la nostra lingua. Sapevamo che era in grado di capire le nostre domande e che potevamo comprendere ciò che ci rispondeva. Era la nostra occasione per ottenere molte informazioni che non fossero ambigue. Nicky era insostituibile. Non potevamo provare niente su di lui che fosse in qualche modo sperimentale. Dovevamo… come dite, voi? …giocare sul sicuro. Dovevano usare i più antichi, più validi e più sicuri metodi d’interrogatorio.

"Pensi a quanto tempo fa è accaduto! Ora abbiamo droghe che fanno sì che difficilmente la vostra gente possa mentire o evadere le domande. Ora abbiamo strumenti che ci dicono se un umano dice o meno la verità.

"Allora non li avevamo e non sapevamo molte cose sulla psicologia umana." Lui esitò un istante. "Usammo il dolore. È semplice. È affidabile. È universale."

Anna cominciava a sentirsi a disagio e l’uomo dietro il tavolo appariva sempre più disumano. Le sembrava di trovarsi di fronte alla straordinaria trasformazione nel Ritorno dell’Uomo Lupo, quando Lewis Ibrahim si trasformava… sul palco, proprio davanti agli occhi del pubblico… in un mostro peloso.

La voce morbida riprese. — Lui rispose molto bene ai metodi che usammo, e ottenemmo molte informazioni. La maggior parte erano nuove e non c’era modo di controllarle. Ma riuscimmo a controllarne alcune e scoprimmo che mentiva. Così dovemmo interrogarlo di nuovo; e quando controllammo le nuove risposte, scoprimmo nuove bugie. Solo dopo molto tempo fummo sicuri d’aver ottenuto la verità; e a un certo punto, ci scoprimmo più interessati a Nick che alle informazioni. Volevamo vedere fin dove sarebbe riuscito ad arrivare e cosa avesse intenzione di provare in seguito. Ci dicemmo che stavamo imparando qualcosa di prezioso sulla psicologia umana. — Tacque, guardando l’oggetto che aveva in mano: la lunga striscia di metallo.

— Alla fine, smettemmo. Credo che avessimo ottenuto quasi tutto quello che aveva da dire, anche se non ne sono interamente sicuro. È il miglior bugiardo che abbia mai conosciuto. Sogna ancora gli interrogatori. A volte, quando si sveglia, non si rende conto di dove si trova. Ha gli occhi aperti ma continua a sognare ed è molto spaventato. Devo… qual è la frase? …parlargli di rimando. Costruire una strada di parole che lo riporti alla realtà.

— Lei continua a parlare come se fosse stato presente quando è accaduto tutto questo.

— Vent’anni fa? Quando Nick fu interrogato? C’ero. Mi ha sempre interessato l’umanità.

Anna aveva la sensazione di trovarsi sull’orlo di un abisso. Se abbassava lo sguardo, vedeva cose che si contorcevano nell’ombra. Se abbassava lo sguardo? Diavolo, lo stava abbassando. Che cosa sulla terra… che cosa nell’universo… univa quelle due persone? Non voleva saperlo.

— Il più delle volte riesco a leggere l’espressione umana — disse il primo difensore. — Lei sembra turbata. Dovrebbe esserlo. Ha interferito in una lotta tra uomini. Facendolo, ha causato un problema e creato un obbligo.

"Il problema è questo: ha messo a repentaglio la sua posizione tra la sua gente. L’ha fatto nel tentativo di aiutare Nick. Ciò crea quello che la sua gente, che sembra non pensare ad altro che alla procreazione e alle attività del mercato, definirebbe un debito. La mia gente lo chiamerebbe…" Fece una pausa, gli occhi azzurri distaccati. Strano che lei potesse dirlo quando quelle lunghe pupille misteriose non la guardavano. "…un obbligo reciproco. Può andare bene come traduzione. O forse dovrei dire che la sua azione può aver creato un obbligo.

"Lei ha agito, a quanto mi sembra, per onore e compassione ma il suo gesto non era necessario ed è stato inadeguato. Il fatto che il suo gesto non fosse necessario lo rende insignificante? Ciò che ha fatto era contrario alla volontà della Divinità e a ogni buonsenso. Ma lei non lo sapeva. Come posso giudicare il comportamento di un alieno, di una persona che proviene da una cultura che non sembra avere la minima idea di ciò che è decente?"

Tacque e respirò, sibilando leggermente. — Ha importanza l’intenzione o soltanto l’azione? Ha importanza l’azione o solo il risultato? Assomiglia alla situazione di un poema epico. Giusto e sbagliato sono così intrecciati che non c’è modo di dividerne i capi. Lei tira un filo chiaro e scopre d’aver estratto qualcosa di scuro. — Fece una pausa e aggiunse: — Non so con certezza se le devo qualcosa.

Dopo un momento, Anna disse: — Non sono in grado di dirglielo.

— Non mi aspettavo che un umano fosse in grado di darmi dei consigli su una questione di etica. — Lui guardò al di là di Anna, gli occhi azzurri vacui. Alla fine, continuò: — C’erano due navi umane, come forse sa. Quella all’estremità del sistema è partita. Pensiamo di sapere quanto tempo occorra per raggiungere la vostra base più vicina. Abbiamo osservato le sonde-messaggio spaziali che vanno e vengono. Abbiamo bisogno di lasciare il pianeta tra un giorno.

— Dunque. — Tacque di nuovo. — Ho due alternative, Perez Anna. Può scegliere. Le offrirò asilo. Se vuole, può venire con noi quando ce ne andremo.

— No — fece Anna, senza pensarci due volte.

— Ne è sicura?

Le stava chiedendo di gettarsi nell’abisso.

— La ringrazio per l’offerta, ma la risposta è no.

— Molto bene. Passerò alla seconda alternativa. Da quel che posso capire, questo assurdo complotto è stato ideato e portato avanti dai soldati che sono venuti con il gruppo dei diplomatici. I diplomatici pare che non sapessero niente, anche se forse mentono. Non c’è tempo per scoprirlo. Nicky mi aveva avvertito che c’erano due gruppi, e che non lavoravano insieme. E mi aveva detto che i soldati erano pericolosi. Avrei dovuto ricordarmi che questa è la sua specie.

"Parlerò con il suo gruppo diplomatico e suggerirò loro che questa non dev’essere la fine dei negoziati. La colpa di tutto questo può essere attribuita ai militari. I diplomatici… se sono intelligenti… possono venirne fuori senza disonore. Chiederò loro di accertarsi che anche lei se la cavi."

— La ringrazio.

— Forse non funzionerà. — Lui si spostò sulla sedia e guardò qualcosa sul tavolo. — C’è un’altra cosa, Perez Anna. Voglio chiederle un favore. Non è obbligata a dire di sì. Approfitteremo della presente situazione per appropriarci di qualunque cosa si trovi nella zona diplomatica o alla stazione che possa risultarci utile. Perlopiù di informazioni. — Lei vide lo scintillio dei denti. Quello era sicuramente un sorriso e i denti degli alieni… come i denti degli umani… erano squadrati e bianchi. Non zanne da lupo mannaro. Rassicurante. — Ci piacerebbe avere tutto il cibo umano possibile. Come forse sa, non condividiamo l’interesse umano per il cibo e ciò che mangiamo non nutre la vostra specie. In alcuni casi, la uccide. I nostri laboratori sono in grado di nutrire i nostri… ecco che perdo la mia proprietà dell’inglese… i nostri ospiti? I nostri prigionieri? Ma, secondo Nicky, il nostro prodotto non offre il livello di soddisfazione che la sua gente si aspetta dal cibo. Anna non avrebbe saputo dire se l’alieno avesse il senso dell’umorismo o fosse un presuntuoso moralista. Non poteva immaginare Nicholas che viveva con qualcuno privo del senso dell’umorismo. Ma poi, di nuovo, non riusciva a immaginare Nicholas che viveva con un torturatore.

— Vuole che le dica quale cibo prendere.

— Sì.

Lei ci pensò sopra un momento. Perché no? Si trovava già in guai terribili. Perché non rischiare il tutto per tutto? E la inteneriva forse il pensiero di prigionieri umani che mangiavano qualcosa come il cibo bilanciato e nutriente che mangiavano gli animali. Cibo umano, lo chiamavano gli alieni. Era un ciclo sinistro.

Annuì. — Lo farò.

Lui toccò qualcosa sul tavolo e parlò in un’altra lingua. Il tavolo rispose. Il primo difensore sollevò la testa. — La guardia Hai Atala la scorterà nelle cucine degli umani. Grazie per l’aiuto.

Un congedo. Anna si alzò. — Nicholas si riprenderà?

— Credo di sì. È resistente.

Anna aveva un’altra domanda. — Quelli della Mi pensavano che lei non avrebbe fatto niente, neppure se avesse scoperto quello che stava accadendo. Dicevano che, nella vostra cultura, gli uomini sono sacrificabili.

— Hah — commentò l’alieno, con una specie di lungo sospiro. Sembrava pensieroso, immerso. Lei, perlomeno, così lo vedeva.

Dopo un attimo, lui disse: — Noi crediamo che sia nella natura degli uomini combattere. Coloro che combattono rischiano di farsi male e di morire. Dobbiamo accettare le conseguenze di ciò che siamo e facciamo, Perez Anna. Sappiamo che le nostre vite devono probabilmente essere brevi. Sappiamo che probabilmente ci perdiamo l’un l’altro.

— Ma non è facile per noi perdere i nostri parenti e amici, e non userei mai la parola "sacrificabile", soprattutto per Nicky. Le persone che amiamo non sono mai sacrificabili.

Parve una buona frase sulla quale separarsi.

L’alieno di Anna, Hai Atala, era nel corridoio, in piedi e riusciva ad apparire sia in stato di allerta che a suo agio, come se gli fosse facile passare la giornata ad aspettare e a non agitarsi o a non lasciarsi sfuggire qualcosa di importante. Come un bravo giocatore lontano dal battitore. Sarebbe stato possibile insegnare a quella gente il baseball? Sarebbero stati interessati? Guardandoli muovere, Anna pensò che il football fosse assolutamente da escludere. Erano troppo aggraziati e troppo eleganti.

Tornarono all’ingresso della costruzione.

— Ho pensato a Moby Dick - disse Anna. — Tutti i personaggi importanti sono uomini, e la storia parla di caccia e di uccisione e di Dio e di follia. È molto probabile che lo troverebbe decente.

— Forse lo leggerò — ribatté Hai Atala. — La ringrazio per il consiglio. Non è facile studiare la vostra letteratura. Siete ossessionati dalla riproduzione. Non c’è da meravigliarsi che siate così numerosi.

Uscirono. La pioggia cadeva ancora, sottile e mista a nebbia. Oscurava il basso e ondulato paesaggio giallo dell’isola e faceva luccicare la pista d’atterraggio nera.

Si diressero insieme all’aereo.

16

Quando ho lasciato l’infermeria di bordo, la Hawata stava uscendo dal sistema. Il primo gigante gassoso era alle nostre spalle e stavamo guadagnando velocità. I corridoi cominciavano ad assumere l’aspetto che avevano durante i viaggi. Non sono sicuro di riuscire a trovare le parole giuste per esprimerlo. La funzione di una nave è viaggiare e quando una nave viaggia la gente che si trova a bordo fa ciò che deve fare. Si muove verso la meta; riposa al centro della vita. Ci sono una concentrazione e una sicurezza che mancano quando si ammazza semplicemente il tempo o si fanno parti meno importanti di lavoro.

Ma i hwarhath sono i peggiori patiti del lavoro che abbia mai conosciuto.

Ho fatto rapporto al generale nel suo ufficio, secondo le istruzioni. Era più piccolo dell’ufficio sul pianeta, anche se la cosa non era immediatemente evidente. Lui aveva un ologramma e una parete si era trasformata in una fila di alte finestre strette. Oltre le finestre c’era il paesaggio: colline ondulate coperte di una bassa vegetazione giallo chiaro. Avevo visto quella vegetazione da vicino. Assomiglia a erba, finché non noti che non ci sono steli e semi, solo lunghe foglie strette e flessibili, d’un giallo sbiadito simili alle foglie dell’acero alla fine dell’autunno. Alberi punteggiavano le colline. Erano ampi e frondosi… con la forma degli aceri, a pensarci bene… e gialli: una tinta vivace e appariscente. Grandi animali scuri pascolavano sui fianchi delle colline. Il cielo era d’un blu limpido e profondo.

La terra di Ettin. La vista era quasi sicuramente quella che si godeva da una delle case mandate avanti dalle donne della sua stirpe. (Sì.)

Mi sono seduto. Il generale camminava, il che era insolito per lui. Di tanto in tanto, si fermava presso il tavolo e giocherellava con qualcosa: la statua della Divinità sotto le spoglie di Protettrice del Focolare o il pugnale dall’aria pericolosa che era l’emblema del suo rango.

Mi ha chiesto come stavo. Ho detto bene.

— Mi avevi avvertito su quella gente e io non ho ascoltato a dovere.

— Commettiamo tutti degli errori.

Lui ha guardato l’ologramma. — A me non piace farlo. Questo è vero.

— Abbiamo vuotato i loro computer. Non appena sarai in grado, voglio che cominci a guardare le informazioni. La cosa ti terrà molto occupato.

— Nessun problema.

— Shen Walha ti spiegherà come ha fatto a portarti via agli umani. È andato tutto liscio, tranne che per il male che ti hanno fatto. E non so cosa accadrà alla donna umana. La vostra specie mi è incomprensibile. È possibile che le facciano qualcosa. Una punizione, una vendetta.

Con questo come preambolo, mi ha raccontato della sua conversazione con Anna.

Alla fine, ho detto: — Perché le hai raccontato quella storia?

— Del primo anno che hai trascorso tra il Popolo?

Ho annuito. Lui ha preso la statua della Divinità e l’ha tenuta per un momento, poi l’ha posata nuovamente. — Lei non appartiene al perimetro. Nessuna donna vi appartiene. Ma la vostra specie fa di tutto un miscuglio. Niente è sicuro. Nessuno è protetto. Non so se tu le debba qualcosa. Ha tentato… quando l’ha capito… di salvarti la vita e, così facendo, si è messa in pericolo. Ho cercato di farle capire che non doveva intromettersi negli affari di uomini.

— Tanto per parlare.

È sembrato sorpreso e ha proseguito. — Di farle capire qualcosa sulla violenza del perimetro. La vostra gente deve mentire costantemente l’uno con l’altro sulla natura di tutto ma, soprattutto, sulla natura della violenza. Non penso veramente che abbia compreso in che cosa si era cacciata. Volevo darle qualche idea. Volevo spaventarla e farla sentire disgustata e inorridita.

— Probabilmente, ci sei riuscito.

— Bene. Come dico, non sono sicuro che le dobbiamo qualcosa. Ma se così fosse, mi piacerebbe tirarla fuori da questo pasticcio. — Prese il pugnale. L’impugnatura era d’oro con una gemma incastonata nel pomo che lanciava riflessi rosso-porpora e verdi. Un’alessandrite, ne ero quasi certo. La lama era lunga trenta centimetri, affilata come un rasoio.

— C’erano delle donne nella zona diplomatica. Ne abbiamo uccisa una, anche se, fortunatamente, l’abbiamo scoperto solo dopo, e nessuno sa chi l’abbia uccisa. Non è stato necessario che qualcuno chiedesse l’opzione. Abbiamo detto alla nave umana che l’avremmo distrutta se fosse uscita dall’orbita. So che ci sono donne a bordo. Abbiamo tenuto in ostaggio l’intera popolazione umana del pianeta, senza fare distinzione tra uomini e donne; e ci siamo lasciati alle spalle i missili per tenere d’occhio il pianeta fino alla nostra partenza. I loro programmi sono stati modificati e ora non fanno più discriminazioni. Non risparmieranno nessuno.

— Gesù Cristo — ho detto.

— Ho fatto questo perché non riuscivo a vedere un’alternativa; ma adesso devo andare dagli altri frontisti a chiedere loro come combatteremo un nemico simile. C’è un’altra domanda che non farò loro, dal momento che non mi fido del fatto che mi diano una buona risposta. Ma la porrò a te, Nicky. E da tanto che so di essere rahaka. Non accetterò l’opzione, se esiste un modo per evitarla. Come farò a vivere con quello che ho fatto?

Vivrai perché devi, maledetto pazzo. (Ah.)

Dopo averlo lasciato, sono andato a trovare Shen Walha, il capo delle operazioni del generale. La prima volta che ho visto quest’uomo, ho capito che era un Wally, un Inetto. È grande e grosso e dall’aria dolce con la peluria che si avvicina al bianco candido. Ha delle macchie sulla schiena e sulle spalle e sulla parte superiore delle braccia. Le macchie sono simili a quelle di un leopardo delle nevi: larghi anelli pelosi, vuoti al centro e spesso interrotti. Di un grigio pallidissimo.

Un tipo grande, grosso e chiazzato che assomiglia un po’ a un orsacchiotto. Naturale che sia un Wally. Mi sono accorto che quasi tutti lo usano come soprannome, perfino il generale.

Proviene da un’isola molto a sud del pianeta originario dei hwarhath. Il tempo, lassù, passa dalla pioggia alla grandine alla neve e da capo, e la gente ha pelo lungo e folto. Sembrano tutti grossi, morbidi e coccoloni. Hanno invece una reputazione di estrema durezza.

Sedeva nel suo ufficio, con l’abituale costume: un paio di pantaloncini corti. Il povero Wally ha sempre caldo. Aveva le mani incrociate sul largo ventre peloso. Mi ha guardato con i pallidi occhi gialli.

— So di doverti ringraziare per la mia vita.

— Per la tua libertà. Non credo che gli umani ti avrebbero ucciso. Siediti, se vuoi. — Si è grattato il petto, poi ha sbadigliato, lasciandomi ampiamente vedere i suoi quattro denti appuntiti. Nella maggior parte del Popolo, questi denti sono più lunghi, come i canini umani; ma quelli di Wally sono lunghi e appuntiti e lui sbadiglia molto. Afferma che il caldo gli fa venir sonno. Credo che sia una forma di esibizione.

— Il primo difensore ha detto di chiedere a te dell’operazione.

— È venuto da me venti giorni fa e mi ha detto che tu eri preoccupato, e ha pensato che non si trattasse di niente. Ma che poteva essere una buona idea quella di avere un piano d’emergenza del quale tu non dovevi essere a conoscenza.

— Perché?

— Non posso dirti le ragioni di Ettin Gwarha. Quanto a me, non mi fido di te. Non mi sono mai fidato.

— Oh, sì. Certo.

— Così ho cominciato ad ammassare uomini e armi a nord della base principale: un po’ ogni giorno, o quasi, sul volo regolare. Gli umani non se ne sono accorti. Erano troppo occupati a spostarsi sui loro aerei invisibili da una all’altra delle loro basi nascoste nel terreno. Dopo la nostra invasione, abbiamo scoperto due aerei e due basi, e quasi certamente ci saranno altri aerei e altre basi. Follia inutile! Ma li teneva occupati.

— Abbiamo messo tutto… uomini e armi… nelle zone di massima sicurezza della base.

Dove a me non era concesso di entrare.

— E quando il nemico ha fatto la sua brillante mossa, siamo stati in grado di ricambiare.

— È stato abbastanza semplice. Espugnare la pista d’atterraggio. Distruggere lo shuttle a terra. Lanciare uomini nella zona diplomatica e sulla stazione. Spianare le armi e sparare a qualcuno dei nemici, quelli che sono insolitamente stupidi o coraggiosi. Dire alla nave in orbita che abbiamo schierato missili intelligenti. Tanti, troppi per trovarli e fermarli. Se il nemico fa qualcosa, se comincia a muoversi, lo distruggeremo assieme a tutti gli umani del pianeta. Non esiste minaccia come una grande minaccia, Nicky.

Ha aggrottato la fronte e si è grattato il grande naso piatto e peloso. — C’era soltanto un problema. La seconda nave umana. Ho detto al primo difensore che volevo distruggerla. Era troppo vicina al punto di trasferimento. Ho pensato che ci saremmo presi un certo vantaggio. Lui ha detto di no. Voleva che bluffassi. È stato uno sbaglio, Nicky. Se avessi distrutto quella nave, avremmo potuto prendercela comoda sul pianeta. Studiare con calma tutti i sistemi dati e interrogare gli umani. Il primo difensore è convinto di poter salvare i negoziati. Non desiderava più violenza del necessario. È sempre una cosa stupida essere moderati in guerra.

— C’erano quasi certamente delle donne su quella nave. L’avresti distrutta ugualmente?

— Sì. Naturalmente. — Si è sporto in avanti e ha posato sul tavolo le braccia robuste. — Questi alieni pervertiti non sono i primi ad aver tentato di nascondersi dietro donne e bambini. Non sono i primi ad aver infranto le regole della guerra. Abbiamo saputo in passato come trattare con simili peccatori contro la Divinità.

La solita tecnica è di formare un’alleanza. Le antiche discordie vengono messe da parte, almeno per il momento. I nemici più acerrimi si uniscono e tutti si muovono contro la stirpe peccatrice.

Se possibile, alle donne e ai bambini non viene fatto del male, almeno non direttamente. Ma se la stirpe criminale non può essere fermata senza colpire donne e bambini, be’, allora accade; e gli uomini che fanno del male accettano l’opzione in quanto conveniente. (Una delle cose che mi piace veramente dei hwarhath è che si può infrangere quasi ogni regola purché, dopo, si sia pronti a suicidarsi. Secondo loro, ciò impedisce alla gente di sviluppare cattive abitudini.)

Nessuno negozierà con una stirpe che ha infranto le regole della guerra ed esiste una sola conclusione: una soluzione finale. La stirpe peccatrice viene completamente distrutta. Gli uomini vengono uccisi e le donne e i bambini non vengono accettati da nessun’altra stirpe. Diventano vagabondi, dei paria. Quando i bambini maschi maturano, vengono uccisi.

Se le donne hanno altri bambini, cosa che qualche volta era avvenuta, in passato, sebbene i hwarhath odino ammetterlo, i nuovi bambini ricevono lo stesso trattamento degli altri. Non c’è posto per loro tra il Popolo. Anche loro sono criminali.

Alla fine, la stirpe scompare. Può volerci una generazione o due o perfino tre. Non esiste alcun perdono. I hwarhath credono nella consequenzialità e nella genetica. Ci sono certi tratti che non vogliono ereditare.

Wally ha detto: — Abbiamo due alternative. Possiamo dichiarare che gli umani sono persone che hanno infranto le regole della guerra. Oppure possiamo dichiararli non persone.

— Che cosa significa?

I pallidi occhi gialli mi hanno fissato. Ha un grado superiore al mio. Ho abbassato lo sguardo. — Possiamo dire che gli umani sono animali molto intelligenti, che sanno imitare il comportamento delle persone, ma che mancano della qualità essenziale dell’essere persona. Non sanno distinguere il giusto dall’ingiusto. Non sanno giudicare e discriminare. Credo che ci sia una buona argomentazione per questo e, se sono animali, allora possiamo trattarli come animali. Non abbiamo bisogno di preoccuparci delle regole della guerra.

— Wally, tu mi spaventi.

Lui ha sbadigliato di nuovo, mostrando i denti. Poi ha sorriso. — Noi non siamo amici, Nicky. Non dimentico mai che cosa sei. Un alieno. Un nemico. Un traditore della stirpe. Credo che, alla fine, tradirai Ettin Gwarha.

— Io credo di no.

— Forse non intenzionalmente; ma hai uno spirito che va in due direzioni, e come tutti gli umani ti lasci facilmente confondere. Mescoli tutto assieme. Non sai distinguere il giusto dall’ingiusto.

Un paio di allegre conversazioni mattutine. Sono andato a praticare hanatsin e poi a controllare le scorte che il generale ha portato via agli umani.


Dal diario di Sanders Nicholas,

addetto alle informazioni presso lo staff

del Primo Difensore Ettin Gwarha

CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA

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