PARTE PRIMA

«Viviamo eroicamente, lottando con tutte le forze; meglio correre il rischio di morire di consunzione che di ruggine.»

Theodore Roosevelt, (vincitore nel 1906 del Premio Nobel per la Pace)

1 agosto 1943

Le urla erano come lo scoppiare dei popcorn: dapprima se ne udivano solo una o due, poi se ne sovrapponevano centinaia, poi, finalmente, diminuivano, e al termine non ne restava nessuna e si sapeva che era tutto finito.

Jubas Meyer cercava di non pensarci. Anche la maggior parte dei bastardi che se ne occupavano cercavano di non pensarci. A soli quaranta metri di distanza, una banda di musicisti ebrei suonava con le armi puntate contro. Le loro canzoni avevano lo scopo di coprire le grida dei morenti, poiché il rombo del motore diesel nella Maschinehaus era insufficiente a dissimularle del tutto.

Infine, mentre Jubas e gli altri stavano pronti, i due operatori ucraini aprirono le massicce porte. Del fumo azzurro si levò dall’apertura.

Come capitava di frequente, i corpi nudi erano ancora in piedi. La gente era stata stipata così strettamente — fino a cinquecento persone nella minuscola camera — che materialmente non c’era spazio per cadere. Ma ora che le porte erano aperte, quelli più vicini all’uscita piombarono fuori, riversandosi nel caldo sole estivo, con le facce gonfie e coperte di macchie per l’avvelenamento da monossido di carbonio. Il fetore di sudore umano, di urina e vomito riempì l’aria.

Jubas e il suo compagno, Shlomo Malamud, si fecero avanti, portando la loro barella di legno. Con essa, potevano rimuovere un adulto o due bambini a ogni carico; non avevano la forza di portarne di più. Jubas poteva contarsi facilmente le costole attraverso la pelle sottile, e il cuoio capelluto gli prudeva senza posa per i pidocchi.

Jubas e Shlomo cominciarono con una donna di circa quarant’anni. Il suo seno sinistro aveva un lungo squarcio. Trasportarono il corpo al posto di operazione. L’uomo laggiù, un tipo emaciato sopra i trent’anni di nome Yehiel Reichman, le inclinò la testa all’indietro e le aprì la bocca. Individuò un’otturazione d’oro, la raggiunse con delle pinze incrostate di sangue, ed estrasse il dente.

Shlomo e Jubas portarono il corpo al pozzo e lo scaricarono in cima agli altri cadaveri, tentando di ignorare il ronzio delle mosche e il lezzo della carne malata e delle scariche intestinali post-mortem. Tornarono alla camera, e…

«No… No! Dio, no. Non Rachel.»

Ma era lei. La sorella di Jubas, che giaceva lì nuda tra i morti, con gli occhi verdi alzati verso di lui, inerti come smeraldi.

Lui aveva pregato che fosse andata via, pregato che fosse al sicuro, pregato…

Jubas indietreggiò barcollando, inciampò, cadde al suolo, con le lacrime che sgorgavano dagli occhi, e le gocce che scavavano canali nel lerciume che gli copriva la faccia.

Shlomo si mosse per aiutare il suo amico. — Presto — bisbigliò. — Presto, prima che vengano…

Ma Jubas stava piangendo ora, incapace di controllarsi.

— Fa impressione a tutti — disse Shlomo per tentare di calmarlo.

Jubas scosse la testa. Shlomo non capì. Inghiottì aria, costringendosi infine a emettere le parole. — È Rachel — disse Jubas fra i singhiozzi convulsi, indicando il cadavere. Adesso le mosche le stavano strisciando sulla faccia.

Shlomo poggiò una mano sulla spalla di Jubas. Shlomo era stato separato da suo fratello Saul, e l’unica cosa che l’aveva tenuto in vita tutto quel tempo era il pensiero che in qualche modo Saul potesse essere in salvo.

— Alzatevi! — gridò una voce familiare. Un ucraino alto e corpulento, che portava stivaloni, si avvicinò. Imbracciava un fucile con la baionetta innestata… la stessa baionetta che Jubas l’aveva spesso visto passare su una cote fino ad affilarla come un bisturi.

Jubas alzò lo sguardo. Anche fra le lacrime, riuscì a distinguere i lineamenti dell’uomo: una faccia tonda sulla trentina, una testa semicalva, orecchie prominenti, labbra sottili.

Shlomo andò verso l’ucraino, rischiando tutto. Poté odorare il liquore da poco prezzo nel fiato dell’uomo. — Un momento, Ivan… per pietà. È la sorella di Jubas.

L’ampia bocca di Ivan si schiuse in un terribile sogghigno. Si chinò e usò la baionetta per tagliar via il capezzolo destro di Rachel. Poi, con un colpetto del dito indice, lo staccò dalla lama mandandolo per aria. Roteò più volte prima di atterrare in grembo a Jubas Meyer, dal lato insanguinato.

— Qualcosa per ricordarla — disse Ivan.

Era un mostro.

Un demonio.

Il male incarnato.

Il suo nome di battesimo era Ivan. Il suo cognome era ignoto, e così gli ebrei l’avevano soprannominato Ivan il Terribile. Era arrivato al campo un anno prima, nel luglio 1942. Alcuni che dicevano che era stato un uomo istruito prima della guerra; usava parole più ricercate rispetto alle altre guardie. Certi sostenevano che doveva essere stato un dottore, dato che affettava carne umana con tanta precisione. Ma qualunque cosa fosse nella vita civile, l’aveva messa da parte.

Jubas Meyer aveva fatto i calcoli, computando quanti cadaveri lui e Shlomo avessero rimosso dalla camera ogni giorno, quante altre coppie di ebrei venivano costrette a fare la stessa cosa, quanti treni carichi erano arrivati fino ad allora.

I risultati erano da lasciar esterrefatti. Lì, in quel minuscolo campo, fra dieci e dodicimila persone venivano giustiziate ogni giorno; in certi giorni, il conteggio raggiungeva addirittura le quindicimila. Fino a quel momento, più di mezzo milione di persone erano state sterminate. E c’erano voci relative ad altri campi: uno a Belzac, un altro a Sobibor, forse altri ancora.

Non potevano esserci dubbi: i nazisti intendevano uccidere ogni singolo ebreo, spazzarli via tutti dalla faccia della Terra.

E lì, a Treblinka, ottanta chilometri a nordest di Varsavia, Ivan il Terribile era il principale agente di tanta distruzione. Vero, aveva un partner di nome Nikolai che lo aiutava a far funzionare le camere, ma era Ivan a essere sadico da non crederci, stuprando le donne prima di gassarle, squarciando le loro carni, specialmente seni, mentre marciavano nude dentro le camere, costringendo gli ebrei a copulare coi cadaveri mentre lanciava una fredda risata gutturale e li picchiava con un tubo di piombo.

Ivan si crogiolava in tutto ciò, e la sua naturale indole malvagia era ulteriormente peggiorata dalle frequenti sbornie. Come ucraino, probabilmente era stato lui stesso un prigioniero di guerra, ma si era offerto volontario per il servizio come Wachmann, e aveva dimostrato una notevole competenza tecnica, che l’aveva condotto a esser nominato responsabile delle camere a gas. Adesso era così fidato che i tedeschi spesso gli permettevano di lasciare il campo. Una volta Jubas aveva sentito Ivan vantarsi con Nikolai della puttana che frequentava nella vicina città di Wolga Okralnik. — Se credi che gli ebrei urlino forte — aveva detto Ivan — dovresti sentire la mia Maria.

Accadde un miracolo.

Ivan e Nikolai spinsero indietro le porte della camera, e… Dio, era incredibile!

Una ragazzina bionda, forse dodicenne, appena pubescente, uscì barcollante dalla camera, ancora viva.

Dietro di lei, i cadaveri cominciarono a cadere come tessere del domino.

Ma lei era viva. Uomini e donne ebrei erano stati stipati così strettamente, questa volta, che i loro stessi corpi avevano formato una sacca d’aria per lei, separandola dalla circolazione del monossido di carbonio.

La ragazzina, con gli occhi sbarrati dal terrore, stava sotto il caldo sole, ansimando in cerca d’ossigeno. E quando infine ebbe il fiato per farlo, strillò: — Ma-me! Ma-me!

Ma sua madre era tra i morti.

Jubas Meyer e Shlomo Malamud si accinsero a rimuovere i cadaveri, agitando le braccia per scacciare le mosche, trattenendo il respiro per evitare la puzza. Ivan camminò spavaldo verso la ragazzina, con una frusta in mano. Jubas gli lanciò uno sguardo di rimprovero. L’ucraino dovette vederlo. Dimenticò la bambina per un momento e andò verso Jubas, sferzandolo ripetutamente. Jubas si morse la lingua finché non sentì il gusto salato del sangue; sapeva che le grida avrebbero solo prolungato la tortura.

Quando Ivan fu sazio, si fece indietro, e guardò Jubas piegato in due dal dolore. — Davay yebatsa! — gridò.

Anche la ragazzina conosceva quelle parole oscene. Cominciò a indietreggiare, ma Ivan si mosse verso di lei, afferrandole rudemente la spalla nuda e spingendola al suolo.

Davay yebatsa! — gridò Ivan a Jubas. Trascinò la ragazzina per terra verso dove aveva lasciato il fucile, appoggiato al muro della Maschinehaus. Puntò l’arma contro Jubas. — Davay yebatsa!

Jubas chiuse gli occhi.

Erano notizie orribili, notizie devastanti.

Il ritmo delle esecuzioni stava diminuendo.

Non significava che i tedeschi stavano cambiando idea.

Non significava che stavano abbandonando le loro intenzioni pazzesche.

Significava che erano ormai a corto di ebrei da uccidere.

Presto il campo non sarebbe stato più di nessuna utilità. Quando avevano cominciato, i tedeschi avevano ordinato di seppellire i morti. Ma di recente avevano usato macchine per movimento terra allo scopo di esumare i corpi e cremarli. Adesso ceneri umane turbinavano costantemente nell’aria; l’acre odore della carne bruciata pungeva le narici. I nazisti non volevano lasciare prove di quel che era accaduto lì.

E non volevano neanche testimoni. Presto agli stessi becchini sarebbe stato ordinato di entrare nelle camere a gas.

— Dobbiamo fuggire — disse Jubas Meyer. — Dobbiamo andarcene di qui.

Shlomo guardò il suo amico. — Ci uccideranno se tentiamo.

— Ci uccideranno comunque.

La rivolta fu pianificata in sussurri: ogni uomo passava parola al prossimo. Lunedì 2 agosto 1943 sarebbe stato il giorno. Non tutti sarebbero riusciti a fuggire, lo sapevano. Ma alcuni sì… di sicuro «alcuni» sì. Avrebbero portato al mondo notizie di quel che era accaduto laggiù.

Il sole ardeva furiosamente, come se Dio stesso aiutasse i nazisti a incenerire i corpi. Ma naturalmente Dio non avrebbe fatto una cosa simile: il caldo si tramutò in un vantaggio, perché il vicecomandante del campo concesse a un gruppo di guardie ucraine una nuotata rinfrescante nel fiume Bug.

Gli ebrei del campo inferiore — la parte dove i prigionieri venivano scaricati e preparati — avevano raccolto alcune armi di fortuna. Uno aveva riempito grosse latte di benzina. Un altro aveva rubato delle pinze tagliafili. Un terzo era riuscito a nascondere un’ascia fra la spazzatura che gli avevano ordinato di portar via. Erano finite nelle loro mani anche alcune pistole.

Qualcuno, molto tempo prima, aveva nascosto oro o denaro in buchi negli alberi, o li aveva seppelliti in luoghi segreti. Come erano stati esumati i corpi, così ora lo furono questi tesori.

Tutto era pronto a cominciare alle 16.30 del pomeriggio. La tensione era alta; avevano tutti i nervi a fior di pelle. E poi, appena prima delle 16…

— Ragazzo! — sbraitò Kuttner, un grassone delle SS.

Il bambino, forse undicenne, restò di colpo paralizzato sul suo cammino. Stava tremando dalla testa ai piedi. L’SS si fece più vicino, con un frustino per cavalli in mano. — Ragazzo! — disse ancora. — Che cos’hai nelle tasche?

Jubas Meyer e Shlomo Malamud erano a cinque metri di distanza, e portavano un cadavere esumato al luogo della cremazione. Si fermarono per osservare gli sviluppi della scena. Le tasche del lurido e cencioso camice del bambino erano lievemente rigonfie.

Il ragazzo non disse niente. Aveva gli occhi spalancati e le labbra ritratte dalla paura, che rivelavano i denti marci. Nonostante il caldo asfissiante, stava tremando come se fosse sotto zero. La guardia lo raggiunse e gli sbatté il frustino sulla coscia. Si udì l’inconfondibile tintinnio delle monete. Il tedesco socchiuse gli occhi. — Svuotati le tasche, ebreo.

Il ragazzo si voltò e si trovò l’uomo di fronte. Stava battendo i denti. Cercò di mettersi la mano in tasca, ma la mano gli tremava tanto che non riuscì a infilarla nell’imboccatura. Kuttner colpì la spalla del ragazzo col frustino: il suono fece levare in volo gli uccelli allarmati, e le loro strida coprirono il grido del ragazzo. Allora Kuttner infilò la propria mano grassa nella tasca e tirò fuori alcune monete tedesche. La infilò una seconda volta. La tasca era apparentemente vuota adesso, ma Jubas poté vedere il tedesco carezzare i genitali del ragazzo attraverso il tessuto. — Dove hai preso i soldi?

Il ragazzo scosse il capo, ma indicò il campo superiore, oltre la copertura degli alberi e i reticolati, dove le camere a gas e i forni erano nascosti alla vista.

La guardia afferrò brutalmente la spalla del ragazzino. — Vieni con me, ebreo. Stangl si occuperà di te.

Il ragazzo non era l’unico a nascondere qualcosa sulla sua persona. Jubas Meyer era stato munito di una delle sei pistole rubate. Se il ragazzo fosse stato portato dal comandante Franz Stangl, senza dubbio avrebbe rivelato i piani della rivolta, ora a soli trenta minuti dall’inizio.

Meyer non poteva permettere che questo accadesse. Estrasse la pistola dalle pieghe del proprio camice, puntò il mirino sul grasso tedesco, e — fu come un orgasmo, la liberazione, il momento della ricompensa — premette il grilletto. Vide gli occhi del tedesco spalancarsi, vide la sua bocca aprirsi, vide la sua lardosa, orribile, odiosa forma accasciarsi al suolo.

Il segnale per l’inizio della rivolta avrebbe dovuto essere la detonazione di una granata, ma lo sparo di Meyer spinse tutti all’azione. Grida di «Adesso!» si levarono in tutto il campo inferiore. Venne dato fuoco ai bidoni di benzina. C’erano 850 ebrei nel campo quel giorno; corsero tutti verso i reticolati di filo spinato. Alcuni portarono coperte, gettandole di sopra per proteggersi mani e piedi dalle punte metalliche; altri avevano dei tagliafili, e in fretta e furia si aprirono la strada fra le recinzioni. Quelli con le pistole spararono a quante più guardie potevano. Fuoco e fumo furono ovunque. Le guardie che erano andate a nuotare si precipitarono a rientrare e montarono sui cavalli o si arrampicarono a bordo di autoblindo. Trecentocinquanta ebrei riuscirono a scavalcare i reticolati e raggiungere la foresta circostante. La maggior parte vennero facilmente circondati e falciati dalle pallottole, e gli ultimi suoni che sentirono furono gli echi delle raffiche di spari e le grida degli uccelli.

Eppure, per certuni la fuga ebbe successo. Corsero via nei boschi, e continuarono a correre per salvarsi la vita. Jubas Meyer era tra loro. Anche Shlomo Malamud ce la fece, e per tutta la vita intraprese la ricerca di suo fratello Saul. E anche altri che Jubas aveva conosciuto o sentito nominare riuscirono a mettersi al sicuro: Eliahu Rosenberg e Pinhas Epstein; Casimir Landowski e Zalmon Chudzik. E pure David Solomon.

Ma solo questi, e forse altri quarantacinque, furono i sopravvissuti di Treblinka.

2

Erano i primi anni ’80. Ronald Reagan si era recentemente insediato come presidente, e, appena più tardi, l’Iran aveva liberato gli ostaggi americani tenuti prigionieri per 444 giorni. In Canada, Pierre Trudeau era a metà del suo secondo mandato di primo ministro.

Il diciottenne Pierre Tardive! stava di fronte a una casa nei sobborghi di Toronto, col bavero del suo giubbotto della McGill University rivoltato in su per proteggersi dal freddo vento secco che sferzava la strada chiazzata di sale.

Adesso che era lì, non sembrava più un’idea tanto buona. Forse avrebbe dovuto solo voltare i tacchi, dirigersi di nuovo alla stazione degli autobus, tornare a Montreal. Sua madre sarebbe stata lietissima se ora avesse lasciato perdere, e, be’, se quel che la moglie di Henry Spade aveva detto a Pierre riguardo il marito era vero, Pierre non era sicuro di poter star di fronte a quell’uomo. Doveva solo…

No. No, ormai era giunto fin là. Doveva rendersi conto da sé.

Pierre tirò un profondo respiro, inalando l’aria frizzante e tentando di calmare i crampi allo stomaco. Risalì il vialetto d’ingresso fino alla porta d’ingresso di quella casa suburbana, premette il campanello, e udì il suono attutito proveniente dall’interno. Pochi attimi dopo, la porta si aprì, e una piacente donna di mezza età apparve davanti a lui.

— Salve, signora Spade. Sono Pierre Tardivel. — Si rese conto di quanto il suo accento del Québec dovesse suonare fuori posto lì, un altro segnale che si stava intromettendo in affari non suoi.

Ci fu un momento, mentre la signora Spade squadrava Pierre dalla testa ai piedi, in cui lui pensò di aver visto un lampo sul volto della donna, come se l’avesse riconosciuto. Pierre si era limitato a dirle per telefono che i suoi genitori erano stati amici di suo marito, quando Henry Spade aveva vissuto a Montreal nei primi anni Sessanta. Eppure lei doveva aver intuito che c’era un motivo speciale perché Pierre volesse far loro visita. Cos’era che la madre di Pierre aveva detto dopo averla messa di fronte alla prova? «Sapevo che eri figlio di Henry… sei il suo ritratto sputato.»

— Ciao, Pierre — disse la signora Spade. La voce era più calda di quanto fosse sembrata al telefono, ma con ancora una traccia di diffidenza. — Puoi chiamarmi Dorothy. Ti prego, vieni dentro. — Si fece da parte, e Pierre entrò nel vestibolo. Fisicamente, Dorothy aveva una fuggevole rassomiglianza con sua madre: capelli neri, freddi occhi grigio-azzurri, labbra piene. Forse Henry Spade era stato attratto da uno specifico tipo di donna. Pierre si aprì la lampo del giubbotto, ma non fece alcuna mossa per toglierselo.

— Henry è di sopra, nella sua stanza — disse Dorothy. «Sua stanza.» Camere da letto separate? Che freddezza. — È più facile per lui stare sdraiato. Non ti dispiace vederlo lassù?

Pierre scosse il capo.

— Molto bene — disse lei. — Vieni con me. Percorsero il soggiorno brillantemente illuminato.

Due intere pareti erano coperte di librerie fatte di legno scuro. Una scala conduceva al secondo piano. Su un lato di essa c’erano delle rotaie per un seggiolino motorizzato. Il seggiolino era situato in cima. Dorothy guidò Pierre di sopra, e lo fece entrare nella prima porta a sinistra.

Pierre si sforzò di mantenere un’espressione impassibile.

Disteso sul letto c’era un uomo che sembrava stare danzando sulla schiena. Le sue braccia e gambe si muovevano incessantemente, ruotando alle spalle e ai fianchi, gomiti e ginocchia, polsi e caviglie. La sua testa ciondolava a destra e a sinistra sul cuscino. I capelli erano grigio acciaio e, naturalmente, gli occhi erano marroni.

Bonjour — disse Pierre, così sbigottito da iniziare a parlare in francese. Cominciò di nuovo. — Salve. Sono Pierre Tardivel.

La voce dell’uomo era debole e male articolata. Parlare era chiaramente uno sforzo. — Ciao, P… Pierre — disse. Fece una pausa, ma se fosse per raccogliere i pensieri o solo aspettare di riguadagnare un po’ di controllo sul suo corpo, Pierre non poté dirlo. — Come… come sta tua madre?

Pierre sbatté ripetutamente le palpebre. Non avrebbe insultato quell’uomo piangendo di fronte a lui. — Sta bene.

La testa di Henry roteò da un lato all’altro, ma mantenne gli occhi su Pierre. Voleva più, capì Pierre, di quelle parole banali.

— È in buona salute — disse. — Sta all’ufficio prestiti di un’importante filiale del Banque de Montreal.

— È felice? — chiese Henry, con uno sforzo.

— Le piace il suo lavoro, e i soldi non sono un problema. L’assicurazione ha versato parecchio quando papà è morto.

Henry deglutì con quella che apparve una notevole difficoltà. — Io… ah… non sapevo che Alain fosse deceduto. Dille… dille che mi dispiace.

Le parole sembravano sincere. Nessun sarcasmo, niente asprezza. Alain Tardivel era stato suo rivale, ma Henry sembrava sinceramente rattristato dalla sua morte. Pierre serrò la mascella per un attimo, poi annuì. — Glielo dirò.

— È una donna meravigliosa — disse Henry.

— Ho una sua foto — disse Pierre. Tirò fuori il portafoglio e lo aprì mostrando un piccolo ritratto di sua madre che indossava una camicetta di seta bianca. Tenne il portafoglio dove Henry potesse vederlo.

Henry lo fissò per un lungo momento, poi disse: — Credo di essere cambiato più io di lei.

Pierre si costrinse a fare un debole sorriso.

— Sei… figlio unico? — La pausa era stata forzata dalla convulsione che era passata sul corpo di Henry come un’ondata.

— Sì. C’è… — No, non c’era scopo a menzionare la sua sorella minore, Marie-Claire, che era morta quando aveva due anni. — Sì. Sono l’unico.

— Sei un bel giovanotto — disse Henry.

Pierre sorrise, sinceramente questa volta, e Henry sembrò ricambiare il sorriso.

Dorothy, forse imbarazzata da quel che c’era fra i due, o forse solo annoiata di quella conversazione su gente che non conosceva, disse: — Be’, vedo che avete tante cose di cui parlare. Torno al piano di sotto. Pierre, posso portarti una bibita? Caffè?

— No, grazie — disse Pierre.

— Be’, allora… — disse lei, e se ne andò.

Pierre rimase a fianco del letto di Henry. Stare in una stanza separata aveva perfettamente senso adesso. Come avrebbe potuto essere diversamente? Nessuno poteva dormirgli accanto, dato il continuo agitarsi dei suoi arti.

L’uomo sul letto alzò il braccio destro verso Pierre. L’arto si mosse lentamente da un lato all’altro, come il ramo di un albero agitato dal vento. Pierre gli prese la mano, tenendola salda. Henry sorrise.

— Sembri… proprio come me… quando avevo la tua età — disse Henry.

Una lacrima scivolò giù per la guancia di Pierre. — Sai chi sono?

Henry annuì. — Io… quando tua madre rimase incìnta, pensai che ci fosse una possibilità. Ma lei troncò la nostra relazione. Presumevo che se… se avessi avuto ragione, sarei venuto a saperlo già da prima. — La sua testa si stava muovendo, ma riuscì a tenere gli occhi prevalentemente su Pierre. — V… vorrei averlo saputo.

Pierre gli strinse la mano. — Anch’io. — Una pausa. — Hai… hai avuto qualche altro figlio?

— Figlie — disse Henry. — Due figlie. Adottive. Dorothy… Dorothy non poteva…

Pierre annuì.

— Meglio così, in un certo senso — disse Henry, e allora, finalmente, lasciò che il suo sguardo si staccasse da Pierre e vagasse. — La corea di Huntington è… è…

Pierre deglutì. — Ereditaria. Lo so.

La testa di Henry si mosse avanti e indietro più rapidamente del normale… un segnale deliberato, ma perso fra le contrazioni muscolari. — Se avessi saputo di averla, io… non mi sarei mai permesso di mettere al mondo un figlio. Mi dispiace. M… mi spiace molto.

Pierre annuì.

— Potresti averla anche tu. Pierre non disse nulla.

— Non c’è nessun test — disse Henry. — Mi dispiace.

Pierre osservò Henry dimenarsi sul letto, con le ginocchia sobbalzanti, il braccio libero che si agitava. Eppure in mezzo a tutto ciò c’era un viso non dissimile dal suo, largo e rotondo, con profondi occhi castani. Si rese conto allora che non sapeva quanti anni avesse Henry. Quarantacinque? Forse anche cinquanta. Certamente non di più. Il braccio destro di Henry prese a sussultare rapidamente. Pierre, non sicuro di cosa fare, lo lasciò andare.

— È… è bello averti finalmente incontrato — disse Pierre, e poi, resosi conto che non avrebbe mai avuto un’altra possibilità, aggiunse un’unica parola: — Papà.

Gli occhi di Henry si fecero umidi. — Hai bisogno di niente? — disse. — Denaro?

Pierre scosse il capo. — Sono a posto. Davvero, volevo solo conoscerti.

Il labbro inferiore di Henry stava tremando. Dapprincipio Pierre non poté dire se fosse solo un movimento dettato dalla malattia o avesse un significato più profondo. Ma quando Henry riprese a parlare, la sua voce fu piena di dolore. — Io… ho dimenticato il tuo nome — disse.

— Pierre — disse lui. — Pierre Jacques Tardivel.

— Pierre — ripeté Henry. — Un bel nome. — Fece una pausa di alcuni secondi, poi disse: — Come sta tua madre? Hai portato una foto?

Pierre scese giù nel soggiorno. Dorothy era seduta in poltrona, leggendo un romanzo di Jackie Collins. Alzò lo sguardo e gli fece un vacuo sorriso.

— Grazie — disse Pierre. — Grazie di tutto. Lei annuì. — Desiderava moltissimo vederti.

— Sono stato molto lieto di incontrarlo. — Si interruppe. — Ma dovrei andarmene adesso.

— Aspetta — disse Dorothy. Prese una busta da un tavolino e si alzò in piedi. — Ho qualcosa per te.

Pierre la guardò. — Gli ho detto che non mi serviva denaro.

Dorothy scosse il capo. — Non è questo. Sono fotografie… dì Henry, di una dozzina di anni fa. Di quando eri un ragazzino. Foto di com’era allora… è come sono sicura che ti piacerebbe ricordarlo.

Pierre prese la busta. Gli occhi gli bruciavano. — Grazie — disse.

Lei annuì, senza riuscire a mascherare il dolore in volto.

3

Pierre tornò a Montreal. Il suo medico di famiglia lo inviò da uno specialista in tare genetiche. Pierre andò a trovare lo specialista, il cui ufficio non era lontano dallo Stadio Olimpico.

— La corea di Huntington è trasmessa da un gene dominante — disse il dottor Laviolette a Pierre, in francese. — Lei ha esattamente il cinquanta per cento di probabilità di contrarla. — Fece una pausa, e si lisciò i capelli grigio acciaio. — Il suo caso è molto insolito… ha saputo solo da adulto di essere a rischio; la maggior parte di quelli a rischio lo sanno già da anni. Come l’ha scoperto?

Pierre rimase in silenzio per un momento, pensando. C’era bisogno di entrare nei dettagli? Dire che aveva appreso in un corso di genetica del primo anno che era impossibile per due genitori dagli occhi azzurri avere un figlio dagli occhi castani? Che aveva messo sua madre, Elisabeth, di fronte a quel fatto incontrovertibile? Che lei aveva confessato di aver avuto una storia con un certo Henry Spade durante i primi anni del suo matrimonio con Alain Tardivel, l’uomo che Pierre aveva conosciuto come padre, un uomo che adesso era morto da due anni? Che Elisabeth, una cattolica, era stata incapace di divorziare da Alain? Che Elisabeth era riuscita a nascondere ad Alain il fatto che quel bambino dagli occhi castani non era suo figlio biologico? E che Henry Spade si era trasferito a Toronto, senza mai sapere di aver generato un bimbo?

Erano troppe cose, e troppo personali. — Solo di recente ho incontrato il mio vero padre per la prima volta — disse semplicemente Pierre.

Laviolette annuì. — Quanti anni ha, signor Tardivel?

— Ne farò diciannove il mese prossimo.

Il dottore si accigliò. — Non c’è alcun test predittivo per la corea di Huntington, temo. Lei potrebbe non avere la malattia. Ma l’unico modo in cui lo scoprirà è quando sarà uscito dalla mezza età senza che si manifestino i segni. D’altro canto, lei potrebbe sviluppare sintomi fra non più di dieci o quindici anni.

Laviolette lo fissò in silenzio. Aveva già spiegato la parte peggiore. La corea di Huntington colpisce circa mezzo milione di individui nel mondo. Distrugge selettivamente due parti del cervello che aiutano a controllare i movimenti. I sintomi, che di norma si manifestano per la prima volta fra i trenta e i cinquant’anni, includono postura anormale, demenza progressiva, e azioni muscolari involontarie; il nome «corea» si riferisce ai movimenti danzanti tipici della malattia. La malattia stessa, o le complicazioni che ne insorgono, finisce per uccidere la vittima; i sofferenti spesso muoiono soffocati dal cibo perché hanno perso la capacità muscolare di inghiottire.

— Signor Tardivel ha mai pensato di uccidersi? — chiese Laviolette.

Le sopracciglia di Pierre si alzarono a quella domanda inaspettata. — No.

— Non intendo adesso, in relazione alla possibilità di contrarre la malattia. Intendo anche prima. Ha mai pensato di uccidersi?

— No. Non seriamente.

— È incline alla depressione?

— Non più di chiunque, immagino.

— Noia? Mancanza di scopo?

Pierre pensò di mentire, ma non lo fece. — Uhmm… sì. Devo ammetterlo, qualcosa del genere. — Si strinse nelle spalle. — La gente dice che sono immotivato, che non ho interesse per la vita.

Laviolette annuì. — Sa chi è Woody Guthrie?

— Chi?

Il dottore fece una faccia indispettita. — Ha scritto Questa terra è la mia terra.

— Oh, già. Certo.

— È morto di corea di Huntington nel 1967. Suo figlio Ario… ha sentito parlare di lui, no?

Pierre scosse il capo.

Laviolette sospirò. — Mi sta facendo sentire vecchio. Ario ha scritto Il ristorante di Alice. Pierre apparve inespressivo.

— Musica folk — disse Laviolette.

— In inglese, senza dubbio — disse Pierre indifferente.

— Peggio ancora — disse Laviolette, con una strizzatina d’occhio. — «Anglo-americano.» Comunque, Ario è probabilmente la persona più famosa a trovarsi nella sua stessa posizione. Ha il cinquanta per cento di probabilità di aver ereditato il gene, proprio come lei. Ne ha parlato una volta in un’intervista sulla rivista «People». Le darò una fotocopia prima di andarsene.

Pierre, incerto di cosa dire, si limitò ad assentire.

Laviolette allungò il braccio verso la penna e il blocco delle ricette. — Le scriverò il numero del locale gruppo di supporto per ammalati; voglio che lei lo chiami. — Copiò un numero di telefono da una piccola guida ai servizi sanitari di Montreal, rilegata in Cerlox, strappò il foglio dal blocco, e lo porse a Pierre. Si fermò per un momento, come se stesse pensando, poi prese un biglietto da visita dal portabiglietti d’ottone sopra la scrivania e scrisse un altro numero telefonico sotto quello prestampato sul biglietto. — E sto anche facendo qualcosa che di solito non faccio mai, signor Tardivel. Questo è il mio personale numero di casa. Se non riesce a trovarmi qui, provi lì… giorno e notte. A volte… a volte le persone prendono molto male notizie come questa. La prego, se dovesse mai pensare di fare qualcosa di avventato, mi chiami. Mi prometta che lo farà, Pierre. — Gli porse il biglietto.

— Intende dire se sto pensando di togliermi la vita, non è vero?

Il dottore annuì.

Pierre prese il biglietto. Con sua grande sorpresa, la mano gli stava tremando.

Più tardi quella notte, Pierre si ritrovò solo nella sua stanza. Non era nemmeno riuscito a finire di spogliarsi per andare a letto. Rimase a fissare il vuoto, senza mettere a fuoco, senza pensare.

Era ingiusto, dannazione. Totalmente ingiusto.

Cos’aveva fatto per meritare questo?

C’era un piccolo crocifisso sulla porta della sua camera; era stato lì fin da quando era ragazzino. Alzò gli occhi al minuscolo Gesù, ma non c’era senso pregare adesso. Il dado era tratto; quel che era fatto era fatto. Se avesse quel gene o no era stato determinato quasi vent’anni prima, al momento stesso del suo concepimento.

Pierre aveva comprato un LP di Ario Guthrie e l’aveva ascoltato. Non era stato in grado di trovare alcun Woody Guthrie nel negozio, ma la biblioteca di Montreal aveva un vecchio album di un gruppo chiamato gli Almanac Singers di cui Woody una volta aveva fatto parte. Sentì anche quello.

La musica degli Almanac Singers sembrava piena di speranza; la musica di Ario pareva triste. Poteva andare in un modo o nell’altro.

Pierre aveva letto che la maggior parte dei sofferenti di corea di Huntington concludevano le loro vite in ospedale. La degenza media prima della morte era di sette anni.

Fuori, il vento stava fischiando. Un ramo dell’albero vicino alla casa oscillò avanti e indietro attraverso la finestra, come una contorta mano ossuta che gli facesse segno di seguirla.

Non voleva morire. Ma non voleva nemmeno trascinarsi per anni di sofferenze.

Pensò a suo padre… il suo vero padre, Henry Spade. Che si dibatteva nel letto, con le facoltà mentali che gli scivolavano via.

Gli occhi gli si posarono sulla scrivania dal ripiano bianco, presa da Consumers Distributing. Su di essa c’era la copia dei Miserabili, che aveva appena finito di leggere per il suo corso di letteratura francese. Jean Valjean aveva rubato una pagnotta di pane, e non importava cosa facesse, non poteva sottrarsi alle conseguenze di quel gesto; fino al giorno della sua morte, sarebbe rimasto segnato. Anche la vita di Pierre era segnata, in un modo o nell’altro, ma non c’era alcun modo per scoprire quale. Se fosse stato come Valjean — se fosse stato un galeotto — allora anche lui avrebbe avuto un Javert a inseguirlo senza posa, destinato infine a raggiungerlo.

Nel libro, i ruoli si erano capovolti, ed era stato l’ispettore Javert a finire per scegliere la sola via d’uscita, piombando da un parapetto nelle acque ghiacciate della Senna sottostante.

La sola via d’uscita…

Pierre si alzò, avanzò a passi strascicati fino alla scrivania, accese una lampada montata su un braccio snodabile bianco, e trovò il biglietto di Laviolette col numero di casa del dottore scritto sopra. Fissò il biglietto, rileggendolo ancora e poi ancora.

La sola via d’uscita…

Tornò di nuovo verso il letto, si sedette sul bordo, e ascoltò un altro po’ il vento. Senza mai abbassare lo sguardo per vedere che stesse facendo, cominciò a passarsi di taglio il biglietto avanti e indietro sulle vene del polso sinistro, più e più volte, come se fosse una lama.

4

Quando aveva diciott’anni, Molly Bond era stata studentessa di psicologia all’Università del Minnesota. Risiedeva nel college anche se la sua famiglia era proprio lì a Minneapolis. Già da prima, non poteva sopportare di stare nella stessa casa con loro: non con una madre che la disapprovava, non con l’oziosa sorella Jessica, non col nuovo marito di sua madre, Paul, i cui pensieri su di lei erano spesso tutt’altro che paterni.

Eppure, c’erano certi eventi familiari che la costringevano a tornare a casa. Oggi era uno di quelli. — Buon compleanno, Paul — disse, chinandosi a dare al suo patrigno un bacio sulla guancia. — Ti voglio bene.

«Dovrei rispondere alla stessa maniera.» — Anch’io te ne voglio, tesoro.

Molly si discostò, tentando di impedire che il suo sospiro le sfuggisse udibilmente. Non era un granché come festa, ma forse avrebbero fatto meglio l’anno seguente. Quello era il quarantanovesimo compleanno di Paul; avrebbero dovuto cercare di commemorare il grande cinquantesimo con più stile.

Se a quel punto Paul ci fosse stato ancora, cioè. Quel che Molly aveva voluto percepire quando si era chinata a baciare Paul era «Anch’io ti voglio bene», spontaneo, istintivo, non premeditato. Ma no. Invece aveva sentito: «Dovrei rispondere alla stessa maniera», e poi, un momento dopo, le parole parlate, false, artificiali, piatte.

La madre di Molly venne fuori dalla cucina portando una torta… una torta di carote, la preferita di Paul, con una corona del giusto numero di candele, inclusa una per buona fortuna, disposte proprio come le stelle su una bandiera americana. Jessica aiutò Paul a togliere di mezzo i suoi regali.

Molly non poté resistere. Mentre sua madre cincischiava per preparare la macchina fotografica, sì spostò fino a stare proprio accanto al patrigno, facendolo entrare di nuovo nella sua zona. La madre di Molly disse: — Ora esprimi un desiderio e soffia sulle candeline.

Paul chiuse gli occhi. «Vorrei» pensò «non essermi mai sposato.» Espirò sulle fiammelle, e il fumo si alzò verso il soffitto.

Molly non fu affatto sorpresa. Al principio aveva pensato che Paul avesse un’altra donna: spesso faceva tardi al lavoro, di sera, o scompariva tutto il giorno di sabato, dicendo di stare andando in ufficio. Ma la verità, per certi versi, era ancora peggio. Non usciva per stare con qualcun’altra; piuttosto, era solo che non voleva stare con loro.

Cantarono Happy Birthday e poi Paul tagliò la torta.

I pensieri della madre di Molly non erano migliori. Sospettava che Molly potesse essere lesbica, dato che raramente la si vedeva con uomini. Odiava il suo lavoro, ma fingeva che le piacesse, e nonostante sorridesse quando porgeva denaro a Molly per aiutarla nelle spese universitarie, si risentiva di ogni dollaro. Le rammentava quanto avesse lavorato duramente per mantenere il suo primo marito, il padre di Molly, alla scuola aziendale.

Molly guardò di nuovo Paul e capì che non poteva realmente biasimarlo. Anche lei voleva andarsene da quella famiglia… lontano, molto lontano, così da poter evitare anche i compleanni e il Natale. Paul le offrì un pezzo di torta. Molly lo prese e si portò all’estremità opposta della tavola, sedendosi da sola.

Assillato dai suoi problemi personali, Pierre non riuscì in nessuno dei corsi del primo anno. Andò a trovare il decano degli studi universitari e spiegò la sua situazione. Il decano gli diede una seconda possibilità: la McGill offriva un piano di studi ridotto nella sessione estiva. Pierre se la sarebbe cavata con un paio di esami, ma si sarebbe ritrovato sulla strada buona per il settembre successivo.

E così Pierre si ritrovò di nuovo in un corso introduttivo di genetica. Per coincidenza, lo stava tenendo lo stesso professore straordinario, di lingua inglese, che in origine aveva dissertato sull’ereditarietà del colore degli occhi. Pierre non si era mai distinto per l’attenzione prestata in classe; i suoi vecchi quaderni contenevano soprattutto punteggi scarabocchiati di squadre di hockey. Ma quel giorno stava realmente cercando di ascoltare, almeno con un orecchio.

— Era il più grande enigma della scienza nei primi anni Cinquanta — disse il professore. — Che forma assumeva la molecola di DNA? Era una corsa contro il tempo, con molti luminari, incluso Linus Pauling, che lavoravano al problema. Sapevano tutti che chiunque scoprisse la risposta sarebbe stato ricordato per sempre…

O forse con «entrambe» le orecchie…

— Un giovane biologo, con non più anni di voi, di nome James Watson si mise con Francis Crick, e insieme cominciarono a cercare di risolvere il dilemma. Basandosi sul lavoro di Maurice Wilkins e gli studi di cristallografia ai raggi X fatti da Rosalind Franklin…

Pierre sedette rapito.

— …Watson e Crick capirono che le quattro basi usate nel DNA, adenina, guanina, timina e citosina, erano ognuna di dimensioni differenti. Ma usando ritagli di cartone per raffigurare le basi, furono in grado dì mostrare che quando l’adenina e la timina si legano insieme, si combinano in una forma che è della stessa estensione di quella creata quando si legano la guanina e la citosina. E mostrarono che queste forme combinate potevano costituire i pioli di una scala a spirale…

Rapito.

— Fu un progresso stupefacente… e a essere ancor più stupefacente fu che James Watson aveva appena venticinque anni quando lui e Crick dimostrarono che la molecola di DNA assumeva la forma di una doppia elica…

La mattina, dopo una notte passata più sveglio che a dormire, Pierre sedeva sul bordo del letto.

Aveva compiuto diciannove anni ad aprile.

Molti di quelli a rischio di corea di Huntington mostravano sintomi pienamente sviluppati quando si trovavano, diciamo, a trentott’anni. Appena il doppio della sua età attuale.

Così poco tempo.

Eppure…

Eppure, era accaduto così tanto nei diciannove anni passati.

Vaghe prime memorie di baby-sitter e tricicli e biglie ed estati senza fine e Batman in primo passaggio televisivo.

Il nido d’infanzia. Dio, sembrava così lontano. La classe di mademoiselle Renault. Fiochi ricordi delle celebrazioni per il centenario del Canada.

Era stato un Lupetto negli Scout, ma non era mai riuscito a guadagnarsi un emblema di merito.

Due anni di campeggio estivo.

La sua famiglia si era trasferita da Clearpoint a Outrement, e aveva dovuto abituarsi a una nuova scuola.

Si era rotto il braccio giocando a hockey in strada.

E la Crisi d’Ottobre del FLQ, e i suoi genitori che cercavano di spiegare a un ragazzino spaventatissimo cosa significavano tutti i servizi del telegiornale, e perché c’erano truppe nelle strade.

Robert Apollinaire, il suo miglior amico quando aveva dieci anni, si era trasferito a ben venti isolati di distanza, e lui non l’aveva mai più rivisto.

E la pubertà, e tutto ciò che «questa» implicava.

Il clamore quando le Olimpiadi del 1976 si erano tenute a Montreal.

Il suo primo bacio, a un party, facendo il gioco della bottiglia.

Aveva visto Guerre stellari per la prima volta e pensato che fosse il miglior film di tutti i tempi.

La sua prima ragazza, Marie… si domandava dove fosse adesso.

Aveva preso la patente di guida, e sfasciato l’auto di papà due mesi dopo.

Aveva scoperto le magiche parole Je t’aime, e quanto fossero efficaci per infilare la mano sotto una maglietta o camicetta. Per poi apprendere cosa quelle parole significassero realmente, nell’estate del suo diciassettesimo anno, con Danielle. E aveva pianto solo, a un angolo di strada, dopo che lei aveva rotto.

Aveva imparato a bere birra, e poi imparato ad apprezzarne il gusto. Feste. Lavori estivi. C’era stata una rappresentazione teatrale, a scuola, per cui aveva curato le luci. Aveva vinto a un concorso della radio CFCF i biglietti per un’intera stagione delle partite dei Canadiens… che anno era stato quello! Si era trascinato, senza obiettivi, per il liceo. Aveva fatto il reporter sportivo per «L’Informateur», il giornale della scuola. Quella gran zuffa con Roch Lavai… quindici anni d’amicizia finiti in una sera, senza mai più riconciliarsi.

L’attacco di cuore di papà. Pierre aveva pensato che il dolore della sua perdita non sarebbe mai passato, invece sì. Il tempo guarisce tutte le ferite.

«Quasi tutte.»

Tutto ciò in diciannove anni. «Era» in effetti un lungo periodo, era… erano, forse, tutti i bei tempi che si era lasciato alle spalle.

Il professore straordinario, nell’ultima lezione, aveva parlato di James D. Watson. Appena venticinque anni quando aveva scoperto la doppia elica del DNA. E già a trentaquattro, Watson aveva vinto il Premio Nobel.

Pierre sapeva di essere in gamba. Al liceo si era lasciato andare, senza sforzi, perché «poteva» permetterselo. Qualunque fosse l’argomento, non aveva problemi. Studiare? Uno scherzo. Portarsi a casa una pila di libri? Ma va’.

Una vita che poteva essere troncata.

Un Premio Nobel a trentaquattro anni d’età.

Pierre cominciò a vestirsi, mettendosi una canottiera e una camicia.

Sentiva un vuoto nel cuore, un gran senso di perdita.

Ma giunse a rendersi conto, pochi momenti dopo, che non stava rimpiangendo la potenziale perdita del tempo futuro. Era invece il passato sprecato, il tempo trascorso male, le ore sciupate, i giorni senza compiere nulla.

Pierre si tirò su le calze.

Avrebbe fatto fruttare il tempo il più possìbile… il più possibile, ogni minuto.

Pierre Jacques Tardivel «sarebbe» stato ricordato.

Guardò l’orologio.

Non c’era un istante da perdere.

Affatto.

5 Sei anni dopo — Gerusalemme

Il padre di Avi Meyer, Jubas Meyer, era stato fra le cinquanta persone riuscite a fuggire dal campo della morte di Treblinka. Jubas era vissuto per tre anni dopo la fuga, ma era morto prima che Avi nascesse. Durante la sua infanzia a Chicago, dove i suoi genitori si erano stabiliti dopo aver passato qualche tempo in un canopo per rifugiati, Avi aveva risentito della mancanza di suo padre. Ma subito dopo il suo bar mitzvah nel 1960, la madre di Avi gli aveva detto: — Tu sei un uomo adesso, Avi. Devi sapere quel che ha passato tuo padre… quello che ha passato tutta la nostra gente.

E gliel’aveva raccontato. Tutto quanto.

I nazisti.

Treblinka.

Sì, suo padre era sfuggito al campo, ma il fratello e tre sorelle di Jubas erano tutti stati uccisi laggiù, come anche i nonni di Avi, e innumerevoli altre persone imparentate o che conoscevano.

Tutti morti. Spettri.

Ma ora, forse, gli spettri potevano riposare. Avevano preso l’uomo che li aveva tormentati, l’uomo che li aveva torturati, che li aveva gassati a morte.

Ivan il Terribile. Avevano quel bastardo. E ora stava per pagare.

Avi, un tipo con la faccia come quella di un bulldog, era un agente dell’Office of Special Investigations, la divisione del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti incaricata di dare la caccia ai criminali di guerra nazisti. Lui e i suoi colleghi dell’osi avevano identificato un operaio di Cleveland di nome John Demjanjuk come Ivan il Terribile.

Oh, Demjanjuk non sembrava più tanto malvagio. Era un ucraino calvo e pacioccone sul finire dei sessanta, con orecchie a sventola e occhi a mandorla dietro occhiali con montatura di corno. E, a dire il vero, non sembrava affatto scaltro come alcuni rapporti avevano descritto Ivan il Terribile. Ma del resto, non era certo il primo individuo a mostrare un declino dell’intelletto col passar dei decenni.

Gli agenti dell’osi avevano mostrato dossier contenenti foto di Demjanjuk e altri ai superstiti di Treblinka. Basandosi sulle loro identificazioni, e su una carta d’identità delle SS ritrovata dai sovietici, gli Stati Uniti avevano revocato la cittadinanza a Demjanjuk nel 1981. Era stato estradato in Israele, dove lo attendeva il processo per l’unico crimine per cui la legge israeliana prevedesse la pena capitale.

L’aula del tribunale nel centro congressi Binyanei Ha’uma di Gerusalemme era grande: effettivamente, era in realtà un teatro affittato apposta per il processo, il più importante dopo quello di Eichmann, in modo che quanti più spettatori possibile potessero vedere come si faceva la storia. Gran parte del pubblico consisteva in superstiti dell’Olocausto e nelle loro famiglie. I sopravvissuti erano in numero sempre più esiguo: dall’estradizione di Demjanjuk, tre di quelli che lo avevano identificato come Ivan il Terribile erano deceduti.

Il banco dei giudici era sul palcoscenico: tre poltrone di cuoio dall’alto schienale, con quella al centro ancora più alta delle altre due. Su ogni lato c’era una bandiera israeliana azzurra e bianca. Sulla sinistra del palcoscenico, il tavolo del pubblico ministero e il banco dei testimoni; sulla destra, il tavolo degli avvocati difensori e, proprio dietro di loro, il banco degli imputati dove Demjanjuk, con indosso una camicia dal collo aperto e una giacca blu sportiva, sedeva col suo interprete e una guardia. Tutto l’arredamento era di legno chiaro lucido. Il palcoscenico era rialzato di un metro abbondante sopra i posti riservati al pubblico generico. In fondo al teatro si allineavano le telecamere; il processo veniva trasmesso in diretta.

Il processo era ormai in corso da una settimana. Avi Meyer, lì come osservatore dell’osi, ammazzava il tempo in attesa che venisse convocata la corte rileggendo un tascabile di Il buio oltre la siepe. Quel romanzo di Harper Lee l’aveva colpito profondamente la prima volta che l’aveva letto all’università. Non che le esperienze della protagonista, la signorina Jean Louise Finch, cioè, avessero qualche rassomiglianza con quelle da lui vissute a Chicago. Ma la storia della verità che celiamo, della ricerca di giustizia era senza tempo.

In effetti, forse quel libro l’aveva influenzato, nella sua decisione di unirsi all’osi, quanto i fantasmi della famiglia che non aveva mai conosciuto. Tom Robinson, un uomo di colore, era accusato di aver stuprato una ragazza bianca di nome Mayella Ewell. L’unica evidenza fisica era il viso pieno di lividi di Mayella: era stata presa ripetutamente a pugni da un uomo che aveva usato la sinistra. Suo padre, un crudele fallito ubriacone, era mancino. Tom Robinson era uno storpio; il suo braccio sinistro era venticinque centimetri più corto del destro, e finiva con una minuscola mano rattrappita. Tom aveva testimoniato che Mayella gli si era gettata addosso, che lui aveva respinto i suoi approcci, e che suo padre l’aveva picchiata per aver adescato un nero. Non c’era un briciolo di prova per sostenere l’accusa di stupro, e Tom Robinson era fisicamente incapace di infliggere quelle lesioni.

Ma in quella sonnacchiosa cittadina del sud, Maycomb, Alabama, la giuria di soli bianchi e soli maschi aveva dichiarato Tom Robinson colpevole delle accuse. La testimonianza di una ragazza bianca «doveva» avere il sopravvento su quella di un uomo di colore, e, be’, anche se Robinson non era responsabile di quel particolare crimine, era un inutile nero e senza dubbio colpevole di qualcos’altro.

Che la giustizia necessitasse di validi guardiani non poteva esserci dubbio. E ce n’era stato uno in Il buio oltre la siepe: il padre di Jean Louise avvocato, Atticus Finch, che aveva rappresentato Tom nonostante le calunnie dei compaesani, fornendogli una difesa intelligente, vigorosa, solenne.

A quei tempi, negli anni Trenta, il tribunale, come tutto il resto, era stato segregato. I negri dovevano sedere sulla balconata. Jean Louise e suo fratello Jem si erano intrufolati nell’aula e avevano trovato un posto per osservare da lassù, vicino al gentile reverendo Sykes.

Quando il caso era stato risolto, quando Tom Robinson era stato portato via in prigione, quando tutti i bianchi se n’erano andati, i negri avevano atteso in silenzio che Atticus Finch raccogliesse i suoi libri di legge. Quando era stato pronto per uscire, gli uomini e le donne di colore, sapendo fino al midollo che Tom era innocente, che questa era la loro sorte, che Atticus aveva fatto tutto il possibile, si erano levati in piedi, in segno di silenzioso rispetto. Il reverendo Sykes aveva parlato alla giovane figlia di Atticus. — Signorina Jean Louise — aveva detto — si alzi. Sta passando suo padre.

Anche nella sconfitta, un uomo giusto è onorato da quelli che sanno che ha fatto del suo meglio per una causa onorevole. «Sta passando suo padre…»

Il giudice della corte suprema Dov Levin e i giudici distrettuali di Gerusalemme Zvi Tal e Dalia Dorner, il tribunale che avrebbe deciso il destino di John Demjanjuk, entrarono nel teatro. Non appena i tre si furono seduti, il cancelliere si alzò e annunciò: — Belt hamishpat! Lo stato di Israele contro Ivan «John», figlio di Nikolai Demjanjuk, caso criminale numero 373/86 presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, secondo la Legge per la Punizione dei Nazisti e dei loro Collaboratori. Oggi 24 Shevat 5747, 23 febbraio 1987, seduta mattutina della corte.

Avi Meyer ripiegò l’angolo di una pagina come segnalibro.

— Il mio nome è Pinhas, Epstein, figlio di Dov e Sara. Sono nato a Czestochowa, Polonia, il 3 marzo 1925. Vivevo lì coi miei genitori fino al giorno in cui fummo portati a Treblinka.

Avi Meyer, che aveva appena compiuto i quaranta e quindi era particolarmente sensibile ai segni dell’invecchiamento, pensò che Epstein sembrava dieci anni più giovane dei suoi sessantadue. Era alto, con la testa coperta di capelli rossastri pettinati all’indietro, che scoprivano la fronte.

I tre giudici ascoltavano assorti: il barbuto Zvi Tal, con folti capelli grigi; Dov Levin, arcigno, semicalvo, con occhiali dalla montatura di corno; e Dalia Dorner, coi capelli tagliati corti, che indossava giacca e cravatta proprio come i suoi colleghi maschi.

— Vostri onori — disse Epstein, rivolgendosi a loro — ricordo un avvenimento… ho ancora gli incubi al riguardo. Un giorno, una ragazzina riuscì a sfuggire viva dalla camera a gas. Aveva dodici o quattordici anni. Come Jubas Meyer, Shlomo Malamud e altri, ero costretto a trasportare i cadaveri, rimuovendo i morti dalle camere. — Avi Meyer si drizzò a sedere sentendo menzionare il nome di suo padre. — Le parole della ragazzina… ce le ho ancora nelle orecchie — disse Epstein. — «Mamma! Mamma!» — Si interruppe un momento e si asciugò le lacrime dagli occhi. — Be’, Ivan andò appresso a Jubas, e…

Avi Meyer sentì battere il cuore. La voce di Epstein si era spenta, e ora lo sguardo dell’uomo passava da un giudice all’altro, indugiando più a lungo su Dalia Dorner, come se fosse intimidito da quella presenza femminile.

— Mi dispiace — disse il testimone. — Mi vergogno troppo a ripetere le parole che Ivan usò in seguito.

Dov Levin aggrottò la fronte e si tolse gli occhiali. — Se è importante che sentiamo le parole, le dica.

Epstein tirò forte il respiro, poi: — Picchiò Jubas, poi urlò «Davay yebatsa»…

Levin alzò le folte sopracciglia nere. — Che significa?

Epstein si dimenò sulla sedia. — «Vieni a fottere» in russo. Stava dicendo a Jubas… togliti i pantaloni e vieni a fottere. E indicò la ragazza terrorizzata.

Avi Meyer sentì il gusto della bile in fondo alla gola. Pensava di aver udito tutti gli orrori ventisette anni prima, dopo il suo bar mitzvah. Sua madre era morta, ora; sperò che non avesse mai saputo.

Mickey Shaked, il pubblico ministero israeliano, aveva una testa piena di capelli ricci e occhi tristi, espressivi. Pose di fronte a Epstein un foglio di cartone con sopra otto fotografie: due file di tre foto e un’ultima fila di due. Tutte erano di ucraini sospettati di crimini di guerra. Le prime cinque foto erano tolte da passaporti; la sesta era ritagliata da qualche altro documento. Solo la settima e l’ottava erano di formato regolare, quasi due volte più grandi delle altre. Delle otto foto, solo la settima mostrava un uomo quasi totalmente calvo; solo la settima mostrava un uomo dalla faccia tonda.

— Vede tra queste immagini qualcuno che riconosce in volto? — chiese Shaked.

Epstein assentì, ma dapprima non fu in grado di dar voce ai suoi pensieri. Finalmente poggiò un dito sulla settima foto. — Riconosco costui — disse.

— In che modo?

— La fronte, il viso rotondo, il collo molto tozzo, le ampie spalle, le orecchie in fuori. Questo è Ivan il Terribile, come lo ricordo da Treblinka.

— E vede questo stesso uomo da qualche parte in aula oggi? — chiese Shaked, facendo vagare lo sguardo per tutto il vasto teatro come se lui stesso non avesse idea di dove potesse trovarsi il mostro.

Epstein alzò la voce mentre additava Demjanjuk. — Sì, è seduto proprio lì!

Gli spettatori applaudirono. L’avvocato israeliano di Demjanjuk, Yoram Sheftel, spalancò le braccia come per implorare la corte. Il giudice Levin aggrottò la fronte, come se fosse riluttante a interrompere una bella rappresentazione, ma infine richiamò il pubblico all’ordine.

Un altro testimone era adesso sul banco: Eliahu Rosenberg, un uomo di bassa statura, tarchiato, con capelli grigi e cespugliose sopracciglia scure.

— Le chiedo di guardare l’accusato — disse il pubblico ministero Mickey Shaked. — Lo guardi attentamente.

Rosenberg guardò i tre giudici. — Chiederete all’accusato di levarsi gli occhiali?

Demjanjuk immediatamente si tolse le lenti, ma quando Mark O’Connor, il suo avvocato americano, si alzò per obiettare, Demjanjuk se le rimise di nuovo.

— Signor O’Connor — disse il giudice Levin, accigliandosi — qual è la sua posizione?

O’Connor guardò Demjanjuk, poi Rosenberg, poi di nuovo il giudice Levin. Infine, scrollò le spalle. — Il mio cliente non ha nulla da nascondere.

Demjanjuk si alzò e si tolse gli occhiali di nuovo. Poi si tese in avanti e parlò a O’Connor. — Sta bene — disse Demjanjuk. — Fatelo venire più vicino. — Indicò ai suoi piedi. — Fatelo venire proprio qui.

Dapprima O’Connor zittì Demjanjuk, ma poi sembrò pensare che forse aveva avuto una buona idea. — Signor Rosenberg — disse — perché non viene a dare un’occhiata più ravvicinata?

Rosenberg lasciò il banco dei testimoni e, senza staccare gli occhi da Demjanjuk, ridusse le distanze. Gli spettatori si scambiarono bisbigli. — Posmotree! — gridò Rosenberg. «Guardami!»

Demjanjuk incrociò il suo sguardo e gli tese la mano. — Shalom — disse.

Rosenberg indietreggiò di scatto. — Assassino! — gridò. — Come osi offrirmi la mano? — Avi Meyer osservò la moglie di Rosenberg, Adina, che era seduta in terza fila, svenire. Sua figlia la prese tra le braccia. Rosenberg tornò precipitosamente al banco dei testimoni.

— Le è stato chiesto di dare un’occhiata più da vicino — disse il giudice Dov Levin. — Che cosa ha visto?

La voce di Rosenberg era tremante. — È Ivan. — Deglutì, cercando di riguadagnare la compostezza. — Lo dico senza esitazione e senza il minimo dubbio. È l’Ivan di Treblinka… l’Ivan delle camere a gas. Non dimenticherò mai quegli occhi… quegli occhi omicidi.

Demjanjuk urlò qualcosa. Avi Meyer non lo distinse chiaramente, e in apparenza nemmeno O’Connor, con le orecchie coperte dalla cuffia per la traduzione. Dopo essersela tolta si voltò per guardare in faccia il suo cliente.

Avi si sforzò di sentire. — Che ha detto? — chiese O’Connor.

Demjanjuk, rosso in volto, incrociò le braccia sul petto, ma non disse nulla. L’avvocato israeliano di Demjanjuk, Yoram Sheftel, si fece più vicino a O’Connor e parlò in inglese. — Ha detto a Rosenberg «Atah shakran… Sei un mentitore.»

— Sto dicendo la verità! — gridò Rosenberg. — È Ivan il Terribile!

6 Tredici mesi dopo — Minneapolis

Molly Bond si sentiva… be’, non era sicura di «come» si sentisse. Imbranata, ma eccitata; piena di paura, ma anche di speranza.

Avrebbe compiuto i ventisei anni in estate, e adesso era ben avviata a conseguire il Ph.D in psicologia comportamentale. Ma quella sera non stava studiando. Quella sera, era seduta in un bar a pochi isolati dal campus dell’Università del Minnesota, dove l’aria piena di fumo le irritava gli occhi. Aveva già bevuto un tè ghiacciato, tentando di raccogliere il coraggio. Aveva indossato un’aderente camicetta di seta rossa, senza il reggiseno. Quando abbassava gli occhi sul suo petto, poteva vedere le punte dei suoi capezzoli che premevano contro la stoffa. Si era già aperta un bottone prima di entrare, e ora se ne aprì un secondo. Indossava anche una gonna di pelle nera che non le scendeva neanche a mezza coscia, calze scure, e scarpe nere dai tacchi a spillo. I capelli biondi le ricadevano sciolti intorno alle spalle, e aveva sulle labbra un colore rosso brillante come la camicetta.

Molly alzò lo sguardo e vide un uomo entrare nel bar: un tipo niente male, sui venticinque, con occhi scuri e un sacco di capelli neri. Italiano, forse. Portava un giubbotto dell’UM, con la scritta MED SU una manica. Perfetto.

Lo vide che la squadrava. Lo stomaco di Molly era in subbuglio. Gli lanciò un’occhiata, riuscì a fare un sorrisetto poi distolse lo sguardo.

Era stato abbastanza. Quel tipo si fece avanti e prese lo sgabello accanto a lei, ben dentro la sua zona.

— Posso offrirti un drink? — chiese.

Molly annuì. — Un tè ghiacciato — disse, indicando il bicchiere vuoto. Il giovane fece un cenno al barista.

I pensieri di lui erano lascivi. Quando non pensava che lei stesse guardando, Molly poté vederlo di sfuggita mentre lui la scrutava. Accavallò le gambe sullo sgabello, facendo ballonzolare i seni.

Non passò molto tempo prima che si ritrovassero da lui. Un tipico appartamento da studente, non lontano dal campus: scatole di pizza vuote in cucina, libri di testo aperti sparsi sui mobili. Si scusò per il disordine e iniziò a ripulire il divano.

— Non ce n’è bisogno — disse Molly. C’erano solo due uscite dal soggiorno, ed entrambe erano aperte; andò verso quella che dava sulla camera da letto, e restò sulla soglia.

Lui le si avvicinò, trovando con le mani i seni attraverso la camicetta, poi sotto la camicetta, poi la aiutò a togliersela rapidamente. Molly gli slacciò la cintura, e lasciarono cadere il resto dei loro abiti avviandosi verso il letto, illuminato in parte dalla luce che proveniva dal soggiorno. Lui aprì il cassetto del comodino, tirò fuori un pacchetto da tre preservativi, e guardò Molly. — Odio queste cose — disse, sondando le acque, sperando che lei fosse d’accordo. — Eliminano la sensazione.

Molly fece scivolare le dita sul suo petto villoso, lungo il suo braccio muscoloso, e sulla sua mano. Gli prese i preservativi, e li rimise nel cassetto ancora aperto. — Di che ti preoccupi? — disse, sorridendogli.

Cinque anni dopo — Washington, D.C.

Avi Meyer era seduto nel suo appartamento, con la mascella penzoloni.

Demjanjuk era stato trovato colpevole, naturalmente, e condannato a morte. Il verdetto era stato ovvio fin dall’inizio del processo. Eppure, doveva esserci un appello: era obbligatorio per la legge israeliana. Avi non era stato inviato in Israele per il secondo processo; i suoi capi dell’osi erano fiduciosi che nulla sarebbe cambiato. Senza dubbio tutte le storie che filtravano attraverso la stampa erano solo astute mosse degli avvocati di Demjanjuk. Certamente l’intervista trasmessa nel programma della CBS 60 Minutes con Maria Dudek, una donna ossuta ora sulla settantina, con capelli bianchi sotto un fazzoletto, vestiti cenciosi, e solo pochi denti rimasti, una donna che aveva fatto la prostituta negli anni ’40 a Wolga Okralnik presso Treblinka, una donna che aveva avuto un cliente regolare che faceva funzionare le camere a gas laggiù, una donna che aveva urlato di passione per lui… certamente quella vecchia si sbagliava quando diceva che il nome del suo cliente non era stato Ivan Demjanjuk ma piuttosto Ivan «Marchenko».

Ma no. Avi Meyer stava guardando tutto il lavoro dell’osi disfatto in diretta alla CNN. Il presidente della Corte Suprema israeliana, Meir Shamgar, aveva appena annullato il verdetto di condanna di John Demjanjuk.

Demjanjuk era rimasto prigioniero in Israele per cinque anni e mezzo. Il processo d’appello era stato ritardato tre anni per un attacco cardiaco sofferto dal giudice Zvi Tal. E durante quei tre anni, l’Unione Sovietica era caduta e documenti un tempo segreti erano stati resi pubblici.

Proprio come aveva detto Maria Dudek, l’uomo addetto alla camera a gas di Treblinka era stato Ivan Marchenko, un ucraino che «aveva» una somiglianza con Demjanjuk. Ma la rassomiglianza era solo fuggevole. Demjanjuk era nato il 3 aprile 1920, mentre Marchenko era nato il 2 febbraio 1911. Demjanjuk aveva occhi blu mentre quelli di Marchenko erano marroni.

Marchenko era stato sposato prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Il genero di Demjanjuk, Ed Nishnic, era andato in Russia e aveva rintracciato la famiglia di Marchenko a Seryovka, un villaggio nel distretto di Dnepropetrovsk. I familiari non avevano più visto Marchenko dal suo arruolamento nell’Armata Rossa nel luglio 1941. La moglie abbandonata da Marchenko era morta solo un mese prima della visita di Nishnic, e sua figlia era scoppiata a piangere apprendendo gli orrori che il padre scomparso aveva perpetrato a Treblinka. «È un bene» aveva detto fra i singhiozzi «che mamma sia morta non sapendo.»

Quando gli erano state riferite queste parole, il cuore di Avi aveva sobbalzato. Era lo stesso sentimento che aveva provato lui alla scoperta che Ivan aveva costretto suo padre a stuprare una ragazzina.

Gli archivi del KGB contenevano una dichiarazione giurata di Nikolai Shelaiev, l’altro operatore della camera a gas di Treblinka, quello che era stato, letteralmente, il minore dei due mali. Shelaiev era stato catturato dai sovietici nel 1950, e condannato e giustiziato come criminale di guerra nel 1952. La sua deposizione conteneva l’ultimo avvistamento da parte di chiunque, in qualsiasi luogo, di Ivan Marchenko, mentre usciva da un postribolo a Fiume, nel marzo 1945. Aveva detto a Nikolai che non aveva nessuna intenzione di tornare dalla sua famiglia.

Ancor prima che Maria Dudek parlasse con Mike Wallace, ancor prima che Demjanjuk fosse privato della cittadinanza americana, Avi aveva saputo che il cognome usato da Ivan il Terribile nella sua permanenza a Treblinka poteva essere stato proprio Marchenko. Ma ciò non era di nessuna rilevanza, si era accertato Avi: il nome Marchenko era intimamente legato a Demjanjuk, comunque. In un modulo che Demjanjuk aveva compilato nel 1948 per richiedere lo status di rifugiato, l’aveva dato come nome da ragazza di sua madre.

Ma precedentemente al primo processo, era venuta alla luce la licenza nuziale dei genitori di Demjanjuk, datata 24 gennaio 1910. Dimostrava che il nome da ragazza di sua madre non era affatto Marchenko; invece, era Tabachuk. Quando Avi aveva interrogato Demjanjuk sul perché avesse messo «Marchenko» sul modulo, Demjanjuk aveva affermato di aver dimenticato il vero cognome da nubile di sua madre e, considerando la questione di nessuna importanza, aveva semplicemente inserito un comune cognome ucraino per completare i dati.

«Giusto» aveva pensato Avi. «Certo.»

Ma ora sembrava che fosse la verità. John Demjanjuk non era Ivan… e Avi Meyer e il resto dell’osi erano stati a un passo dal trovarsi responsabili dell’esecuzione di un uomo innocente.

Avi aveva bisogno di rilassarsi, di distogliere la mente da tutto ciò. Attraversò il soggiorno dirigendosi all’armadietto in cui teneva le videocassette. Mezzogiorno e mezzo di fuoco lo rimetteva sempre di buon umore, e anche Dolci vizi al foro, e…

Senza pensarci, tirò fuori una custodia con due videocassette.

Vincitori e vinti. Tutt’altro che divertente ma, con le sue tre ore, gli avrebbe tenuto la mente occupata fino al momento di andare a letto.

Avi mise il primo nastro nel suo videoregistratore e, mentre scorrevano i titoli con la loro commovente ouverture, fece scoppiare un po’ di popcorn nel microonde.

Il film cominciò. Bevve tre birre.

La situazione era stata capovolta a Norimberga: Burt Lancaster interpretava Ernst Janning, uno dei quattro giudici tedeschi sotto processo. Sembrava un piccolo ruolo di non protagonista, finché Janning non prendeva la parola nell’ultima mezz’ora del film…

Il processo contro Janning era imperniato sulla questione di Feldenstein, un ebreo di cui aveva decretato la condanna a morte per pretestuose accuse di atti osceni. Janning domandava il diritto a parlare, contro le obiezioni del proprio avvocato. Quando saliva sul banco dei testimoni, Avi sentì stringersi lo stomaco. Janning parlava delle menzogne che Hitler aveva propinato alla società tedesca: «Ci sono demoni fra noi: comunisti, liberali, ebrei, zingari. Quando questi demoni verranno distrutti, le vostre sofferenze saranno distrutte». Janning scuoteva lievemente la testa. «Era la solita, vecchia storia dell’agnello sacrificale.»

Lancaster parlava con forza, mettendo in quel monologo ogni briciola della sua abilità. «Non è facile dire la verità» diceva «ma se dev’esserci qualche salvezza per la Germania, noi che conosciamo la nostra colpa dobbiamo ammetterla, qualunque siano il dolore e l’umiliazione.» Una pausa. «Ero giunto al mio verdetto sul caso Feldenstein prima ancora di metter piede in tribunale. L’avrei trovato colpevole qualunque fossero le prove. Non fu affatto un processo. Fu un sacrificio rituale di cui l’ebreo Feldenstein fu la vittima inerme.»

Avi fermò il nastro, avendo deciso di non guardare il resto anche se era quasi finito. Andò nel bagno a lavarsi i denti.

Ma accidentalmente aveva premuto PAUSE invece di STOP. Dopo cinque minuti, il nastro si sganciò e la TV riprese a blaterare: ancora la CNN. Tornò in soggiorno, cercando a tentoni il telecomando e decise di continuare fino al termine. Qualcosa in lui aveva bisogno di vedere il finale di nuovo.

Dopo il processo, dopo che Janning e gli altri tre giudici nazisti erano stati condannati al carcere a vita, Spencer Tracy, nel ruolo del giudice americano, Hayvvood, esaudiva la richiesta di Janning di visitarlo in prigione. Janning aveva scritto le memorie dei casi di cui era ancora orgoglioso, quelli giusti, quelli per cui voleva essere ricordato. Porgeva il fascicolo a Haywood perché lo custodisse al sicuro.

E poi, con nella voce appena un lievissimo tono di supplica, Lancaster, di nuovo nella piena padronanza della sua recitazione, diceva: «Giudice Haywood… la ragione per cui le ho chiesto di venire. Quelle persone, quei milioni di persone… non ho mai saputo che si sarebbe giunti a tanto. Deve credermi. Deve credermi.»

C’era un momento di silenzio, e poi Spencer Tracy diceva, tristemente, a voce bassa: «Herr Janning, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente».

Avi Meyer spense la TV e restò seduto nell’oscurità, abbandonato sul divano.

«Demoni fra noi.» Parole di Hitler, secondo Janning. Nel suo armadietto di legno, accanto al posto vuoto lasciato da Vincitori e vinti c’era Gli assassini sono fra noi: la storia di Simon Wiesenthal.

Echi. Echi scomodi, ma sempre echi.

«Quando questi demoni verranno distrutti, le vostre sofferenze saranno distrutte.»

Avi aveva voluto crederlo. Distruggere le sofferenze, lasciare che i fantasmi riposino. E Demjanjuk… Demjanjuk…

«Era la solita, vecchia storia dell’agnello sacrificale.»

No. No, era stato un caso giusto, un caso corretto, un…

«Ero giunto al mio verdetto prima ancora di metter piede in tribunale. L’avrei trovato colpevole qualunque fossero le prove. Non fu affatto un processo. Fu un sacrificio rituale.»

Sì, nel profondo, Avi Meyer aveva saputo. Senza dubbio anche i giudici israeliani, Dov Levin, Zvi Tal, e Dalia Dorner, avevano saputo.

«Herr Janning, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»

«Mar Levin, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»

«Mar Tal, il fatto è che…»

«Giveret Dorner, il fatto è che…»

Avi sentì le sue budella agitarsi.

«Agente Meyer, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»

Avi si alzò e rimase a guardare fuori dalla finestra, verso la Strada D. La sua vista era appannata. Aveva voluto giustizia. Aveva voluto che qualcuno pagasse. Poggiò la sua mano sul freddo vetro. Cosa aveva fatto? Cosa aveva fatto?

Ora i procuratori israeliani stavano dicendo… be’, se Demjanjuk non era Ivan il Terribile, forse era stato una guardia a Sobibor o qualche altra installazione nazista.

Avi pensò a Tom Robinson, con la sua storpia mano nera. Un inutile nero… se non era colpevole di aver stuprato Mayella Ewell, era probabilmente colpevole di qualcos’altro.

La CNN aveva mostrato il teatro trasformato in aula di tribunale, lo stesso teatro in cui Avi si era seduto cinque anni prima a guardare lo svolgersi del caso. Demjanjuk, ancora adesso non libero, era stato portato via nella cella di prigione dove aveva trascorso le ultime duemila notti.

Avi uscì dal soggiorno, camminando nelle tenebre.

«Signorina Jean Louise, si alzi in piedi. Sta passando suo padre.»

Ma nemmeno i fantasmi si alzarono a onorare il passaggio di Avi Meyer.

7

Pierre Tardivel divenne un uomo con un unico scopo, tutto dedito ai suoi studi. Decise di specializzarsi in genetica, il campo che, dopotutto, gli aveva rivoluzionato la vita. Si distinse subito, e iniziò una brillante carriera di ricercatore in Canada.

Nel marzo 1993, lesse del progresso fatto: il gene della corea di Huntington era stato scoperto, rendendo possibile un test del DNA semplice e poco costoso per determinare se uno ce l’avesse, e potesse perciò finire per sviluppare la malattia. Eppure, Pierre non fece il test. Ne aveva quasi paura adesso. Se non aveva la malattia, sarebbe ridiventato indolente? Avrebbe ricominciato a sprecare la vita di nuovo? Lasciar passare i decenni invano?

All’età di trentadue anni, Pierre fu nominato ricercatore post-dottorato al Lawrence Berkeley Laboratory, situato in cima a una collina sopra l’Università della California, Berkeley. Fu assegnato al Progetto Genoma Umano, il tentativo internazionale di mappare e sequenziare tutto il DNA che forma un essere umano.

Il campus di Berkeley era esattamente quello che un campus universitario dovrebbe essere: assolato e verde e pieno di spazi aperti, proprio il tipo di posto dove poter immaginare che fosse nato il movimento del libero amore.

A essere un po’ meno meraviglioso fu il nuovo capo di Pierre, l’intrattabile Burian Klimus, che aveva vinto un Premio Nobel per il suo innovativo metodo per sequenziare il DNA, la cosiddetta Tecnica Klimus, ora largamente usata in laboratori di tutto il mondo.

Se uno scienziato pazzo dei fumetti avesse avuto un fisico da lottatore, sarebbe somigliato a Klimus, un uomo massiccio e completamente calvo di ottantun anni, con un collo di mezzo metro di circonferenza. I suoi occhi erano marroni, e la faccia, per quanto rugosa, mostrava solo i segni della vecchiaia; non c’erano grinze causate dal buonumore, in effetti, Pierre non vide alcun segno che Klimus avesse «mai» riso.

«Non preoccuparti del dottor Klimus» aveva detto a Pierre Joan Dawson, la segretaria generale dell’Human Genome Center, il primo giorno del suo nuovo lavoro. Per quanto il titolo di Klimus fosse ufficialmente professore di Biochimica — circa un quarto dei mille scienziati e ingegneri del LBL avevano incarichi di docenza nei campus dell’Università Berkeley o a San Francisco — a Pierre era stato detto che il vecchio preferiva essere chiamato «dottore», non «professore». Era un pensatore, non un semplice insegnante.

Pierre aveva immediatamente trovato simpatica Joan, pur sentendosi un po’ a disagio a chiamare per nome una donna di età doppia della sua. Era dolce e gentile: come una madre occhialuta e dai capelli grigi per tutti i distratti professori e anche per gli studenti che facevano lavoretti secondari per il Progetto Genoma Umano. Joan spesso portava in ufficio biscotti o pasticcini fatti in casa e lasciava che chiunque si servisse della sua onnipresente caffettiera.

E così, poco dopo aver cominciato, Pierre si trovò seduto di fronte alla scrivania di Joan, mangiucchiando una gigantesca focaccia al burro ripiena di marmellata mentre attendeva un appuntamento col dottor Klimus. Joan scrutava un foglio di carta, gli occhi socchiusi. — È deliziosa — disse Pierre. Indicò il piatto con sopra ancora cinque grosse paste. — Non so come tu possa resistere. Dev’essere una vera tentazione mangiarne in continuazione.

Joan alzò lo sguardo e sorrise. — Oh, io non ne mangio mai. Sono diabetica, vedi. Lo sono da circa vent’anni. Ma amo fare infornate, e alla gente sembra che piacciano sempre i dolci che porto. Mi dà un sacco di piacere vedere che tutti li apprezzano.

Pierre annuì, impressionato da quel sacrificio. Aveva già visto che Joan portava un braccialetto di Allerta Medico; ora capiva il perché. Joan tornò a fissare la pagina sulla sua scrivania, ma poi sospirò e la porse a Pierre. — Vorresti essere gentile, e leggere l’ultima riga per me? Non riesco a distinguerla.

Pierre prese il foglio. — Dice: «Tutti i rapporti Q-quattro dello staff sono attesi nell’ufficio del direttore non più tardi del 15 settembre».

— Grazie. — Lei sospirò. — Stanno cominciando a venirmi le cataratte, temo. Credo che dovrò farmi operare, qualche giorno. — Pierre annuì, comprensivo, la cataratta era comune fra gli anziani diabetici.

Guardò l’orologio; il suo appuntamento sarebbe dovuto iniziare da quattro minuti. Dannazione, odiava sprecare il tempo.

Sebbene Molly si fosse trastullata con l’idea di ottenere un impiego alla Duke University, che era famosa per le sue ricerche sui presunti fenomeni paranormali, accettò invece un posto di professore associato all’Università della California, Berkeley. Aveva scelto l’’UCB perché era abbastanza lontana da sua madre e Paul e sua sorella Jessica (che adesso era passata attraverso un breve matrimonio e successivo divorzio) da rendere improbabile che decidessero di farle visita.

Una nuova vita, una nuova città, ma, dannazione a tutto, proseguiva a fare gli stessi stupidi sbagli, continuava a pensare che, in qualche modo, stavolta le cose sarebbero andate diversamente, che sarebbe riuscita a sopportare di passare una serata seduta di fronte a un tipo che faceva pensieri sconci su di lei.

Rudy non era stato il peggiore dei suoi precedenti appuntamenti sporadici, finché non aveva preso un paio di drink, e allora i suoi pensieri superficiali erano degenerati in nient’altro che un incessante flusso di osceno erotismo. «Cazzo, quanto mi piacerebbe fotterla. Spalanca le gambe, baby, spalanca le gambe…»

Lei aveva cercato di cambiare argomento di conversazione, ma non importava di cosa stessero parlando, i pensieri alla superficie della mente di Rudy sembravano i graffiti sulle pareti dei cessi pubblici. Molly osservò che la squadra di baseball di Oakland se la stava cavando bene in quella stagione. «Ho una mazza io, baby,..» Chiese a Rudy del suo lavoro. «Lavorati ‘questo’, baby! Succhiatelo tutto…» Menzionò che sembrava star per piovere. «Ci penso io a innaffiarti, baby, innaffiarti di sborra…»

Finalmente, non ne poté più. Erano solo le 20 e 40, spaventosamente presto per concludere un appuntamento iniziato alle 19 e 30, ma doveva tirarsi fuori di lì.

— Scusami — disse Molly. — Ho… credo che quella pasta col pesto mi abbia fatto qualcosa. Non mi sento molto bene. Penso che dovrei andare a casa.

Rudy apparve preoccupato. — Mi spiace — disse. Fece segno al cameriere. — Ecco, ce ne andiamo subito; ti porterò io.

— No — disse Molly. — No, grazie. Farò… farò una camminata. Sono sicura che una passeggiatina mi aiuterà la digestione.

— Verrò con te.

— No, davvero. Starò subito bene. Sei gentile a offrirti, comunque. — Tolse il portafoglio dalla borsetta. — Con tassa e mancia, la mia parte dovrebbe essere circa quindici dollari — disse, mettendo l’importo sulla tovaglia.

Rudy parve contrariato, ma almeno la sua preoccupazione per la salute di Molly fu abbastanza sincera da bandire quel linguaggio triviale dalla sua mente. — Mi spiace — disse di nuovo.

Molly si costrinse a sorridere. — Anche a me — disse.

— Ti chiamerò — disse Rudy.

Molly annuì e si affrettò a uscire dal ristorante.

L’aria della sera era calda e piacevole. Cominciò a camminare senza realmente pensare dove fosse diretta. Tutto quel che sapeva era che non voleva tornare al suo appartamento. Non un venerdì sera; era troppo solitario, troppo vuoto.

Si trovava sull’University Avenue, che, non c’era da sorprendersene, finì per portarla al campus. Superò molte coppiette (alcune regolari, altre gay) che andavano nell’altro senso, e captò pensieri chiaramente sessuali da quelle che inevitabilmente entravano nella sua zona, ma non le importò, dato che quei pensieri non riguardavano lei. Giunse alla Doe Library e decise di entrare. La pasta col pesto, in effetti, le stava facendo borbottare un po’ gli intestini, così un’escursione in bagno poteva essere opportuna.

Dopo aver finito, salì al piano principale. La biblioteca era quasi del tutto vuota. Chi se la sentiva di studiare un venerdì sera, dopotutto, specialmente agli inizi dell’anno accademico?

— ’Sera, professoressa Bond — disse un bibliotecario che sedeva al banco delle informazioni. Era un uomo alto e magro di mezza età.

— Ciao, Pablo. Non molta gente oggi.

Pablo annuì e sorrise. — Vero. Ma abbiamo sempre i frequentatori abituali. Il guardiano notturno è qui, come al solito. — Puntò il pollice verso un tavolo di quercia a una certa distanza. Un bell’uomo sulla trentina con un viso rotondo e capelli color cioccolata sedeva curvo su un libro.

— Guardiano notturno? — disse Molly.

— Il dottor Tardivel — disse Pablo — della LBL. Ha cominciato a venire qui quasi tutte le sere ultimamente. Continua a mandarmi a prendere i raccoglitori di vari giornali.

Molly guardò quel giovanotto di nuovo. Non ne conosceva il nome e non rammentava di averlo mai visto in giro per il campus. Lasciò Pablo e si diresse nella sala di lettura principale. Le copie di molti periodici recenti erano custodite in uno scaffale di legno che incidentalmente era vicino al tavolo che stava usando quel Tardivel. Molly avanzò verso lo scaffale e cominciò a cercare un numero di «Developmental Psychology» o «Cognition» per ammazzare un’ora o due. Si accovacciò a esaminare attentamente le pile di giornali sullo scaffale inferiore, e così facendo i pantaloni le tirarono.

Un pensiero sfiorò la sua coscienza, come una piuma che le si posasse sulla pelle nuda, ma era inintelligibile.

I giornali non erano in ordine cronologico. Cominciò a riaggiustare la pila, in modo da collocare in cima i numeri più recenti.

Un altro pensiero ondeggiò nel suo cervello. E improvvisamente comprese il motivo per cui aveva difficoltà a leggerlo. Il pensiero era in francese; Molly riconobbe il suono mentale di quella lingua.

Trovò la copia del mese prima di DP, si raddrizzò, e scrutò la sala in cerca di un posto per sedersi. C’erano sedie vuote in abbondanza, ovviamente, ma, be’…

Francese. Quel giovane pensava in francese.

Ed era anche un tipo sexy.

Molly si mise a sedere accanto a lui e aprì la rivista. Lui alzò lo sguardo, con in volto un’espressione leggermente sorpresa. Lei gli sorrise e poi, senza realmente pensarci, disse: — Bella serata.

Lui ricambiò il sorriso. — Già, davvero.

A Molly batté forte il cuore. Stava ancora pensando in francese. Aveva già conosciuto degli stranieri prima, ma tutti quanti erano passati a pensare in inglese quando parlavano la sua lingua. — Oooh, che accento adorabile!

— disse Molly. — Lei è francese?

— Franco-canadese — disse Pierre. — Di Montreal.

— È studente? — chiese Molly, sapendo benissimo da quel che aveva detto Pablo che non lo era.

— No, no — disse lui. — Sono ricercatore al LBL.

— Ah, quindi deve conoscere Burian Klimus. — Molly finse di rabbrividire. — È un tipo gelido.

Pierre rise. — Proprio così.

— Sono Molly Bond — disse lei. — Sono professore associato al dipartimento di psicologia.

Enchanté — disse Pierre. — Sono Pierre Tardivel.

— Una pausa. — Psicologia, eh? Mi ha sempre interessato.

— Wow — disse Molly a bassa voce.

— Wow?

— Lo fate davvero. I canadesi, cioè. Dite davvero «eh».

Pierre sembrò arrossire un po’. — Diciamo anche «Lei è il benvenuto».

— Che?

— Da queste parti, se si dice «Grazie» a qualcuno, tutti sembrano replicare «Uh-huh». Noi diciamo «Lei è il benvenuto».

Molly rise. — Touché — disse. E poi si portò la mano alla bocca. — Ehi… credo di sapere un po’ di francese, dopotutto.

Pierre sorrise. Fu proprio un bel sorriso simpatico.

— Così — disse Molly, guardando gli scaffali di libri stantii intorno a sé — lei viene qui spesso?

Pierre annuì. C’erano un sacco di pensieri sulla superficie della sua mente, ma con gran piacere Molly non poté distinguere il senso di alcuno di essi. E il francese, il francese era una lingua così bella, era quasi come una dolce musica di sottofondo piuttosto che il rumore irritante dei pensieri articolati di tanta gente.

Prima che potesse davvero rifletterci sopra, le parole le sfuggirono. — Le andrebbe una tazza di caffè? — disse. E poi, come se quel suggerimento necessitasse di qualche giustificazione, aggiunse: — C’è un posto dove fanno ottimi cappuccini, sulla Bancroft.

Pierre aveva una strana espressione sulla faccia, un misto di incredulità e lieta sorpresa per quell’inaspettata fortuna. — Sarebbe bello — disse.

Sì, pensò Molly. Lo sarebbe proprio.

Parlarono per ore, e l’accompagnamento dei pensieri francesi di Pierre in sottofondo non fu mai invadente. Poteva essere un gran porco come la maggioranza degli altri uomini, ma Molly ne dubitava. Pierre sembrava sinceramente interessato a quel che aveva da dire, e ascoltava con attenzione. E aveva un meraviglioso senso dell’umorismo; Molly non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva apprezzato tanto la compagnia di qualcun altro.

Molly aveva sentito dire che i francesi, sia canadesi che europei, avevano un atteggiamento diverso riguardo le donne da quello degli uomini americani. Erano più rilassati al riguardo, meno portati a essere fuori dalle righe tutto il tempo, meno inclini a cercare senza posa di mettersi in mostra. Molly ci aveva creduto solo a metà. Albergava in lei il sospetto che il loro atteggiamento in apparenza indifferente verso la nudità femminile fosse parte di una vasta cospirazione: «Resta impassibile, e ti faranno ballare le tette proprio davanti!» Ma Pierre pareva realmente interessato alla sua mente e al suo lavoro, e questo fu per Molly maggior motivo di eccitazione di qualunque sfoggio di machismo.

Improvvisamente fu mezzanotte e il caffè dovette chiudere. — Mio Dio — disse lei. — Dove se n’è andato il tempo?

— È andato — disse Pierre — nel passato, e ne ho goduto ogni momento. — Scosse il capo. — Erano settimane che non mi concedevo una pausa del genere. — Il suo sguardo incontrò quello di lei. — Merci beaucoup.

Molly sorrise. — A quest’ora di notte, certamente dovrebbe essere scortata fino alla sua auto o a casa — disse Pierre. — Posso accompagnarla?

Molly sorrise di nuovo. — Sarebbe carino. Sto a soli pochi isolati da qui. — Lasciarono il caffè. Pierre camminò con le mani strette dietro la schiena. Molly si chiese se avrebbe tentato di tenerle la mano, ma non lo fece.

— Ho proprio bisogno di conoscere meglio la California — disse Pierre. — Avevo pensato di andare a San Francisco domani, a farmi un giretto turistico.

— Le piacerebbe avere compagnia?

Erano arrivati all’ingresso del suo palazzo. — Mi piacerebbe moltissimo — disse Pierre. — Grazie.

Ci fu un momento di silenzio. Molly stava pensando, be’, naturalmente, dovremo rincontrarci domattina, a meno — il pensiero, o forse solo la brezza notturna, la fece rabbrividire — a meno che non passasse da lei la notte. Ma cosa Pierre stesse pensando era un completo mistero. — Forse potremmo vederci per uno spuntino alle undici — disse.

— Certo. Quel posto giusto, attraversata la strada, va benissimo — disse Molly, indicandolo.

Si domandò se lui stesse per baciarla. Era eccitante non sapere cosa pensasse di fare. Gli attimi passarono. Lui non fece alcuna mossa, e anche questo fu eccitante.

— A domani, allora — disse lui. — Au revoir.

Molly entrò dentro. Stava sorridendo da un orecchio all’altro.

8

La relazione fra Pierre e Molly stava procedendo bene. Lui era già stato tre volte nell’appartamento di Molly, ma a lei restava ancora da vedere il suo. Quella era la grande sera, comunque: andava in onda un altro film televisivo della serie Cracker, con Robbie Coltrane, ed entrambi li adoravano. Ma Molly aveva solo un televisore da tredici pollici, e Pierre ne aveva uno di ventisette: occorre uno schermo di dimensioni passabili per seguire bene un incontro di hockey.

Aveva ripulito un po’, raccogliendo calze e biancheria dal pavimento del soggiorno, togliendo i giornali dal divano verde e arancione, e dando quella che considerava una decente spolverata: passare la manica della maglietta dei Montreal Canadiens che aveva indosso in cima al mobiletto della TV e dello stereo.

Ordinarono una pizza durante l’ultimo stacco pubblicitario, e, quando il film finì, rimasero a commentarlo in attesa che la pizza arrivasse. Molly amava l’uso della psicologia in Cracker; il personaggio di Coltrane, Fitz, era uno psicologo forense che lavorava con la polizia di Manchester.

— È un tipo stupefacente — riconobbe Pierre.

— Ed è sexy — disse Molly.

— Chi? — chiese Pierre, perplesso. — Non Fitz?

— Già.

— Ma è cinquanta chili sovrappeso, un alcolista, un giocatore incallito, e fuma come una ciminiera.

— Ma la sua «mente» — disse Molly. — Che intensità.

— Finirà in ospedale con un attacco di cuore.

— Lo so — sospirò Molly. — Spero che abbia una buona assicurazione sanitaria.

— L’Inghilterra è come il Canada: assistenza pubblica.

— «Pubblica» è una specie di brutta parola qui — disse Molly. — Ma devo dire che l’idea dell’assistenza medica universale è attraente. È un peccato che Hillary Clinton non ce l’abbia fatta. — Una pausa. — Immagino che per te sia stato uno shock dover cominciare a pagarti l’assicurazione.

— Sicuramente lo sarà. Devo ancora pensarci.

La bocca di Molly si spalancò. — Non hai nessuna assicurazione sanitaria?

— Be’… no.

— Sei coperto dal piano di gruppo della facoltà?

— No, non faccio parte della facoltà, dopotutto; sono solo un post-dottorato.

— Che diavolo, Pierre, dovresti proprio avere qualche polizza medica. Che faresti se ti trovassi in un incidente?

— Non ci avevo pensato, credo. Sono così abituato al sistema canadese, che mi copre automaticamente, che non avevo pensato di dover davvero «fare» qualcosa per assicurarmi.

— Sei ancora coperto dal piano canadese?

— In realtà è un piano regionale, quello del Québec. Ma quest’anno non risulterò residente, il che significa… no, non sono affatto coperto.

— Faresti meglio a far qualcosa al più presto. Potresti essere dissanguato finanziariamente se avessi un incidente.

— Puoi raccomandarmi qualcuno?

— Io? Non ne ho idea. Il piano della mia facoltà è con la Sequoia Health, penso. Ma per le polizze individuali, non so chi faccia le migliori tariffe. Ho visto la pubblicità di una compagnia chiamata Bay Area Health, e un’altra chiamata… oh, com’era?… Condor, credo.

— Li chiamerò.

— Domani. Fallo domani. Avevo uno zio che una volta si ruppe la gamba, e dovettero metterlo in trazione. Non aveva nessuna assicurazione, e la parcella totale fu trentacinquemila dollari. Dovette vendere la casa per pagarla.

Pierre le accarezzò una mano. — Tutto a posto. Lo farò per prima cosa.

La loro pizza arrivò. Pierre portò la scatola sul tavolo della cucina e l’aprì. Molly mangiò i suoi pezzi direttamente dalla scatola, ma a Pierre piacevano caldi da bruciare la bocca, così mise ogni fetta nel microonde per trenta secondi prima di mangiarle. La cucina odorava di formaggio e peperoni, più un aroma di cartone lievemente umido che saliva dalla scatola.

Dopo aver finito la terza fetta, Molly chiese qualcosa di assolutamente inaspettato: — Che ne pensi dei bambini?

Pierre si servì di un quarto pezzo. — Mi piacciono.

— Anche a me — disse Molly. — Ho sempre voluto essere madre.

Pierre annuì, non sapendo esattamente cosa ci si spettava che dicesse.

— Voglio dire — continuò Molly — per ottenere il Ph.D. c’è voluto un sacco di tempo e, be’, non ho mai incontrato la persona giusta.

— Succede a volte — disse Pierre, sorridendo.

Molly mordicchiò la sua pizza. — Oh, già. Certo, non è affatto un problema insormontabile… non avere un marito, cioè. Ho un sacco di amiche che sono ragazze madri. Per quasi tutte non è proprio quel che avevano in mente, ma se la cavano bene. In effetti, io…

— Cosa?

Lei distolse lo sguardo. — No, niente.

In Pierre si era destata la curiosità. — Dimmi.

Molly esitò per un momento, poi: — Ho fatto qualcosa di molto stupido… oh, sei anni fa, credo che fosse.

Pierre alzò le sopracciglia.

— Avevo venticinque anni, e, be’, francamente, avevo abbandonato ogni speranza di trovare un uomo con cui avere una relazione di lunga durata. — Sollevò una mano. — So che venticinque anni sembrano pochi, ma ne avevo già sei in più di mia madre quando ebbe me, e… be’, non voglio entrare nel merito proprio adesso, ma stavo passando un periodo terribile con gli altri, e non credevo che probabilmente le cose sarebbero mai cambiate. Ma «volevo» tanto avere un figlio, e così io… be’, scelsi degli uomini, quattro o cinque diversi, per una sola notte. — Sollevò una mano di nuovo, come se sentisse il bisogno di farlo sembrare in qualche modo meno sordido. — Erano tutti studenti di medicina; stavo tentando di scegliere attentamente. Ogni volta che lo facevo era al punto giusto del mio ciclo; speravo di restare incinta da uno di loro. Non stavo cercando un marito, capisci… solo per, be’, solo per un po’ di sperma.

Pierre aveva il capo reclinato da un lato. Chiaramente non sapeva come rispondere.

Molly scrollò le spalle. — Comunque, non funzionò. Non mi misero incinta. — Guardò il soffitto per qualche attimo, poi tirò il fiato. — Invece mi presi la gonorrea. — Espirò rumorosamente. — Suppongo di essere fortunata a non aver preso l’AIDS. Dio, è stata proprio una cosa stupida.

Il viso di Pierre mostrava tutto il suo stupore; erano già diverse volte che dormivano insieme.

— Non preoccuparti — disse Molly, vedendo la sua espressione. — Mi è passata completamente, grazie al cielo. Ho fatto vari test dopo il trattamento con la penicillina. Sono totalmente pulita. Come dicevo, è stata una cosa proprio cretina, ma… be’, «volevo» un bimbo.

— Perché ti sei fermata?

Molly guardò il pavimento. La sua voce era fioca. — La gonorrea mi ha lasciato cicatrici nelle trombe di Falloppìo. «Non posso più» restare incinta nel modo normale; se mai tentassi di farlo, dovrebbe essere tramite fecondazione in vitro, e, be’, questo costa soldi. Circa dieci bigliettoni per tentativo, l’ultima volta che mi sono interessata. La mia assicurazione sanitaria non la copre, dato che le trombe ostruite non erano una condizione congenita. Ma ho fatto dei risparmi.

— Oh — disse Pierre.

— Io… ah, pensavo che dovessi saperlo… — La sua voce si spense, e poi scrollò di nuovo le spalle. — Mi spiace.

Pierre guardò la sua fetta di pizza, che si faceva fredda. Distrattamente ne tolse un pezzetto di peperone verde, isolato; avrebbero dovuto essere solo su metà, ma quello era finito su una delle sue fette. — Non direi che sia proprio il meglio — disse Pierre — ma credo di essere abbastanza alla vecchia maniera da pensare che un bimbo dovrebbe avere sia una madre che un padre.

Molly incontrò il suo sguardo. — Esattamente il mio pensiero — disse.

Alle due del pomeriggio, Pierre entrò nell’ufficio dell’Human Genome Center, e scoprì con sua sorpresa che era in corso un party. La solita scorta di dolcetti fatti in casa da Joan Dawson non era stata sufficiente; qualcuno era uscito a prendere sacchetti di snack messicani, e qualche bottiglia di champagne.

Non appena Pierre entrò, una degli altri genetisti, Donna Yamashita, gli porse un bicchiere. — Cos’è tutta questa eccitazione? — chiese Pierre sopra il frastuono.

— Finalmente hanno ottenuto quel che volevano da Hapless Hannah — disse Yamashita, sorridente.

— Chi è Hapless Hannah? — chiese Pierre, ma Yamashita se n’era già andata a salutare qualcun altro. Pierre camminò verso la scrivania di Joan. Aveva un liquido scuro nel bicchiere invece dello champagne. Probabilmente diet cola; come diabetica, non avrebbe dovuto bere alcolici. — Che sta succedendo? — disse Pierre. — Chi è Hapless Hannah?

Joan fece uno dei suoi gentili sorrisi. — È lo scheletro di Neanderthal in prestito dall’Hebrew University di Givat Ram. Il dottor Klimus ha cercato di estrarre il DNA dalle ossa per mesi, e finalmente oggi ha terminato di ottenere la sequenza completa.

Il vecchio in persona si era avvicinato e, per una volta, c’era un sorriso sul suo viso largo e chiazzato dalla vecchiaia. — Proprio così — disse, con voce fredda e secca. Lanciò un’occhiata di sbieco a un tipo grassottello che Pierre riconobbe come un paleontologo. — Ora che abbiamo DNA neanderthaliano, potremo fare un po’ di vera scienza sulle origini umane, invece di supposizioni sfrenate.

— È meraviglioso — replicò Pierre, alzando la voce per superare il baccano della gente che affollava il piccolo ufficio. — Quant’erano vecchie le ossa?

— Sessantaduemila anni — disse Klimus trionfante.

— Ma di sicuro il DNA si sarà degenerato in tutto questo tempo — disse Pierre.

— E qui ci soccorre il sito propizio dove è stata trovata Hapless Hannah — disse Klimus. — È morta in un crollo che l’ha completamente sigillata dentro… era una vera, autentica donna delle caverne. I batteri aerobici della caverna hanno consumato tutta l’aria, così ha passato gli ultimi sessantamila anni in un ambiente privo di ossigeno, il che significa che le sue pirimidine non si sono ossidate. Abbiamo recuperato tutte e ventitré le coppie di cromosomi.

— Che colpo fortunato — disse Pierre.

— Certo che lo è — disse Donna Yamashita, che era improvvisamente riapparsa accanto a Pierre. — Hannah risponderà a un sacco di domande, inclusa quella principale se i Neanderthal fossero una specie separata, Homo neanderthalensis, o solo una sottospecie dell’umanità moderna, Homo sapiens neanderthalensis, e…

Klimus aggiunse: — E dovremmo essere in grado di dire se i Neanderthal si estinsero senza lasciare discendenti, o se invece si incrociarono coi Cro-Magnon, mischiando così i loro geni coi nostri.

— È straordinario — disse Pierre.

— Naturalmente — disse Klimus — resteranno ancora molte questioni senza risposta riguardo i Neanderthal, dettagli dell’aspetto fisico, cultura, e così via. Ma questo è ugualmente un giorno da ricordare. — Voltò la schiena a Pierre, e mostrando un’inaspettata esuberanza, batté sul vetro del bicchiere con la sua penna Mont Blanc. — A tutti voi… tutti quanti! La vostra attenzione, prego! Mi piacerebbe proporre un brindisi… a Hapless Hannah! Che diventerà presto la Neanderthal più famosa della storia!

9

Il laboratorio di Pierre era proprio come ogni altro laboratorio che avesse mai visto: un poster della Tavola degli elementi a una parete; una copia pesantemente usata di Rubber Bible che giaceva aperta su una scrivania; un sacco di storte e altri strumenti di vetro; una piccola centrifuga; una workstation UNIX con dei post-it attaccati intorno al monitor; una doccia di emergenza, in caso di fuoriuscite chimiche; un’area di lavoro racchiusa nel vetro, sotto una cappa aspirante per i fumi. Le pareti erano di quel nauseante giallo-beige che sembrava così comune negli ambienti universitari. L’illuminazione era fluorescente; il pavimento, a piastrelle.

Pierre era al lavoro su uno dei banconi disposti lungo tutte e quattro le pareti della stanza, e fissava autoradiografie di DNA posizionate su un pannello luminoso incorporato nel ripiano. Indossava un camice bianco da laboratorio, macchiato, ma non era abbottonato, e così la sua maglietta del Québec Winter Carnival era visibile sotto. Burian Klimus apparve sulla soglia, sembrando estremamente seccato. In piedi accanto al vecchio c’era un’attraente donna asiatica con deliziosi capelli neri a caschetto. — È lui — disse Klimus.

— Signor Tardivel — disse la donna. — Sono Tiffany Feng, delle Assicurazioni Sanitarie Condor.

Pierre accennò col capo a Klimus. — Grazie per averla accompagnata, signore — disse. L’anziano genetista aggrottò la fronte, poi se ne andò con passo strascicato.

Tiffany poteva avere sui ventott’anni. Portava una valigetta diplomatica nera, ed era vestita con giacca blu e calzoni dello stesso colore. La sua camicetta bianca era aperta in cima più di quanto ci si potesse aspettare. Pierre ne fu divertito; sospettò che Tiffany vestisse in modo diverso quando andava a trovare un potenziale cliente maschio e quando invece il cliente era femmina.

— Mi spiace di essere in ritardo — disse Tiffany. — Il traffico era infernale sul ponte. — Gli porse un biglietto da visita giallo e nero, poi guardò ammirata il laboratorio. — Lei è ovviamente uno scienziato.

Pierre annuì. — Sono un biologo molecolare, e lavoro al Progetto Genoma Umano.

— Davvero? — disse Tiffany. — Che campo affascinante!

— Lei ne sa qualcosa?

— Certo. Sul lavoro ci hanno fatto grandi conferenze al riguardo. — Sorrise. — Comunque, capisco che le interessa parlare delle opzioni assicurative.

Pierre fece cenno a Tiffany di prendere una sedia. — Esatto — disse. — Vengo dal Canada, così non ho mai stipulato un’assicurazione sanitaria prima. Ancora per un po’ soddisferò il requisito di risiedere nel Québec, ma…

Tiffany scosse il capo. — Ho aiutato diversi canadesi nel corso degli anni. I vostri piani sanitari provinciali coprono solo l’importo in dollari che gli stessi servizi costerebbero in Canada, dove i prezzi dei servizi medici sono fissati dal governo. Qui non ci sono controlli sui prezzi. Troverà che la maggior parte delle procedure sono più costose, e il suo piano del Québec non coprirà gli extra. In più, i piani provinciali forniscono le cure mediche, ma non cose tipo stanze d’ospedale private. — Fece una pausa. — Non ha nessuna associazione al piano assicurativo della facoltà?

Pierre scosse il capo. — Non sono membro della facoltà. Sono solo un ricercatore in visita.

Lei appoggiò la valigetta diplomatica sul bancone del laboratorio e l’aprì. — Be’, allora le occorrerà una formula onnicomprensiva. Possiamo offrirle quel che chiamiamo il Piano Oro, che copre il cento per cento di tutti i conti ospedalieri, inclusi i trasferimenti in ambulanza, e qualunque altra cosa di cui possa aver bisogno, come sedie a rotelle o grucce. Inoltre, copre anche tutte le sue necessità mediche di routine, come controlli annuali, ricette, e così via. — Gli porse una brossura stampata a rilievo in oro e piegata in tre.

Pierre la prese e la scorse con gli occhi. I sofferenti di corea di Huntington finivano solitamente le loro vite con una prolungata degenza ospedaliera. Se fosse saltato fuori che aveva la malattia, avrebbe certamente voluto una stanza privata, e… ah, bene. Quella formula copriva anche l’assistenza a domicilio e perfino trattamenti medici sperimentali. — Sembra quel che fa per me — disse Pierre. — A quanto ammontano i premi?

— Sono su una scala progressiva. — Lei estrasse un raccoglitore giallo e nero dalla valigetta. — Posso chiederle quanti anni ha?

— Trentadue.

— Fuma?

— No.

— E attualmente non ha alcuna situazione patologica, come diabete, AIDS, O un soffio al cuore?

— Esatto.

— I suoi genitori sono ancora vivi?

— Mia madre sì.

— Di che cosa è morto suo padre?

— Umm… intende il mio padre biologico, vero? Tiffany sbatté le palpebre. — Sì.

Henry Spade era trapassato quattro anni prima; Pierre era andato a Toronto per il funerale. — Complicazioni della corea di Huntington.

Tiffany chiuse il raccoglitore. — Oh. — Guardò Pierre per un momento. — Questo rende le cose più complicate. «Lei» ha la malattia?

— Non ne ho idea.

— Non ha sintomi?

— Nessuno.

— La corea di Huntington è trasmessa da un gene dominante, giusto? Così lei ha il cinquanta per cento di probabilità di aver ereditato il gene.

— È esatto.

— Ma non ha fatto il test genetico per constatarlo?

— No.

Lei sospirò. — Ciò è molto imbarazzante, signor Tardivel. Non sono io a decidere chi ottiene la polizza e chi no, ma posso dirle che succederà se sottoporremo la sua adesione adesso; sarà respinta in base alla storia familiare.

— Davvero? Credo che avrei dovuto tenere la bocca chiusa.

— Ciò non le sarebbe stato di alcuna utilità a lungo termine. Se avesse mai sottoposto una richiesta di danno relativa alla sua corea di Huntington, avremmo investigato. E se avessimo scoperto che lei conosceva la sua storia familiare al momento di stipulare l’assicurazione, le negheremmo il risarcimento. No, ha fatto la cosa giusta a dirmelo, ma…

— Ma cosa?

— Be’, come dicevo, questo è imbarazzante. — Aprì di nuovo il raccoglitore, andando a una delle sezioni in fondo, segnata con una linguetta. — Di solito non mostro questa tabella ai clienti, ma… be’, lo spiega abbastanza chiaramente. Come può vedere, abbiamo tre livelli fondamentali di premi per ogni gruppo di età/sesso. Ci riferiamo a essi come livelli A, M e B… per alto, medio e basso. Se lei ha una storia familiare che mostra una predisposizione a, diciamo, avere un attacco cardiaco verso i quarant’anni, o qualcosa del genere, noi le emetteremmo ancora una polizza, ma con un premio di livello A, il livello più alto. Se, viceversa, lei ha una storia familiare favorevole, le offriremmo il livello M. Ora, M è ancora piuttosto elevato…

— Direi! — fece Pierre, guardando la cifra nella colonna etichettata MASCHI, ANNI 30-34.

— Giusto, lo è. Ma questo perché non ci è concesso di richiedere test genetici agli assicurandi. A causa di ciò, dobbiamo presumere che lei possa effettivamente avere una seria tara genetica. Ora, quel che dovrei dire dopo averle mostrato questa cifra è: «Be’, sa, non posso chiederle di fare un test genetico, ma se ‘scegliesse’ di farlo, e i risultati fossero favorevoli, allora sarei in grado di offrirle questo premio qui… il premio B».

— Che è solo la metà del premio M.

— Esattamente. È un incentivo a fare il test, vede? Noi non la «costringiamo», ma se decide di farlo volontariamente, potrà risparmiare un sacco di soldi.

— Non sembra affatto giusto.

Tiffany scrollò le spalle. — Un sacco di compagnie assicurative fanno in questo modo adesso.

— Ma sta dicendo che non posso ottenere «nessuna» assicurazione sanitaria a causa della mia storia familiare?

— Esatto. La corea di Huntington è troppo costosa, e il suo livello di rischio, al cinquanta per cento, è troppo alto, per poterla coprire. Ma se lei facesse un test che dimostri che non ha il gene…

— Ma io non voglio fare il test.

— Be’, questo complica la faccenda ancora di più. — Sospirò, cercando di pensare al modo migliore di spiegarsi. — Il mese scorso, il governatore Wilson ha firmato una nuova legge, accogliendo una proposta del Senato. Entrerà in vigore il primo gennaio… fra dieci settimane. La nuova legge dice che gli assicuratori sanitari della California non potranno più servirsi di test genetici per discriminare persone che hanno il gene di una malattia ma non ne rivelano alcun sintomo. In altre parole, non saremo più in grado di considerare il semplice fatto di «avere» il gene dell’Huntington o dell’Alzheimer come una preesistente condizione di malattia in persone altrimenti sane.

— Be’, «non è» una condizione preesistente.

— A essere gentili, signor Tardivel, è una questione di interpretazione. La nuova legge californiana è la prima del genere in questa nazione; in ogni altro stato, avere cattivi geni «equivale» a una condizione preesistente, anche se uno è asintomatico. Anche quei pochi stati che hanno leggi anti-discriminazione genetica, Florida, Ohio, Iowa e un paio d’altri, anche quelli fanno eccezioni per le compagnie assicurative, permettendogli di decidere chi assicurare e quali premi addebitare.

Pierre si accigliò. — Ma quello che mi sta dicendo è… visto che siamo in California, se aspetto fino al primo gennaio, non potrete più respingermi in base alla mia storia familiare?

— No, saremo ancora in grado di farlo: abbiamo valide informazioni che lei è un candidato ad alto rischio, e non siamo obbligati a dare polizze a candidati ad alto rischio.

— Allora dov’è la differenza?

— La differenza è che l’informazione genetica soppianta i dati sulla storia familiare. Vede, se abbiamo concrete informazioni genetiche, esse hanno precedenza su tutto ciò che potremmo dedurre dalle vicende cliniche dei suoi genitori o fratelli. Se farà il test genetico, allora, sotto la nuova legge dello stato, «dovremo» darle una polizza qualunque risultati dia riguardo la corea di Huntington. Anche se il test prova che lei «ha» il gene della malattia, dovremo ugualmente assicurarla, a condizione che lei aderisca prima di mostrare dei sintomi; non potremo respingerla o farle pagare un premio più alto, qualunque sia l’informazione genetica ottenuta.

— Aspetti un minuto… questo è pazzesco. Se non faccio il test, avete il 50% di probabilità che finirò per presentare un sacco di richieste di danno dovute alla mia corea di Huntington, e così mi respingete a causa delle mie vicende familiari. Ma se faccio il test, e anche se c’è la sicurezza del cento per cento che «prenderò» la malattia e perciò inoltrerò richieste di danni urgenti», mi «assicurerete»?

— È giusto, o almeno lo sarà, dopo il primo gennaio, a causa della nuova legge.

— Ma io non intendo fare il test.

— Davvero? Avrei pensato che desiderasse sapere.

— No. No, non è così. Pochissimi di quelli a rischio hanno fatto il test. La maggior parte di noi non vogliono saperlo per certo.

Tiffany si strinse nelle spalle. — Be’, se vuole essere assicurato, è la sua sola possibilità. Guardi, perché non riempie i moduli oggi, ma li data gennaio… be’, gennaio il due: il primo giorno lavorativo del nuovo anno. La chiamerò allora, e lei mi farà sapere cosa intende fare. Se a quel punto avrà già fatto il test, o sarà pronto a farlo, io sottoporrò la sua adesione alla polizza; se no, mi limiterò a strapparla.

— Desidererei vedere qualche altro piano prima di prendere una decisione — disse.

— Come no. — Mostrò a Pierre una varietà di polizze: i prevedibili Piano Argento e Bronzo, con benefici progressivamente minori.

— Non rimpiangerà questa scelta — disse Tiffany. — Non sta solo stipulando un’assicurazione… si sta assicurando la pace dello spirito. — Prese un modulo dalla sua valigetta e lo porse a Pierre. — Dovrebbe solo riempire questo, e non si scordi di datarlo due gennaio. — Aprì il lato sinistro della sua giacca. C’era un taschino all’interno, con infilate una serie di penne a sfera tutte identiche. Ne estrasse una, richiuse la giacca, e offrì la penna a Pierre.

Lui premette il pulsante della penna col pollice, si accertò che la punta della penna fosse uscita e compilò il modulo. Quando ebbe finito, le consegnò il modulo e distrattamente infilò la penna nel propri taschino del camice.

Tiffany puntò il dito. — La mia penna…? — disse.

Pierre sorrise scioccamente e gliela porse. — Mi scusi.

— Allora, la chiamerò all’inizio dell’anno — disse lei. — Ma stia attento fino ad allora… non vorremmo che le succedesse nulla prima che si sia assicurato.

— Ancora non so se farò il test — disse lui. Lei annuì. — Sta a lei.

10

Pierre aveva cercato a lungo e intensamente un campo in cui specializzarsi. Il suo primo istinto era stato di far ricerche direttamente sulla corea di Huntington, ma da quando era stato scoperto il gene responsabile, molti scienziati vi si erano già concentrati. Naturalmente, Pierre sperava che trovassero una cura, e abbastanza presto da aiutarlo, com’è ovvio, se fosse risultato che lui stesso aveva la malattia. Ma Pierre sapeva anche che la scienza aveva bisogno di obiettività: non poteva permettersi di buttare nel cesso gli anni che potevano ancora rimanergli seguendo esili tracce che probabilmente non avrebbero portato a nulla, tracce che qualcuno non malato avrebbe capito quando abbandonare, ma cui lui, per disperazione, avrebbe potuto devolvere fin troppo tempo.

Pierre decise invece di concentrarsi su un’area che la maggior parte degli altri genetisti stava complessivamente ignorando, nella speranza che, in quel campo, sarebbe stato più probabile raggiungere risultati che potessero realmente procurargli un Premio Nobel. Concentrò le sue ricerche sugli introni: quel novanta per cento del genoma umano, costituito da tratti di gene non codificanti la sintesi proteica.

Cosa esattamente facesse tutto quel DNA non era affatto sicuro. Alcune parti sembravano sequenze estranee introdotte da virus che avevano invaso il genoma in passato; altre erano balbettanti ripetizioni senza fine: ironicamente, di struttura simile al gene molto insolito che causava la corea di Huntington; altre ancora erano rimasugli disattivati del nostro passato evolutivo. La maggioranza dei genetisti ritenevano che il Progetto Genoma Umano sarebbe stato completato molto più in fretta se quei nove decimi fossero stati semplicemente ignorati. Ma in Pierre albergava il sospetto che ci fosse qualcosa di significativo codificato in qualche modo ancora indecifrabile fra quel groviglio di nucleotidi.

La sua nuova assistente, una studentessa dell’UCB di nome Shari Cohen, non era d’accordo. Shari era minuta e sempre vestita in maniera immacolata, una bambola di porcellana con la pelle pallida e lucidi capelli neri, e un gigantesco diamante sull’anello di fidanzamento. — Hai avuto fortuna in biblioteca? — chiese Pierre.

Lei scosse il capo. — No, e devo dire che questa sembra proprio un’idea balzana, Pierre. — Parlava con un accento di Brooklyn. — Dopotutto, il codice genetico è semplice e facilmente comprensibile.

E così, in effetti, sembrava. Quattro basi componevano i pioli della scala del DNA: adenina, citosina, guanina e timina. Ognuna di queste era una lettera dell’alfabeto genetico. Infatti, di solito ci si riferisce a esse semplicemente con le loro iniziali: A, C, G, e T. Queste si combinavano insieme a formare le parole di tre lettere del linguaggio genetico.

— Be’ — disse Pierre — considera questo: l’alfabeto genetico ha quattro lettere, e tutte le sue parole sono lunghe tre lettere. Così, quante sono le parole possibili nel linguaggio genetico?

— Quattro alla terza potenza — disse Shari — che fa sessantaquattro.

— Giusto — disse Pierre. — Ora, cosa fanno in realtà queste sessantaquattro parole?

— Specificano gli amminoacidi da usare nella sintesi proteica — replicò Shari. — La parola AAA specifica lisina, AAC asparagina, e così via.

Pierre annuì. — E quanti amminoacidi differenti sono usati per fare le proteine?

— Venti.

— Ma hai detto che ci sono sessantaquattro parole nel vocabolario genetico.

— Be’, tre delle parole sono segni di punteggiatura.

— Ma anche tenendo conto di queste, rimangono ancora sessantuno parole per esprimere venti concetti. — Attraversò la stanza e indicò un poster attaccato al muro.


IL CODICE GENETICO



Shari fece qualche passo per ritrovarsi accanto a lui. — Be’, proprio come in inglese, il linguaggio genetico ha dei sinonimi. — Indicò il primo riquadro del poster. — GCA, GCC, GCG e GCT specificano tutte lo stesso amminoacido, alanina.

— Giusto. Ma perché esistono questi sinonimi? Perché non usare solo venti parole, una per ogni amminoacido?

Shari fece spallucce. — È probabilmente un meccanismo di sicurezza, per ridurre le probabilità che errori di trascrizione ingarbuglino il messaggio.

Pierre dissentì. — Ma certi amminoacidi possono essere specificati da molte fino a sei parole differenti, e altri da una sola. Se i sinonimi proteggessero dagli errori di trascrizione, certamente ne occorrerebbero diversi per ogni parola. In effetti, se si progettasse un codice di sessantaquattro parole semplicemente per ridondanza, si potrebbero usare tre parole a testa per ciascuno dei venti amminoacidi, e usare come segni di punteggiatura le quattro parole rimanenti.

Shari fece di nuovo spallucce. — Immagino. Ma il codice del DNA non è stato progettato; si è evoluto.

— Vero, vero. Eppure, la natura tende a uscirsene con soluzioni ottimali da tentativi ed errori. Come la stessa doppia elica… ricordi come Crick e Watson capirono di aver trovato la risposta a com’era messo insieme il DNA? Non fu perché la loro versione era la sola possibile. Piuttosto, fu perché era «la più bella». Perché mai certi aspetti del DNA dovrebbero essere di straordinaria eleganza, mentre altri essere raffazzonati? Scommetto che Dio o la natura, o qualunque cosa abbia messo il DNA insieme, «non» è raffazzonato.

— Il che significa? — disse Shari.

— Significa che forse la scelta di quale sinonimo è usato per specificare un amminoacido, in realtà contiene informazioni addizionali.

Le delicate sopracciglia di Shari si sollevarono. — Tipo… se siamo un embrione, inserire questa sostanza, ma se siamo già nati, non inserirla! — Batté le mani insieme. Il mistero di come le cellule si potrebbero differenziare nel corso dello sviluppo di un feto non era stato ancora risolto.

Pierre alzò una mano. — Non può essere una relazione così diretta, o i genetisti l’avrebbero notata molto tempo prima. Ma le scelte dei sinonimi in un lungo tratto di DNA — che siano nelle porzioni attive, o negli introni — potrebbero rivelarsi significative.

— O — disse Shari, leggermente imbronciata per aver visto respingere la sua idea — potrebbe darsi di no.

Pierre sorrise. — Certo, ma lo scopriremo, in un modo o nell’altro.


Una domenica mattina. Molly Bond amava recarsi a San Francisco, amava i suoi ristoranti di pesce, i suoi quartieri, le sue colline, i suoi tram, la sua architettura.

La strada in cui Molly si trovava era deserta; non c’era da sorprendersi, data l’ora mattiniera. Molly era venuta a San Francisco per partecipare a un raduno della Chiesa Unitaria; non era particolarmente religiosa, e aveva trovato insopportabile l’ipocrisia di molti uomini di chiesa incontrati nella sua vita, ma le piaceva l’approccio Unitario, e l’oratore invitato quel giorno, un esperto di intelligenza artificiale, sembrava affascinante.

Molly aveva parcheggiato a pochi isolati dalla sala del raduno. La riunione non sarebbe iniziata prima delle nove; pensò che poteva entrare in un McDonald’s per un Egg McMuffin, il solo vizio con cui periodicamente, ma solo a malincuore, tentava di rompere era la sua passione per il fast food. Mentre si dirigeva verso il ristorante lungo un ripido marciapiede, notò un vecchio davanti a sé, sul ciglio della strada, che batteva con un bastone da passeggio su qualcosa che giaceva alla base di un albero.

Molly proseguì, inebriandosi della tersa aria del primo mattino. Il cielo era privo di nubi, una cupola blu sospesa sugli edifici decorati a stucco.

Adesso era solo a una dozzina di passi o giù di lì dall’uomo in nero. Il suo impermeabile era un costoso modello Fumo di Londra, e le scarpe nere erano state lucidate di recente. L’uomo sembrava sugli ottanta, ma era alto per quell’età. Portava un cappello che gli premeva le orecchie contro la testa. Aveva anche il colletto dell’impermeabile risvoltato in su, ma mostrava ugualmente un collo taurino, da cui pendevano pieghe di pelle. Il vecchio era troppo assorto in quel che stava facendo per notarla avvicinarsi. Molly udì un lieve suono lamentoso. Guardò a terra, e restò a bocca aperta per l’orrore. L’uomo vestito di nero stava percuotendo un gatto col suo bastone.

Il gatto era, ovviamente, stato investito da un’auto e lasciato a morire. Il suo pelo, screziato di bianco, nero, arancione e color crema, era lordo di sangue sull’intero lato sinistro. Chiaramente era stato travolto qualche tempo prima, gran parte del sangue si era seccato a formare una crosta marrone, ma il denso liquido rosso stava ancora colando da un lungo taglio. Uno degli occhi del gatto era quasi scoppiato dall’orbita e aveva assunto un tono grigio bluastro.

— Ehi! — urlò Molly all’uomo in nero. — Sei pazzo? Lascia stare quella povera creatura!

L’uomo doveva essersi imbattuto nel gatto per caso, e stava apparentemente godendo dei patetici lamenti che lanciava ogni volta che lo punzecchiava con il bastone. Sì voltò per guardare Molly. Lei fu disgustata nel vedere che il suo pene bianco come un osso, eretto, gli fuoriusciva dai pantaloni aperti, e che lui lo impugnava con l’altra mano. — Blyat! — gridò l’uomo con un forte accento, con gli occhi neri che si restringevano in fessure. — Blyat!

— Via di qui! — strillò Molly. — Chiamerò la polizia!

L’uomo sbottò in un «Blyat» ancora una volta, poi si allontanò con passo malfermo. Molly pensò di inseguirlo e trattenerlo fino all’arrivo della polizia, ma l’ultima cosa al mondo che volesse fare era toccare quell’orribile personaggio. Si avvicinò per dare un’occhiata al gatto. Era in condizioni terribili. — Su, su — disse in tono tranquillizzante. — Se n’è andato. Non ti darà più fastidio. — Il gatto si mosse lievemente. Il suo respiro era ansimante.

Molly si guardò intorno; c’era un telefono pubblico alla fine dell’isolato. Si affrettò a raggiungerlo, chiamò il servizio informazioni, e chiese il numero d’emergenza della Protezione Animali. Poi lo compose. — C’è un gatto moribondo sul ciglio della strada — disse. Torse il collo per vedere i cartelli stradali. — È lungo il marciapiede di Portola Drive, a mezzo isolato dall’angolo con la Swanson. Penso che l’abbia investito una macchina, forse un’ora o due fa… No, resterò con l’animale, grazie. Grazie ancora… e fate presto, per favore.

Si sedette a gambe incrociate sul marciapiede accanto al gatto. Guardò lungo la strada, furiosa e sconvolta. Il vecchio vestito di nero era scomparso.

11 Tre settimane dopo

Pierre sedeva nel laboratorio, guardando l’orologio. Shari aveva detto che poteva far tardi a rientrare dal pranzo, ma ormai erano le 14.45, e un pranzo di tre ore sembrava eccessivo anche per gli usi della Costa Occidentale. Forse era stato pazzo ad assumere una che stava proprio per sposarsi. Aveva un milione di cose da fare prima delle nozze, dopotutto, e…

La porta del laboratorio si aprì, e Shari entrò. I suoi occhi erano iniettati di sangue, e sebbene si fosse ovviamente concessa un momento per tentare di sistemarsi il trucco, doveva aver pianto parecchio.

— Shari! — disse Pierre, alzandosi in piedi e andando verso di lei. — Che c’è che non va?

Lei lanciò uno sguardo a Pierre, col labbro inferiore che tremava. Pierre non riuscì a ricordare l’ultima volta che aveva visto qualcuno così triste. La sua voce era bassa e tremante. — Howard e io abbiamo rotto. — Le lacrime le stavano di nuovo sgorgando dagli angoli degli occhi.

— Oh, Shari — disse Pierre. — Mi dispiace tanto. — Non la conosceva da molto tempo e non era sicuro di doversi impicciare dei fatti suoi… eppure, probabilmente lei aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. Andava tutto a gonfie vele prima che uscisse per pranzo; quella di Pierre poteva essere la sola faccia amichevole che aveva visto da… qualunque cosa fosse successa.

— Avete… avuto un litigio?

Le lacrime scorsero lentamente sulle guance di Shari. Scosse la testa.

Pierre si trovò imbarazzato. Pensò di attirarla vicino a sé, tentare di confortarla, ma era il suo principale… non poteva farlo. Infine si risolse a dire: — Dev’essere doloroso.

Shari annuì quasi impercettibilmente. Pierre l’accompagnò a uno sgabello. Lei vi si sedette, poggiandosi le mani in grembo. Pierre notò che l’anello di fidanzamento era scomparso. — Stava andando tutto così bene — disse lei, con voce piena d’angoscia. Rimase in silenzio per un lungo tempo. Di nuovo, Pierre pensò di toccarla… una mano sulla spalla, diciamo. Detestava vedere qualcuno così addolorato. — Ma… ma i miei genitori sono emigrati dalla Polonia dopo la Seconda guerra mondiale, e i genitori di Howard sono dei Balcani.

Pierre la guardò senza capire.

— Non vedi? — disse, tirando col naso. — Siamo entrambi ashkenaziti.

Pierre sollevò lievemente le spalle, perplesso.

— Ebrei dell’Europa Orientale — disse Shari. — Siamo andati a fare un test.

Pierre in realtà non sapeva molto del giudaismo, sebbene ci fossero un sacco di ebrei di lingua inglese a Montreal. — Per cosa?

— Per la malattia di Tay-Sachs — disse Shari, sembrando quasi furente per doverla pronunciare.

— Oh — disse Pierre a voce molto bassa, comprendendo infine. La Tay-Sachs era una tara genetica: non veniva prodotto l’enzima hexosaminidase-A, il che, a sua volta, faceva sì che una sostanza grassa si accumulasse nelle cellule nervose del cervello. Diversamente dalla corea di Huntington, la malattia di Tay-Sachs si manifestava fin dall’infanzia, causando cecità, demenza, convulsioni, paralisi diffusa, e morte, di solito entro i quattro anni di età. Colpiva quasi esclusivamente gli ebrei di estrazione est-europea. Il quattro per cento degli ebrei americani che discendevano da lì erano portatori del gene, ma, sempre a differenza della corea di Huntington, il gene della Tay-Sachs era recessivo, e un figlio doveva riceverlo da entrambi i genitori per prendere la malattia. Se sia la madre che il padre erano portatori, ogni loro bimbo aveva il venticinque per cento di probabilità di avere la Tay-Sachs.

Tuttavia… forse Shari aveva capito male. Sì, era una studentessa di genetica, ma… — Così avete entrambi il gene? — chiese Pierre gentilmente.

Shari annuì e si sfregò le guance. — Non avevo idea che lo portasse. Ma Howard… lo sospettava, e non mi ha mai detto una sola parola. — La sua voce era amara. — Sua sorella scoprì di averla quando si sposò, ma era okay, perché il suo fidanzato non ce l’aveva. Ma Howard sapeva che visto che sua sorella ce l’aveva, lui stesso aveva il cinquanta per cento di probabilità di essere un portatore… e non me l’ha mai detto. — Guardò per un attimo Pierre, poi abbassò lo sguardo sul pavimento. — Non si dovrebbero tenere segreti con qualcuno che si ama.

Pierre pensò a se stesso e Molly, ma non disse nulla. Ci fu silenzio fra loro per, forse, mezzo minuto.

— Eppure — disse Pierre infine — ci sono delle possibilità. L’amniocentesi può determinare se un feto ha ricevuto due geni della malattia. Se scoprissi che ce li ha, potresti fare un… — Pierre non osò spingersi fino a dire «aborto» a voce alta.

Ma Shari si limitò ad annuire. — Lo so. — Tirò col naso qualche volta. Restò in silenzio per un momento, come se meditasse su cosa dire in seguito. — Ma ho l’endometriosi… un accrescimento irregolare della mucosa uterina; il mio ginecologo mi ha avvertita anni fa che avrei passato dei guai a concepire. Gliel’ho detto a Howard quando abbiamo cominciato a fare sul serio. Voglio davvero, davvero avere bambini, ma è una battaglia persa in partenza, e…

Pierre annuì. E non c’era verso che lei potesse permettersi di portare a termine le gravidanze.

— Mi dispiace tanto, Shari, ma… — Fece una pausa, non sicuro di che altro dire.

Lei lo guardò, con in volto una domanda.

— Potresti adottare — disse Pierre. — Non è tanto male. Io sono stato allevato da qualcuno che non era il mio padre biologico.

Shari si soffiò il naso, ma poi fece una fredda risata. — Tu non sei ebreo. — Era un’affermazione, non una domanda.

Pierre scosse la testa.

Lei espirò rumorosamente, come se fosse intimidita dalla prospettiva di dover tentare di spiegare così tanto. Finalmente, disse: — Sei milioni di ebrei sono stati uccisi durante la Seconda guerra mondiale… inclusi la maggior parte dei parenti dei miei genitori. Fin da ragazzina, sono stata allevata nella convinzione che avrei fatto la mia parte per aiutare a resuscitare il mio popolo. — Distolse lo sguardo. — Tu non capisci.

Pierre restò zitto per un momento. Poi, infine, disse a bassa voce: — Mi dispiace, Shari. — Finalmente, le toccò la spalla. Lei reagì subito, afflosciandosi contro il suo petto, e singhiozzò sommessamente per lungo, lungo tempo.

12

Pierre e Molly erano seduti fianco a fianco sul divano verde e arancione del suo soggiorno, e Pierre le teneva il braccio intorno alle spalle. Erano giunti al punto di passare quasi ogni notte insieme, tanto da lui quanto da lei. Raggi di luce ambrata del sole al tramonto piovevano dentro dalle finestre. Quel giorno Pierre aveva passato l’aspirapolvere, per la seconda volta da quando si era trasferito. La luce del sole a un angolo basso delineava le tracce che il suo Hoover aveva lasciato.

— Pierre — disse Molly, ma poi ricadde in silenzio.

— Hmm?

— Oh, niente. Io… no, niente.

— No, va’ avanti — disse Pierre, alzando le sopracciglia. — Che ti passa in testa?

— La questione — disse Molly, lentamente — è cosa passa a te.

Pierre aggrottò la fronte. — Eh?

Molly sembrò lottare con se stessa per continuare. Poi, tutt’a un tratto, si drizzò a sedere sul divano, prese il braccio di Pierre dalle sue spalle, e se lo poggiò in grembo, intrecciando le dita con le sue. — Facciamo un giochetto. Pensa a una parola… qualunque parola inglese… e io tenterò di indovinarla.

Pierre sorrise. — Proprio qualunque?

— Sì.

— Okay.

— Ora concentrati sulla parola. Con… è «formichiere».

C’est vrai? — disse Pierre, scioccato. — Come ci sei riuscita?

— Tenta ancora — disse Molly.

— Okay… ne ho una.

— Cos’è la pi… pir… imi… dina? È francese?

— Come hai fatto?

— Che significa la parola?

— Pirimidina. È un tipo di base organica. Come hai fatto?

— Proviamo di nuovo.

Pierre sfilò le mani dalle sue. — No. Dimmi come hai fatto.

Molly lo guardò. Erano seduti così vicini che il suo sguardo continuava a spostarsi dall’occhio sinistro di Pierre al destro. Aprì la bocca come per dire qualcosa, la richiuse, poi tentò di nuovo. — Io so… — Chiuse gli occhi. — Dio, e pensavo che fosse difficile dirti quant’ero stupida ad aver preso la gonorrea. Questo non l’ho mai detto a nessuno prima. — Fece una pausa e tirò un profondo respiro. — So leggere nella mente, Pierre.

Pierre inclinò il capo da un lato. La mascella gli pendeva semiaperta. Chiaramente non sapeva che dire.

— È vero — disse Molly. — Ne sono capace da quando avevo tredici anni.

— Okay — disse Pierre, tradendo dal tono che sentiva che era tutto qualche trucco facile da svelare se solo ci avesse riflettuto abbastanza. — Okay, che sto pensando adesso?

— È in francese; non capisco il francese. Vu… le… vu… cu… scè, qualcosa… La parola moi… quella la capisco.

— Qual è il mio numero della Previdenza Sociale canadese?

— Non stai pensando davvero al numero. Non posso leggerlo finché non ci penserai veramente. — Una pausa. — Stai dicendo i numeri in francese. Cinq… è cinque, giusto? Huit… otto. Deux… due. Uhm, lo stai ripetendo fra te; è difficile seguirlo. Pensaci tutto insieme. Cinq huit deux… six un neuf, huit trois neuf.

— Leggere nelle menti è… — Si interruppe.

— «Impossibile» è quello che stavi per dire.

— Ma come…

— Non lo so.

Pierre restò in silenzio per lungo tempo, seduto assolutamente immobile. — Devi essere in contatto fisico con la persona? — disse infine.

— No. Ma devo essere vicina… la persona dev’essere entro quella che chiamo la mia «zona», a non più di un metro di distanza. È stato molto difficile fare degli studi empirici, essendo sia lo sperimentatore che il soggetto sperimentale, e senza rivelare ad altri quel che sto tentando di fare, ma direi che se mi porto due volte più lontano da te, ascolto i tuoi pensieri solo — se «ascoltare» è la parola giusta — con un quarto dell’«intensità», diciamo.

— Hai detto «ascoltare». Non vedi i miei pensieri? Non capti immagini mentali?

— Esatto. Se ti fossi limitato a visualizzare l’immagine di un formichiere, non avrei potuto percepirla. Ma quando ti sei concentrato sulla parola «formichiere», io… be’, «ascoltare» è una parola buona come un’altra… l’ho ascoltata chiaramente come se me l’avessi bisbigliata all’orecchio.

— È… incredibile.

— Hai pensato di dire «stupefacente», ma hai cambiato idea mentre pronunciavi le parole.

Pierre si appoggiò allo schienale del divano, attonito.

— Posso percepire quelli che chiamo «pensieri articolati»… parole che sta usando il tuo cervello — disse Molly. — Non posso percepire immagini. E le emozioni… grazie a Dio, non posso captare le emozioni.

Pierre la stava guardando con un misto fra lo sbalordito e l’affascinato. — Dev’essere ossessionante.

Molly annuì. — Può esserlo. Ma mi sforzo consciamente di non invadere la privacy delle persone. Nella mia vita sono stata chiamata diverse volte «scostante», ed è vero alla lettera. Io «tendo» a scostarmi… a non essere troppo vicina fisicamente alla gente, a tenerla fuori dalla mia zona.

— Leggere nelle menti — disse Pierre di nuovo, come se la ripetizione potesse in qualche modo rendere quell’idea più accettabile. — Incroyable. — Scosse il capo. — Altri membri della tua famiglia hanno questa… quest’abilità?

— No. Una volta interrogai mia sorella Jessica al riguardo, e pensò che fossi pazza. E mia madre… be’, in certe notti mia madre non mi avrebbe mai lasciata uscire se avesse potuto leggermi nella mente.

— Perché tenerlo segreto?

Molly lo guardò per un attimo, come se non riuscisse a credere a quella domanda. — Voglio vivere una vita normale… il più normale possibile, comunque. Non voglio essere studiata, o trasformata in attrazione televisiva, o che, Dio non voglia, mi chiedano di lavorare per la CIA o qualcosa del genere.

— E dici che non l’hai mai raccontato a nessuno prima?

Lei scosse la testa. — Mai.

— Ma lo stai dicendo a me? Lei lo fissò negli occhi. — Sì.

Pierre capì il significato. — Grazie — disse. Le sorrise… ma il sorriso presto svanì, e lui distolse lo sguardo. — Non lo so — disse. — Non so se potrei vivere con l’idea che i miei pensieri non sono più privati.

Molly cambiò posizione, piegando una gamba sotto il proprio corpo e prendendogli l’altra mano. — Ma è proprio così — disse sinceramente. — Non posso leggere nei tuoi pensieri… «perché pensi in francese».

— Davvero? — disse Pierre, sorpreso. — Non sapevo affatto di pensare in qualche lingua. Voglio dire… i pensieri sono, be’, «pensieri».

— La maggior parte del pensiero complesso è articolato — disse Molly. — È formulato in parole. Fidati di me; questo è il mio campo. Tu pensi esclusivamente in francese.

— Così puoi sentire le parole dei miei pensieri, ma non capirle?

— Sì. Cioè, so qualche parola di francese, tutti le sanno. Bonjour, au revoir, oui, non, roba del genere. Ma finché continuerai a pensare in francese, non sarò in grado di leggerti nella mente.

— Non so. È lo stesso un’invasione della privacy.

Molly gli strinse forte le mani. — Guarda, saprai sempre che i tuoi pensieri sono privati quando sei fuori dalla mia zona… a più di un metro circa di distanza.

Pierre stava scuotendo la testa. — È come… mon Dieu, non lo so; come scoprire che in realtà la tua ragazza è Wonder Woman.

Molly rise. — Ha tette molto più grosse delle mie.

Pierre sorrise, poi si chinò a darle un bacio. Ma pochi secondi dopo, si ritrasse. — Sapevi che stavo per farlo?

Lei scosse il capo. — Non proprio. Forse mezzo secondo prima che fosse ovvio.

Pierre si distese di nuovo contro lo schienale. — Questo cambia le cose — disse.

— Non deve, Pierre. Le cambierà solo se lascerai che sia così.

Pierre annuì. — Io…

E Molly udì le parole nella sua mente, le parole che era stata ansiosa di sentire ma che dovevano ancora essere pronunciate a voce alta, le parole che significavano tanto.

Si raggomitolò addosso a Pierre. — Anch’io ti amo — disse.

Pierre la tenne stretta. Pochi momenti dopo, disse: — Quindi, che succederà ora?

— Andremo avanti — disse Molly. — Cercheremo di costruirci un futuro insieme.

Pierre espirò rumorosamente. — Mi dispiace — disse subito Molly, rialzandosi di nuovo a sedere e guardando Pierre. — Sono troppo precipitosa, non è vero?

— No — disse Pierre. — Non è questo. È solo… — Cadde in silenzio, ma poi pensò a ciò che Shari Cohen gli aveva detto quel pomeriggio. «Howard non me l’aveva mai detto. Non si dovrebbero tenere segreti con qualcuno che si ama.» Pierre tirò un profondo respiro, poi lo rilasciò lentamente. — Dannazione — disse infine — questa è la sera delle grandi rivelazioni, non è vero? Non sei precipitosa, Molly. Voglio costruire un futuro con te. Ma, be’, è solo che potrei non avere molto futuro davanti.

Molly lo guardò e sbatté le palpebre. — Scusa? Pierre tenne gli occhi fissi sui suoi, ascoltando la sua reazione. — Potrei avere la corea di Huntington.

Molly ebbe un lieve scatto indietro. — Davvero?

— Sai cos’è?

— Una specie. Un uomo che viveva nella stessa strada della casa di mia madre ce l’aveva. Dio mio, Pierre. Mi dispiace tanto.

Pierre si irrigidì un tantino. Molly, per quanto attonita, ebbe abbastanza presenza di spirito da riconoscere quella reazione. Pierre non voleva pietà. Gli strinse la mano. — Ho visto cos’è successo al signor DeWitt… il vicino di mia madre. Ma non conosco realmente i dettagli. È una malattia ereditaria, giusto? Anche uno dei tuoi genitori deve averla avuta, no?

Pierre annuì. — Mio padre.

— So che provoca spasmi muscolari.

— È più di questo. Causa anche deterioramento mentale.

Molly spostò lo sguardo. — Oh.

— I sintomi possono apparire in ogni momento… a trent’anni, a quaranta, o anche più tardi. Potrei passare ancora vent’anni tranquilli, o potrei cominciare a mostrare i segni domani. O, se sono fortunato, non ho il gene e non prenderò affatto la malattia.

Molly si sentì pizzicare gli occhi. La cosa educata da fare avrebbe potuto essere voltarsi, per non lasciare che Pierre sapesse che stava piangendo… ma non sarebbe stata la cosa onesta. Non era pietà, dopotutto. Lo guardò diritto in faccia, poi si chinò a baciarlo.

Una volta che si fu staccata, ci fu un prolungato silenzio fra loro. Finalmente, Molly alzò una mano per asciugarsi le lacrime, e poi passò gentilmente il dorso della mano sulla guancia di Pierre, che si era inumidita a sua volta. — I miei genitori — disse Molly lentamente — divorziarono quando avevo cinque anni. — Sospirò, come se un antico dolore venisse espulso con l’aria. — Di questi tempi, cinque o dieci begli anni insieme è il massimo che molti si aspettano.

— Tu meriti di più — disse Pierre. — Meriti di meglio.

Molly scosse la testa. — Non ho mai avuto di meglio che questo. Io… non ho mai avuto molto successo con gli uomini. Essendo in grado di leggere i loro pensieri… Ma tu sei diverso.

— Questo non lo sai — disse Pierre. — Potrei essere altrettanto malvagio del resto di loro.

Molly sorrise. — No, non lo sei. Ho visto il modo in cui mi ascolti, quanto ti interessano le mie opinioni. Non sei uno scimmione macho.

Pierre sorrise lievemente. — È la cosa più carina che chiunque mi abbia mai detto.

Molly rise, ma poi tornò seria immediatamente. — Guarda, lo so che può sembrare che io sia poco modesta, ma so di essere graziosa…

— A dire il vero, sei tanto bella da far cadere stecchiti.

— Non sono in cerca di complimenti. Lasciami finire. So di essere graziosa… la gente me lo dice fin da quando ero ragazzina. Mia sorella Jessica ha fatto la modella un sacco di volte; anche mia madre fa ancora voltare le teste a guardarla. Era solita dire che il più grosso problema del suo primo matrimonio era che suo marito si interessava solo al suo aspetto. Papà era un dirigente; aveva voluto una moglie come trofeo… e mamma non si accontentava di essere solo questo. Tu sei il solo uomo che abbia mai conosciuto ad aver guardato oltre la mia apparenza esteriore, fino al mio intimo. Ti piaccio per la mia mente, per… per…

— Per l’essenza del tuo carattere — disse Pierre.

— Cosa?

— Martin Luther King. I premi Nobel sono un mio hobby, e ho sempre avuto un debole per i grandi oratori, anche quando sono in inglese. — Pierre chiuse gli occhi, ricordando. — «Ho fatto un sogno, che un giorno questa nazione si alzerà in piedi e vivrà secondo l’autentico significato del suo credo: che sia di per sé evidente la verità che tutti gli uomini sono creati eguali. Ho fatto un sogno, che i miei quattro bimbi piccoli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per l’essenza del loro carattere. Ho fatto questo sogno oggi.» — Guardò Molly, poi alzò lievemente le spalle. — Forse è perché potrei avere la corea di Huntington, ma tento di guardare oltre i tratti genetici più evidenti, come la bellezza. — Sorrise. — Non che la tua bellezza non mi colpisca.

Molly ricambiò il sorriso. — Ho una domanda. Che significa «joli petit cul»?

Pierre si schiarì la gola. — È, ah, un po’ volgare. «Bel sederino» è una buona approssimazione. Dove l’hai sentito?

— Alla Doe Library, la notte che ci incontrammo. Fu il tuo primo pensiero che captai.

— Oh.

Molly rise. — Non preoccuparti. — Sorrise maliziosa.

— Sono lieta che mi trovi fisicamente attraente, basta che non sia l’«unica» cosa che ti importa.

Pierre sorrise a sua volta. — Non lo è. — Ma poi si fece triste in volto. — Ma ancora non vedo che razza di futuro potremmo avere.

— Neanch’io ne ho idea — disse Molly. — Ma lo scopriremo insieme. Ti amo, Pierre Tardivel. — Lo abbracciò.

— Anch’io ti amo — disse lui, dando finalmente voce a quelle parole.

Ancora abbracciati l’un l’altro, con la testa che riposava sulle spalle di lui, Molly disse: — Penso che dovremmo sposarci.

— Cosa? Molly, ma se ci conosciamo solo da pochi mesi.

— Lo so. Ma ti amo, e tu ami me. E può darsi che non ci resti molto tempo da sprecare.

— Non posso sposarti — disse Pierre.

— Perché no? È perché non sono cattolica?

Pierre rise forte. — No, tesoro, no. — La abbracciò di nuovo. — Dio, quanto ti amo. Ma non posso chiederti di allacciare una relazione con me.

— Non sei tu a chiederlo a me. Sono io a chiederlo a te.

— Ma…

— Ma niente. È da tempo che desidero fare questo passo.

— Ma di sicuro…

— Quest’argomento non funzionerà.

— E che…

— Non mi preoccupo nemmeno di questo.

— Eppure, io…

— Oh, andiamo! Non ci credi tu stesso.

Pierre rise. — Tutte le nostre discussioni dovranno essere così?

— Naturalmente. Non abbiamo tempo da perdere litigando.

Lui restò in silenzio per alcuni istanti, mordendosi il labbro inferiore. — C’è un test — disse infine.

— Qualunque cosa sia, tenterò — disse Molly.

Pierre rise. — No, no, no. Voglio dire, c’è un test per la corea di Huntington. C’è da diverso tempo; hanno scoperto il gene che la provoca nel marzo 1993.

— E non hai fatto questo test?

— No. Io… no.

— Perché no? — Il suo tono era di curiosità, non di rimprovero.

Pierre espirò e guardò il soffitto. — Non c’è cura per la corea di Huntington. Anche se sapessi, non si potrebbe fare nulla per aiutarmi. E… e… — Sospirò. — Non so come spiegarlo. La mia assistente Shari mi ha detto una cosa oggi… ha detto «Tu non sei ebreo», intendendo che c’era qualcosa in lei che non sarei mai riuscito a capire perché non potevo mettermi nei suoi panni. La maggior parte delle persone a rischio della corea di Huntington non hanno fatto il test.

— Perché? È doloroso?

— No. Tutto quel che occorre è una goccia di sangue.

— È costoso?

— No. Diavolo, potrei farlo io stesso, usando l’attrezzatura del mio laboratorio.

— Allora perché?

— Sai chi è Ario Guthrie?

— Certo.

Pierre sollevò le sopracciglia; si era aspettato che mostrasse la stessa ignoranza esibita da lui tanti anni prima. — Be’ — proseguì — suo padre Woody morì di corea di Huntington, ma Ario ancora non ha fatto il test. — Una pausa. — Sai chi è Nancv Wexler?

— No.

— Chiunque abbia la corea di Huntington conosce il suo nome. È la presidentessa dell’Hereditary Disease Foundation, che ha promosso la ricerca del gene responsabile. Come Ario, ha il cinquanta per cento di probabilità di averlo anche lei, sua madre morì della stessa malattia, e nemmeno lei ha mai fatto il test.

— Non capisco perché la gente non lo faccia. Io vorrei sapere.

Pierre sospirò, pensando ancora a quel che gli aveva detto Shari. — È quello che dicono tutti quelli che «non sono» a rischio. Ma non è così semplice. Se uno scoprisse che ha la malattia, perderebbe ogni speranza. È inesorabile. Almeno ora qualche speranza ce l’ho…

Molly annuì lievemente.

— E… e, be’, qualche volta ho problemi a passare la notte, Molly. Ho… contemplato il suicidio. Un sacco di quelli che sono a rischio l’hanno fatto. Ci… sono andato vicino un paio di volte. Ad avermi trattenuto è stata la possibilità che forse non ho la malattia. — Sospirò di nuovo, cercando di decidere che dire in seguito. — Uno studio ha mostrato che il venticinque per cento di quelli che fanno il test e scoprono di avere il gene difettoso tentano davvero il suicidio, e uno su quattro ci riesce. Io… non sono sicuro di poter superare tutte le buie nottate se sapessi per certo di averlo.

— Ma l’altro lato della medaglia è che se scoprissi di non averlo, potresti rilassarti.

— Il paragone è quasi esatto. È «davvero» l’altro lato della medaglia; le probabilità sono esattamente il cinquanta per cento. Ma temo che tu abbia torto a dire che potrei rilassarmi. Ben il dieci per cento di quelli che fanno il test e scoprono di non avere la malattia finiscono ugualmente per sviluppare gravi problemi emotivi.

— Perché mai dovrebbero?

Pierre distolse lo sguardo. — Quelli di noi che sono a rischio basano le proprie vite sul presupposto che potrebbero venir troncate. Spesso lasciamo perdere tutto per questo motivo. Io… prima di te, erano nove anni che non mi mettevo con una donna, e, a essere onesti, non pensavo che l’avrei mai più fatto.

Molly annuì, come se fosse stato finalmente spiegato un mistero. — È per questo che sei così dedito al tuo compito — disse, con gli occhi azzurri spalancati. — Perché lavori così duramente.

Pierre ricambiò il cenno del capo. — Ma quando uno fa dei sacrifici e poi scopre che non erano necessari, il rimpianto può essere troppo da sopportare. Ecco perché anche quelli di noi che scoprono di non avere la malattia finiscono per uccidersi. — Restò zitto per un lungo tempo. — Ma ora… ora che non si tratta solo di me, credo che dovrei fare il test.

Molly tese una mano e gli accarezzò la guancia. — No — disse. — No. Non farlo per me. Se mai vorrai, fallo per te stesso. Dicevo sul serio: voglio sposarti e, se scoprirai di avere la malattia, ce ne preoccuperemo a suo tempo. La mia proposta resta valida anche se non farai nulla.

Pierre sbatté le palpebre. Era sul punto di mettersi a piangere. — Sono così fortunato ad averti trovata.

Lei sorrise. — Provo lo stesso sentimento verso di te.

Si tennero strettamente l’uno all’altra. Quando il loro abbraccio finì, Pierre disse: — Ma non so, forse «dovrei» fare il test comunque. Ho fatto quel che mi avevi chiesto, sai. Mi sono visto con una della Condor Assicurazioni, un paio di settimane fa. Ma non ho potuto stipulare la polizza.

— Ancora non hai copertura sanitaria?

Pierre scosse il capo. — Vedi, ora come ora, mi rifiuterebbero in base alla mia storia familiare. Ma fra due mesi, il giorno di Capodanno, entrerà in vigore una nuova legge della California. Non impedisce alle compagnie assicurative di servirsi di dati sulla storia familiare, ma proibisce l’uso di informazioni genetiche, e quest’ultimo divieto ha la precedenza sul resto. Se faccio il test per la corea di Huntington, dovranno assicurarmi per forza, qualunque siano i risultati; non potranno nemmeno farmi pagare un premio più alto, finché non mostrerò sintomi.

Molly restò in silenzio un momento, per assimilare tutto ciò. — Intendevo davvero quel che ho detto: non voglio che tu faccia il test per me, e, be’, se non puoi assicurarti quaggiù, potremo sempre trasferirci in Canada, no?

— S… suppongo. Ma non voglio lasciare il LBL; trovarmi qui è l’opportunità di tutta una vita.

— Be’, ci sono trenta milioni di americani senza assicurazione sanitaria. Ma in gran parte riescono…

— No. No, una cosa è farti rischiare di sposare qualcuno che potrebbe diventare molto malato; un’altra è chiederti di rischiare in più anche la rovina finanziaria. Dovrei fare il test.

— Se pensi che sia la cosa migliore — disse Molly. — Ma ti sposerò in ogni caso.

— Non dire così adesso. Aspetta finché non avremo i risultati.

— Quanto ci vorrà?

— Be’, di norma un laboratorio richiede mesi di esami psicologici prima di effettuare il test, per accertarsi che uno voglia davvero farlo e sia in grado di affrontare i risultati. Ma…

— Sì?

Pierre si strinse nelle spalle. — Non è un test difficile… non più di ogni altro test genetico. Come ho detto, potrei farlo io stesso nel mio laboratorio al LBL.

— Non voglio che tu ti senta costretto a farlo.

— Non sei tu a costringermi; è la compagnia d’assicurazioni. — Rimase zitto per un po’. — Tutto bene — disse finalmente. — È tempo che io lo scopra.

13

— Spiegami quel che farai — disse Molly, seduta su uno sgabello nel laboratorio di Pierre. Erano le dieci di mattina di un sabato. — Voglio capire esattamente che sta succedendo.

Pierre annuì. — Okay — disse. — Giovedì, ho estratto campioni del mio DNA da una goccia del mio sangue. Ne ho separato le mie due copie del cromosoma quattro, ho tagliato via particolari segmenti usando speciali enzimi, e mi sono messo a ricavare immagini radioattive di questi segmenti. Ci vuole un po’ per sviluppare queste immagini, ma dovrebbero essere pronte ora, così potremo controllare direttamente cosa dice il mio codice genetico nel gene specificamente associato alla corea di Huntington. Questo gene contiene un’area chiamata IT15 («interessante trascrizione numero quindici»), un nome datole tempo fa, quando ancora la gente non sapeva a che servisse.

— E se hai la IT15, hai la corea di Huntington?

— Non è così semplice. Chiunque ha la IT15. Come tutti i geni, il compito della IT15 è quello di codificare la sintesi di una molecola proteica. La proteina che fa la IT15 è stata recentemente denominata «huntingtina».

— Allora, se chiunque ha la IT15 — disse Molly — e qualunque corpo produce huntingtina, cosa determina se hai o meno la malattia?

— Le persone con la corea di Huntington hanno una forma mutante di IT15, che causa una produzione eccessiva di huntingtina. L’huntingtina ha un ruolo cruciale nell’organizzare il sistema nervoso nelle primissime settimane di sviluppo di un embrione. A un certo punto dovrebbe cessare di essere prodotta, ma nei portatori di corea di Huntington non è così, e ciò causa danni al cervello. Sia nella versione normale, sia in quella mutante della IT15, c’è una fila di triplette di nucleotidi che si ripetono: citosina-adenina-guanina, o CAG, che si ripetono più e più volte. Bene, nel codice genetico, ogni tripletta innesca la produzione di uno specifico amminoacido, e gli amminoacidi sono i mattoni che costituiscono le proteine. Incidentalmente, capita che CAG sia uno dei codici per produrre un amminoacido chiamato glutammina. Negli individui sani, la IT15 contiene fra undici e trentotto ripetizioni di questa tripletta CAG. Ma quelli con la corea di Huntington hanno fra quarantadue e un centinaio o giù di lì di triplette CAG.

— Okay — disse Molly — quindi guardiamo ognuno dei tuoi cromosomi quattro, troviamo l’inizio della fila di triplette CAG, poi ci limitiamo a contare il numero di ripetizioni di quella tripletta. Giusto?

— Giusto.

— Sei sicuro di voler procedere? Pierre annuì. — Sono sicuro.

— Allora facciamolo.

E lo fecero. Fu un lavoro meticoloso, quello di esaminare attentamente la pellicola dell’autoradiografia. Linee quasi impercettibili rappresentavano ogni nucleotide. Pierre usò un pennarello per scrivere le lettere sotto ogni tripletta: CAG, CAG… Molly, nel frattempo, segnava il numero di ripetizioni su un foglio di carta.

Senza campioni di sangue di Elisabeth Tardivel e Henry Spade, non c’era modo di dire quale dei suoi cromosomi quattro fosse venuto da suo padre, quindi doveva controllarli entrambi. Sul primo, la sfilza di triplette CAG finì dopo diciassette ripetizioni.

Pierre si abbandonò a un sospiro di sollievo. — Ci resta l’altro — disse.

Cominciò a controllare la sequenza sul secondo cromosoma. Nessuna reazione quando il conteggio arrivò a undici; era il minimo normale. Quando giunsero a venticinque, comunque, Pierre si ritrovò con la mano tremante.

Molly gli toccò il braccio. — Non preoccuparti — disse. — Hai detto che potresti averne fino a trentotto ed essere ancora normale.

Pierre annuì. — Ma quello che non ho detto è che il settanta per cento delle persone normali hanno ventiquattro ripetizioni o meno.

Molly si morse il labbro inferiore. Pierre continuò la sequenza. Ventisei, ventisette, ventotto.

La vista gli si andava offuscando. Trentacinque. Trentasei. Trentasette. Trentotto. Dannazione. Stradannazione.

«Trentanove.» Stramaledetto Dio.

— Eppure — disse Molly, tentando di darsi un tono coraggioso — trentotto può essere il limite normale, ma ne devi avere almeno quarantadue…

Quaranta. Quarantuno. Quarantadue.

— Mi dispiace, tesoro — disse Molly. — Mi spiace tanto.

Pierre mise giù il pennarello. Il suo intero corpo era scosso da tremiti.

— Dio, quanto mi dispiace — disse Molly.

Il cinquanta per cento di probabilità. Come lanciare una moneta. Testa o croce.

Pierre non disse nulla. Il cuore gli batteva furiosamente.

— Andiamo a casa — disse Molly, accarezzandogli il dorso della mano.

— No — disse Pierre. — Non ancora.

— Non rimane più nulla da fare qui.

— C’è ancora qualcosa. Voglio finire la sequenza. Voglio sapere quante ripetizioni ho.

— Che differenza fa?

— «Fa differenza» — disse Pierre, con voce tremante. — Fa tutta la differenza del mondo.

Molly apparve perplessa.

— Non ti ho detto tutto. Merde. Merde. Merde. Non ti ho detto tutto.

— Cosa?

— C’è una correlazione inversa fra il numero di ripetizioni e l’età in cui si sviluppa la malattia.

Molly non sembrò capire, o non voleva. — Cosa? — disse di nuovo.

— Più ripetizioni ci sono, e più presto è probabile che appaiano i sintomi. Alcuni pazienti prendono la malattia da piccoli; altri non la prendono fino a ottant’anni. Io… devo finire la sequenza; devo sapere quante ripetizioni ho.

Molly lo guardò. Non c’era nulla da dire.

Pierre si sfregò gli occhi, si soffiò il naso, e si chinò di nuovo sulla pellicola dell’autoradiografia. Il conteggio continuò a crescere. Quarantacinque. Cinquanta. Cinquantacinque. Sessanta.

Il tempo continuò a passare. Pierre si sentì svenire, ma incalzò, segnando una lettera dopo l’altra sulla pellicola: CAG, CAG, CAG…

Molly si alzò e attraversò la stanza. Trovò una confezione di Kimwipe… fazzoletti costosi, di qualità da laboratorio. Li usò per asciugarsi gli occhi. Cercò di nascondere a Pierre che stava piangendo.

Finalmente, Pierre trovò un codone che non era CAG. Conteggio totale: settantanove ripetizioni.

Per un po’ tra loro ci fu silenzio. Da qualche parte in lontananza, una sirena dei vigili del fuoco stava ululando.

— Quanto tempo? — chiese Molly infine.

— Settantanove è un numero molto alto — disse Pierre a bassa voce. — Molto alto. — Inspirò aria, pensando.

— Ho trentadue anni ora. La correlazione è imprecisa. Non posso essere sicuro. Ma… non so, credo di dovermi aspettare di vedere i sintomi molto presto. Certamente quando ne avrò trentacinque o trentasei.

— Be’, allora, tu…

Lui alzò una mano. — La malattia può impiegare anni o decenni per fare il suo corso. I primi sintomi potrebbero essere solo disturbi di coordinazione, o tic facciali. Potrebbero volerci degli anni prima che le cose si facciano serie. Oppure…

— Oppure?

Pierre scrollò le spalle. — Be’ — disse, con voce triste — credo che sia tutto.

Molly tese la mano verso la sua, ma Pierre la ritrasse.

— Ti prego — disse lui. — È finita.

— Cos’è finita? — disse Molly.

— Per favore. Non rendiamo le cose difficili.

— Ti amo — disse Molly sottovoce.

— Per favore, non…

— E so che tu ami me.

— Molly, sto morendo.

Molly tornò verso di lui, mettendogli il braccio intorno al collo, e poggiandogli il capo sul torace. I pensieri di Pierre erano tutti in francese.

— Voglio ancora sposarti — disse Molly.

— Molly, io voglio solo quel che è meglio per te. Non voglio essere un fardello per te.

Molly lo strinse di più. — Voglio sposarti, e voglio avere un bambino.

— No — disse Pierre. — No, non posso diventare padre. Il numero di ripetizioni della CAG tende a incrementare di generazione in generazione… è un fenomeno chiamato «anticipazione». Io ne ho settantanove; un figlio che prendesse il gene da me ne avrebbe molto probabilmente ancora di più… il che significa che potrebbe sviluppare la malattia nell’adolescenza, o ancora prima.

— Ma…

— Niente ma. Mi dispiace; è stato pazzesco. Non potrà mai funzionare. — Vide l’espressione di Molly, vide il dolore, sentì il proprio cuore spezzarsi. — Ti prego, non rendere le cose più dure per tutti e due. Vai a casa, vuoi? È finita.

— Pierre…

— È finita. «Ho già sprecato troppo tempo per questo.»

Poté vedere che quelle parole l’avevano ferita. Molly si diresse verso la porta del laboratorio, ma si voltò a guardarlo un’ultima volta. Non lo fissò negli occhi.

Lei lasciò la stanza. Pierre si mise a sedere su uno sgabello, con le mani ancora tremanti.

14

Pierre chiamò Tiffany Feng e le disse di procedere con la sua polizza sanitaria a partire dal secondo giorno dell’anno nuovo. La Condor avrebbe potuto contestare quel test informale se il risultato fosse stato negativo, ma non c’era nessun vantaggio concepibile a mentire sul fatto di avere la corea di Huntington. Tiffany disse che la dichiarazione di Pierre su carta intestata dell’Human Genome Center, autenticata dall’archivista del campus, sarebbe stata accettabile come prova che il test era stato realmente condotto.

Pierre tornò a trascorrere le serate alla Doe Library. Periodicamente alzava lo sguardo, si guardava intorno, in cerca di un volto familiare.

Lei non comparve mai.

Passava ogni sera a leggere, cercando nella letteratura scientifica informazioni sul DNA intronico, ora più che mai sapeva di essere in corsa contro il tempo. Aveva già sette anni in più di James D. Watson quando aveva fatto la sua grande scoperta e solo due meno di quando Watson aveva ricevuto il Premio Nobel.

Un orologio a muro sopra la sedia di Pierre stava ticchettando disturbandolo. Lui si alzò e si spostò a un altro tavolo.

Aveva cominciato dal materiale più recente e stava retrocedendo verso i numeri arretrati. Un riferimento nell’indice di una rivista catturò il suo sguardo. «Un tipo diverso di trasmissione ereditaria».

Diversa trasmissione ereditaria… Poteva essere?

Chiese a Pablo di ripescare lo «Scientific American» del giugno 1989. E lì trovò esattamente quel che stava cercando. Un livello del tutto diverso di informazione potenzialmente codificato nel DNA, e uno schema plausibile per ereditare in modo affidabile quell’informazione da una generazione all’altra.

Il codice genetico consiste di quattro lettere: A, C, G, e T. La C sta per citosina, e la formula chimica della citosina è C4H5N3O… quattro atomi di carbonio, cinque di idrogeno, tre di azoto e uno di ossigeno.

Ma non tutta la citosina è la stessa. Si sapeva da lungo tempo che a volte uno di quei cinque atomi d’idrogeno può essere rimpiazzato da un gruppo metilico, CH3: un atomo di carbonio legato a tre di idrogeno. Il processo è chiamato, abbastanza logicamente, metilazione della citosina.

Così, quando uno scriveva una formula genetica — diciamo, la CAG che si ripeteva di continuo nei geni malati di Pierre — la C poteva essere sia la citosina regolare che sotto forma metilata, chiamata 5-metilcitosina. I genetisti non avevano mai badato a quale fosse; entrambe le forme finivano per sintetizzare esattamente le stesse proteine.

Ma quell’articolo su «Scientific American», di Robin Holliday, descriveva una scoperta intrigante: quasi sempre, quando la citosina subisce la mediazione, la base successiva alla citosina sul filamento di DNA è la guanina: una coppia CG.

Ma la presenza di C e G fianco a fianco su un filamento della doppia elica del DNA significava che sul filamento opposto dovevano trovarsi G e C. Dopotutto, la citosina si lega sempre alla guanina, e la guanina alla citosina.

Nell’articolo, Holliday proponeva un ipotetico enzima che chiamava «metilase di mantenimento». Avrebbe legato a un gruppo metilico una citosina che era adiacente a una guanina solo se la coppia corrispondente sull’altro lato fosse stata già metilata.

Era tutto ipotetico. La metilase di mantenimento poteva non esistere. Ma se fosse esistita…

Pierre guardò l’orologio; era quasi l’ora di chiusura. Fotocopiò l’articolo, restituì la rivista a Pablo, e se ne andò a casa.

Quella notte sognò Stoccolma.

— Buongiorno, Shari — disse Pierre, al suo ingresso nel laboratorio.

Shari era vestita con una camicetta beige sotto un abito in due pezzi. Si era tagliata di recente i lunghi capelli scuri. Come Pierre, Shari si stava tuffando nel lavoro, tentando di superare la perdita di Howard.

— Cos’è questo? — disse lei, reggendo un’autoradiografia che aveva trovato mentre faceva le pulizie. Il laboratorio sarebbe diventato un porcile se non fosse stato per i periodici tentativi di Shari di rimettere ordine.

Pierre guardò quel pezzo di pellicola. Tentò di sembrare indifferente. — Nulla. Solo spazzatura.

— Chiunque possieda questo DNA ha la corea di Huntington — disse Shari, prosaica.

— È solo un vecchio esame.

— È tuo, non è vero? — chiese Shari.

Pierre pensò di continuare a mentire, ma poi scrollò le spalle. — Credevo di averlo gettato via.

— Mi dispiace, Pierre. Mi spiace tanto.

— Non dirlo a nessuno.

— No, certo che no. Da quanto tempo lo sai?

— Poche settimane.

— Come l’ha presa Molly?

— Noi… abbiamo rotto.

Shari mise la pellicola in un cestino dei rifiuti. — Oh.

Si guardarono a vicenda per un attimo. La mente di Pietre fece ciò che supponeva che ogni maschio facesse in momenti come quelli. Pensò per un istante a lui e a Shari, alle possibilità che avevano. Entrambi erano portatori di geni malati. Lui aveva trentadue anni e lei ventisei, non una differenza scandalosa. Ma… ma c’erano altri abissi fra loro. E lui non le vide in faccia nessuna indicazione, nessun suggerimento, nessun accenno. Quel pensiero non le era passato per la testa.

Certi abissi non sono facili da attraversare.

— Non parliamo di questo — disse Pierre. — Io… ho da fare qualche ricerca che vorrei dividere con te. C’è qualcosa che ho trovato in biblioteca la notte scorsa.

Dall’espressione di Shari, sembrò che volesse approfondire oltre il soggetto della corea di Huntington, ma poi lei annuì e prese posto su uno sgabello.

Pierre le disse dell’articolo di «Scientific American», delle due forme di citosina, quella regolare e la variante della 5-metilcitosina; e dell’ipotetico enzima che avrebbe potuto tramutare la precedente nella successiva, ma l’avrebbe fatto solo se la citosina nella coppia CG dal lato opposto della doppia elica fosse già stata metilata.

— In via ipotetica — disse Shari, rimarcando le parole. — Se questo enzima esiste.

— Giusto, giusto — disse Pierre. — Ma supponiamo di sì. Che succede quando il DNA si riproduce? Be’, naturalmente, la doppia elica si apre nel mezzo, formando due filamenti. Un filamento contiene tutti i componenti di sinistra delle coppie di basi, magari qualcosa del genere… — Scrisse sulla lavagna che copriva gran parte di un muro:

Lato sinistro: T-C-A-C-G-T

— Vedi questa coppia CG? Okay, diciamo che la sua citosina è metilata. — Ripassò due volte il gesso, per evidenziare:

Lato sinistro: T-C-A-C-G-T

— Ora, nella riproduzione del DNA, i nucleotidi che vagano liberi vengono fissati nei punti appropriati su ciascun filamento, il che significa che il lato destro di questo finirà per sembrare così… — Il suo gesso volò attraverso la lavagna, scrivendo nella sequenza complementare:

Lato sinistro: T-C-A-C-G-T

Lato destro: A-G-T-G-C-A

— Vedi? Direttamente opposta alla coppia sinistra CG c’è il coppia destra GC. — Fece una pausa, in attesa che Shari gli facesse cenno col capo di aver capito. — Ora la metilase di mantenimento interviene e vede che non c’è parità tra i due lati della doppia elica, così aggiunge un gruppo metilico alla parte destra. — Passò a evidenziare anche il paio GC:

Lato sinistro: T-C-A-C-G-T

Lato destro: A-G-T-G-C-A

— Al tempo stesso, l’altra metà del filamento originale sta venendo riempita di nucleotidi liberi. Ma la metilase di mantenimento farebbe esattamente la stessa cosa con questa, duplicando la metilazione della citosina su entrambi i lati, se in origine era presente da una parte sola. Pierre batté le mani insieme per scuoter via la polvere di gesso. — Voilà! Postulando quell’unico enzima, si finisce con un meccanismo per preservare lo stato di metilazione della citosina da una generazione di cellule all’altra.

— E?

— E pensa al nostro lavoro sui codoni sinonimi. — Fece un gesto verso il poster alla parete intitolato IL CODICE GENETICO.

— Sì?

— È possibile che ci sia un livello aggiuntivo di codificazione nascosto nel DNA, se la scelta del sinonimo usato è significativa. Ora, abbiamo un secondo, possibile tipo di codificazione supplementare nel DNA: il codice che dipende dalla metilazione o no della citosina. Sono pronto a scommettere che uno di questi codici supplementari, o entrambi, è la chiave per giungere al vero significato del cosiddetto DNA intronico.

— Quindi che facciamo adesso? — chiese Shari.

— Be’, come si dice che abbia detto Einstein «Dio è sottile, ma non è malizioso.» — Sorrise a Shari. — Non importa quanto siano complessi i codici, dovremmo essere in grado di decifrarli.

Pierre andò a casa. Il suo appartamento sembrava troppo grande. Si sedette sul divano del soggiorno, tirando oziosamente un filo arancione scucito da uno dei cuscini.

Stavano facendo progressi, lui e Shari. Si stavano avvicinando a una scoperta. Di questo si sentiva sicuro.

Ma non era emozionato. Non era eccitato.

«Dio, che idiota che sono.»

Cominciò a prepararsi per andare a letto, gettando calze e biancheria sul pavimento del soggiorno: non c’era più alcuna ragione per non farlo.

Aveva riletto Camus di nuovo. La sua ponderosa copia delle Opere complete stava rovesciata su uno dei cuscini verdi e arancioni del divano. Camus, che aveva ottenuto il Nobel per la letteratura nel ’57; Camus, che commentava l’assurdità della condizione umana. «Non voglio essere un genio» aveva detto. «Ho già abbastanza problemi nel cercare di essere un uomo.»

Pierre si sedette di nuovo sul divano e sospirò nelle tenebre. L’assurdità della condizione umana. L’assurdità di tutto quanto. L’assurdità di essere un uomo.

Gli passò per la mente anche Bertrand Russell… un Premio Nobel del 1950. «Temere l’amore» aveva affermato «è temere la vita… e quelli che temono la vita sono già morti per tre quarti.»

Morti per tre quarti… lo stesso poteva dirsi per un sofferente di corea di Huntington a trentadue anni.

Pierre si infilò nel letto, giacendo in posizione fetale.

Faticò a dormire… ma quando ci riuscì, non sognò Stoccolma, bensì Molly.

15

— Non posso lasciarti ridare l’esame — disse Molly allo studente seduto di fronte a lei — ma se intraprenderai un altro progetto di ricerca, posso darti fino a dieci punti extra. Se prendi otto o più, passerai… giusto per un pelo. Sta a te la scelta.

Lo studente stava guardando le sue mani, che riposavano in grembo. — Farò il progetto. Grazie, professoressa Bond.

— Così va bene, Alex. Tutti meritano una seconda possibilità.

Lo studente si alzò in piedi e lasciò l’angusto e ingombro ufficio. Pierre, che era rimasto appena fuori della porta in attesa che Molly restasse sola, avanzò fin sulla soglia, reggendo una dozzina di rose rosse di fronte a sé.

— Sono così dispiaciuto — disse.

Molly alzò lo sguardo, con gli occhi spalancati.

— Mi sento un verme completo.

Molly non disse niente.

— Posso entrare? — disse lui. Lei annuì, ma ancora non parlò.

Pierre si fece avanti e chiuse la porta dietro di sé. — Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata — disse — e io… sono un idiota.

Ci fu silenzio per un po’. — Bei fiori — disse Molly infine.

Pierre la guardò, come se cercasse di leggerle i pensieri negli occhi. — Se vuoi ancora avermi come marito, ne sarei onorato.

Molly restò zitta per un po’. — Io voglio avere un bambino.

Pierre aveva pensato molto a quella questione. — Lo capisco. Se vorrai adottare un bimbo, sarò lieto di aiutarti ad allevarlo finché ne sarò capace.

— Adottarlo? Io… no, voglio avere un figlio mio. Voglio ricorrere alla fertilizzazione in vitro.

— Oh — disse Pierre.

— Non preoccuparti di trasmettere cattivi geni — disse Molly. — Stavo leggendo un articolo su questo su «Cosmo». Potrebbero far sviluppare gli embrioni fuori dal mio corpo, poi testarli per sapere se hanno ereditato la corea di Huntington. Allora potrebbero impiantarmi solo quelli sani.

Pierre era cattolico, anche se non più praticante; l’idea stessa di una procedura simile lo lasciava ancora a disagio… gettar via embrioni viventi perché non erano geneticamente all’altezza. Ma non era quella la sua maggiore obiezione. — Ero serio su quanto ho detto prima. Penso che un figlio dovrebbe avere sia una madre che un padre, anche se probabilmente non vivrò abbastanza da vederlo crescere. — Fece una pausa. — Non posso, in tutta coscienza, dar vita a una nuova creatura sapendo che non ci sarò per seguirla durante l’infanzia — disse. — L’adozione è un caso speciale, miglioreremo comunque la vita del bambino, anche se non avrà sempre un padre.

— Lo farò comunque — disse Molly con fermezza. — Avrò un bambino mio. Ricorrerò alla fertilizzazione in vitro.

Pierre sentì tutto quanto scivolargli via. — Non posso essere io il donatore di sperma. Io… mi dispiace. Proprio non posso.

Molly restò seduta senza dire niente. Pierre si sentì arrabbiato con se stesso. Quella avrebbe dovuto essere una riappacificazione, dannazione. Come aveva fatto a prendere la piega sbagliata?

Finalmente, Molly parlò. — Potresti giungere ad amare un bambino che non sia biologicamente tuo?

Pierre aveva già considerato questo, contemplando la possibilità dell’adozione. — Oui.

— Avrò un bambino comunque, anche senza un marito — disse Molly. — Milioni di bambini sono cresciuti senza padri; per gran parte della mia infanzia, io stessa non ne ho avuto uno.

Pierre annuì. — Lo so.

Molly aggrottò la fronte. — E vuoi ugualmente sposarmi, anche se cercherò di avere un figlio usando sperma donato?

Pierre annuì di nuovo, non fidandosi della sua voce in quel momento.

— E potresti giungere ad amare un bambino simile?

Era stato preparato ad amare un bimbo adottivo. Perché quello gli sembrava tanto differente? Eppure… eppure…

— Sì — disse infine Pierre. — Dopotutto, il bambino sarebbe ancora in parte tuo. — La fissò negli occhi blu. — E io ti amo tutta quanta. — Attese mentre il suo cuore batteva qualche altra volta. — Così — disse, infine — acconsentirai a essere la signora Tardivel?

Lei si guardò in grembo e scosse il capo. — No, questo non posso farlo. — Ma quando rialzò il viso, stava sorridendo. — Ma voglio essere la signora Bond, fra parentesi moglie del signor Tardivel.

— Allora mi sposerai?

Molly si alzò e camminò verso di lui. Gli gettò le braccia al collo. — Oui — disse.

Si baciarono per qualche secondo, ma quando distaccarono le labbra, Pierre disse: — C’è una condizione. In qualunque momento, «qualunque», se sentirai che la mia malattia è troppo da sopportare per te, o vedrai un’opportunità di essere felice che durerà per il resto della tua vita, piuttosto che per il resto della mia, allora voglio che mi lasci.

Molly restò in silenzio, la mandibola lievemente rilasciata.

— Prometti — disse Pierre.

— Lo prometto — disse lei infine.

Quella sera, Pierre e Molly fecero quel che avevano fatto spesso prima di rompere: uscirono per gironzolare. Si erano fermati in un caffè sulla Telegraph Avenue per un leggero spuntino, e ora si limitavano a bighellonare insieme. Come molte giovani coppie, stavano ancora tentando di conoscersi. In una lunga passeggiata, avevano parlato delle loro prime esperienze sessuali; in un’altra, dei rapporti coi loro genitori; in altre ancora, del controllo sulle armi e di questioni ambientali. Sere di conversazioni stimolanti, in cui ognuno aveva delineato meglio l’immagine dell’altro.

E quella sera, la più grande questione di tutte emerse mentre camminavano, godendosi il tepore dell’aria. — Tu credi in Dio? — chiese Molly.

Pierre abbassò lo sguardo sul marciapiede. — Non lo so.

— Oh? — disse Molly, chiaramente interessata.

Pierre sembrò un tantino a disagio. — Be’, voglio dire che è arduo continuare a credere in Dio quando succede qualcosa del genere. Lo sai, la mia corea di Huntington. Non intendo dire che ho iniziato a dubitare della mia fede il mese scorso, quando finalmente abbiamo fatto il test. Ho iniziato fin da quando incontrai, per la prima volta, il mio vero padre. — Pierre le aveva spiegato tutto sulla scoperta della sua paternità in un’altra lunga passeggiata.

Molly annuì. — Ma credevi in Dio prima di scoprire che potevi ammalarti?

Pierre annuì mentre proseguivano. — Immagino di sì. Come la maggior parte dei franco-canadesi, sono stato allevato nel cattolicesimo. Di questi tempi vado a messa solo a Pasqua e a Natale, ma quando vivevo a Montreal, ci andavo ogni domenica. Cantavo anche nel coro della chiesa.

Molly trasalì; aveva udito Pierre cantare. — Ma adesso è difficile per te crederci — disse — perché un Dio benevolo non avrebbe potuto farti una cosa simile.

Erano giunti alla panchina di un parco. Molly accennò a sedersi, e così fecero. Pierre le cinse le spalle con un braccio. — Qualcosa del genere — disse.

Molly toccò il braccio di Pierre e sembrò esitare per un attimo prima di replicare. — Perdonami se dico questo, non vorrei apparire polemica, ma, be’, trovo sempre questo tipo di ragionamento un po’ superficiale. — Alzò una mano. — Mi dispiace; non intendo sembrare critica. È solo che… che quanto sia duro il nostro mondo è evidente a chiunque si guardi in giro. Gente che muore di fame in Africa, povertà in Sudamerica, sparatorie per strada qui negli States. Terremoti, uragani, guerre, malattie. — Scosse la testa. — A me, e sto parlando solo per me, sembra sempre strano che uno possa andare avanti senza porsi dubbi sulla propria fede finché non gli accade qualcosa personalmente. Capisci cosa sto dicendo? Un milione di persone crepano in Etiopia, e diciamo che è un peccato. Ma quando a noi, o qualcuno che noi conosciamo, viene il cancro o un attacco di cuore, o la corea di Huntington o qualunque altra cosa, diciamo: «Ehi, allora non c’è Dio». — Sorrise. — Mi dispiace… devo averti seccato. Perdonami.

Pierre annuì lentamente. — No, hai ragione. È sciocco metterla in questo modo. — Una pausa. — E tu? Ci credi in Dio?

Molly alzò le spalle. — Be’, io sono cresciuta nel credo Unitario, qualche volta vado ancora a una funzione a San Francisco. Non credo in un Dio personale, ma forse in un creatore. Sono quella che chiamano un’evoluzionista teista.

Qu’est-ce que c’est?

— Vuol dire qualcuno che crede che Dio abbia programmato in anticipo la direzione generale che avrebbe preso la vita, il cammino da seguire per l’universo… ma, dopo aver messo tutto quanto in moto, si accontenti di limitarsi a osservare la situazione, lasciandola crescere e svilupparsi da sola, seguendo la rotta da lui tracciata.

Pierre le sorrise. — Be’, la rotta che abbiamo tracciato noi ci riporta al mio appartamento… e si sta facendo tardi.

Lei ricambiò il sorriso. — Non troppo tardi per conoscermi in senso biblico, spero.

Pierre si alzò, offrì la mano a Molly, e aiutò ad alzarsi anche lei. — Già, davvero.

16

Fu una piccola cerimonia tranquilla. In origine Pierre aveva pensato di sposarsi nella cappella dell’Università, ma risultò che non svolgeva servizi del genere, correttezza politica californiana. Invece, finirono per celebrarla nel soggiorno di una collega di Molly, la professoressa Ingrid Lagerkvist, col cappellano della Chiesa Unitaria che conduceva la funzione.

Ingrid, una rossa di trentaquattro anni con gli occhi dell’azzurro più pallido che Pierre avesse mai visto, fungeva da damigella d’onore di Molly. Di norma Ingrid era abbastanza snella, ma adesso era incinta di cinque mesi. Pierre, che era in California da meno di un anno, aveva scelto come suo testimone il marito di Ingrid, Sven, un pezzo d’uomo simile a un orso con lunghi capelli castani, un’enorme barba rossastra, e occhiali alla Ben Franklin. Erano presenti anche la madre di Pierre, Elisabeth, che era volata laggiù da Montreal; l’effervescente Joan Dawson e l’austero Burian Klimus, provenienti dagli uffici dell’Human Genome Center, Shari Cohen mantenne un’espressione triste per tutto il corso della cerimonia; forse, si disse Pierre, era stato un errore chiederle di presenziare a un matrimonio appena tre mesi dopo aver rotto il fidanzamento. Erano assenti tutti i membri della famiglia di Molly; lei non aveva detto nemmeno a sua madre che stava per sposarsi.

Molly e Pierre avevano discusso un po’ su quali voti dovessero scambiarsi. Pierre rifiutava di far giurare a Molly di restargli fedele «in salute e in malattia», ribadendo che doveva sentirsi libera di andarsene se lui fosse caduto ammalato. E così…

— Vuoi tu, Pierre Jacques — chiese l’Unitario dai capelli bianchi, che indossava un abito secolare in tre pezzi con un garofano rosso sul risvolto della giacca — prendere in moglie Mary Louise, accudirla e onorarla, amarla e proteggerla, rispettarla e aiutarla a sviluppare tutte le sue potenzialità finché la porterai nel cuore?

— Lo voglio — disse Pierre, e poi, sorridendo a sua madre, aggiunse: — Oui.

— E vuoi tu, Molly Louise, prendere Pierre Jacques come marito, accudirlo e onorarlo, amarlo e proteggerlo, rispettarlo e aiutarlo a sviluppare tutte le sue potenzialità finché lo porterai nel cuore?

— Lo voglio — disse lei, fissando Pierre negli occhi.

— Per l’autorità di cui sono investito dallo stato della California, ho il grande orgoglio e piacere di proclamarvi una coppia sposata. Pierre e Molly, potete…

Ma lo stavano già facendo. E fu anche un bacio lungo e appassionato.

La loro luna di miele, cinque giorni nella Columbia Britannica, era stata meravigliosa. Ma presto furono di nuovo al lavoro, e Pierre continuò come al solito a passare lunghe ore in laboratorio. Avevano abbandonato i loro appartamenti separati, e si erano comprati una casa di sei stanze in Spruce Street con muri di stucco bianco, accanto a un bungalow fatto in stucco rosa. Gli ultimi soldi di ciò che restava a Pierre dell’assicurazione sulla vita di Alain Tardivel coprirono la caparra. Pierre fu deliziato di avere un giardino, e in quel clima le piante crescevano che era uno spettacolo, per quanto le lumache giganti gli facessero venire i brividi.

Quella calda sera di giugno, Pierre era in sala da pranzo seduto al tavolo su cui erano sparpagliati piccoli contenitori di specialità cinesi. Tempo prima Tiffany Feng gli aveva inviato una copia dettagliata della sua polizza Piano Oro, ma fra il matrimonio, la nuova casa e il suo lavoro, stava cominciando solo allora a darle un’occhiata. Molly, già sazia, era seduta su un divano nell’adiacente soggiorno, spulciando «Newsweek».

— Ehi, senti questa! — disse Pierre, parlando abbastanza forte da farsi udire nella stanza accanto. — Sotto «Benefici standard» dice: «Nel caso in cui l’amniocentesi o altri esami prenatali forniscano indicazioni che un bambino richiederà intensivi trattamenti medici neonatali, o in stadi successivi della vita, la Condor Insurance, Inc., pagherà tutti i costi della interruzione di gravidanza presso un ospedale o una clinica per aborti con licenza governativa».

Molly alzò lo sguardo. — È un comune beneficio standard; c’è anche nella polizza di gruppo dello staff universitario.

— Non sembra giusto, comunque.

— Perché no?

Pierre si accigliò. — È solo che… non lo so… sembra una forma di selezione eugenica forzata. Se il bambino non è perfetto, lo si può abortire gratis. Ma ascolta un’altra clausola, è questa che mi urta veramente: «Benché le nostre garanzie comportino di solito anche le coperture sanitarie per i neonati, se l’amniocentesi, esami genetici, o altri test prenatali forniranno indicazioni che un nascituro manifesterà sintomi di una tara genetica, e la madre non si avvantaggerà del beneficio di cui alla sezione 22, paragrafo 6» — è dove parla dell’aborto-gratis-dei-bimbi-difettosi — «la copertura sanitaria neonatale sarà ritirata». Vedi che significa? Se «non» cogli l’offerta di un aborto gratis una volta diventato chiaro che avrai un bambino men-che-perfetto, e invece vai avanti e dai il bimbo alla luce, la tua copertura assicurativa per i suoi bisogni è cancellata. La compagnia d’assicurazioni fornisce un enorme incentivo economico a interrompere tutte le gravidanze non a regola d’arte.

— Suppongo — disse Molly lentamente. Si era alzata e adesso era in piedi sulla soglia della sala da pranzo, appoggiata al muro. — Eppure, non ho letto di un caso esattamente opposto? Una coppia, entrambi geneticamente sordi, ha scelto di abortire il figlio perché i test prenatali mostravano che «non» sarebbe diventato sordo a sua volta, e così ritenevano che non sarebbero stati in grado di comunicare con lui. Questo genere di cose funziona in entrambi i sensi.

— Quel caso era diverso — disse Pierre. — Non sono sicuro di concordare con la moralità di tutto ciò — abortire un figlio normale semplicemente perché era normale — ma almeno sono stati i genitori a decidere di propria volontà, senza coercizioni dall’esterno. Ma questo… — Scosse il capo. Bisogna terminare la gravidanza, o si perde l’assicurazione; bisogna fare il test, o si perde l’assicurazione. — Scosse di nuovo il capo. — È una stronzata.

Sollevò il contenitore di chop suey, ci guardò dentro, ma la rimise giù senza toccarlo. Gli era passato l’appetito.

17

Toccava a Molly preparare la cena. Di solito Pierre tentava di aiutarla, ma presto aveva imparato che era più facile per lei se si fosse limitato a starsene fuori dai piedi. Stava facendo gli spaghetti quella sera, circa dieci minuti di lavoro quando ci pensava Pierre, dato che si accontentava di ragù pronto, come condimento, e di formaggio Kraft. Ma per Molly fu una cosa impegnativa: preparò lei stessa il sugo di pomodoro e grattugiò del parmigiano fresco. Pierre era seduto in soggiorno, intento a fare zapping sui vari canali del televisore. Quando Molly avvisò che la cena era pronta, si diresse nella zona pranzo. Pierre scostò la sedia del tavolo senza guardare e fece per accomodarvisi, ma quasi immediatamente si rimise dritto.

C’era un’ape giocattolo in peluche posata sulla sedia, con grandi occhi alla Topolino e un lanoso rivestimento giallo e nero. Pierre la raccolse. — Cos’è questa? — disse.

Molly uscì dalla cucina, portando due piatti di spaghetti fumanti. Li posò sul tavolo prima di parlare. — Be’ — disse, accennando all’ape — penso che sia il momento di far impollinare i miei fiori.

Pierre alzò le sopracciglia. — Vuoi procedere con l’IVF?

Molly annuì. — Se è ancora okay per te. — Sollevò una mano. — Lo so che sono un sacco di soldi, ma, be’… francamente, ho paura di quel che è successo a Ingrid. — L’amica di Molly, Ingrid Lagerkvist, aveva dato alla luce un figlio con la sindrome di Down; le probabilità di avere un bambino Down crescevano con l’età.

— Troveremo il denaro — disse Pierre. — Non preoccuparti. — Sul suo volto si spalancò un largo sorriso. — Stiamo per avere un bambino! — Sparse il formaggio sui suoi spaghetti, poi fece qualcosa che Molly trovava sempre divertente: tagliò i suoi spaghetti a pezzettini. — Un bambino! — disse di nuovo.

Molly rise. — Oui, monsieur.

Il capo di Pierre, dottor Burian Klimus, alzò lo sguardo e accennò in modo brusco a turno verso entrambi. — Tardivel. Molly.

— Grazie per aver accettato di vederci, signore — disse Pierre, sedendosi all’altra estremità dell’ampia scrivania. — So quanto lei sia occupato. — Klimus non era tipo da sprecare energie commentando cose ovvie. Sedette in silenzio dietro la scrivania ingombra, con un’espressione leggermente irritata, in attesa che Pierre venisse al sodo. — Abbiamo bisogno del suo consiglio. A Molly e me… piacerebbe avere un bambino.

— Dei fiori e una bottiglia di Chianti sono un eccellente punto di partenza — disse Klimus con voce burbera, senza battere ciglio.

Pierre rise, più per il nervosismo che per quella battuta. Fece vagare lo sguardo per l’ufficio. C’era una seconda porta, che dava in qualche altra stanza. Dietro la scrivania di Klimus c’era una credenza con sopra due globi. Uno era un globo della Terra, su cui non erano segnati i confini politici; l’altro era, immaginò Pierre, basandosi sul suo colore rossastro, un globo di Marte. Alle pareti c’erano fotografie astronomiche in cornice. Pierre puntò di nuovo lo sguardo su Klimus. — Abbiamo deciso di voler ricorrere alla fertilizzazione in vitro, e, be’, lei ha scritto col professor Sousa quell’importante articolo per «Science» sulle nuove tecnologie riproduttive, e così…

— Perché la provetta? — chiese Klimus.

— Ho le tube di Falloppio ostruite — disse Molly.

Klimus annuì. — Capisco. — Si appoggiò allo schienale della sedia, che scricchiolò, e intrecciò le dita dietro la testa calva. — Di sicuro capite i rudimenti della procedura: le cellule uovo saranno rimosse da Molly e unite agli spermatozoi di Pierre in una capsula di Petri. Una volta creati gli embrioni, verranno impiantati, e non resterà che sperare per il meglio.

— In realtà — disse Pierre — non avevamo in programma di usare il mio sperma. — Si agitò leggermente sulla sedia. — Io… ah… non sono in posizione tale da fare da padre biologico.

— È impotente?

Pierre fu sorpreso dalla domanda. — No.

— Ha un basso conteggio degli spermatozoi? Ci sono tecniche…

— Non ho idea di quale sia il mio conteggio degli spermatozoi. Presumo che sia normale.

— Allora perché? Il suo intelletto è più che adeguato. Perché non generare un figlio?

Pierre deglutì. — Io… ah… sono portatore di geni nocivi.

Klimus annuì. — Eugenica volontaria. Approvo. — Fece una pausa. — Ma, come lei sa…

Pierre non vide motivo di discutere con il vecchio. — Useremo sperma di un donatore — disse con fermezza. Klimus scrollò le spalle. — Sta a voi.

— Ma cerchiamo qualcuno che ci raccomandi una clinica. Lei ne ha visitate un gran numero mentre scriveva l’articolo. Ce n’è una che suggerirebbe?

— Ce ne sono di buone qui nella Bay Area — disse Klimus.

— Quale sarebbe la più economica? — disse Pierre. Klimus lo guardò inespressivo. — Noi… ah… sappiamo che la procedura costa intorno ai diecimila dollari.

— Per ogni tentativo — disse Klimus. — E la fecondazione in vitro ha solo il venti per cento di probabilità di successo. In realtà, il costo medio per avere un bambino con questo metodo è di quarantamila dollari.

Pierre restò a bocca aperta. «Quarantamila»? Era una somma enorme di denaro, e il mutuo della casa era già alto. Dubitò di poter affrontare una spesa simile.

Ma Molly incalzò. — Sono le cliniche a scegliere il donatore di sperma?

— Occasionalmente — disse Klimus. — Più spesso, la donna sceglie da un catalogo che elenca le caratteristiche fisiche, mentali ed etniche dei potenziali padri. E… — Si interruppe a metà della frase, zittendosi completamente, come se la sua mente fosse distante un milione di miglia.

Pierre si chinò leggermente in avanti. — Sì? — disse.

— Che ne dite di me? — chiese Klimus.

— Mi scusi? — propose Pierre.

— Me. Come donatore.

Molly rimase impietrita. Klimus se ne avvide e alzò una mano, col palmo in fuori. — Potremmo farlo qui al LBL. Io posso svolgere la fertilizzazione, e Gwendolyn Bacon, una dottoressa che mi deve un favore, sono certo di riuscire a convincerla a effettuare l’estrazione della cellula uovo e l’impianto dell’embrione.

— Non lo so — disse Pierre.

Klimus lo guardò. — Propongo un patto: usate me come donatore, e pagherò io i costi per la procedura, non importa quanti tentativi ci vorranno. Ho investito bene i soldi del Nobel, e ho dei lucrosi contratti come consulente.

— Ma… — iniziò Molly. La sua voce si spense, non sapendo che dire. Avrebbe voluto che non ci fosse quella grossa scrivania tra loro così da potergli leggere nella mente, ma tutto quel che poté percepire fu un fuoco di fila di pensieri in francese di Pierre.

— Sono vecchio, lo so — disse Klimus senza umorismo. — Ma quanto al mio sperma fa poca differenza. Sono pienamente in grado di fungere da padre biologico e di fornire ampia documentazione di essere privo di HIV.

Pierre deglutì a vuoto. — Non sarà imbarazzante, conoscere il donatore?

— Oh, sarà il nostro piccolo segreto — disse Klimus, alzando di nuovo la mano. — Volete del buon DNA, no? Sono vincitore di un Premio Nobel; ho un quoziente intellettivo di 163. Per quanto riguarda la longevità sono dimostrabilmente un buon investimento, e ho vista e riflessi eccellenti. In più, non ho geni dell’Alzheimer o del diabete o di nessun altro disturbo serio. — Sorrise lievemente. — La cosa peggiore programmata nel mio DNA è la calvizie.

Durante il lungo discorso di Klimus, Molly aveva preso a scuotere leggermente il capo avanti e indietro, avanti e indietro, ma si fermò quando il vecchio giunse alla conclusione. Allora guardò Pierre, come per valutare la sua reazione.

Anche Klimus rivolse lo sguardo su Pierre. — Su, giovanotto — disse, e poi sul suo volto si aprì un secco, freddo sorriso. — Meglio un buon vecchio diavolo che uno sconosciuto.

— Ma perché? — chiese Pierre. — Perché le interesserebbe?

— Ho ottantaquattro anni — disse Klimus. — E non ho figli. Desidero semplicemente che i miei geni non scompaiano dal patrimonio collettivo. — Guardò a turno ciascuno di loro.

Pierre guardò Molly e si strinse nelle spalle. — Io… «suppongo» che andrebbe bene — disse lentamente, non del tutto sicuro di sé.

Klimus batté le mani insieme con un forte colpo che suonò come una pistolettata. — Meraviglioso! — esclamò. — Molly, prenderemo un appuntamento per te con la dottoressa Bacon; ti prescriverà un trattamento ormonale per aiutarti a sviluppare cellule uovo multiple.

— Klimus si alzò in piedi, troncando ogni ulteriore discussione. — Congratulazioni, Mamma — disse a Molly, e poi, manifestando un’inaspettata bonomia, si fece avanti e poggiò un braccio ossuto sulla spalla di Pierre.

— E congratulazioni anche a te, Papà.

— Grossi guai — disse Shari, entrando nel laboratorio di Pierre con una fotocopia in mano. — Ho trovato questa nota in un numero arretrato di «Physical Review Letters». — Apparve turbata.

Pierre stava fermando la sua centrifuga. La lasciò ruotare per forza d’inerzia e alzò lo sguardo verso di lei.

— Cos’è che dice?

— Certi ricercatori di Boston affermano che, sebbene il DNA che regola la sintesi proteica sia strutturato come un codice, una parola sbagliata e il messaggio si ingarbuglia, il «DNA intronico» è strutturato come una «lingua», con ridondanza sufficiente a far sì che piccoli sbagli siano influenti.

— Come una lingua? — disse Pierre eccitato. — Che intendono dire?

— Nelle parti attive del DNA, hanno scoperto che la distribuzione dei vari codoni è casuale. Ma nel «DNA intronico», se si guarda la distribuzione delle «parole» di tre, quattro, cinque, sei, sette e otto coppie di basi in un certo periodo di tempo, si scopre che somiglia molto a quella che troviamo in un linguaggio umano. Se la parola più comune appare diecimila volte, allora quella al decimo posto fra le più comuni appare solo un migliaio di volte, e quella al centesimo ne appare solo un centinaio… il che è molto simile alla distribuzione relativa delle parole in inglese. «The» è un ordine di grandezza più comune di «his», e «his» è un ordine di grandezza più comune di, diciamo, «go.» dal punto di vista statistico, sono segni distintivi che denotano un vero linguaggio.

— Eccellente! — disse Pierre. — Eccellente.

Linee orizzontali solcarono la fronte di Shari, di solito liscia come la porcellana. — È terribile. Significa che anche altra gente sta facendo grandi progressi su questo tema. Quella nota su «Physical Review Letters» è stata pubblicata nel numero del 5 dicembre 1994.

Pierre scrollò le spalle. — Ricordi Watson e Crick, a caccia della struttura del DNA? Ricordi chi altri stava lavorando allo stesso problema?

— Linus Pauling, fra gli altri.

— Pauling, esattamente… che aveva già vinto un Nobel per il suo lavoro sui legami chimici. — Guardò Shari. — Ma anche il vecchio Linus non riuscì a vedere la verità; se ne venne fuori con un modello a tre filamenti degno di Rube Goldberg. — Pierre aveva imparato tutto su Goldberg dal suo arrivo a Berkeley; era stato studente all’UCB e una rassegna delle sue vignette era in mostra al campus. — Certo, anche altri hanno lavorato nella stessa area cui ci stiamo dedicando. Ma preferirei che tu entrassi qui dentro e mi dicessi che ci sono buone ragioni di pensare che c’è qualcosa di significativo codificato nel DNA non addetto a sintetizzare proteine, piuttosto di dire che chiunque ci abbia mai guardato prima ha concluso che è solo spazzatura. So che siamo sulla buona strada, Shari. Lo so. — Fece una pausa. — Hai fatto un buon lavoro. Vai a casa; fatti una buona notte di sonno.

— Anche tu dovresti andare a casa — disse Shari.

Pierre sorrise. — Sto aspettando Molly. Ha una riunione fino a sera inoltrata. Resterò qui finché non chiama.

— Sta bene. A domani.

— Buonanotte, Shari. E sta’ attenta… è già piuttosto tardi.

Shari lasciò la stanza e iniziò a camminare lungo il corridoio. Uscì fuori e aspettò che arrivasse il bus navetta. Quando giunse, lo prese fino al campus. Prima di dirigersi a casa voleva sbrigare qualche faccenda laggiù, e una di queste la portò vicino alla facoltà di psicologia, dove apparentemente la moglie di Pierre stava ancora lavorando. Proprio lì fuori, Shari si fece nervosa quando urtò un giovane di aspetto rude che camminava impaziente avanti e indietro, come se stesse aspettando qualcuno. Era vestito con giacca di pelle e jeans sbiaditi, e aveva capelli biondi tagliati corti e uno strano mento che somigliava a due pugni protesi.

Proprio un bel tipo, pensò Shari mentre si affrettava a confondersi con le tenebre…

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