«Più indietro si guarda, e più avanti è probabile vedere.»
Notte. Due agenti di polizia, uno nero, una bianca. Un marciapiede imbrattato di sangue. Un uomo di nome Chuck Hanratty morto, il suo corpo portato via in ambulanza. Pierre infreddolito nella brezza notturna, il suo pullover, zuppo di sangue, a terra.
— Be’, guardate, è mezzanotte passata — disse il poliziotto nero a Molly — e, francamente, il suo amico sembra un po’ fuori di sé. Perché non lasciate che l’agente Granatstein e io vi diamo un passaggio? Potrete venire alla Centrale domani per fare una deposizione. — Le porse una carta.
— Perché — disse Pierre, finalmente riscuotendosi un po’ — un neonazista dovrebbe aggredirmi?
Il nero si strinse nelle spalle. — Non è un gran mistero. Andava dietro al suo portafoglio e alla sua borsa.
Ma Molly aveva letto nella mente dell’uomo, e sapeva che quella non era una semplice tentata rapina, era stato un deliberato, premeditato tentativo di attentare alla vita di Pierre. Prese con delicatezza una mano di suo marito e lo guidò verso l’auto della polizia.
Pierre e Molly erano stesi a letto, e Molly lo teneva stretto.
— Perché — disse di nuovo Pierre — un neonazista dovrebbe darmi la caccia? — Era ancora molto scosso. — Diavolo, perché qualcuno dovrebbe darsi pensiero di cercare di uccidermi? Dopotutto… — Le parole si spensero, ma Molly poté leggere la frase in inglese già formulata: «Dopotutto, è probabile che morirò presto comunque».
Molly scosse il capo sul cuscino. — Non so perché — disse a bassa voce. — Ma ce l’aveva con te. Te in particolare.
— Ne sei sicura? — chiese Pierre, tradendo nella voce la fievole speranza che Molly si sbagliasse.
— Quando l’abbiamo oltrepassato, Hanratty stava pensando: «Era ora che ’sto fottuto merdoso si facesse vivo».
Pierre si irrigidì lievemente. — Non puoi dire questo ai poliziotti — disse.
— Certo che no. — Fece una risatina un po’ forzata. — Non mi crederebbero comunque. — Poi dopo una pausa: — Ma gli era stato ordinato di ucciderti, ordinato da qualcuno di nome Grozny… e probabilmente aveva anche già ucciso altre persone per questo Grozny.
Pierre stava ancora tentando di digerire tutto ciò. Un uomo era morto proprio davanti a lui. Sì, era stata autodifesa, ma l’aveva ucciso. Pierre aveva attraversato il continente verso la terra del libero amore, del movimento pacifista, e aveva finito per ritrovarsi colle mani sporche di sangue di un essere umano.
Un coltello che infilzava il corpo dell’uomo; Molly sulla sua schiena, Pierre che gli faceva lo sgambetto.
Se solo Hanratty avesse lasciato cadere il coltello. Se solo…
Morto. «Morto.»
Non riusciva a riscuotersi dall’orrore, non poteva sfuggire al dolore.
Pierre aveva deciso di non presentarsi al lavoro il giorno dopo.. Non l’aveva mai fatto prima, tranne che per la luna di miele.
— Forse dovresti consultare qualcuno — disse Molly. — Ingrid ha fatto uno studio sui veterani di Desert Storm. Potrebbe raccomandarti uno che si occupi di stress post-traumatici.
Pierre scosse la testa. Avevano già tentato di mandarlo da uno psicologo la prima volta che aveva scoperto di essere a rischio di corea di Huntington. Ma poteva diventare una storia senza fine; non aveva tempo per questo.
— Andrà tutto bene — disse, ma le sue parole suonarono piatte.
Molly annuì e continuò a tenerlo stretto.
Avi Meyer sedeva curvo sulla sua scrivania metallica al centro operativo dell’osi a Washington. La sua finestra, con le persiane verticali angolate in modo da bloccare la maggior parte del sole, dava su un ingorgo di traffico in K Street. Era mezzogiorno e già il suo mento pareva ruvido mentre lo appoggiava sulla mano sinistra.
Susan Tuttle, la sua assistente, entrò. — Pasternak ha appena faxato un rapporto. Potrebbe interessarla.
— Che roba è?
— Un neonazista di San Francisco di nome Chuck Hanratty è rimasto ucciso due giorni fa.
— Quanti anni aveva?
— Hanratty? Ventiquattro…
Avi agitò un braccio, come a dire di non seccarlo. — Non abbastanza vecchio da essere un criminale di guerra. A parte il fatto che c’è uno stronzo di meno al mondo, perché Pasternak pensa che dovrebbe importarmi?
— Hanratty è stato ucciso in una zuffa mentre tentava di rapinare un franco-canadese di nome Pierre Tardivel.
Avi aggrottò la fronte. — E allora?
— E questo Tardivel lavora al Lawrence Berkeley al Centro Genoma Umano, quindi il suo capo è…
Le folte sopracciglia di Avi si sollevarono. — Burian Klimus.
— Esattamente.
Avi pigiò il bottone dell’interfonico sulla sua scrivania. — Pam?
Una voce di donna. — Sì?
— Devo prendere un volo per la California…
Quando Pierre era andato alla Centrale di polizia di Berkeley per fare rapporto, aveva chiesto al poliziotto nero, scoprì che si chiamava Munroe, altre informazioni su Chuck Hanrattv. Munroe in realtà non aveva molto da aggiungere. Hanrattv aveva vissuto, ed era stato arrestato più di frequente, a San Francisco. Dopo averci rimuginato sopra per un giorno, Pierre decise di attraversare il ponte sulla Baia di Oakland e tentare la sorte al San Francisco Police Department.
Stava piovendo. Il ponte svoltava nella 101, e la Centrale era appena a sud, all’850 della Bryant, tra la Sesta e la Settima Strada. Pierre ripiegò l’ombrello, entrò nell’edificio, e imboccò il breve corridoio che portava al sergente di guardia, un bianco corpulento con capelli neri ricciuti in cima a una testa a forma di pagnotta. Aveva uno schermo di computer installato ad angolo sotto la scrivania, visibile attraverso il ripiano di vetro soprastante.
Stava leggendo qualcosa su di esso, ma alzò lo sguardo quando Pierre si schiarì la gola. — Sì, signore, cosa posso fare per lei?
Pierre non era sicuro da dove cominciare. — Sono stato aggredito poche sere fa.
— Oh, sì? Vuole compilare un rapporto?
— No, no. L’ho già fatto, a Berkeley. Stavo solo cercando altre informazioni. Il tipo che ha cercato di rapinarmi viveva qui, e, be’, è morto nel tentativo. Caduto sul proprio coltello.
— Come ha detto che è il suo nome?
— Tardivel. T-A-R-D-I-V-E-L.
Il sergente batté sulla tastiera. — Posso vedere qualche documento?
Pierre aprì il portafoglio e trovò la sua patente di guida del Québec. Il sergente la guardò, annuì, e si rivolse di nuovo al suo monitor. — Be’, signore, non so che tipo di informazioni lei desideri. Se quello è morto nel tentativo, non stiamo più cercando altri sospetti.
— Capisco — disse Pierre, annuendo. — Ero solo interessato ad altri casi in cui fosse stato coinvolto lo stesso individuo.
Il sergente guardò sospettoso Pierre. — Perché?
Pierre decise che la verità era l’approccio più semplice. — Gli agenti di Berkeley hanno detto che Hanratty era membro di un gruppo neonazista. Mi sono lambiccato il cervello cercando di immaginare cosa un individuo simile potesse avere contro di me.
— Lei è ebreo? Pierre scosse la testa.
— Ma è straniero. Gli skinheads non sono teneri con gli immigranti.
— Suppongo, ma… be’, mi stavo chiedendo se potessi vedere il fascicolo su di lui.
Il poliziotto guardò Pierre per un momento. — Niente affatto — disse infine.
— Ma…
— Questa non è una biblioteca pubblica. II suo caso è chiuso. Se la sua compagnia d’assicurazioni ha bisogno di qualche scartoffia per sostanziare una richiesta di danno, può contattare noi o il Dipartimento di Berkeley tramite i canali normali. Altrimenti, se ne scordi.
Pierre pensò brevemente di insistere, ma si rese conto che era inutile. Profferì un sarcastico merci beaucoup e si diresse di nuovo fuori. Stava ancora piovendo, quindi si fermò appena prima dell’uscita per aprire l’ombrello. Posò lo sguardo sulla guida dell’edificio, fatta di letterine di plastica bianca incastrate nelle fessure parallele di una lavagna nera, coperta di vetro.
Medicina legale, 314.
Le sopracciglia di Pierre si alzarono. Si guardò alle spalle. Il sergente aveva reclinato il capo, tornando a leggere. Pierre si voltò, lo oltrepassò ed entrò nell’ascensore.
Scese al terzo piano e trovò la stanza 314. C’era un’insegna sulla porta che diceva MEDICINA LEGALE. Sotto di essa c’erano due nomi in caratteri più piccoli: H. Kawabata e J. Howells. Aprì la porta e vi infilò la testa. — Salve?
Un’alta donna asiatica sulla quarantina apparve da dietro una parete divisoria. Aveva capelli biondi pettinati alla paggetto, tre anelli alla mano destra, una catenella al polso destro, e due piccoli gemelli all’orecchio sinistro. Portava un camice bianco da laboratorio, sbottonato, sopra una tuta rosa. Il suo rossetto si intonava col colore della tuta. — Posso esserle d’aiuto? — disse in un fuoco di fila.
A Pierre non piaceva fare supposizioni, ma gli parve di poter andare a colpo sicuro. — La signora Kawabata? — disse.
— Sono io.
Pierre sorrise ed entrò nella stanza. — Mi perdoni. Ero nel palazzo per altre questioni e non ho potuto resistere a passare di qui. So che avrei dovuto prendere un appuntamento, ma…
La voce della donna si indurì lievemente. — Tutti gli acquisti si fanno tramite l’ufficio al quarto piano.
Pierre scosse la testa. — Non sono un piazzista — disse. — Sono un genetista. Sono dell’Human Genome Center, al Lawrence Berkeley.
Lei si portò una mano alle labbra. — Oh, mi dispiace! Entri, entri, signor…
— Tardivel. Dottor Pierre Tardivel.
— Sono Helen — disse la donna, porgendogli la mano. — Anch’io mi sono laureata all’UCB. Di’, ho sentito che adesso è quel vincitore del Nobel a tenere in pugno le cose, come si chiama…
— Burian Klimus — disse Pierre.
Helen annuì. — La Tecnica Klimus, giusto… metodo meraviglioso; stiamo cominciando a usarlo qui. Com’è lui, a lavorarci?
Pierre decise di essere onesto. — È un orso. Fortunatamente, in questi giorni sta passando un sacco di tempo all’Institute of Human Origins; è interessato al DNA neanderthaliano.
Helen sorrise. — L’ho visto in TV una volta… sembra abbastanza vecchio da averne una conoscenza diretta.
Pierre rise e si guardò intorno nella stanza. Era come pressoché ogni altro laboratorio in cui era stato, ma disse: — Bell’attrezzatura che avete qui.
Helen guardò le centrifughe, i microscopi, e le altre apparecchiature come se ne fosse orgogliosa. — Serve allo scopo. È piuttosto eccitante quando devo usarla per testimoniare in tribunale. La settimana scorsa abbiamo inchiodato uno stupratore seriale.
Pierre annuì. — Ho letto di quel caso sul «Chronicle». Congratulazioni.
— Grazie.
— Sa, mi stavo chiedendo se potrebbe aiutarmi. Io… sono stato aggredito la settimana scorsa; ecco perché sono venuto qui. Sto tentando di scoprire perché proprio quella persona potesse avercela con me e, be’…
— E quelli le hanno detto di andare a farsi un giretto, vero?
Pierre sorrise. — Esattamente.
— Cosa vuole sapere?
— Uno degli agenti venuti a investigare ha detto che il tipo che mi ha aggredito era un neonazista, e aveva una lunga fedina penale. Mi stavo domandando se che ci fosse qualche altra informazione da poter vedere su di lui.
Helen aggrottò la fronte. — Lei è realmente dell’Human Genome Center?
Pierre tirò fuori il portafoglio. Ne tolse un biglietto da visita — ne aveva fatti di nuovi il mese prima, quando il suo istituto aveva cambiato nome da Lawrence Berkeley Laboratory a Lawrence Berkeley National Laboratory e glielo porse. — Ecco.
Helen sorrise. — Mi piacerebbe fare un giro del suo laboratorio, dottor Tardivel.
— Quando vuole.
Lei si avviò verso la scrivania e fece scivolare il biglietto in una scatoletta metallica. Poi raggiunse il suo terminale di computer. — Cosa desidera sapere?
— L’uomo che mi ha aggredito si chiamava Chuck Hanratty. Sto cercando ancora di immaginarmi «perché» abbia scelto me in particolare. È un po’ snervante, quando qualcuno tenta di ammazzarti.
Helen batté sulla tastiera con due dita. Le sue delicate sopracciglia si alzarono. — L’ha fatto secco.
— È caduto sul proprio coltello, in realtà. Dice davvero che l’ho ucciso?
— No, no. Mi scusi. Dice che è rimasto ucciso in una lotta con la vittima designata. Cosa vuole sapere?
— Qualunque altra cosa. Chiunque altro abbia mai assalito, per esempio.
— Le stamperò una copia d’archivio; solo non dica mai a nessuno dove l’ha presa. E… questo è interessante. Dopo la sua morte, alcuni dei nostri hanno frugato nella sua camera in affitto. Quel tipo viveva nel Tenderloin, un bel quartierino. Comunque, fra le cose che hanno trovato c’era un portafoglio contenente carte di credito appartenenti a un uomo di nome Bryan, con la Y, Proctor. I nostri archivi hanno detto che Proctor era stato ucciso con un colpo d’arma da fuoco qui a San Francisco da uno sconosciuto introdottosi in casa sua due giorni prima dell’aggressione subita da lei. Dove stava Hanratty hanno trovato anche una pistola. Gli esperti balistici hanno confermato che è stata l’arma omicida del caso Proctor.
— Questo Proctor aveva una famiglia? Helen toccò qualche altro tasto. — Una moglie.
— C’è qualche modo in cui potrei parlarle?
Helen si strinse nelle spalle. — Questo sta a lei dirlo.
— Pierre Tardivel?
Pierre era chino sul bancone del suo laboratorio. Alzò lo sguardo. — Sì?
Un tipo basso con una faccia da bulldog e un’ispida barba grigio-azzurra entrò nella stanza. — Il mio nome è Avi Meyer. — Aprì di scatto la tessera d’ordinanza, facendo balenare la sua foto. — Sono un agente federale, Dipartimento di Giustizia. Desidero scambiare qualche parola con lei.
Pierre si raddrizzò. — Ah… certo. Certo. Prenda una sedia. — Pierre indicò uno sgabello del laboratorio.
Avi continuò a restare in piedi. — Lei non è americano.
— No, vengo…
— Dal Canada, giusto?
— Sì, sono nato…
— In Québec.
— Québec, sì. Montreal. Cos’è tutta questa…
— Cosa l’ha portata negli States?
Pierre pensò di rispondere «l’Air Canada» ma decise di no. — Sono un ricercatore post-dottorato.
— Lei è un genetista?
— Sì. Be’, il mio Ph.D. è in biologia molecolare, ma…
— Qual è il suo rapporto con gli altri genetisti qui?
— Non sono sicuro di cosa lei intenda. Sono miei colleghi, alcuni miei amici…
— Il professor Sinclair… qual è il suo rapporto con lui?
— Con Toby? È abbastanza in gamba, ma lo conosco appena.
— Che mi dice di Donna Yamasaki?
Pierre alzò le sopracciglia. — È simpatica, ma il suo nome…
— La conosceva prima di arrivare a Berkeley?
— Niente affatto.
— Lei lavora alle dipendenze dì Burian Klimus.
— Sì. Cioè, c’è qualche gradino fra lui e me, ma, certo, è la persona che comanda qui.
— Quando l’ha incontrato per la prima volta?
— Circa tre giorni dopo aver cominciato qui.
— Non lo conosceva in anticipo?
— Be’, la sua reputazione, ovviamente, ma…
— Non è imparentato con lui, vero?
— Con Klimus? È cecoslovacco, no? Io non…
— Ucraino, in realtà. Non ha avuto alcun contatto con lui prima di giungere a Berkeley?
— Nessuno.
— Appartiene a qualcuno degli stessi gruppi degli altri genetisti qui?
— La maggioranza di noi aderiscono ad alcune delle stesse associazioni professionali. American Association for the Advancement of Science, roba del genere, ma…
— No. Al di fuori della sua professione.
— Non appartengo a nessun gruppo al di fuori.
— Nessuno? Pierre scosse il capo.
— Lei è stato assalito poco tempo fa.
— È questo lo scopo di tutto ’sto interrogatorio? Perché…
— Conosceva…
— …ho fatto alla polizia un rapporto completo. È stata autodifesa.
— …l’uomo che l’ha aggredita?
— Conoscerlo? Personalmente, intende? No, non l’avevo mai visto prima in vita mia.
— Allora perché ha aggredito proprio lei? Lei, fra tutti?
— È quello che vorrei sapere anch’io.
— Quindi non pensa che fosse solo un’aggressione casuale?
— La polizia certo crede così, ma…
— Ma cosa?
— Niente, in realtà. È solo…
— Ha motivo di pensare che non «fosse» un’aggressione casuale?
— No, no, non realmente. Solo… no.
— E non aveva mai visto prima l’aggressore intorno a questo laboratorio?
— Non l’avevo mai visto prima in nessun posto.
— Mai visto con, diciamo, il professor Klimus?
— No.
— Mai visto con la dottoressa Yamasaki? Il dottor Sinclair?
— No. Senta, cos’è questa storia?
— L’uomo che l’ha aggredita apparteneva a un’organizzazione neonazista.
— Il Millennial Reich, sì.
— Conosce quel gruppo? — disse Avi, serrando le palpebre.
— No, no, no. Ma l’ha menzionato uno degli agenti di polizia.
— Lei ha qualche connessione col Millennial Reich?
— Cosa? No, certo che no.
— A chi vanno le sue simpatie politiche, signor Tardivel?
— NDP. Ma che differ…
— Che diavolo è l’NDP?
— Un partito socialista democratico canadese. Che possibile differenza…
— Socialista? Come in «Nazional» Socialista?
— No, no. L’NDP è…
— Che ne pensa, diciamo, dell’immigrazione?
— Io «sono» un immigrante. Sono giunto qui meno di un anno fa.
— Sì, e ha già ammazzato un cittadino americano.
— È stata autodifesa, dannazione. Chieda alla polizia.
— Ho visto il rapporto — disse Avi. — Perché un neonazista vorrebbe aggredirla, signor Tardivel?
— Non ne ho idea.
— Lei ha qualche legame con organizzazioni neonaziste?
— Certamente no.
— Ci sono un sacco di antisemiti fra i francesi di Montreal.
Pierre sospirò. — Ha letto troppi libri di Mordecai Richler; non sono antisemita.
— Che mi dice degli altri genetisti qui?
— Che razza di domanda è questa?
— Qualcuno dei genetisti qui al Lawrence Berkeley, o giù all’università, ha legami con organizzazioni naziste, che lei sappia?
— Certo che no. Cioè, be’…
— Sì?
— No, niente.
— Signor Tardivel, mostrandosi così evasivo sta mettendo alla prova la mia pazienza. Lei non è ancora un cittadino americano; potrei farla rispedire in Canada. — Cristo, io… guardi, l’unico individuo che potrebbe avvicinarsi al tipo del nazista è…
— Sì?
— Non voglio metterlo nei guai, ma… be’, c’è Felix Sousa, un professore all’UCB.
— Sousa? Qualcun altro?
— No. Conosce Sousa?
Avi sogghignò. — Il tipo dei bianchi-superiori-ai-neri.
Pierre annuì. — Non c’è niente che possano fare per tappargli la bocca. Ma se c’è qualche nazista qui, è lui.
Avi annuì. — Va bene, grazie. Non menzioni questa conversazione con nessuno.
— Ancora non capisco…
Ma Avi Meyer era già fuori dalla porta.
— Susan? Sono Avi. Sì… sì. Cosa? Corrìna, Corrina, con Whoopi Goldberg. Sì, era okay; meglio del cibo, comunque. Sì, ho visto Tardivel questo pomeriggio. Non si è spinto a dirlo apertamente, ma penso che senta che l’aggressione era diretta proprio a lui, il che rende il collegamento ancora più stretto. Domani passerò la giornata a esaminare gli archivi del SFPD e dell’ufficio dello sceriffo della contea di Alameda sul Millennial Reich. No, sto evitando Klimus, almeno per qualche tempo. Non voglio scoprire le carte…
— Dato che stiamo per avere un bambino — disse Molly, seduta sul loro divano del soggiorno — c’è qualcosa che voglio tu faccia.
Pierre mise giù il telecomando. — Oh?
— Non ho mai avuto nessuno che studiasse il mio… mio dono. Ma dato che avremo un figlio, penso che forse dovremmo saperne di più al riguardo. Ho passato l’inferno quando cominciò a succedermi quando compii tredici anni, pensai che mi fosse fuso il cervello.
Pierre annuì. — Sono certamente curioso di conoscere il lato scientifico di quel che sai fare, ma non ho voluto impicciarmi.
— E ti amo per questo. Ma «dovremmo» sapere. Dev’esserci qualcosa di diverso nel mio DNA. Potresti scoprire cos’è?
Pierre si accigliò. — È quasi impossibile trovare la causa genetica di qualcosa con un solo campione. Per trovare il gene della corea di Huntington, hanno usato campioni di sangue provenienti da settantacinque famiglie di tutto il mondo sofferenti della malattia. Ma poiché sei l’unica telepate dichiaratamente riconosciuta sul pianeta, non penso che ci sia qualcosa che possiamo fare per cercare uno specifico gene.
— Be’ — disse Molly — se non possiamo scoprirlo lavorando dal DNA in su, che ne diresti di invertire la procedura? La mia idea è che ci sia qualcosa di chimicamente differente nel mio cervello, un neurotrasmettitore, diciamo, che non ha nessun altro, una sostanza che forse mi consente di usare la mia rete neurale come ricevente. Se potessimo isolarla e stabilire la sua sequenza di amminoacidi, potresti ricercare nel mio DNA il codice che specifica quegli amminoacidi?
Pierre alzò le spalle. — Suppongo di sì, se fosse un neurotrasmettitore a base proteica. Ma nessuno di noi ha l’esperienza per fare un lavoro di questo genere. Dovremmo coinvolgere qualcun altro, per prendere i campioni di fluido e separarne i neurotrasmettitori. E anche in tal caso, abbiamo solo un vago indizio che sia questa la causa della tua telepatia. Eppure — disse, con voce che assumeva un tono distante — se potessimo identificare il neurotrasmettitore, forse un giorno riuscirebbero a sintetizzarlo. Forse tutto quello che ci occorre per leggere nelle menti è avere le giuste sostanze chimiche nel cervello.
Ma Molly stava scuotendo la testa. — Non vorrei sembrare sessista — disse — ma ho sempre sospettato che la sola ragione per cui sono sopravvissuta tanto a lungo è perché sono una donna. Rabbrividisco al pensiero di cosa farebbe un maschio, reso violento dal testosterone, captando pensieri offensivi… probabilmente ucciderebbe chiunque gli stia intorno. — Il suo sguardo tornò a incontrare quello di Pierre. — No. Forse un giorno, nel remoto futuro, l’umanità potrà essere in grado di affrontare qualcosa del genere. Ma non adesso; non è il momento giusto.
Pierre stava eseguendo un’elettroforesi quando il telefono del suo laboratorio squillò per la terza volta quella mattina. Sospirò, attraversò la stanza sulla poltrona a rotelle, e alzò la cornetta.
— Tardivel — sbottò nel microfono.
— Ciao, Pierre. Sono Jasmine Lucarelli, Endocrinologia.
Il tono di Pierre si riscaldò immediatamente. — Oh, ciao, Jasmine. Grazie mille per esserti fatta risentire.
— Uh-huh. Senti… dove hai detto che hai preso quel campione di fluido che mi hai spedito?
Pierre esitò brevemente. — Ah, era di una donna.
— Non ho mai visto niente del genere. Il campione conteneva tutti i soliti neurotrasmettitori, serotonina, acetilcolina, GABA, dopamina, e così via, ma c’era dentro una proteina che non avevo mai visto prima. Abbastanza complessa, pure. Sto solo presumendo che sia un neurotrasmettitore per via della sua struttura di base: uno dei suoi principali costituenti è la colina.
— Hai elaborato la sua struttura completa?
— Non personalmente — disse la dottoressa Lucarelli. — Uno dei miei studenti l’ha fatto per me.
— Puoi spedirmi una copia?
— Certo. Ma vorrei ancora sapere da dov’è venuta questa roba.
Pierre espirò. — È… è un tiro mancino, penso. Uno studente di biochimica l’ha rabberciata insieme, cercando di farsi beffe del suo professore.
— Merda — disse Lucarelli. — Che gente, eh?
— Già. Comunque, grazie per averci dato un’occhiata. Se mi spedirai le tue note sulla struttura chimica, te ne sarò grato… io, ah, voglio metterne una copia nella scheda dello studente, in caso che tenti di nuovo qualche bravata del genere.
— Certamente.
— Grazie mille, Jasmine.
— Nessun problema.
Pierre riagganciò il telefono, col cuore che gli batteva forte.
Pierre aveva passato gli ultimi quattordici giorni a studiare l’insolito neurotrasmettitore del cervello di Molly. Se fosse la chiave della sua telepatia o solo un suo sottoprodotto, non lo sapeva. Ma la sostanza, nonostante la sua complessità, non era che un’altra proteina, e come tutte le proteine aveva come costituenti di base gli amminoacidi. Pierre elaborò le varie sequenze di DNA che avrebbero potuto codificare l’opera della più caratteristica catena di amminoacidi presente nella molecola. C’erano molte combinazioni possibili, a causa dei codoni sinonimi, ma le calcolò tutte quante. Poi fabbricò segmenti di RNA in grado di complementare le varie sequenze di DNA che andava cercando.
Pierre prese una provetta piena del sangue di Molly e usò azoto liquido per congelarla a meno settanta gradi Celsius. Ciò frantumò le membrane cellulari dei corpuscoli rossi, ma lasciò intatti i più resistenti corpuscoli bianchi. Poi scongelò il sangue, e i corpuscoli rossi si dissolsero in frammenti.
Successivamente, centrifugò la provetta a 1.600 giri al minuto. I milioni di corpuscoli bianchi, gli unici oggetti rimasti nel campione di sangue adesso, furono sospinti all’estremità della provetta, formando una solida pallina bianca. Rimosse la pallina e per un paio d’ore la mise a bagno in una soluzione contenente proteinase K, che digerì le membrane cellulari dei corpuscoli bianchi e altre proteine. Poi introdusse fenolo e cloroformio, che spazzarono via i detriti di proteine in venti minuti, infine aggiunse etanolo, che nelle due ore seguenti fece precipitare le delicate fibre del DNA purificato di Molly.
In seguito Pierre lavorò ad aggiungere i suoi speciali segmenti di RNA al DNA di Molly, e guardò per vedere se si agganciassero da qualche parte. Ci vollero circa un centinaio di tentativi prima che avesse fortuna. Saltò fuori che la sequenza che codificava la produzione del neurotrasmettitore relativo alla telepatia era sul braccio corto del cromosoma tredici.
Pierre usò il suo terminale per collegarsi al GSDB, il Genome Sequence Database, che conteneva tutte le sequenze genetiche che erano state mappate dalle centinaia di laboratori e università di tutto il mondo che lavoravano alla decodificazione del genoma umano. Voleva vedere come sembrava quella parte del cromosoma tredici nella gente normale. Per buona sorte, il gene in questione era stato sequenziato in dettaglio dal gruppo di Leeds. Il valore normale era CAT CAG GGT GCT CAT, ma il campione di Molly cominciava con TCA TCA GGG TGT CCA… completamente differente, il che…
No. No, «non» completamente differente. Un nucleotide, una T, in questo caso… era stato solo spostato di un posto a destra, dopo essere stato accidentalmente aggiunto nella copiatura del DNA di Molly.
Una «trasposizione». Bastava aggiungere o rimuovere un nucleotide, e da quel punto in poi ogni parola genetica veniva alterata. Il TCA TCA GGG TGT CCA di Molly era il codice per gli amminoacidi serina, serina, glicina, cisteina e prolina, mentre la sequenza standard CAT CAG GGT GTC CAT stava per istidina, glutammina, glicina, valina e arginina; entrambe le sequenze avevano la glicina nel mezzo perché GGG e GGT erano sinonimi.
Mutazioni simili di solito ingarbugliavano tutto, mutando il codice genetico in qualcosa di inintelligibile. Molti embrioni umani abortivano spontaneamente molto presto, prima ancora che le loro madri sapessero di essere incinte; le trasposizioni erano il probabile motivo di molti di tali fallimenti. Ma questa…
Una mutazione che poteva causare la telepatia.
Pierre si afflosciò sullo schienale, esterrefatto.
Sebbene fossero stati compiuti i primi passi per costruire al LBNL un complesso apposito per lo studio del genoma, per il momento l’Human Genome Center era ospitato al terzo piano dell’edificio 74, che faceva parte della Life Sciences Division. In quell’edificio veniva svolta anche ricerca medica, il che significava che non dovettero neanche andar fuori in cerca di una piccola sala operatoria.
Era il venerdì sera del lungo weekend della Festa del Lavoro, l’ultima vacanza dell’estate. Quasi tutti erano fuori città o a casa a godersi il tempo libero. Molly e Pierre incontrarono Burian Klimus, la dottoressa Gwendolyn Bacon e le sue due assistenti nell’ufficio di Klimus, e tutti e sei si diressero ai piani inferiori.
Pierre tenne compagnia a Klimus fuori mentre Molly giaceva su un tavolo nella sala. La dottoressa Bacon, una donna magra e abbronzata sulla cinquantina, coi capelli bianchi come la neve, attese mentre una delle sue assistenti somministrava a Molly un sedativo intravenoso, e poi la stessa Bacon inserì un lungo ago cavo nella vagina di Molly. Monitorando l’interno del corpo con apparecchiature a ultrasuoni, usò la suzione per estrarre un campione di materiale. Gli ormoni con cui aveva trattato Molly avrebbero dovuto spingerla a portare alla maturità oociti multipli in quel ciclo, invece di uno solo. Il materiale fu rapidamente trasferito in una capsula di Petri contenente un brodo di coltura, e l’altra assistente della Bacon lo esaminò sotto un microscopio per accertarsi che vi si trovassero realmente delle cellule uovo.
Finalmente, Molly si rivestì, e Pierre e Klimus entrarono nella sala. — Abbiamo ottenuto quindici uova — disse la Bacon, con un lieve accento del Tennessee. — Bel lavoro, Molly!
Molly annuì ma poi indietreggiò da tutti gli occupanti della stanza, strofinandosi un po’ la tempia destra. Pierre riconobbe i segni: aveva chiaramente un mal di testa, e voleva mettere una certa distanza fra sé e gli altri per godersi un po’ di pace e quiete mentali.
— Tutto bene — disse Klimus dall’altra parte della stanza. — Ora, se mi lascerete solo, mi occuperò del… del resto della procedura.
Pierre guardò quell’uomo. Sembrava alquanto… be’, imbarazzato era probabilmente la parola giusta. Pierre si domandò per un momento cosa avrebbe usato per aiutarsi. «Playboy»? «Penthouse»? «Proceedings of the National Academy»? Il seme avrebbe potuto essere raccolto settimane prima, ma lo sperma fresco aveva il 90 per cento di probabilità di fertilizzare le uova, contro solo il 60 per cento della varietà congelata.
— Non fertilizzare tutte le uova — disse la dottoressa Bacon a Klimus. — Lasciane metà per dopo. — Era un buon consiglio. Poteva darsi che lo sperma di Klimus avesse scarsa motilità (non infrequente fra gli uomini anziani) e non riuscisse a fertilizzare le uova. In questo modo, se ci fosse stato bisogno, alcune uova sarebbero rimaste a disposizione per ritentare più tardi con un diverso donatore, risparmiando a Molly un’altra seduta. Una volta aggiunto lo sperma di Klimus, il miscuglio sarebbe stato collocato in un’incubatrice. Klimus sarebbe tornato l’indomani sera alla stessa ora per controllare cosa stesse accadendo: la fertilizzazione avrebbe dovuto svolgersi piuttosto rapidamente nella capsula, ma ci sarebbe voluto un giorno per poterla rilevare. Avrebbe telefonato a Pierre, Molly e alla dottoressa Bacon per comunicare i risultati, e presumendo che ci fossero state uova fertilizzate, sarebbero tutti tornati la sera successiva, domenica, al momento in cui gli embrioni avessero raggiunto lo stadio delle quattro cellule, pronti per essere impiantati. Allora la dottoressa Bacon ne avrebbe inseriti quattro o cinque direttamente nell’utero di Molly attraverso il canale cervicale.
Se nessuno avesse attecchito, avrebbero ritentato più tardi. Se fossero riusciti ad attecchire uno o due, un test di gravidanza standard avrebbe dovuto dare risultati positivi in dieci o quindici giorni. Se se ne fossero impiantati di più, be’, Pierre aveva letto di una procedura chiamata «riduzione selettiva», un altro motivo per cui non era stato entusiasta che fosse il proprio sperma a generare embrioni per l’ÍVF.
— Bene — disse la Bacon, dopo essersi lavata le mani e tolta il camice — io vado a casa. Tenete le dita incrociate.
— Grazie… grazie mille — disse Molly, seduta su una sedia all’altro capo della stanza.
— Sì, grazie — disse Pierre. — L’abbiamo davvero apprezzato.
— Il piacere è stato mio — disse la Bacon. Lei e le sue assistenti li lasciarono.
— Anche voi due dovreste andarvene — disse Klimus a Pierre e Molly. — Uscite a cena; tenetevi occupati. Vi chiamerò domani sera.
Il telefono squillò nel soggiorno di Pierre e Molly alle 8:52 della sera dopo. Si guardarono l’un l’altra ansiosamente, indecisi, per mezzo secondo, su chi dovesse rispondere.
Pierre annuì a Molly, e fu lei a tuffarsi verso l’apparecchio, portandosi la cornetta al viso. — Pronto? — disse. — Sì? Davvero? Oh, è meraviglioso! È magnifico! Grazie, Burian. Grazie tante! Sì, sì, domani. Saremo lì alle otto. Un milione di grazie! Arrivederci, allora.
Pierre era già in piedi, cingendo da dietro la vita della moglie con le braccia. Lei mise giù la cornetta. — Abbiamo sette uova fertili! — disse.
Pierre la girò su se stessa e la baciò con passione. Le loro lingue danzarono per un po’, e le mani di lui si baloccarono coi seni. Si gettarono di nuovo sul divano, facendo l’amore ardentemente, selvaggiamente, e infine esplosero nell’orgasmo, dopo il quale giacquero esausti, accoccolati insieme.
Pierre capì che per il resto della sua vita avrebbe pensato a quella spettacolare esibizione amorosa come al vero momento in cui suo figlio era stato concepito.
Craig Bullen entrò nell’ultramoderno ufficio al trentasettesimo piano della Condor Health Insurance Tower di San Francisco. Seduto alla sua scrivania, come ogni giorno della settimana nei quattro decenni precedenti, c’era Abraham Danielson, il fondatore della compagnia. Bullen aveva sentimenti contrastanti riguardo il vecchio. Era un bastardo intrattabile, ma l’aveva preso con sé quindici anni prima, quando Bullen si era laureato all’Harvard Business School. — Sei il giovanotto più rapace che veda da anni — aveva detto Danielson, che era anziano già allora, e l’aveva inteso come un complimento. Danielson lo aveva aiutato nella scalata ai vertici, e ora Bullen era presidente. Danielson continuava a tenerlo in pugno, comunque, e spesso Bullen si rivolgeva al vegliardo per qualche assegno. Ma oggi la faccia segnata di Danielson era più accigliata del solito, e le miriadi di rughe erano ancor più profonde.
— Che c’è che non va? — chiese Bullen.
Danielson gesticolò verso gli stampati che gli coprivano la scrivania. — Proiezioni per il prossimo anno fiscale — disse con voce secca, roca. — Andremo ancora bene in Oregon e nello stato di Washington, ma questa nuova legge anti-discriminazione genetica ci manderà in rovina qui nella California del nord. Quest’anno ci siamo buscati un vagone di nuove polizze da gente che non avremmo mai assicurato prima, e questo ha incrementato un po’ il nostro reddito per qualche tempo. Ma l’anno prossimo e ogni anno seguente, molta di questa gente comincerà a mostrare sintomi evidenti di malattia, e a presentare richieste di danno. — Fece un sospiro rauco. — Pensavo che fossimo al sicuro da quando Hillary Clinton ha morso la polvere, quella tronfia puttana, ma se l’Oregon o lo stato di Washington adottassero una legge di tipo californiano, be’, all’inferno, non ci resterebbe che chiudere baracca e burattini e andare a casa.
Bullen scosse il capo lentamente. Aveva già sentito prima Danielson infuriarsi così, ma stava andando sempre peggio col passare degli anni. — Abbiamo già cominciato a passare mazzette a Salem e Olympia — disse Bullen, tentando di calmare il vecchio. — E la HIAA sta lottando sodo nel distretto di Columbia contro ogni simile legislazione federale. La legge della California è un’aberrazione, ne sono certo.
Ma Danielson scosse la testa. — Ma non capisci, Craig? Ormai il profitto nelle assicurazioni sanitarie ha i giorni contati. Cristo, avrei voglia di vendere il mio trentatré per cento e mandare tutto all’inferno. — Danielson sospirò ancora, e alzò lo sguardo. — C’era qualcosa per cui volevi vedermi?
— Già — disse Bullen — e in un certo senso è anche a proposito. Abbiamo una lettera di un genetista del… — scorse l’intestazione del foglio — …l’Ernest Orlando Lawrence Berkeley National Laboratory. Contesta la nostra clausola che incoraggia ad abortire feti con difetti genetici.
Il vecchio gesticolò con una mano ossuta di passargli la lettera. Avutala, diede uno sguardo al testo. — «Bioetica» — disse sprezzante. — Si schiarì la gola. — Almeno non ha menzionato Il mondo nuovo.
— Sì, l’ha fatto. È a questo che si riferisce l’espressione «incubo huxleyano».
— Digli di andare all’inferno — disse Danielson, restituendo la lettera al suo protetto. — Gente da torre d’avorio… non hanno la minima idea del mondo reale.
Erano otto settimane che Pierre aveva la copia della fedina penale di Chuck Hanratty che Helen Kawabata gli aveva dato. Era stato ansioso di parlare con la vedova di Bryan Proctor, ma non poteva andare a disturbarla finché non fosse passato un periodo sufficiente dall’omicidio di suo marito.
Ma ora rimpianse di aver aspettato… lei sembrava aver traslocato nel frattempo. Controllò di nuovo l’indirizzo sul pezzo di carta. Nessun dubbio: quello squallido palazzo d’appartamenti, pochi isolati a sud della Chinatown di San Francisco, era il posto dove aveva vissuto Bryan Proctor prima che Chuck Hanratty gli sparasse. Ma sebbene ci fossero ventuno nomi sulla pulsantiera del citofono nell’atrio, nessuno di loro era Proctor. Pierre stava per lasciar perdere e tornarsene a casa quando decise di tentare con la portineria. Premette il pulsante e attese.
— Sì? — disse una voce femminile attraverso un altoparlante pieno di scariche.
— Salve. Sto cercando la signora Proctor.
— Venga dentro. Suite centouno.
Udì qualcosa che scattava dentro la porta, seguito da un fastidioso ronzio. A Pierre balenò un pensiero… certo! Il portiere doveva essere stato Bryan Proctor; ecco perché il suo citofono non era etichettato per nome.
Avanzò attraverso l’atrio. Era un edificio in pessimo stato, con moquette logora e sporca. La suite, se meritava quel nome, centouno era accanto all’unico ascensore. Una donna poderosa, con uno di quei menti a palla da golf che talvolta hanno le persone grasse, era in piedi sulla porta aperta. Indossava dei vecchi jeans e una maglietta bianca sporca. — Sì? — disse, a mo’ di saluto. — L’appartamento vuoto è al secondo piano. Ci servono il primo e l’ultimo mese d’affitto, più referenze.
Pierre aveva visto l’insegna che era disponibile un appartamento con due stanze da letto, quando si era fermato lì davanti. — Non sono qui per questo. Mi perdoni per essere venuto senza chiamare prima, ma il suo numero non è sull’elenco, e io… be’, non so da dove cominciare. Sono terribilmente spiacente per la perdita di suo marito.
— Grazie — disse guardinga, restringendo gli occhi. — Conosceva Bryan?
— No, no, niente affatto.
— Allora, se sta cercando di vendere qualcosa, la prego di lasciarmi sola.
Pierre scosse il capo, meravigliato. — No… no, non è questo. È solo che… be’, vede, sono Pierre Tardivel. La faccia di lei era inespressiva. — E allora?
— Sono l’ultima persona che Chuck Hanratty ha assalito. C’ero quando è morto.
— Ha ucciso lei quel bastardo?
— Uhmm… sì.
Lei si fece da parte. — La prego, entri. Posso offrirle da bere? Caffè? Birra?
Gli fece strada nel soggiorno. Aveva solo due librerie, una contenente trofei di bowling e l’altra soprattutto CD. C’era un libro tascabile aperto a faccia in giù sul tavolino da caffè, un romanzo Harlequin. — Andrebbe bene una birra — disse Pierre.
— Si metta comodo sul divano e gliela prenderò. — La donna scomparve per qualche momento, e Pierre continuò a guardarsi in giro. Copie del «National Enquirer» e di «TV Guide» stavano in cima a un televisore che sembrava vecchio di almeno quindici anni. Non c’erano foto in cornice, ma c’era un poster del Grand Canyon tenuto su con del nastro adesivo ingiallito. Non c’era alcun segno che i Proctor avessero avuto figli.
La signora Proctor tornò e offrì a Pierre una lattina di Budweiser. Lui tirò la linguetta, bevve un sorso, e trasalì. Non si era mai abituato a quel piscio di vacca che gli americani chiamavano birra.
— È meglio così — disse la signora Proctor, sedendosi su una sedia. — Anche se avessero preso Hanratty, sarebbe tornato nelle strade in non più di un paio d’anni. Mio marito è morto, ma non era nessuno di importante. Non avrebbero dato a Hanratty la sedia elettrica per questo.
Pierre non disse nulla per qualche istante, poi: — Hanratty ha aggredito me, me in particolare. Non è stato solo un tentativo a casaccio.
— Oh? La polizia mi aveva detto…
— No, ce l’aveva proprio con me. Lui, ah… mi ha detto così.
I suoi occhi porcini si spalancarono. — Davvero?
— Ma non l’avevo mai incontrato prima in vita mia. Diavolo, è solo un anno che sto in California.
— Che strano accento che ha — disse la donna.
— Oh, be’, sono di Montreal.
— Lassù in Canada?
— Sì.
— Uno dei nostri vecchi inquilini si è trasferito, ha trovato lavoro a Vancouver. Mi domando se lei lo conosca.
Pierre sorrise, condiscendente. — Signora, il Canada è più grande degli Stati Uniti. Vancouver è a una bella distanza da dove vivevo.
— Più grande degli States? Fuori di qui. Gli States sono il più grande paese della Terra.
Pierre roteò gli occhi, ma decise di non discutere oltre. — Comunque — disse — visto che Hanratty ce l’aveva con me in particolare, mi stavo chiedendo se ce l’avesse specificamente anche con suo marito.
— Non vedo perché avrebbe dovuto — disse la donna.
— È stato solo uno scasso, ha detto la polizia. Quel bastardo non si aspettava che mio marito fosse a casa. Probabilmente si immaginava che, essendo portiere e tutto quanto, Bryan avesse un sacco di attrezzi che valesse la pena di rubare. Bryan in apparenza l’ha sorpreso, e lui gli ha sparato.
— Suppongo. Ma se ce l’avesse avuta con suo marito, piuttosto che coi suoi attrezzi?
— E perché mai?
— Be’, non lo so. Mi chiedevo solo se lui e io avessimo qualcosa in comune. Hanratty era membro di un gruppo neonazista. È possibile che non gli andassi a genio perché sono straniero, per esempio.
— Il mio Bryan era nato proprio qui nei buoni vecchi USA. A Lincoln, Nebraska, per essere esatti.
— Da che parte stava in politica?
— Repubblicano, anche se qualche volta non gli andava di alzarsi da tavola per andare a votare.
— E la sua religione?
— Presbiteriano.
— Era andato all’università?
— Bryan? — Lei rise. — Aveva smesso già alle medie.
— Alzò una mano. — Mica vuol dire che era stupido, tenga presente. Era un brav’uomo, e sapeva aggiustare quasi tutto. Ma non aveva fatto molta scuola.
— Ed era più anziano di me, non è vero? — Dipende. Lei è giovane come sembra?
— Ho trentatré anni.
— Be’, il mio Bryan ne aveva quarantanove. — Si fece un po’ malinconica menzionando la sua età. — Non c’è niente di peggio che morire giovani, non crede?
Pierre annuì. Niente di peggio.
Pierre guardò sul bancone del suo laboratorio. Fin da quando era ragazzino, odiava dover fare le pulizie lui stesso. Non era affatto divertente mettere le cose a posto, dopo averle tirate fuori. Ma bisognava farlo. Aveva sparso matracci e storte su tutto il ripiano. E certe attrezzature dovevano essere lavate attentamente; un laboratorio di biologia molecolare era un perfetto terreno di coltura per i germi, dopotutto.
Raccolse le storte e le mise da parte in uno degli armadietti. Poi prese un matraccio e lo portò al lavello, lo risciacquò sotto l’acqua fredda, infine lo appese a una rastrelliera ad asciugarli. Successivamente, prese le sue capsule di Petri e le mise in uno speciale sacchetto dei rifiuti. Tornò al tavolo e tese la mano verso una grossa fiasca, la sollevò, e la osservò cadere dalla sua mano tremante. Schegge di vetro finirono dappertutto e il contenuto della fiasca formò una pozza giallastra sul pavimento in piastrelle.
Pierre imprecò in francese. Sono stanco, si disse. Una lunga giornata. Andò a prendere scopa e paletta, e cominciò a raccogliere i vetri rotti. Stanco. Niente più che questo. Eppure…
A meno che non fosse la fottuta maledetta corea di Huntington, dopo aver finalmente raggiunto la sua testa mostruosa.
No. Non era niente. Niente.
Portò la paletta al secchio delle immondizie e la svuotò.
Domattina, sarebbe tornato tutto a posto.
Certamente, tutto a posto.
Pierre e Molly si trovavano in bagno di prima mattina, e guardarono la striscia del test di gravidanza insieme. Un segno azzurro di «più» si materializzò sulla superficie bianca.
— Oui! — disse Pierre.
— Wow — disse Molly. — Wow.
Pierre baciò sua moglie. — Congratulazioni.
— Stiamo per diventare papà e mamma — disse Molly con espressione sognante.
Pierre le carezzò i capelli. — Non avevo mai pensato che questo potesse accadere. Non a me.
— Sarà meraviglioso.
— E sarai una madre straordinaria.
— E tu… sarai un gran papà.
Pierre sorrise a quel pensiero. — Vuoi un maschietto o una femminuccia?
— Sai, probabilmente avremmo potuto chiedere a Burian. Avrebbe potuto dividere il suo sperma, se gliel’avessimo detto. C’è una differenza fra il seme che produce maschi e quello che produce femmine, non è vero? — Pierre annuì. Molly fece una pausa, rimuginando la questione. — Non lo so. Suppongo una femmina, ma è solo per la mia vita familiare, ne sono certa. Mia madre, mia sorella e io siamo state sole per lungo tempo prima che arrivasse Paul. Non sono sicura di come me la caverei con un ragazzino.
— Andresti benone.
— Tu hai una preferenza?
— Io? No, credo di no. Cioè, so che si dice che ogni uomo voglia un figlio con cui giocare a baseball, ma… — Decise di non completare quel pensiero, e la sua voce si spense. — Forse avere una bimba sarebbe più semplice — disse.
— In realtà, non mi importa cosa sia — disse infine Molly, con voce ancora sognante. — Basta solo che sia sano.
Dopo una lunga giornata all’Human Genome Center, Joan Dawson era felice di tornare a casa. Come faceva ogni sera, si era incamminata dalla stazione del BART per percorrere il miglio circa che la divideva dalla sua abitazione. Alla sua età, non poteva permettersi esercizi più faticosi, ma passava tutto il giorno alla sua scrivania di segretaria, e i diabetici dovevano stare attenti al loro peso.
Non c’era quasi nessuno in giro; viveva in un quartiere tranquillo. Quando lei e suo marito avevano comprato casa laggiù nel 1959, c’erano state un sacco di famiglie giovani. Il quartiere era invecchiato con loro; ormai le abitazioni, dopo tutto quel tempo, erano fuori portata delle giovani coppie di oggi. Ora in quella zona abitava soprattutto gente anziana… i fortunati erano ancora marito e moglie, ma molti degli altri, come Joan, avevano perso il proprio consorte nel corso degli anni. Il suo Bud si era spento nel 1987.
Joan risalì il vialetto davanti a casa sua, aprì il coperchio della cassetta postale, tolse la pubblicità, sorrise quando vide che era arrivato l’ultimo numero dell’«Ellery Queen’s Mystery Magazine», annaspò in cerca delle chiavi, ed entrò. Accese la luce della veranda, raggiunse il soggiorno, e…
— Joan Dawson?
Il cuore le schizzò quasi via dal petto, tanto forte si mise a battere. Girò su se stessa. Un giovane bianco con la testa rasata e teschi tatuati sugli avambracci la stava guardando con pallidi occhi azzurri.
Joan stava ancora tenendo la borsetta. Gliela offrì. — Prendila! Prendila! È tutto il mio denaro.
L’uomo indossava una maglietta nera dei Megadeath con sopra un giubbotto, jeans con squarci fatti ad arte e Adidas grigie. Scosse la testa. — Non sono i tuoi soldi che voglio.
Joan prese a indietreggiare, reggendo sempre la borsetta di fronte a sé, come se fosse uno scudo. — No — disse. — No… ci sono dei gioielli di sopra. Un sacco di gioielli. Puoi avere tutto.
Il punk cominciò ad avanzare verso di lei. — Non voglio nemmeno i tuoi gioielli.
Joan era indietreggiata fino al tavolino da caffè col ripiano di vetro. Ci cadde sopra di schiena, e il vetro si infranse con un suono simile allo sparo di un fucile. Riuscì a rimettersi in piedi. Una fitta le giunse dalla caviglia come una pugnalata; nella caduta se l’era storta malamente. — Ti prego — disse, cominciando a lamentarsi. — Ti prego, non quello.
Lo skinhead smise di avvicinarsi per un momento, con in faccia un’espressione schifata. — Non essere disgustosa. Sei tanto vecchia da essere mia nonna.
Joan sentì una fievole speranza riemergere dalla marea di terrore. — Grazie — disse. — Grazie, grazie, grazie… — Adesso aveva indietreggiato contro la ruvida mensola del caminetto.
L’uomo si aprì il giubbotto. In un fodero sotto il braccio aveva un lungo coltello da caccia col manico nero. Estrasse l’arma e si divertì per un istante a far guizzare una scintilla di luce riflessa sul volto agghiacciato di Joan.
Joan brancolò in cerca dell’attizzatoio, lo trovò, lo sollevò di fronte a sé. — Sta’ indietro! — disse. — Che cosa vuoi?
L’uomo sogghignò, mostrando i denti macchiati di tabacco. — Voglio — disse — vederti morta.
Joan inspirò profondamente, come preludio a un urlo, ma prima che potesse gridare l’uomo fece saettare il coltello dalla mano, e questo si piantò esattamente in mezzo al petto della donna, affondando per metà lunghezza. Lei si accasciò proprio davanti al caminetto, con la bocca ancora aperta a formare la O perfetta dell’urlo mai lanciato.
Pierre sedeva di fronte alla sua workstation UNIX. Il monitor era acceso, ma non stava leggendo quel che vi era sopra; piuttosto, stava sfogliando il «Daily Californian», il giornale studentesco dell’UCB. Notizie sulla squadra di football del campus; grandi dibattiti sull’eliminazione delle quote razziali per gli studenti; una lettera al direttore per protestare contro Felix Sousa.
La mente di Pierre tornò a vagare fino all’ultima volta che aveva detto a qualcuno di Sousa. Aveva parlato con quello strano tipo simile a un bulldog che aveva fatto irruzione in quella stessa stanza più di tre mesi prima. Ari qualcosa. No, no… non Ari. «Avi.» Avi… Avi «Meyer», si chiamava.
Pierre non aveva mai afferrato cosa fosse tutta quella storia. Chiuse il giornale e tornò al suo computer, aprendo una finestra sulla banca dati dei numeri telefonici governativi, accessibile tramite la LAN. Avi Meyer aveva detto di lavorare per il Dipartimento di Giustizia. La banca dati non conteneva elenchi dì singoli agenti, ma Pierre trovò ugualmente un numero per chiedere a Washington informazioni generiche. Evidenziò il numero, premette il tasto per lanciare il programma telefonico, selezionò l’opzione della chiamata personale nella finestra di dialogo che apparve, e lasciò che il modem componesse il numero per lui mentre teneva la cornetta del telefono all’orecchio.
— Giustizia — disse una voce femminile all’altro capo. Ci mancavano solo, pensò Pierre, la Verità e l’American Way.
— Salve — disse. — Avete qualcuno lì di nome Avi Meyer?
Clicchettio di tasti. — Sì. In questo momento è fuori città, ma posso farle lasciare un messaggio alla sua casella vocale, o farla parlare con una segretaria dell’OSI.
— OSI? — disse Pierre.
— L’Office of Special Investigations — disse la voce.
— Oh, certo — disse Pierre. — Be’, se dice che non c’è, richiamerò un’altra volta. Grazie. — Riattaccò, poi cliccò sull’icona di CompuServe e si collegò al Magazine Database Plus, che era diventato uno dei mezzi di ricerca favoriti di Pierre da quando l’aveva scoperto un paio di mesi prima. Conteneva il testo completo di tutti gli articoli apparsi su oltre duecento riviste popolari e specialistiche… incluse pubblicazioni come «Science» e «Nature», fin dal 1986. Batté due stringhe di ricerca, SPECIAL INVESTIGATIONS e «OSI» e selezionò SOLO PAROLE INTERE, per evitare un diluvio di risultati come «depositi» o «Bela Lugosi.»
Il primo centro fu in un articolo della rivista «People» su Lee Majors. Nella serie TV degli anni Settanta L’uomo da sei milioni di dollari, aveva lavorato per un’immaginaria agenzia governativa chiamata osi. Pierre continuò la ricerca.
Il secondo centro andò diritto al bersaglio: un articolo sul «New Republic» del 1993. Pierre continuò a leggere, affascinato. L’osi faceva realmente parte del Dipartimento di Giustizia… una divisione fondata nel 1979, dedicata a scoprire i criminali di guerra nazisti e i loro collaboratori negli Stati Uniti.
Il processo contro quel Demjanjuk — un operaio in pensione di Cleveland, un uomo semplice che aveva fatto appena la quarta elementare — era cominciato come il primo grosso successo dell’osi. Demjanjuk era stato accusato di essere Ivan il Terribile, una guardia del campo di sterminio di Treblinka. Era stato estradato in Israele, dove era stato dichiarato colpevole nel 1988, nel secondo dei due processi per crimini di guerra mai tenuti laggiù. Come nel primo processo, quello di Adolf Eichmann, Demjanjuk era stato condannato a morte.
Ma la reputazione dell’osi si era appannata quando, in appello, la Corte suprema israeliana aveva invalidato la condanna di John Demjanjuk. Dopo un’inchiesta sull’intero pasticcio, il giudice federale americano Thomas Wiseman aveva scoperto che l’osi non aveva rispettato «nemmeno i minimi standard di condotta professionale» nel suo procedimento contro Demjanjuk, presumendo che fosse colpevole e ignorando ogni evidenza del contrario.
Pierre proseguì a leggere. L’osi aveva saputo che il vero nome dell’uomo che volevano era Marchenko, non Demjanjuk. Ora, sì, John Demjanjuk «aveva» segnato scorrettamente come Marchenko il cognome da ragazza di sua madre su un modulo per ottenere lo status di rifugiato, ma più tardi aveva affermato di essersi semplicemente scordato il suo vero nome, così aveva solo inserito un comune cognome ucraino.
Pierre scorse altri articoli sul caso Demjanjuk, tratti da «Time», «Maclean’s», «The Economist», «National Review», «People», e altre pubblicazioni. Trovò interessante una parte della vita di Demjanjuk, raffrontandola al matrimonio saldo come una roccia dei propri genitori, Elisabeth e Alain Tardivel. Demjanjuk aveva sposato una donna di nome Vera in un campo per rifugiati il 1° settembre 1947. Nulla di strano in ciò… tranne che quando Vera e Demjanjuk si erano incontrati, lei era già sposata con un altro rifugiato, Eugene Sakowski. Sakowski si era recato in Belgio per tre settimane, e, mentre era via, John Demjanjuk aveva legato con Vera; al ritorno di Sakowski, Vera aveva divorziato da lui e sposato John.
Pierre si lasciò sfuggire il fiato in un lungo sospiro. I triangoli esistevano ovunque, sembrava. Si chiese che ne sarebbe stato della sua stessa vita se sua madre avesse ignorato i dettami della chiesa e divorziato da Alain Tardivel così da poter sposare il vero padre di Pierre, Henry Spade. Le cose sarebbero state così…
Una frase sullo schermo catturò il suo sguardo: una descrizione di Demjanjuk. Il Magazine Database Plus conteneva solo testo, niente fotografie, ma un’immagine si formò ugualmente nella mente di Pierre: un ucraino, calvo, vigoroso, dal collo taurino, con labbra sottili, occhi a mandorla e orecchie a sventola.
Merda… Non poteva essere.
«Non poteva essere.» Quell’uomo avevo vinto un Nobel, dopotutto.
Già… e quel fottuto di Kurt Waldheim era finito a fare il segretario generale delle Nazioni Unite.
Calvo, orecchie a sventola. Ucraino.
Demjanjuk era stato identificato basandosi su questi tratti somatici. Ma Demjanjuk non era Ivan il Terribile.
Il che significava che doveva esserlo stato qualcun altro.
Qualcuno che gli articoli chiamavano Ivan Marchenko.
Qualcuno che poteva benissimo essere ancora in circolazione.
Burian Klimus era ucraino, e per sua stessa recente ammissione era stato calvo fin da giovane. Aveva grandi orecchie, non insolite per un uomo della sua età, ma Pierre non aveva mai pensato che fossero a sventola. Tuttavia, una piccola operazione di plastica avrebbe potuto correggerle molti anni prima.
E Avi Meyer era un cacciatore di nazisti.
Un cacciatore di nazisti che aveva ficcato il naso nel Lawrence Berkeley Lab…
Meyer aveva chiesto di diversi genetisti, ma non era realmente stato interessato a nessuno di loro. Si era insistentemente riferito a Donna Yamashita come Donna Yamasaki, per esempio… non c’era motivo per cui non avrebbe dovuto sapere il nome esatto di qualcuno su cui stava realmente investigando.
E, comunque, né la Yamashita né Toby Sinclair, l’altro genetista di cui aveva chiesto Meyer, erano abbastanza anziani da essere criminali di guerra.
Ma Burian Klimus lo era.
Pierre scosse il capo. «Dio.»
Se aveva ragione, se «Meyer» aveva ragione…
Allora Molly stava portando in grembo il figlio di un mostro.
Pierre sapeva dove trovare ogni giornale di biologia al campus, ma non aveva idea di quale delle biblioteche dell’UCB tenesse cose come «Time» o «National Review». Voleva vedere le foto di Demjanjuk, come appariva oggi e, ancor più importante, le vecchie foto da cui era stato erroneamente identificato come Ivan. Joan Dawson sembrava sapere praticamente tutto quello che c’era da conoscere sull’università; senza dubbio avrebbe saputo anche dove poter trovare quelle riviste. Pierre lasciò il suo laboratorio e si diresse verso l’ufficio centrale dell’Human Genome Center.
Si fermò di botto sulla soglia. Dentro c’era Burian Klimus, che estraeva la posta dal casellario col suo nome sopra, appena oltre la porta. Da dietro, Pierre poté vedere dove le orecchie di Klimus si univano alla testa. C’erano delle grinze bianche lì. Erano cicatrici? O tutte le persone anziane avevano grinze del genere?
— Buongiorno, signore — disse Pierre, entrando nell’ufficio.
Klimus si voltò e guardò Pierre. Gli scuri occhi castani, le labbra sottili… era quella la faccia del male? Poteva essere quello, l’uomo che aveva ucciso così tanta gente?
— Tardivel — disse Klimus, a mo’ di saluto.
Pierre si ritrovò a fissarlo. Scosse lievemente il capo. — C’è Joan?
— No.
Pierre gettò uno sguardo all’orologio sopra la porta e aggrottò la fronte. Poi lo colpì un pensiero. — Fra parentesi, signore, un paio di mesi fa ho incontrato qualcuno che potrebbe conoscere… un certo signor Meyer.
— Jacob Meyer? Quello stronzetto succhiasoldi. Non è mio amico.
Pierre restò sbigottito. Sembrava di certo un commento antisemita, esattamente del genere che un nazista avrebbe fatto senza pensarci, a meno che, naturalmente, quel Jacob Meyer non fosse realmente uno stronzetto succhiasoldi. — Uh, no… quel tale si chiamava Avi Meyer.
Klimus scosse la testa. — Mai sentito nominare.
Pierre sbatté le palpebre. — Uno alto circa così? — Tenne la mano all’altezza del pomo d’Adamo. — Sopracciglia cespugliose? Faccia come un mastino?
— No.
Pierre aggrottò la fronte, poi guardò di nuovo l’orologio. — Joan avrebbe dovuto essere qui tre ore fa. Klimus aprì una busta con il dito.
— Gliel’avrebbe detto, se avesse avuto un impegno?
Klimus alzò le spalle.
— È diabetica. Vive da sola.
Il vecchio stava leggendo la lettera che aveva tolto dalla busta. Non rispose.
— Abbiamo il suo numero? — chiese Pierre.
— Da qualche parte, suppongo — disse Klimus — ma non ho idea di dove.
Pierre si guardò intorno in cerca di un elenco telefonico. Ne trovò uno sullo scaffale inferiore di una bassa libreria dietro la scrivania di Joan e cominciò a scorrere le pagine. — Non c’è nessuna Joan Dawson qui.
— Forse è ancora sotto il nome del suo defunto marito — disse Klimus.
— Che era…?
Klimus agitò la lettera che teneva in mano. — Bud, penso.
— Non c’è nemmeno un Bud Dawson.
Klimus si schiarì la vecchia gola, con un suono come di rimprovero. — Nessuno ha per nome Bud, in realtà.
— Un diminuitivo, eh? Per che cosa?
— William, di solito.
— C’è un William P. Dawson sulla Delbert.
Klimus non si scompose. Pierre formò il numero. Rispose una segreteria telefonica. — È una registrazione — disse Pierre — ma è la voce di Joan, e… Ciao, Joan. Sono Pierre Tardivel al LBNL. Sto solo chiamando per vedere se va tutto bene. Ora è quasi l’una, e siamo un po’ preoccupati per te. Se sei in casa, potresti alzare la cornetta? — Attese per trenta secondi, poi riattaccò. Si morse il labbro inferiore. — Delbert. Non è troppo lontana, vero?
Klimus scosse la testa. — Circa cinque miglia. — Pierre guardò l’orologio di nuovo. Un’anziana diabetica, che viveva da sola. Se avesse avuto una reazione all’insulina…
— Penso che andrò a fare un salto da lei. Klimus non disse nulla.
Pierre imboccò il vialetto di Joan. C’era qualcosa di sbagliato in quella casa, comunque: la luce della veranda era ancora accesa, sebbene fosse ormai pomeriggio inoltrato. Camminò fino alla porta d’ingresso. Un giornale del mattino, il «San Francisco Chronicle», era ancora su un gradino. Pierre suonò il campanello e attese una risposta, battendo il piede. Niente. Tentò di nuovo. Ancora nessuna risposta.
Pierre espirò rumorosamente, incerto di cosa fare. Si guardò intorno. C’erano delle grosse pietre nel piccolo letto di fiori di fronte alla casa. Le sollevò a una a una, in cerca di una chiave nascosta, ma tutto quel che trovò fu una grossa salamandra grigio ardesia. Alzò la pietra più grande, pensando di usarla per infrangere il vetro smerigliato della porta, ma non voleva ricorrere a mezzi estremi…
C’era una staccionata, coperta in gran parte di vernice bianca scrostata, intorno al cortile posteriore. Nella staccionata si apriva un cancelletto, e Pierre alzò il saliscendi arrugginito, lo spalancò, e penetrò nel cortile, la maggior parte del quale era occupato da filari di ortaggi ben curati. Il lato posteriore della casa aveva delle finestrelle e una porta a vetri scorrevole. Pierre raggiunse la prima finestra e premette il viso contro il vetro, coprendosi gli occhi dal riflesso del cielo con le mani. Niente. Solo una stanzetta con carta da parati e una TV.
Tentò la seconda finestra. La cucina. Joan aveva ogni aggeggio concepibile: due forni a microonde, spremitore, miscelatori, una macchina per fare il pane, e altro.
Raggiunse la porta a vetri, alzò lo sguardo, e…
Joan era su un fianco, rivolta verso di lui, con gli occhi ancora aperti. Una pozza di scuro sangue rappreso di più di un metro di diametro era sgorgata dal suo corpo; il cadavere informe era steso sul tappeto a pelo corto di fronte al caminetto. Pierre sentì la colazione risalirgli in gola. Corse di nuovo all’auto, guidò fino a trovare un telefono a gettone in un 7-Eleven, e fece il 9-1-1.
Pierre sedeva sul gradino d’ingresso di Joan, sorreggendosi il mento con le braccia, in attesa. Un’auto della polizia di Berkeley si fermò sul ciglio del marciapiede. Pierre alzò lo sguardo, si portò una mano alla fronte per schermarsi gli occhi, e strizzò le palpebre per distinguere le figure in uniforme che si avvicinavano sullo sfondo del bagliore del sole pomeridiano: un grasso nero e una snella donna bianca.
— Il signor Tardivel, non è vero? — disse il nero, levandosi un paio di occhiali da sole e mettendoli nel taschino pettorale.
Pierre si alzò in piedi. — Agente…?
— Munroe — disse l’uomo. Accennò col capo alla sua compagna. — E Granatstein.
— Naturalmente — disse Pierre, salutandoli con un cenno. — Salve.
— Vediamolo — disse Munroe. Pierre li guidò lungo il sentiero fra la casa e quella adiacente, attraverso il cancello, che aveva lasciato aperto, e nel cortile. Munroe teneva pronto il manganello, in caso che fosse necessario usarlo per infrangere una finestra, ma quando raggiunse la porta a vetri, vide che la serratura era stata forzata. — Lei non è stato dentro? — chiese Munroe.
— No.
Munroe entrò e fece un sommario esame del corpo. Granatstein, nel frattempo, cominciò a guardare nel cortile in cerca di qualcosa che l’aggressore potesse aver lasciato cadere durante la fuga. Munroe tornò fuori ed estrasse un libretto degli appunti, rilegato con una spirale in cima. Lo sfogliò fino a una pagina bianca. — A che ora è arrivato?
— Alle tredici e quindici — disse Pierre.
— Ne è sicuro?
— Ho guardato più volte l’orologio.
— Ed era morta quando lei è arrivato qui?
— Naturalmente…
— Lei era mai stato qui prima?
— No.
— Allora cosa l’ha portata qui oggi?
— Era in ritardo al lavoro. Ho pensato di dare una controllata.
— Perché? La cosa la riguardava?
— Era mia amica. Ed era diabetica. Ho pensato che potesse aver avuto una reazione all’insulina.
— Che stava facendo sul retro della casa?
— Be’, non rispondeva al campanello, e così…
— Così se n’è andato a ficcare il naso in giro?
— Be’, io…
— Il coltello che l’ha uccisa è svanito, ma a giudicare dal taglio che ha fatto, era molto simile a quello che ha ucciso Chuck Hanratty.
— Aspetti un minuto… — disse Pierre.
— E a lei è capitato di trovarsi sulla scena di entrambi I delitti.
— «Aspetti un dannato minuto»…
— Penso che dovrebbe venire in città con noi, a fare un’altra deposizione.
— Non sono stato io. Era morta quando l’ho trovata. Guardatela… è cadavere da ore.
Munroe aggrottò le lunghe sopracciglia. — Come fa a saperlo?
— Sono laureato in biologia molecolare; so quanto tempo ci mette il sangue a farsi così scuro.
— E tutto per coincidenza, giusto?
— Sì. Sì.
— Ha detto che lavoravate insieme?
— Esatto. All’Human Genome Center, Lawrence Berkeley National Laboratory.
— Qualcuno tenta di uccidere lei, e ora, quattro mesi dopo, qualcuno riesce ad ammazzare questa donna. È così?
— Credo.
Munroe sembrò poco convinto. — Dovrà restar qui finché non arriva il coroner; poi andremo tutti alla Centrale.
Pierre era seduto su una sedia di legno in una piccola stanza per gli interrogatori, alla Centrale di polizia di Berkeley. La stanza sapeva di sudore; Pierre avvertì anche l’odore del caffè dell’agente Munroe. Le luci sulla sua testa erano fluorescenti, e uno dei tubi, leggermente intermittente, dava a Pierre il mal di testa.
La porta metallica aveva una finestrella. In un lampo Pierre vi vide dei capelli biondi, poi la porta si aprì, e…
— Molly!
— Pierre, io…
— Salve, signora Tardivel — disse l’agente Munroe, mettendosi fra loro. — Grazie per essere venuta. — Fece un cenno al sergente che aveva scortato Molly nella stanza.
Molly non corresse di riflesso l’agente riguardo il suo nome; era un segno di quanto fosse sconvolta. — Che sta succedendo? — chiese.
— Era con suo marito la sera scorsa, fra le cinque e le sette? — I primi rilevamenti del coroner indicavano che la morte di Joan Dawson si fosse verificata tra quelle ore.
Molly indossava una maglietta arancione e blue jeans. — Sì — disse. — Eravamo fuori a cena insieme.
— Dove?
— Chez Panisse.
Sentendo nominare quel costoso ristorante, Munroe alzò le sopracciglia. — Che occasione festeggiavate?
— Abbiamo appena scoperto che stiamo per avere un bimbo. Guardi, che cos…
— E siete stati lì dalle cinque in poi?
— Sì. Siamo dovuti andare tanto presto per entrare senza aver prenotato. Decine di persone ci hanno visti lì.
Munroe imbronciò le labbra, pensando. — Va bene, va bene. Fatemi fare una telefonata. — Uscì dalla stanza. Molly si precipitò verso Pierre, abbracciandolo. — Che diavolo sta succedendo? — disse.
— Sono andato a casa di Joan Dawson stamattina. È stata assassinata…
— Assassinata! — Molly sbarrò gli occhi. Pierre annuì. — Assassinata… — ripeté Molly, come se quella parola fosse altrettanto straniera delle frasi in francese che occasionalmente fuoriuscivano dalle labbra di Pierre. — E sospettano te? È pazzesco.
— Lo so, ma… — Pierre si strinse nelle spalle.
— Che stavi facendo da Joan, comunque? Lui le raccontò la storia.
— Dio, è orribile — disse Molly. — Era…
Proprio allora, Munroe rientrò nella stanza. — Okay — disse. — È una fortuna che lei abbia quell’accento, signor Tardivel. Tutti da Chez Panisse l’hanno ricordata. È libero di andare, ma…
Pierre sospirò esasperato. — Ma cosa? Se sono libero…
Munroe alzò la mano carnosa. — No, no. Lei è pulito. Solo, be’, stavo per dirle di guardarsi il culo. Forse è tutta una coincidenza, ma…
Pierre annuì con espressione torva. — Già. Grazie.
Molly e Pierre lasciarono la stazione di polizia; Molly aveva preso un taxi per arrivare. Si infilarono nella Toyota di Pierre, il caldo era soffocante, dato che per due ore era stata al sole nel parcheggio della polizia. Mentre tornavano all’università, Pierre le chiese quale delle biblioteche del campus potesse avere «People» o «Time».
— La Doe, probabilmente… al quarto piano. Perché?
— Lo vedrai.
Si diressero lì. Pierre rifiutò di dire a Molly cosa stesse cercando, e fu attento a continuare a pensare in francese, per evitare che glielo leggesse nella mente. Un bibliotecario portò a Pierre gli arretrati che voleva. Li sfogliò rapidamente, trovò quel che cercava, poi aprì una copia di «People» su un tavolo e prese dei moduli per chiedere i libri in prestito, usandoli per mascherare tutto tranne una piccola immagine: una foto del 1942 di John Demjanjuk.
— Va bene — disse Pierre, indicando il tavolo. — Vai a dare un’occhiata a quella foto e dimmi se riconosci la persona che raffigura.
Molly si chinò e fissò la foto. — Non…
— È una vecchia fotografia, del 1942. È qualcuno che conosci?
— È molto tempo fa, ma… oh, vedo. Certo, è Burian Klimus, no? Ehi, dev’essersi fatto sistemare le orecchie.
Pierre sospirò. — Andiamo a fare due passi. C’è qualcosa di cui dobbiamo parlare.
— Non dovresti dire a quelli del laboratorio dell’omicidio di Joan?
— Più tardi. Questo non può aspettare.
— Quella foto non era di Burian Klimus — disse Pierre mentre uscivano dalla Doe Library e si dirigevano a sud. Era un bel pomeriggio d’inizio autunno, e il sole scivolava giù verso l’orizzonte. — È di un uomo di nome John Demjanjuk.
Oltrepassarono un gruppo di studenti che si dirigevano in senso opposto. — Un nome vagamente familiare — disse Molly.
Pierre annuì. Gli israeliani l’hanno processato per essere Ivan il Terribile, l’operatore della camera a gas nel campo di sterminio di Treblinka, in Polonia.
— Sì, sì. Ma era innocente, non è vero?
— Giusto. Era un caso di scambio d’identità. Il vero Ivan il Terribile era qualcun altro che somigliava un sacco a Demjanjuk. Ed è ancora in giro.
— Oh — disse Molly.
— Esattamente: Burian Klimus somiglia a Demjanjuk, almeno un po’.
— Eppure, non c’è la minima ragione per sospettarlo di essere un criminale di guerra.
Pierre alzò lo sguardo. La scia di un aeroplano aveva diviso il cielo senza nubi in due esatte metà. — Ricordi che ti avevo detto che un agente federale era venuto a vedermi, dopo che Chuck Hanratty mi aveva aggredito? Be’, ho scoperto oggi che sta con quel settore del Dipartimento della Giustizia che si dedica alla caccia dei nazisti.
— Trovo difficile credere che un uomo che ha vinto un Premio Nobel potrebbe essere tanto malvagio.
— Be, Klimus non ha vinto il Nobel per la Pace, dopotutto. In ogni caso, l’uomo che faceva funzionare le camere a gas… Ivan Marchenko… era stato lui stesso prigioniero di guerra prima dì offrirsi volontario per servire i nazisti. Chissà cosa ha fatto prima o dopo la guerra? Chissà quale grado di istruzione aveva?
— Ma un vincitore del Nobel…
— Sai chi era William Shockley? — chiese Pierre.
— Uhmm… l’inventeur del transistor? Pierre sorrise. — Stai barando. Molly arrossì un po’.
— Ma, comunque, sì, Shockley inventò il transistor, e vinse un Premio Nobel per questo nel 1956. Era anche un razzista sfegatato, farneticante. Affermava che i neri erano geneticamente inferiori ai bianchi, e gli unici neri in gamba erano in gamba perché avevano del sangue bianco in loro. Propugnò la sterilizzazione dei poveri, come anche di chiunque avesse un quoziente intellettivo inferiore alla media. Credimi, ho letto abbastanza biografie di premi Nobel da sapere che non tutti erano brava gente.
— Ma anche se Burian fosse questo Ivan Marchenko…
— Se è Marchenko, allora, be’… — Abbassò lo sguardo al ventre di Molly. — Allora è di Marchenko anche il bambino.
— Oh, merda… non ci avevo pensato. Continuo a pensarci come al «tuo» bambino…
Pierre sorrise. — Anch’io. Ma, be’, se è il figlio di Ivan il Terribile, allora… allora forse non dovremmo proseguire la gravidanza.
Erano giunti alla piazza proprio dentro Sather Gate. Pierre fece cenno di andare a riposarsi su una delle panchine piazzate contro il basso muretto. Molly si mise a sedere, e Pierre si sedette accanto a lei, cingendole le spalle con un braccio.
Lei lo guardò. — Lo so che è solo un giorno che sappiamo per certo che sono incinta, ma, be’, mi sono «sentita» incinta fin dall’impianto dell’embrione. E l’avevo atteso così a lungo…
Pierre le accarezzò il braccio. — Potremmo tentare ancora. Andare in una clinica regolare.
Molly chiuse gli occhi. — Tutto quel denaro. E siamo stati così fortunati a riuscire al primo tentativo, questa volta.
— Ma se è il figlio di Marchenko…
Molly si guardò intorno. Nella piazzetta, camminava gente in tutte le direzioni. Dei piccioni camminavano dondolandosi ad appena un paio di metri da loro. Si rivolse di nuovo a Pierre. — Lo sai che ti amo, Pierre, e ammiro il lavoro che fai come genetista. E so che i genetisti credono in «tale il padre, tale il figlio». Ma, be’, conosci la mia specializzazione: psicologia comportamentale, proprio quella che insegnava il buon vecchio B.F. Skinner. Onestamente, credo che non importi chi siano i genitori biologici, finché il bambino è allevato da una madre premurosa e un padre amorevole.
Pierre ci pensò sopra. Avevano già discusso una volta o due, nelle loro lunghe passeggiate serali, se prevalessero i geni o l’ambiente, ma non si era mai aspettato che fosse nulla di più che una questione accademica. E ora…
— Potresti scoprirlo per certo — disse Pierre. — Potresti leggere nei pensieri di Klimus.
Molly scrollò le spalle. — Tenterò, ma lo sai che non posso scavargli nella mente. Deve pensare… in inglese, in pensieri articolati, direttamente a quest’argomento. È tutto qui quello che posso leggere, ricorda. Possiamo cercare di orientare la conversazione in modo tale da rivolgere i suoi pensieri verso il suo passato nazista, ma a meno che non formuli una frase compiuta su questo argomento, non sarò in grado di leggerla. — Prese la mano di Pierre e la posò sul suo ventre piatto. — Ma, indifferentemente, anche se lui è un mostro, il bambino qui dentro è «nostro».
Era il tardo pomeriggio sulla Costa Occidentale, e quindi sera a Washington. Pierre armeggiò col sistema telefonico del DOT per giungere alla casella vocale appropriata. — Qui l’agente Avi Meyer. Sono a Lexington, Kentucky, fino a lunedì otto ottobre, ma sto controllando la mia posta vocale di frequente. Lasciate un messaggio dopo il segnale.
— Signor Meyer, sono Pierre Tardivel al Lawrence Berkeley National Laboratory… si ricorda di me? Guardi, uno dei nostri dipendenti è stato ucciso la notte scorsa. Ho bisogno di parlarle. Mi chiami o qui o a casa. Il numero di qui è…
Il funerale di Joan Dawson si tenne due giorni dopo in una chiesa episcopale. Pierre e Molly vi parteciparono. Mentre attendeva che iniziasse il servizio funebre, Pierre si scoprì a ricacciare indietro le lacrime; Joan era stata così gentile, così amichevole, così premurosa…
Arrivò Burian Klimus. Sembrava ingiusto avvantaggiarsi di un’occasione così solenne, ma per Molly le occasioni di vedere Klimus erano poche e distanti fra loro. Quando il vecchio si accomodò in un banco in fondo, Molly e Pierre si alzarono e si spostarono accanto a lui, con Molly proprio al suo fianco.
— È una tale vergogna — disse Molly, a bassa voce. Klimus annuì.
— Eppure — disse Molly — che esistenza dev’essere stata la sua. Qualcuno ha detto che Joan era nata nel 1929. Non riesco a immaginare quanto dev’essere stato spaventoso per una bambina di dieci anni vedere il mondo andare in guerra.
— Non più che per un uomo di ventotto — disse Klimus seccamente.
— Mi dispiace — disse Molly. — Dov’era lei durante la guerra?
— In Ucraina, soprattutto. — «E Polonia.»
— È stato forse in Polonia? — chiese Molly. Klimus la guardò. — La… ah, famiglia di mio padre era lì.
— Sì, per un breve tempo.
— C’era un campo laggiù… Treblinka.
— C’erano diversi campi — disse Klimus.
— Posti terribili — disse Molly. Tentò un approccio differente. — «Burian»… è forse l’equivalente ucraino di «John»? Ogni lingua sembra avere la propria versione di John: «Jean» in francese, «Ivan» in russo.
— No, non lo è. Anche in ucraino, «John» è «Ivan.» — Parve imbarazzato per un momento. — «Burian» in realtà significa «dimora vicino alle erbacce.»
— Oh. Eppure, mi piacciono i nomi ucraini. Sono così musicali. Klimus, Marcynuk, Toronchuk, Mymyrk… «Marchenko.»
«Ivan Marchenko» pensò Klimus. I due nomi scattarono insieme nella sua mente. — Sì, suppongo che lo siano — disse.
— La guerra dev’essere stata terribile, e…
— Non mi piace pensarci — disse Klimus — e… oh, scusatemi. C’è Dean Cowles; devo proprio andarlo a salutare. — Klimus si alzò e si separò da loro.
Mentre Pierre guidava, di ritorno dal cimitero, si voltò a guardare sua moglie. — Be’? Hai avuto fortuna?
Molly si strinse nelle spalle. — È difficile dirlo. Certamente non ha pensato niente tipo: ehi, la mia identità segreta è Ivan il Terribile e ho ucciso centinaia di migliaia di persone. Ciò non è sorprendente, la maggior parte di quelli che hanno fatto cose terribili nel loro passato hanno eretto meccanismi psicologici di difesa per impedire che i ricordi gli tornino in mente. Eppure, conosce il nome «Ivan Marchenko»… ha messo subito insieme queste due parole in testa.
Pierre aggrottò la fronte. — Be’, vedrò Avi Meyer questo pomeriggio. Forse avrà delle risposte concrete sul passato di Klimus.
Avi Meyer volò direttamente a San Francisco dal Kentucky, dove aveva investigato su alcuni ottuagenari membri del Ku Klux Klan. Lui e Pierre si erano messi d’accordo di incontrarsi in privato da Skates, sulla Berkeley Seawall Drive alla Marina. Il ristorante si protendeva sulla Baia, sostenuto da pilastri che non sembravano neanche lontanamente forti abbastanza da tenerlo su. Dei gabbiani erano posati sul bordo del tetto lievemente in declivio, cercando di tenere la presa nel vento che si alzava. Era metà pomeriggio, con un cielo grigio. Presero un tavolo accanto a una delle enormi finestre, che guardavano oltre le acque verso San Francisco.
— Sta bene, agente Meyer — disse Pierre non appena si mise a sedere — so che lei è una specie di cacciatore di nazisti. So anche che sono stato aggredito, e la mia amica Joan Dawson è morta. Mi dica che collegamento c’è… mi spieghi perché sta bazzicando intorno al LBNL.
Avi sorseggiò il caffè. Guardò oltre le piante e fuori dalla finestra. Una portaerei si stava muovendo lungo la Baia, diretta ad Alameda. — Controlliamo di routine i laboratori di genetica universitari e privati.
Pierre inclinò il capo. — Cosa?
— Teniamo anche d’occhio i dipartimenti di fisica, scienze politiche, e certi altri settori.
— E perché mai?
— È naturale per i nazisti andare a finire in questi posti. Non ho bisogno di dirle che c’è sempre stata qualche controversia sulla ricerca genetica. Creare una razza eletta, discriminazione basata sull’ereditarietà…
— Oh, andiamo!
— Lei stesso ha nominato Felix Sousa…
— Non fa parte dell’HGC; è solo professore di biochimica all’università, e inoltre…
— …e c’è Philippe Rushton, su nel suo natio Canada, che sta dando un nuovo significato all’espressione «Grande Nord Bianco»…
— Rushton e Sousa sono troppo giovani per essere nazisti.
— Le università brulicano di gente che si nasconde da una cosa o dall’altra; in Canada, metà dei vostri professori sono imboscati del Vietnam.
— E anche il vostro presidente.
Avi scrollò le spalle. — Ha mai visto Lo straniero? Il film di Orson Welles? È su un nazista che ottiene un lavoro come professore in un college americano. Posso nominare un centinaio di autentici casi del genere.
— Ed è per questo che pensa che Burian Klimus sia Ivan Marchenko.
Avi restò un attimo a bocca aperta. — Ha ragione — disse infine.
— Ho bisogno di sapere se è vero.
— Perché dovrebbe importargliene? Ho dato un’occhiata ai suoi curriculum della McGill e dell’Università di Toronto…
— Ha fatto cosa?
— Lei non è stato un attivista per i diritti umani. Non apparteneva ad alcun gruppo per la giustizia sociale. Perché dovrebbe importargliene di quel che Klimus può aver fatto mezzo secolo fa? Un francese di Montreal, perché qualcuno come lei dovrebbe curarsene?
— Dannazione, le ho già detto prima che non sono antisemita. Forse in Québec sarà un problema, ma io non ne faccio parte. — Pierre tentò di darsi una calmata. — Guardi, ho visto foto di Demjanjuk. So come sembrava da giovane, so che aveva una somiglianza con Klimus.
Apparve una cameriera. — Sprite — disse Pierre. Lei annuì e se ne andò.
— Klimus somiglia a Marchenko ancor più di Demjanjuk — disse Avi.
Pierre sbatté le palpebre. — Ha delle foto di Marchenko? — Nessun articolo del Magazine Database Plus menzionava l’esistenza di roba del genere.
Avi annuì. — Gli israeliani hanno i documenti delle SS su Marchenko dal 1991. — Aprì la sua cartella, ne estrasse una busta rigida, e ne tolse due fogli. Il primo era la fotocopia di un modulo dall’apparenza vetusta, con una piccola foto della testa e delle spalle attaccata all’angolo superiore sinistro. Il secondo era un ingrandimento di quella foto. Mostrava un uomo sulla trentina, con la faccia larga (qui deformata da un cipiglio crudele), calvizie incipiente, e orecchie a sventola.
Pierre guardò le fotocopie. Le sue sopracciglia si alzarono.
— Così — disse Avi, battendo un dito sulla foto ingrandita — è questo Burian Klimus?
Pierre espirò. — Le orecchie sono diverse…
— Quelle di Klimus non sono a sventola. Ma sistemarle è una cosa abbastanza facile.
Pierre annuì, e guardò l’ingrandimento di nuovo. — Sì. Sì, potrebbe essere Klimus.
— È quel che ho pensato vedendo la foto di Klimus su «Time», quando fu nominato direttore dell’Human Genome Center. Se «è» Marchenko, lei non ha idea di che mostro fosse quell’uomo. Non si limitava a gassare le persone, le torturava, le stuprava. Amava tagliare i capezzoli dai seni delle donne.
Pierre trasalì a quel particolare. — Ma ha qualche prova, oltre al suo aspetto, che Klimus possa essere Marchenko?
— È un genetista.
Il tono di Pierre fu secco. — Questo non è un crimine.
— Ed è nato nella stessa città ucraina di Ivan Marchenko, e nello stesso anno… il 1911.
— Davvero?
— Già. E poi c’è quel che è successo a lei. La sua aggressione è stata il primo collegamento diretto fra il movimento nazista e le ricerche di genetica svolte al Lawrence Berkeley.
— Ma Chuck Hanratty era un neonazista.
— Certo. Ma un sacco di gruppi neonazisti sono stati fondati da autentici nazisti della Seconda guerra mondiale. Conosce il nome del capo del Millennial Reich?
— No.
— In documenti sequestrati dalla Polizia di San Francisco, ci si riferisce a lui col nome in codice Grozny.
Lo stomaco di Pierre si contorse. «Gli è stato ordinato di ucciderti» aveva detto Molly, dopo aver letto nella mente di Chuck Hanratty prima della morte «da qualcuno di nome Grozny.»
— Grozny — ripeté Pierre. — Che cosa significa?
— Ivan Grozny è Ivan il Terribile in russo. È come la gente di Treblinka chiamava Ivan Marchenko.
A Pierre stava girando la testa. — Ma questo è pazzesco. Cosa potrebbe avere Klimus contro di me? — La cameriera riapparve e depositò la Sprite di Pierre.
— È un’ottima domanda.
— E Joan Dawson? Cosa poteva avere Klimus contro di lei?
Avi scosse il capo. — Non ne ho idea. Ma se fossi in lei, mi guarderei le spalle.
Pierre aggrottò la fronte e guardò fuori, verso le acque spumeggianti della Baia. — Lei è la seconda persona ad avermelo detto di recente. — Bevve un sorso della sua bibita. — Quindi, che facciamo adesso?
— Non c’è nulla che possiamo fare, finché non si concretizzerà qualche prova. Questi casi non si risolvono da un giorno all’altro, dopotutto; se Klimus è Marchenko, ha già eluso le ricerche per cinquant’anni. Ma tenga aperti gli occhi e le orecchie, e mi riferisca qualunque cosa scopra.
— Grazie per avermi lasciato venire — disse Pierre, che teneva la mano ferma aggrappandosi saldamente al bordo di una scrivania. Pur sentendosi ancora come se quel luogo gli fosse estraneo, Pierre non poteva più negare la verità: stava chiaramente manifestando sintomi della corea di Huntington. Il raduno del gruppo di supporto si stava tenendo in una classe di liceo, nel distretto di Richmond di San Francisco, a metà strada fra il Presidio e il Golden Gate Park.
La testa di Carl Berringer oscillava avanti e indietro, e ci volle qualche istante prima che fosse in grado di rispondere. Ma quando lo fece, la sua voce fu piena di calore. — Siamo lieti di averti con noi. Che ne hai pensato del discorso? — Berringer era un uomo dai capelli bianchi di circa quarantacinque anni, dal colorito pallido e occhi azzurri. L’oratore di turno aveva parlato su come affrontare la forma giovanile della malattia.
— È stato interessante — disse Pierre, che non aveva prestato attenzione e si era limitato a passare il tempo osservando con circospezione gli altri, la maggior parte dei quali erano in stadi molto avanzati della malattia. Dopotutto, a parte suo padre Henry Spade, Pierre non aveva mai visto da vicino nessun paziente di corea di Huntington in fase avanzata. Osservò il loro dolore, la loro sofferenza, le facce contratte, l’incapacità di parlare chiaramente, la tortura di fare qualcosa di semplice come tentare di deglutire, e gli sovvenne il pensiero che forse alcuni di loro sarebbero stati meglio morti. Era una cosa orribile da pensare, lo sapeva, ma…
«…ma è così, perché non c’è grazia di Dio, che diventerò anch’io.» Le condizioni di Pierre si facevano costantemente peggiori; aveva già rotto decine di strumenti di laboratorio e di bicchieri per bere. Eppure, solo quelli che lo conoscevano bene sospettavano che ci fosse sotto qualcosa di serio. Solo una tendenza agli scatti delle mani, occasionali tic facciali, qualche piccolo difetto di linguaggio…
— Tu lavori al LBL, non è vero? — chiese Carl, la cui testa ora si muoveva senza posa.
Pierre annuì. — In realtà, adesso è il LBNL. Hanno aggiunto la parola «Nazionale» al nome del laboratorio quasi un anno fa.
— Be’, abbiamo avuto un tizio del tuo laboratorio a tenere un discorso un paio d’anni fa. Un grosso vecchio calvo. Non ricordo il suo nome, ma ha vinto un Premio Nobel.
Le sopracciglia di Pierre si alzarono. — Non sarà Burian Klimus?
— Proprio lui. Ragazzo, siamo stati fortunati a ottenerlo. Tutto quel che possiamo offrire agli oratori è una targa ricordo. Ma era stato appena nominato al Lawrence Berkeley, e l’università lo stava mandando in un giro di conferenze dappertutto. — Le mani di Carl avevano preso a muoversi, come se stesse facendo esercizi di flessione delle dita. Pierre cercò di non guardarlo. — Comunque — disse Carl — sono lieto che tu sia venuto. Spero che diventerai un partecipante regolare. Un po’ d’aiuto può servire a tutti.
Pierre annuì. Non era sicuro di essere più contento, ora che aveva finalmente ceduto ed era giunto fin lì. Sembrava una semplice anticipazione non necessaria dì cos’avesse in serbo per lui il futuro. Si guardò in giro. Molly, enormemente incinta, stava in un angolo a sorseggiare acqua minerale con una donna bianca di mezza età, in apparenza un’infermiera. Stava senza dubbio ascoltando quel che la aspettava.
I casi realmente gravi non erano nemmeno lì, ma costretti a letto a casa o in ospedale. Si guardò intorno e contò diciotto persone presenti: sette ovvi pazienti, altri sette che si prendevano chiaramente cura di loro, e quattro la cui identità non era facile da determinare. Poteva essergli stato diagnosticato solo di recente il gene della malattia, o potevano essere infermieri venuti al posto di pazienti troppo gravi per assistere di persona. — È questa la frequenza normale? — chiese Pierre.
La testa di Berringer si stava ancora agitando, e il suo braccio destro aveva preso a muoversi lievemente avanti e indietro, come fa il braccio di qualcuno mentre cammina. — Di questi tempi, sì. Abbiamo perso cinque membri l’anno scorso.
Pierre guardò il pavimento a piastrelle. La corea di Huntington era un male «terminale»; quella era l’unica, inesorabile realtà. — Mi dispiace — disse.
— Alcuni ce li eravamo aspettati. Sally Banas, per esempio. In effetti, aveva tenuto duro più di quanto potesse pensare chiunque. — I movimenti della testa di Berringer erano sconvolgenti; Pierre sentì l’irritazione crescere in sé. — Un altro è stato un suicida. Un giovane, apparso solo a un paio di raduni. Diagnosi recente. — Berringer scosse il capo. — Lo sai com’è.
Pierre annuì. Fin troppo bene.
— Ma gli altri tre… — Berringer aveva teso il braccio sinistro per aiutare a tener fermo il destro. — Il mondo è un posto da pazzi, Pierre. Forse non sarà tanto male su in Canada, ma quaggiù…
— Che è successo?
— Be’, erano tutti membri nuovi di zecca… solo di recente si era manifestata la malattia. Avrebbero dovuto avere ancora degli anni davanti a sé. A uno di loro, Peter Mansbridge, hanno sparato. Altri due sono stati uccisi a coltellate, a sei mesi di distanza. Tentata rapina, sembra.
— Dio — disse Pierre. Cos’aveva fatto, a venire negli States? Lui era stato aggredito, Joan Dawson era stata assassinata, e ogni volta che girava la testa sentiva parlare di nuovi crimini violenti.
Berringer tentò di scuotere il capo, ma quel gesto si perse fra i sussulti. — Io non chiedo pietà — disse lentamente — ma vien da credere che chiunque abbia visto uno di noi ridotto così ci lascerebbe in pace, invece di ammazzarci per le poche monete che potremmo avere nel portafoglio.
Finalmente, giunse il giorno tanto atteso. Pierre portò in macchina Molly all’Alta Bates Hospital su Colby Street. Nel cofano della Toyota, come sempre nelle ultime due settimane, c’erano la valigia di Molly e una videocamera, un inatteso dono di Brian Klimus, che aveva insistito con Pierre e Molly, dicendo che videoriprendere la nascita era l’ultima moda.
L’Alta Bates aveva delle belle sale parto, più simili a suite d’albergo che a locali d’ospedale. Pierre dovette ammettere che una cosa che mancava dagli ospedali governativi del Canada era qualunque traccia di lusso, ma lì… be’, era proprio grato che a coprire le spese fosse il piano sanitario della facoltà di Molly…
Pierre sedeva su una morbida sedia imbottita, e guardava raggiante sua moglie e la figlia appena nata. Un’infermiera nera di mezza età entrò a controllare. — Vi siete già decisi sul nome? — chiese.
Molly guardò Pierre, per assicurarsi che fosse ancora contento di quella scelta. — Amanda — disse. — Amanda Helene.
— Un nome inglese e uno francese — disse Pierre, sorridendo all’infermiera.
— Sono entrambi dei bei nomi — disse l’infermiera.
— «Amanda» significa «degna di essere amata» — disse Molly. Bussarono alla porta, e poi, un momento dopo, la porta si spalancò. — Posso entrare?
— Burian! — disse Molly.
— Dottor Klimus — disse Pierre, un po’ sorpreso. — È bello che venga a trovarci.
— Nient’affatto, nient’affatto — disse il vecchio, attraversando la stanza.
— Vi lascerò soli — disse l’infermiera, sorridendo e uscendo.
— Il parto è andato bene? — chiese Klimus. — Nessuna complicazione?
— È andato a meraviglia — disse Molly. — Spossante, ma a meraviglia.
— L’avete registrato tutto su videocassetta? Pierre annuì.
— E il neonato è normale?
— Tutto a posto.
— Bambino o bambina? — chiese Klimus. Pierre sentì sollevarsi le sopracciglia; di solito era la prima domanda, non la quarta.
— Una bambina — disse Molly.
Klimus si fece più vicino per vedere da sé. — Una bella testolina ricciuta — disse, toccandosi con una mano nodosa la propria, pelata come una palla da biliardo, ma non fece nessun altro commento sulla paternità della bimba. — Quanto pesa?
— Quasi quattro chili — disse Molly.
— E la sua lunghezza?
— Quarantadue centimetri. Lui annuì. — Molto bene.
Con discrezione Molly si portò Amanda al seno, quasi tutto nascosto dalla sua vestaglia d’ospedale, poi alzò lo sguardo. — Voglio ringraziarti, Burian. A nome di entrambi. Per tutto quello che hai fatto per noi. Non sappiamo neanche come dirti quanto ti siamo grati.
— Oui — disse Pierre. Tutte le sue paure si erano dissipate. Sua figlia era un angelo; come avrebbe mai potuto avere i geni di un demonio? — Mille fois merci.
Il vecchio annuì e distolse lo sguardo. — Non è stato niente.
«Je ne suis pas fou» pensò Pierre, un mese dopo. «Non sono pazzo.» Eppure la mutazione era scomparsa. Aveva voluto fare altri studi sulla sequenza di Dna che produceva lo strano neurotrasmettitore associato alla telepatia di Molly. Aveva usato un enzima di restrizione per tagliar via il pezzetto di cromosoma tredici che codificava la sua sintesi. Fin qui, tutto bene. Poi, per rifornirsi di una scorta illimitata di quel materiale genetico, iniziò ad amplificarlo con la PCR, la reazione a catena della polimerase, che avrebbe continuato a duplicare quel segmento di DNA più e più volte. Senza bisogno di nient’altro che una provetta contenente il campione e pochi reagenti, la PCR riusciva a produrre cento miliardi di copie di una molecola di DNA nell’arco di un pomeriggio.
E ora aveva quei miliardi di copie, solo che, sebbene le copie fossero tutte identiche l’una all’altra, non erano uguali all’originale. La timina che si era intrufolata nel codice genetico di Molly, causando la trasposizione, non era stata incorporata nelle copie. Nel punto chiave, i segmenti di DNA prodotti si leggevano tutti CAT CAG GGT GTC CAT. Proprio come quelli di Pierre; proprio come quelli di chiunque altro.
Poteva aver fatto un pasticcio? Poteva aver sbagliato a leggere la sequenza di nucleotidi nel campione originale di DNA di Molly che le aveva estratto dal sangue tutti quei mesi prima? Frugò nel suo archivio fino a trovare l’autoradiografia originale. Nessun errore: la timina intrusa «c’era».
Si accinse al lungo processo di ricavare un’altra autoradiografia da un altro pezzo del DNA originale di Molly. Sì, la timina appariva anche lì… la mutazione era presente, trasformando il normale CAT CAG GGT GTC CAT in TCA TCA GGG TGT CCA.
La PCR era un semplice procedimento chimico. Non doveva importargliene se la timina c’era davvero o no. Avrebbe dovuto solo duplicare fedelmente la stringa.
Ma non l’aveva fatto. Essa, o qualcosa nel processo di riproduzione del DNA, aveva «corretto» la stringa, riportandola come ci si aspettava che fosse.
Pierre scosse il capo, meravigliato.
— Buongiorno, dottor Klimus — disse Pierre entrando nell’ufficio dell’HGC per raccogliere la posta.
— Tardivel — disse Klimus. — Come sta la bambina?
— Benone, signore. Proprio benone.
— Ha ancora tutto quel pelo?
— Oh, sì. — Pierre sorrise. — In effetti, ha pelo perfino sulla schiena… perfino io non ho il dorso villoso. Ma il pediatra dice che non è insolito, e dovrebbe scomparire quando i suoi ormoni diventeranno meglio equilibrati.
— È una bimba sveglia?
— Sembra di sì.
— Ben adattata?
— In realtà, per una già di un mese è piuttosto tranquilla, il che è bello, in un certo senso. Almeno riusciamo a farci un po’ di sonno.
— Mi piacerebbe passare da casa tua nel fine settimana. Vedere la bimba.
Era una richiesta presuntuosa, pensò Pierre. Ma del resto… dannazione, era lui il padre biologico. Pierre sentì torcersi lo stomaco. Si maledisse per aver pensato che una faccenda tanto complessa non sarebbe finita per essere fonte di problemi. Tuttavia, Klimus era pur sempre il superiore di Pierre, con grande potere su di lui.
— Uhm, certo — disse Pierre. Sperò che Klimus percepisse il suo scarso entusiasmo e decidesse di lasciar cadere la questione. Prese la posta dalla casella.
— A dire il vero — disse il vecchio — forse passerò a cena domenica. Alle sei? Passiamo una bella serata.
A Pierre sprofondò il cuore. Pensò a qualcosa che Einstein aveva detto una volta: «Talvolta bisogna pagare di più le cose che si ottengono per nulla». — Come no — disse Pierre di nuovo, rassegnandovisi. — Certamente.
Il vecchio annuì cortesemente, poi tornò a frugare fra la sua posta. Pierre restò immobile per qualche momento, poi, rendendosi conto di essere stato congedato, prese la propria posta e si diresse lungo il corridoio verso il suo laboratorio.
Burian Klimus era seduto nel soggiorno di Molly e Pierre. Amanda non sembrava mostrare alcuna simpatia per lui, ma, d’altra parte, lui non aveva dato alcun segno di volerla tenere in braccio o di parlottarle. Ciò seccò Pierre. Era stato il vecchio a voler vedere la bambina, dopotutto. Ma invece di giocare con lei, continuava a fare domande su come mangiava e dormiva, mentre, fra lo sbalordimento di Pierre, scribacchiava note in cirillico su un blocco d’appunti tascabile.
Finalmente, fu il momento della cena. Molly preparò pollo alla Kiev (Klimus era ucraino, dopotutto), patate al gratin, e cavolini di Bruxelles. Pierre aprì una bottiglia per accompagnare il tutto, e si diressero a tavola, lasciando Amanda, che Molly aveva già allattato al seno prima, contenta di pisolare nella culla.
Pierre tentò di conversare su ogni sorta di argomenti, ma Klimus non parve interessato. Così, finalmente, si decise a chiedere al vecchio su che cosa stesse lavorando.
— Be’ — disse Klimus, dopo aver bevuto un altro sorso di vino — sapete che sto passando un sacco di tempo all’Institute of Human Origins. — Anche l’IHO era a Berkeley; il suo direttore era Donald Johanson, scopritore della famosa Australopithecus afarensis nota come Lucy. — Spero di fare progressi col DNA di Hapless Hannah per risolvere il dibattito sulle origini fuori dall’Africa. Ne sai qualcosa tu, Molly?
Lei scosse il capo. Lui le spiegò del progresso fatto estraendo DNA intatto dalle ossa di neanderthal israeliane, poi fece una pausa per fortificarsi con un altro sorso di vino. Pierre si alzò per aprire una seconda bottiglia.
— Be’ — disse Klimus — ci sono due modelli in competizione per spiegare le origini degli umani moderni. Una è chiamata l’ipotesi fuori-dall’-Africa; l’altra è l’ipotesi multiregionale. Entrambe concordano che l’Homo Erectus iniziò a diffondersi dall’Africa in Eurasia uno virgola otto milioni di anni fa… l’uomo di Giava, l’uomo di Pechino, l’uomo di Heidelberg, sono tutti esemplari di erectus.
«Ma l’ipotesi fuori-dall’-Africa dice che l’uomo moderno, Homo sapiens, che può o non può includere í neanderthal come sottogruppo, si evolse in Africa orientale, ma non si espanse oltre quei confini fino a una seconda migrazione dall’Africa appena cento o duecentomila anni or sono. I fautori della fuori-dall’Africa dicono che quando questa seconda ondata si imbatté in vari gruppi di erectus in Asia e in Europa, li sconfisse, lasciando l’Homo sapiens come l’unica specie sopravvissuta dell’umanità.»
Si interruppe per un tempo sufficiente a lasciare che Pierre gli versasse un altro bicchiere di vino. — L’ipotesi multiregionale è del tutto diversa. Asserisce che quelle popolazioni di erectus continuarono a evolversi, e che «ognuna» finì per generare in modo indipendente l’uomo moderno. Ciò spiegherebbe perché l’Homo sapiens sembra apparire nella documentazione dei fossili simultaneamente in tutta quanta l’Eurasia.
— Ma di sicuro — disse Molly, affascinata suo malgrado — se si hanno delle popolazioni isolate, si finisce con l’evoluzione di specie differenti in ogni area, come sulle isole Galapagos. — Si alzò per andare a lavare i piatti.
Klimus le porse il suo. — I multiregionalisti affermano che ci furono un sacco di incroci fra le varie popolazioni, permettendogli di evolversi all’unisono.
— Incroci dalla Francia fino all’Indonesia? — disse Molly, sparendo in cucina per un momento. — E io che pensavo che mia sorella si desse da fare.
Pierre rise, ma quando Molly tornò stava scuotendo la testa. — Non saprei — disse. — Questa storia multiregionale sembra più un esercizio di correttezza politica che buona scienza, un tentativo di evitare la domanda di Felix Sousa di quale-razza-venne-prima e dire: «Ehi, ci siamo evoluti tutti assieme».
Klimus annuì. — Normalmente, sarei d’accordo con te, ma a Giava e in Cina ci sono eccellenti sequenze di teschi che vanno dall’Homo erectus all’uomo di Neanderthal fino a uomini del tutto moderni. Sembra in effetti che in questi luoghi, e probabilmente anche altrove, si sia svolta un’evoluzione indipendente verso l’Homo sapiens.
— Ma questo è evoluzionisticamente assurdo — disse Molly. — Il modello classico dell’evoluzione dice che, tramite la mutazione, un individuo all’interno di una popolazione guadagna spontaneamente un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza, e così la sua progenie, a causa di quel vantaggio, batte nella competizione chiunque altro, finendo per creare una nuova specie.
Pierre si alzò per aiutare Molly a servire il dessert: una mousse di cioccolato che aveva fatto lei. — Ma c’è sempre un problema in questo — disse lui. — Pensateci: vuol dire che a distanza di poche generazioni, l’intera popolazione sarà discesa da quell’unico mutante fortunato. In questo modo si finisce con un patrimonio genetico molto piccolo, e ciò tende a concentrare malattie genetiche recessive. — Offrì una scodella di vetro a Klimus, poi tornò a sedersi. — È come la regina Vittoria, che portava il gene dell’emofilia. I suoi discendenti si incrociarono con le case reali d’Europa, devastandole. Supporre che intere popolazioni vengano ricondotte a un singolo antenato, ogni volta che si verifica un importante vantaggio dovuto a una mutazione… renderebbe la vita estremamente precaria. Se quel fortunato mutante non restasse ucciso in un incidente, la sua progenie potrebbe estinguersi comunque attraverso le malattie genetiche. — Assaggiò la mousse, poi annuì, gradevolmente impressionato. — Ora, se l’evoluzione «potesse» in qualche modo svolgersi simultaneamente fra popolazioni largamente disperse, come suggeriscono i multiregionalisti, be’, suppongo che questo problema verrebbe evitato; ma non riesco a pensare a nessun meccanismo che permetterebbe un’evoluzione di questo genere, sebbene…
Amanda cominciò a piangere. Pierre immediatamente balzò in piedi e si affrettò a raggiungerla, prendendola in braccio, appoggiandosela su una spalla e facendola dondolare dolcemente su e giù. — Su, su, gioia — la coccolò. — Su, su. — Sorrise a Klimus, rimasto in sala da pranzo. — Mi spiace di questo — disse.
— Niente affatto, niente affatto — disse Klimus. Tirò fuori il suo blocco note e scribacchiò qualcos’altro.
— Guarda la mammina, tesoro. Su, guarda la mammina. Fai la brava bambina. Ora, papà ti pungerà il braccio un pochino. Ti farà male, ma non troppo, e durerà solo un secondo. Okay, tesoro? Ecco il mio dito. Dagli una bella strizzata. Così. Okay, eccoci pronti. No, no… non piangere, gioia. Non piangere. È passato ora. Andrà tutto benone, baby… Andrà tutto benone.
Pierre controllò un piccolo campione del DNA di Amanda. A sua figlia mancava la mutazione del cromosoma tredici, e quindi presumibilmente, una volta cresciuta, non sarebbe stata telepate. Molly parve avere sentimenti curiosamente contrastanti al riguardo, ma Pierre dovette ammettere di essere sollevato.
Il lavoro iniziale di Pierre aveva mostrato che solo uno dei due cromosomi tredici di Molly aveva la mutazione telepatica, il che significava che Amanda aveva avuto solo il cinquanta per cento di probabilità di ereditarlo da sua madre (Amanda, naturalmente, avrebbe ricevuto uno dei tredici di Molly e uno dei tredici di Klimus). Così in realtà non c’era niente di strano che la bimba non avesse ereditato il gene mutato di sua madre, eppure…
Eppure, durante una semplice amplificazione PCR del DNA di Molly, la trasposizione era stata «corretta», così…
E identico era adesso il caso di Amanda, che, come in un’estrazione a caso, aveva fortunatamente ricevuto da sua madre il cromosoma tredici non mutato, o…
O «nessuna» delle cellule uovo di Molly conteneva il DNA trasposto? Era stato in qualche modo corretto anche lì, come durante la replicazione PCR?
Ovviamente, la mutazione non poteva essere corretta ogni volta che appariva, o si sarebbe aggiustata durante lo sviluppo dello stesso embrione di Molly, più di trent’anni prima. Eppure, in qualche modo, adesso veniva soppressa. Pierre doveva sapere se la correzione fosse presente negli ovuli non fertilizzati di Molly, o se si svolgesse solo dopo che l’ovulo era fertilizzato e aveva iniziato a dividersi.
Grazie al preliminare trattamento ormonale, Molly aveva portato a maturazione un gran numero di ovuli in un unico ciclo. Gwendolyn Bacon ne aveva estratti quindici per il tentativo di fecondazione in vitro, ma aveva detto a Klimus di provare a fertilizzarne solo la metà, il che significava che sette o otto degli ovuli non fertilizzati di Molly erano presumibilmente ancora lì nell’edificio 74.
Dopo una telefonata a Molly, Pierre lasciò il proprio laboratorio e raggiunse quella stessa piccola sala operatoria in cui le cellule uovo di Molly erano state estratte più di un anno prima. Pierre conosceva uno dei tecnici di lì: non ebbe difficoltà a fargli trovare e consegnare le cellule uovo di Molly, sette delle quali erano ancora congelate.
Naturalmente, era possibile che sette uova scelte a caso ereditassero tutte, da parte materna, lo stesso cromosoma tredici, ma le probabilità erano contrarie.
Eppure, apparentemente, questo era accaduto. Nessuna delle cellule uovo aveva la mutazione. A meno che…
I due cromosomi tredici di Molly differivano fra loro in altri modi, naturalmente. Pierre iniziò a testare altri punti dei cromosomi estratti dagli ovuli, e…
No, «non» avevano tutti ricevuto lo stesso cromosoma tredici. A quattro di essi era toccato uno dei cromosomi tredici di Molly, quello che, nel corpo di Molly, non aveva la mutazione, mentre tre avevano ricevuto l’altro dei tredici di Molly, quello che «aveva» la mutazione.
Eppure, incredibilmente, la mutazione era stata corretta in ciascuno degli ovuli.
Un mese dopo, Pierre e Molly si recarono al San Francisco International Airport. Pierre stava per incontrare sua suocera e sua cognata per la prima volta. Amanda avrebbe dovuto essere battezzata il giorno dopo; sebbene i Bond non fossero cattolici, la madre di Molly aveva insistito per cogliere almeno quell’occasione di vedersi.
— Eccole là! — disse Molly, indicando oltre un mare di gente in lotta con le borse e i carrelli dei bagagli.
Pierre scrutò la folla. Aveva già visto foto di Barbara e Jessica Bond, ma nessuna delle facce gli balzò subito all’occhio. Ma poi due donne li salutarono dal fondo, con gran sorrisi sulle facce. Si fecero strada a spintoni lungo il piccolo corridoio in cui la folla si stava incanalando per uscire. Molly si precipitò ad abbracciare sua madre e poi, dopo un momento d’esitazione, abbracciò anche sua sorella.
— Mamma, Jess — disse Molly — questo è Pierre.
Ci fu un altro momento impacciato; poi la signora Bond si avvicinò e lo abbracciò. — È meraviglioso incontrarti, finalmente — disse, con appena un lievissimo accenno di sarcasmo nella voce. Non era stata lieta che Molly si sposasse senza nemmeno invitarla.
— È un piacere anche per me incontrarla — disse Pierre.
— Ehi — disse Jessica con una nota stuzzicante nella voce, forse tentando di alleviare la tensione suscitata dal commento di sua madre. — Ci avevi detto che era franco-canadese, ma non che aveva un accento così sexy.
Molly ridacchiò, qualcosa che Pierre non l’aveva mai sentita fare prima. All’improvviso lei e Jessica erano tornate adolescenti. — Vatti a cercare il tuo, di immigrante — disse, poi si rivolse a Pierre. — Tesoro, questa è Jessica.
Jessica gli porse la mano, col dorso in su. — Enchantée — disse.
Pierre si adeguò al ruolo che gli veniva richiesto. Si inchinò e le baciò il dorso della mano. — C’est moi, qui est enchanté, mademoiselle. — Lei ridacchiò. Jessica era una bellezza mozzafiato. Molly aveva menzionato che aveva fatto per un certo periodo di tempo la modella e poté vedere perché. Era la versione più alta, più provocante di sua sorella. Il suo trucco era applicato con perizia: ombretto nero, uno spruzzo di cipria e rossetto rosa. Molly era in piedi proprio accanto a lui; Pierre provò un attimo d’ansia, ma si rilassò quando si rese conto di aver fatto quelle osservazioni in francese.
— Temo che la nostra auto sia parcheggiata a una bella distanza — disse. Le borse delle donne non erano molto grosse. Soltanto pochi mesi prima, Pierre le avrebbe prese una per mano e le avrebbe trasportate con facilità. Ma le sue condizioni si stavano aggravando di giorno in giorno, a passi piccoli ma percettibili.
A un paio di metri di distanza un uomo corpulento stava dando un’esibizione di mascolinità, lasciando perdere il carrello portabagagli e portando da sé una Samsonite enorme. Pierre si mosse più in fretta che poteva, impadronendosi del carrello e mettendoci sopra le borse di Jessica e di Barbara. Almeno, il carrello poteva certamente spingerlo. Intrapresero la lunga scarpinata fino al garage.
— Com’è stato il volo? — chiese Pierre.
— È stato un volo — rispose Jessica. Pierre sorrise, avvertendo in lei un’affinità di spirito. Che altro poteva dire, dopo aver passato delle ore in un barattolo?
— Dov’è Amanda? — chiese Barbara, ansiosa di vedere la sua prima nipotina.
— L’abbiamo affidata a una vicina — disse Molly.
— Avrei tanto desiderato trovarmi qui con te — disse Barbara. Pierre si lasciò sfuggire un lieve sospiro, perso nel rumore di fondo del terminal. Sua suocera non avrebbe perdonato facilmente Molly per averla tagliata fuori da una parte così importante della propria vita. Barbara e Jessica erano lì per stare solo quattro giorni, ma era chiaro che il loro soggiorno sarebbe sembrato più lungo.
Oltrepassarono una doppia porta di vetro scorrevole e uscirono nel sole del tardo pomeriggio. Appena fu fuori dal terminal, Jessica pescò un pacchetto di Virginia Slims dalla borsetta e ne accese una. Pierre si scansò leggermente per non trovarsi sottovento. Improvvisamente la cognata gli sembrò molto meno attraente.
— Qualcuna di voi è già stata in California? — chiese Pierre.
— Disney World quando ero bambina — disse Jessica.
— Disneyland — la corresse Molly, con tono da sorella maggiore. — Disney World è in Florida.
— Be’, qualunque fosse, sono sicura che si ricordano ancora di quando hai dato di stomaco per tutta la corsa nelle tazze da tè — sbottò Jessica. Guardò Pierre con occhi spalancati, come se fosse ancora sbigottita da quell’episodio. — Come si possa vomitare sulle tazze da tè va oltre la mia comprensione.
Pierre localizzò la sua auto. — Siamo arrivati — disse, facendo un cenno col capo mentre sterzava in quella direzione il carrello dei bagagli.
Già, pensò. Davvero un lungo soggiorno.
Pierre riuscì a portare le borse su per gli scalini anteriori. Molly lo guardò con compassione. Si erano preoccupati per quegli scalini quando avevano comprato la casa, e osservarlo lottare con le borse le diede un chiaro assaggio di quel che era in serbo per lui. La porta posteriore si apriva al livello del suolo; sapevano che alla fine avrebbe finito per essere il suo ingresso principale.
Una volta che le borse furono dentro, la madre e la sorella di Molly si sedettero, esauste, sulle sedie del soggiorno.
— Bel posticino — disse Jessica, guardandosi intorno.
Molly sorrise. «Era» un bel posticino. I gusti di Pierre in fatto di arredamento erano terribili (Molly rabbrividiva ogni volta che ripensava a quell’orrido divano verde e arancione che possedeva), ma lei aveva un buon occhio per queste cose; per un anno aveva anche tenuto un corso sulla psicologia dell’estetica. Avevano arredato l’intera stanza in legno chiaro naturale, con tocchi di malachite verde.
— Vado alla porta accanto a prendere Amanda — disse Molly. — Pierre, magari puoi portare a mamma e Jess da bere.
Pierre annuì e si accinse a fare proprio questo. Molly uscì dalla porta anteriore e si ritrovò nel crepuscolo, godendo di essere sola per un momento. Ora che sua madre e sua sorella si trovavano lì, doveva affrontare di nuovo i loro giudizi: la disapprovazione di sua madre per come aveva lasciato il Minnesota, i dubbi che covava sulla sua turbinosa storia d’amore e le nozze con uno straniero. E Jessica, poi, tanto vacua da far infuriare… senza nominare il suo scandaloso tentativo di flirtare con Pierre.
Era stato uno sbaglio farle venire laggiù. Avrebbe dovuto tentare di tenerle fuori dalla sua zona per il resto del loro soggiorno, tentare di non udire i loro pensieri.
Camminò fino alla porta accanto, un bungalow dipinto di rosa, e suonò il campanello.
— Ciao, Molly — disse la signora Bailey aprendo. — Sei venuta a portarti via il tuo angelo?
Molly sorrise. La signora Bailey era una vedova sulla sessantina che sembrava avere un’insaziabile voglia di fare da baby-sitter ad Amanda. La sua vista era scarsa, ma adorava tenere la bimba e canticchiarle motivetti stonati ma entusiastici. Molly avanzò sulla soglia, e la signora Bailey andò da Amanda, che stava facendo un sonnellino sul divano. La sollevò tra le braccia e la portò da Molly.
— Grazie tante, signora Bailey — disse Molly.
— Quando vuoi, cara.
L’arrivo della bimba fu sufficiente a far balzare Barbara e Jessica dal divano. Pierre, pur volendo anche lui vedere sua figlia, si rese conto di non poter competere con le tre donne per coccolarla. Si accomodò di nuovo sulla sedia, sorridendo.
— Oooh — disse Jessica, chinandosi a guardare la bimba tra le braccia di Molly. — Che tesoruccio!
Anche sua madre si chinò. — È stupenda! — Agitò un dito davanti agli occhi della piccola. Amanda fece un piccolo verso, compiaciuta da tutta quell’attenzione.
Molly si sentì battere forte il cuore, sentì la rabbia sorgere in lei. Allontanò la bambina e si ritrasse dall’altra parte della stanza.
— Che c’è che non va? — chiese sua sorella.
— Nulla — disse Molly, troppo seccamente. Si voltò, costringendosi a fare un sorriso. — Nulla — disse di nuovo, a voce più bassa. — Amanda stava dormendo. Non voglio turbarla troppo.
Andò verso le scale e iniziò a salire. Vide Pierre che cercava di cogliere il suo sguardo, ma proseguì.
«Mostriciattolo» aveva pensato Jessica.
«Mio Dio… che bambina orribile!» aveva pensato sua madre.
Molly raggiunse il piano superiore ed entrò in camera da letto prima di cominciare a tremare di rabbia. Si sedette sul bordo del Ietto, cullando la sua bella bimba fra le braccia.
Passarono tre mesi; era la metà di dicembre.
Amanda, in una culla dalla parte opposta della camera, si svegliò un po’ dopo le tre del mattino e iniziò a piangere. Il suono svegliò sia Pierre che Molly. Molly si sistemò sulla poltrona accanto alla finestra, e lui la osservò in silenzio mentre sedeva al chiaro di luna, allattando al seno sua figlia. Era difficile immaginare una vista più bella.
Il suo polso sinistro prese a muoversi avanti e indietro.
Molly rimise giù Amanda, le baciò la fronte, e tornò a letto. Presto Pierre poté sentire il suono regolare del respiro di sua moglie quando si addormentò di nuovo. Pierre, comunque, restò ben sveglio. Tentò di fermare il polso sinistro tenendolo con la mano destra, ma presto anche quella cominciò a tremargli.
Ripensò ai malati visti a San Francisco. Tutta quella gente che si muoveva, agitava, danzava. Tutte quelle persone… come lui. Tutta quella povera gente…
«Abbiamo avuto un tizio del tuo laboratorio a tenere un discorso un paio d’anni fa. Un grosso vecchio calvo. Non ricordo il suo nome, ma ha vinto un Premio Nobel.»
Burian Klimus aveva parlato a quel gruppo, e…
Merda. Merda fottuta.
Avi Meyer non l’aveva ancora dimostrato, in effetti, poteva non essere mai in grado di farlo, dopo mezzo secolo, ma Klimus poteva benissimo essere un nazista.
Il che significava che poteva benissimo avere a che fare col locale movimento neonazista…
I neonazisti erano stati certamente responsabili del tentativo di pugnalare Pierre e dell’assassinio di Bryan Proctor, e, data la similarità dell’arma, molto probabilmente anche di quello di Joan Dawson.
Klimus, tenendo la conferenza laggiù, aveva di sicuro incontrato i tre membri che erano stati uccisi.
Klimus lavorava un giorno dopo l’altro con Joan; senza dubbio si era reso conto delle sue cateratte incipienti.
E Klimus sapeva che Pierre aveva qualche tara genetica; lo stesso Pierre gliel’aveva detto, spiegando perché lui e Molly intendevano usare sperma di un donatore.
«Eugenica volontaria» aveva detto Klimus a Pierre. «Approvo.»
Poteva quel vecchio aver tentato di migliorare il patrimonio genetico collettivo? Eliminare la sofferenza in qualche malato di corea di Huntington, o in un diabetico?
Ma no… no, non aveva senso.
Joan Dawson era da un pezzo in menopausa. Pur avendo una figlia già cresciuta, era ormai incapace di aggiungere ulteriori contributi alla specie.
E Klimus sapeva che Pierre non aveva intenzione di figliare.
Ma se non si trattava di eugenica, che altro?
Forse pietà o, almeno, una versione personale di essa.
Dopotutto, lo stesso pensiero era venuto anche a Pierre, involontario, sgradito, ingiusto, ma nondimeno inesorabile: di quelli con la corea di Huntington, certi sarebbero stati meglio morti. E lo stesso si poteva dire per un’anziana che viveva sola e stava per perdere la vista.
Pierre giacque sveglio il resto della notte, tra gli spasmi.
Pierre prese l’ascensore fino al terzo piano della Centrale di polizia di San Francisco e raggiunse il laboratorio di medicina legale. Bussò alla porta, poi entrò. — Ciao, Helen.
Helen Kawabata alzò lo sguardo da dietro la sua scrivania. Indossava un attillato abito verde quel giorno, braccialetti di giada, e orecchini di smeraldo. Aveva anche cambiato il taglio dei capelli: erano ancora biondi, ma più corti, più punk. — Oh, ciao, Pierre — disse, d’un fiato. — È tanto che non ci vediamo. Senti, grazie per la visita da te. Mi è piaciuta davvero.
— Sei la benvenuta — disse Pierre. Di quando in quando, cercava di rispondere a un «grazie» con un californiano «uh-huh», ma non si era mai sentito a suo agio nel farlo. Il suo sorriso fu un po’ impacciato. — Temo di avere un altro favore da chiedere.
Helen perse un po’ il sorriso: gli aveva già fatto un favore, e lui l’aveva ripagata con un pranzo e una visita al LBNL. Non sembrava del tutto pronta ad aiutarlo di nuovo.
— Alcuni mesi fa sono andato a un raduno di un gruppo di supporto di pazienti di corea di Huntington, qui a San Francisco. Mi hanno detto che tre persone appartenenti al loro gruppo sono morte negli ultimi due anni.
— Be’ — disse Helen gentilmente — è una malattia letale.
— Non sono morte di corea di Huntington. Le hanno assassinate.
— Oh.
— La polizia ha fatto qualche indagine speciale su questo?
— Tre persone appartenenti allo stesso gruppo che vengono uccise? Certo, è probabile che abbiamo dato una controllata.
— Io sono la quarta, in un certo senso.
— Perché sei andato a un raduno? Che stavi facendo, dando una conferenza sulla genetica?
— Anch’io ho la corea di Huntington, Helen.
— Oh. — Lei distolse lo sguardo. — Mi dispiace, sono…
— Avrai notato le mie mani tremanti quando ti ho fatto fare il giro del mio laboratorio.
Lei annuì. — P… pensavo che avessi bevuto troppo a pranzo. — Una pausa. — Mi spiace. Pierre alzò le spalle. — Anche a me.
— Quindi pensi che qualcuno abbia qualcosa contro i sofferenti di corea di Huntington.
— Potrebbe essere questo, o…
— O cosa?
— Be’, lo so che suona pazzesco, ma i responsabili potrebbero in realtà pensare che ai malati stanno facendo un favore.
Le fini sopracciglia di Helen si alzarono. — Che?
— Ci fu un caso famoso, a Toronto, nei primi anni ’80. Finì su tutti i giornali canadesi. Conosci l’Hospital for Sick Children?
— Certo.
— Nel 1980 e ’81, una dozzina di bambini furono assassinati nel reparto malattie cardiache dell’ospedale. A tutti vennero date dosi massicce di digoxina. Le accuse caddero su un’infermiera di nome Susan Nelles, ma poi venne prosciolta. Il caso non fu mai risolto, ma la tesi più popolare è che qualcuno dei dipendenti dell’ospedale avesse ucciso i bambini spinto da un malinteso senso di pietà. Avevano tutti vizi cardiaci congeniti, e si sarebbe potuto concludere che avrebbero comunque vissuto vite brevi e piene di dolore, quindi qualcuno li ha sottratti alla loro sofferenza.
— E pensi che sia questo che sta accadendo alla gente del tuo gruppo?
— È una possibilità.
— Ma il tipo che ha tentato di accoltellarti… come si chiamava…?
— Hanratty. Chuck Hanratty.
— Giusto. Hanratty non era un neonazista? Non certo un tipo da gesti umanitari, se si può ancora chiamare qualcosa di simile «umanitario.»
— No, ma stava facendo il lavoro su ordine di qualcun altro.
— Non ricordo di aver visto niente del genere nel rapporto sul caso.
— Io… è solo un’intuizione.
— Omicidi per pietà — disse Helen, soppesando l’idea. — È uno spunto interessante.
— E, be’, non credo che si tratti solo di malati di corea di Huntington. Anche Joan Dawson… era segretaria all’Human Genome Center, è stata assassinata. La polizia ha detto che per ucciderla è stato usato lo stesso tipo di coltello servito per aggredire me. Era un’anziana diabetica, e stava diventando cieca.
— Così pensi che un angelo misericordioso stia facendo fuori chiunque soffra di una tara genetica?
— Può darsi.
— Ma questa persona come scoprirebbe chi uccidere? Chi potrebbe sapere di te e di… come si chiamava?… Joan?
— Qualcuno con cui abbiamo lavorato entrambi, e qualcuno che aveva anche tenuto un discorso ai malati di Huntington.
— Ed esiste una persona simile?
— Sì.
— Chi?
— Preferirei non dirlo, non finché non sarò sicuro.
— Ma…
— Quanto tempo conservate i campioni di tessuto delle autopsie?
— Dipende. Anni, comunque. Lo sai quanto a lungo si trascinano i processi. Perché?
— Quindi hai dei campioni di vari omicidi irrisolti commessi nell’ultimo paio d’anni?
— Se è stata ordinata un’autopsia: non le facciamo sempre; sono costose. E se il caso è ancora irrisolto. Certo, i campioni dovrebbero ancora essere in giro da qualche parte.
— Posso avervi accesso?
— Per che cosa?
— Per vedere se anche alcune di esse potrebbero essere state uccisioni dettate dalla pietà.
— Pierre, non vorrei sembrare crudele, ma, be’…
— Cosa?
— Be’… la corea di Huntington. Colpisce la mente, no? Sei sicuro di non star diventando paranoico?
Pierre stette per protestare, ma poi si limitò a scrollare le spalle. — Forse. Non lo so. Ma puoi aiutarmi a scoprirlo. Mi occorrono solo campioni minuscoli. Solo abbastanza da estrarne un completo corredo di cromosomi.
Lei ci pensò per un momento. — Tu chiedi sempre le cose più dannate, sai.
— Ti prego — disse Pierre.
— Be’, ti dirò di che si tratta: posso procurarti i campioni che ho qui. Ma non posso andare in giro a chiedere campioni ad altri laboratori; susciterebbe troppi sospetti.
— Grazie — disse Pierre. — Grazie. Puoi assicurarti che venga incluso Bryan Proctor?
— Chi?
— Quel portiere che è stato assassinato da Chuck Hanratty.
— Oh, già. — Helen andò verso il suo computer, e batté su alcuni tasti. — Niente da fare — disse un momento dopo. — Qui dice che un inquilino ha sentito il colpo che l’ha ucciso. Ciò ha fissato con esattezza l’ora della morte, quindi non abbiamo preso nessun campione di tessuto.
— Dannazione. Comunque, prenderò qualunque altra cosa tu possa procurarmi.
— Sta bene… ma mi rifarò in seguito. Di quanti campioni hai bisogno?
— Quanti più possibile. — Fece una pausa, domandandosi quanta confidenza potesse dare a Helen. Non voleva dire troppo, ma, accidenti, gli «occorreva» il suo aiuto. — La persona che ho in mente è anche indagata dal Dipartimento di Giustizia per essere un sospetto criminale di guerra nazista, e…
— Non scherzi?
— No… il che spiega la connessione coi neonazisti. E, be’, se ha assassinato migliaia di persone cinquant’anni fa, può benissimo averne ordinato di uccidere molte di più oggi.
Helen ci pensò su per un momento, poi scrollò le spalle. — Vedrò quel che posso fare. Ma, guarda, è quasi Natale, ed è il periodo in cui siamo più indaffarati coi crimini, temo. Dovrai essere paziente.
Pierre capì che non era il caso di insistere. — Grazie mille — disse.
Helen annuì. — Uh-huh.
Due mesi dopo
Pierre entrò di fretta dalla porta posteriore della casa. Aveva rinunciato a lottare coi gradini dell’ingresso anteriore un paio di settimane prima. Erano le 5 e 35 del pomeriggio, e andò diritto verso il divano, afferrando il telecomando e accendendo la TV. — Molly! — gridò. — Vieni, presto!
Molly apparve, reggendo la piccola Amanda, che, a otto mesi, aveva acquisito capelli castani ancora più folti. — Che c’è?
— Ho sentito appena prima di lasciare il lavoro che il servizio su Felix Sousa è su «Hard Copy» stasera. Pensavo di arrivare a casa in tempo, ma c’è stato un incidente sulla Cedar.
Uno spot della Chrysler stava giungendo alla fine. Il logo di «Hard Copy» apparve come scritto a macchina, facendo un fastidioso «thunk-thunk» a ogni carattere; poi apparve la conduttrice, una bella bionda di nome Terry Murphy. «Bentornati» disse. «I neri sono forse inferiori ai bianchi? Un nuovo studio dice di sì, e ve ne riferirà la nostra Wendy Di Maio. Wendy?»
Molly si sedette accanto a Pierre sul divano, tenendo Amanda appoggiata a una spalla.
L’immagine cambiò, mostrando qualche sequenza d’archivio dell’UCB dietro Sather Gate, con capelloni figli dei fiori che passeggiavano e un hippie a torso nudo seduto sotto un albero che strimpellava una chitarra.
«Grazie, Terry» disse una voce di donna commentando le immagini. «Nel 1967, l’Università Berkeley di California fu la culla del movimento hippie, un movimento che predicava di fare l’amore, non la guerra, un movimento che abbracciava l’intera famiglia umana.»
L’immagine si dissolse in un’inquadratura moderna, ripresa dalla stessa angolazione. «Oggi, gli hippies sono spariti. Eccovi il nuovo volto dell’UCB.»
A camminare verso la telecamera c’era un uomo bianco di aspetto curato e dalle spalle larghe, sulla quarantina, con indosso un giubbotto da pilota di cuoio nero col colletto rivolto in su e occhiali a specchio da aviatore. — Pierre sbuffò:— Cristo, è perfino vestito alla militare.
La voce della reporter disse: «Questo è il professor Felix Sousa, un genetista di qui. Non c’è pace per le sue ricerche… e non è affatto amato da molti ricercatori e studenti universitari, che l’hanno bollato come razzista».
L’inquadratura cambiò, mostrando Sousa in uno dei laboratori di chimica della Latimer Hall, con matracci e alambicchi sparsi sul bancone di fronte a lui. Pierre sbuffò di nuovo; non aveva mai visto prima Sousa in alcun laboratorio. «Ho dedicato anni a questa ricerca, signorina Di Maio» disse Sousa. La sua voce era quella di una persona colta, la pronuncia meticolosa. «È difficile condensarla in poche semplici affermazioni, ma…»
L’immagine tornò sulla reporter, una donna attraente con la bocca larga e una massa di capelli neri. Lei annuì in segno incoraggiante, incitando Sousa a proseguire. L’inquadratura tornò su Sousa. «Nei termini più semplici, la mia ricerca dimostra che le tre razze dell’umanità sono emerse in tempi diversi. I neri apparvero come gruppo razziale distinto circa duecentomila anni fa. I bianchi, d’altro canto, apparvero per la prima volta centodiecimila anni fa. E gli orientali giunsero sulla scena quarantunomila anni fa. Be’, che c’è da sorprendersi che la razza più antica sia la più primitiva in fatto di sviluppo del cervello?» Sousa distese le mani, palmo in su, come per chiedere al pubblico di usare il suo buonsenso. «In media, i neri hanno i cervelli più piccoli e i più bassi quozienti intellettivi fra tutte le razze. Hanno anche il più alto tasso di criminalità e di promiscuità. Gli orientali, da parte loro, sono i più brillanti, i meno inclini all’attività criminale, e i più casti sessualmente. I bianchi ricadono proprio nel mezzo tra gli altri due gruppi.»
Apparve una sequenza di Sousa che faceva lezione a una classe. Gli studenti… tutti bianchi… sembravano rapiti. «Le teorie di Sousa non si fermano qui» disse la voce della reporter su tutto ciò. «Suggerisce anche che i vecchi miti popolari siano veri.»
Tornarono al nastro dell’intervista. «I neri hanno peni più grandi dei bianchi, in media» disse Sousa. «E dal punto di vista genitale i bianchi sono meglio dotati degli orientali. C’è una proporzione inversa fra le dimensioni dei genitali e l’intelligenza.» Una pausa, e Sousa sorrise, mostrando denti perfetti. «Naturalmente» disse «ci sono sempre eccezioni.»
La voce di Wendy Di Maio si udì ancora: «Gran parte del lavoro di Sousa riecheggia studi più vecchi, altrettanto controversi, come la ricerca resa pubblica nel 1989 da Philippe Rushton (foto di Rushton, un uomo bianco sorprendentemente attraente sulla quarantina), uno psicologo dell’University of Western Ontario in Canada, e le conclusioni del discusso best-seller del 1994 The Bell Curve (foto della copertina del libro)».
Un’inquadratura in esterni: la Di Maio camminava per il campus fra la Lewis Hall e la Hildebrand Hall. «È giusto che una ricerca così ovviamente razzista venga condotta in un’istituzione finanziata pubblicamente? Chiediamolo al presidente dell’università.»
La telecamera inquadrò quella che presumibilmente avrebbe dovuto essere la finestra dell’ufficio del presidente. Poi passò a un primo piano del presidente in una lussuosa stanza, rivestita in legno. Il suo nome e titolo erano in sovraimpressione in fondo allo schermo. L’anziano uomo spalancò le braccia. «Il professor Sousa ha pieno diritto alla sua carica. Ciò significa che ha massima libertà di seguire ogni linea di indagine intellettuale, senza pressioni dell’amministrazione…»
Molly e Pierre guardarono il resto del servizio, e poi Pierre spense il televisore. Scosse lentamente il capo avanti e indietro. — Dio, come mi fa incazzare — disse. — Con tutto il lavoro di prim’ordine svolto all’università, scelgono uno stronzo come quello per fargli pubblicità. E vuoi vedere che c’è gente che penserà che Sousa abbia ragione…
Consumarono la cena in silenzio: lasagne Stouffer fatte al microonde per loro (era Pierre il gourmet di turno) e omogeneizzato Gerber di mela per Amanda. A otto mesi, le era ormai venuto un robusto appetito.
Finalmente, dopo che Molly ebbe messo Amanda a letto, si sedettero a tavola sorseggiando il caffè. Molly, preoccupata per il silenzio di Pierre, disse: — Un centesimo per i tuoi pensieri.
— Pensavo che potessi leggerli gratis — disse Pierre, un po’ aspro. La sua espressione mostrò che immediatamente se ne pentì. — Mi dispiace, amore. Perdonami. Sono solo rabbioso.
— Per cosa…?
— Be’, Felix Sousa, naturalmente: che mi ha fatto pensare a quell’articolo che lui e Klimus scrissero qualche anno fa per «Science» sulle tecnologie riproduttive. E a sua volta, quell’articolo mi ha fatto pensare alla Condor Health Insurance… sai, quella faccenda di incentivare finanziariamente l’aborto dei feti imperfetti. — Fece una pausa. — Se non stessi già manifestando i sintomi della corea di Huntington, cancellerei la mia polizza per protesta.
Molly fece un’espressione comprensiva. — Mi spiace.
— E quella stupida lettera che la Condor mi ha mandato… con quel tono di condiscendente superiorità, da qualche stronzo del reparto pubbliche relazioni. Una vera idiozia.
Molly bevve un sorso di caffè. — Be’, c’è un modo per ottenere un po’ più d’attenzione. Diventa azionista della Condor. Di solito le compagnie sono più ricettive alle lamentele dei loro azionisti.
— Ma io non voglio sostenere una compagnia come quella.
— Be’, non devi mica investirci un capitale.
— Vuoi dire comprare una sola azione?
Molly rise. — Vedo che non ti interessi molto di finanza. Di norma le azioni si comprano e vendono in multipli di cento.
— Oh.
— Ne desumo che tu non abbia un agente di borsa, giusto?
Pierre scosse il capo.
— Puoi chiamare la mia: Laurie Lee alla Davis Adair. È in gamba a spiegare le cose.
Pierre la guardò sbigottito. — Pensi davvero che dovrei farlo?
— Certo. Aumenterà le tue possibilità.
— Quanto costerebbero un centinaio di azioni?
— Questa è una buona domanda — disse Molly. Si diresse giù in cantina, e Pierre la seguì, tenendosi attentamente alla balaustra per aiutarsi a mantenere l’equilibrio sulla corta rampa di scale. Poggiato su una scrivania c’era un computer Dell Pentium. Molly lo accese, si collegò a CompuServe, chiese le ultime del mercato azionario, e indicò lo schermo. — Le Condor hanno chiuso oggi a 11 e 3/8 per azione.
— Così cento azioni costerebbero… cosa?… millecentoe… e…
— Millecentotrentasette dollari e cinquanta centesimi, più la commissione.
— È un bel po’ di denaro — disse Pierre.
Molly annuì. — Suppongo, ma sarà tutto liquido. Saresti in grado di recuperare quasi tutto, se più tardi decidessi di rivendere. In effetti… — Batté su qualche altro tasto. — Guarda qui — disse, indicando un grafico che apparve sullo schermo. — Sono state in salita costante. L’anno scorso, in questo periodo, erano solo a 8 e 7/8.
Pierre fece una faccia impressionata.
— Quindi potremmo perfino finire per fare dei soldi quando al termine venderai il pacchetto. Ma, almeno nel frattempo, la Condor dovrà ascoltarti seriamente.
Pierre annuì lentamente, rimuginandoci sopra. — Okay — disse infine. — Facciamolo. Come devo procedere?
Molly allungò la mano verso il telefono. — Primo, chiamiamo il mio broker.
Pierre indicò l’orologio. — Di sicuro non ci sarà a quest’ora tarda.
Molly sorrise con condiscendenza. — Possono essere le otto di sera qui, ma è mezzogiorno a Tokyo. Laurie ha un sacco di clienti che giocano sul Nikkei. Potrebbe benissimo esserci ancora. — Molly toccò un tasto per richiamare un numero memorizzato. Aveva già menzionato di aver fatto investimenti in passato, ma Pierre non si era mai reso del tutto conto di quanto fosse addentro in quel settore. — Salve — disse nella cornetta. — Laurie Lee, prego. — Una pausa. — Ciao, Laurie. Sono Molly Bond. Bene, grazie. No, non per me… per mio marito. Gli ho detto che eri la migliore nel campo. — Risata. — Comunque, potresti occuparti di lui, per favore? Grazie. Si chiama Pierre Tardivel; eccolo qui.
Porse la cornetta a Pierre. Lui esitò per un momento, poi la portò all’orecchio. — Salve, signora Lee.
La sua voce era acuta, ma non irritante. — Salve. Cosa posso fare per lei?
— Be’, mi piacerebbe poter comprare delle azioni.
— Molto bene, molto bene. Mi dia solo qualche dettaglio personale…
Chiese informazioni sui suoi datori di lavoro, e poi il suo numero di Previdenza Sociale.
— Okay — disse Laurie. — Tutto a posto. Voleva che le acquistassi qualcosa subito?
Pierre deglutì. — Sì. Un centinaio di azioni della Condor Health Insurance, per favore.
— Sono sulla Borsa della California; non sarò in grado di piazzare l’ordine fino a domattina. Ma non appena aprirà la borsa, le prenderò cento C-H-I Classe B. — Pierre udì un clicchettio di tasti. — Sa, è una scelta eccellente, Pierre. Una scelta davvero eccellente. Le manderò conferma dell’acquisto per posta.
Pierre ringraziò e riattaccò, sentendosi un po’ imprenditore.
Tre settimane dopo, Pierre era al lavoro nel laboratorio. Il telefono squillò. — Pronto?
— Ciao, Pierre. Sono Helen Kawabata del San Francisco Police Department.
— Helen, ciao! Mi chiedevo che ne fosse stato di te.
— Spiacente, ma siamo stati tutti presi da quel caso del serial killer. Comunque, ho finalmente messo assieme dei campioni di tessuti per te.
— Grazie! Quanti ne hai ottenuti?
— Centodiciassette…
— Caspita!
— Be’, non sono tutti di San Francisco; il mio laboratorio svolge lavoro forense su contratto anche per alcune delle cittadine circostanti. E alcuni dei campioni sono vecchi di anni.
— Ma sono tutti omicidi irrisolti?
— Esatto.
— È una grande cosa, Helen. Grazie tante! Quando posso venire a prenderli?
— Oh, quando vuoi…
— Arrivo subito.
Pierre prelevò i campioni, li riportò al LBNL, e li affidò a Shari Cohen e cinque altri studenti; ce n’erano sempre un sacco in giro. Attraverso la reazione a catena della polimerase, gli studenti avrebbero prodotto copie di ogni esemplare di DNA, e poi testato il materiale in cerca di trentacinque differenti principali tare genetiche che Pierre aveva specificato.
Quella sera, mentre stava lasciando l’edificio 74, Pierre oltrepassò Klimus in un corridoio. Rispose al secco «Buonanotte» di Klimus con un «Auf Wiedersehen» a bassa voce, ma il vecchio non sembrò udirlo.
Mentre aspettava che gli studenti presentassero i loro rapporti sui campioni forniti da Helen Kawabata, Pierre mappò tutte le citosine in quella parte del DNA di Molly che conteneva il codice per il neurotrasmettitore della telepatia. Voleva decifrare l’ipotetico codice rappresentato dalla metilazione della citosina, e non poté pensare a nessun segmento più interessante di DNA su cui lavorare che quella parte del cromosoma tredici di Molly.
E infine ebbe successo.
Era incredibile. Ma se avesse potuto verificarlo, potuto provarlo empiricamente…
Avrebbe cambiato tutto.
Stando al suo modello, la metilazione della citosina forniva un test matematico per verificare se il segmento di DNA fosse stato copiato esattamente. Tollerava errori in certi tratti del filamento di DNA (sebbene questi errori tendessero a rendere il DNA ingarbugliato e inutile, comunque), ma in altri, soprattutto la trasposizione telepatica, non concedeva sbagli, invocando qualche sorta di meccanismo di correzione enzimatico non appena la copiatura veniva iniziata. La metilazione della citosina fungeva quasi da «guardiano». Il codice per sintetizzare lo speciale neurotrasmettitore era lì, integro, ma era disattivato, e quasi ogni tentativo di attivarlo era invertito la prima volta che il DNA veniva copiato.
Pierre restò a guardare fuori dalla finestra del laboratorio, rimuginando tutto quanto.
Se si verificava una trasposizione in una regione protetta, per incidente, per una casuale aggiunta o perdita di materiale dal cromosoma, il meccanismo di metilazione della citosina provvedeva a che ogni futura copia… incluse quelle contenute negli ovuli e negli spermatozoi, fosse corretta, impedendo che l’errore di codifica venisse trasmesso alla generazione successiva. I genitori di Molly non erano stati telepati, né lo era sua sorella, né lo sarebbe stato alcuno dei suoi bambini.
Pierre comprese quel che significava, ma era ancora scioccato. Le implicazioni erano impressionanti: esisteva un meccanismo incorporato per correggere le mutazioni, un modo predeterminato per impedire che certi frammenti pienamente funzionanti del codice genetico diventassero attivi.
In qualche modo, il regolatore enzimatico non aveva funzionato durante lo sviluppo del corpo di Molly. Forse ciò era stato dovuto a qualche farmaco o droga che la madre di Molly aveva usato mentre era incinta di lei, o a qualche sostanza nutritiva assente dalla dieta della madre di Molly. C’erano così tante variabili, ed era accaduto tanto di quel tempo fa, che probabilmente sarebbe stato impossibile duplicare le condizioni biochimiche nelle quali Molly si era sviluppata fra il suo concepimento e la nascita. Ma qualunque cosa fosse successa allora aveva permesso il manifestarsi di qualcosa che era… che era «progettato» per rimanere nascosto.
Un sabato pomeriggio di giugno. Suonò il campanello alla porta.
— Chi potrebbe essere? — disse Pierre alla piccola Amanda, che gli era seduta in grembo. — Chi potrebbe essere? — Rese la sua voce volutamente alta e dolce, coi toni esagerati che generazioni di genitori hanno usato parlando coi loro bimbi. Nel frattempo, Molly si alzò e andò alla porta. Controllò lo spioncino, poi aprì, rivelando Ingrid e Sven Lagerkvist, e il loro bambino, Erik.
— Guarda chi c’è! — disse Pierre, ancora in tono giocoso. — Accidenti, guarda chi c’è! È Erik. Vedi, è Erik.
Amanda sorrise.
Sven stava portando un grosso dono incartato. Baciò Molly sulla guancia, le porse il regalo, ed entrò in soggiorno. Molly poggiò l’involucro sul tavolino da caffè. Poi raggiunse Pierre e gli prese Amanda. Per quanto Pierre amasse tenere la figlia tra le braccia mentre era seduto in poltrona, aveva rinunciato a farlo mentre camminava dopo che l’aveva quasi lasciata cadere poche settimane prima.
Molly portò Amanda in mezzo alla stanza e la mise sul tappeto vicino al tavolino da caffè. Sven, tenendo Erik per la manina paffuta, lo guidò attraverso il soggiorno verso Amanda.
— Manda — disse Erik, lentamente e articolando male. Com’era tipico di quelli con la sindrome di Down, la lingua di Erik si protendeva mezza fuori dalla bocca quando non stava parlando.
Amanda sorrise e fece un lieve suono nella gola.
Pierre si appoggiò allo schienale della sedia. Odiava quel verso. Ogni volta che Amanda lo faceva, il suo cuore aveva un balzo. Magari stavolta… magari finalmente…
Molly indicò la scatola avvolta in una carta dal colore brillante e parlò ad Amanda. — Guarda che ti hanno portato Erik e lo zio Sven e la zia Ingrid — disse. — Guarda! Un regalo per il tuo compleanno. — Si rivolse ai Lagerkvist. — Vi ringrazio tanto, amici. Apprezziamo davvero il vostro arrivo.
— Oh, il piacere è nostro — disse Ingrid. Portava i capelli rossi sciolti intorno alle spalle. — Erik e Amanda sembrano sempre divertirsi tanto insieme.
Pierre distolse lo sguardo. Erik aveva due anni; Amanda uno. Normalmente, non sarebbero stati buoni compagni di giochi, ma il mongolismo di Erik aveva già trattenuto il suo sviluppo mentale al punto che in realtà era più o meno allo stesso stadio di Amanda.
— Andrebbe un caffè a qualcuno di voi? — chiese Pierre, alzandosi con circospezione dalla poltrona, poi tenendosi allo schienale finché non fu del tutto saldo.
— Un pochettino — disse Sven.
— Grazie — disse Ingrid.
Pierre annuì. Avevano superato, grazie a Dio, l’imbarazzante rituale con cui Ingrid insisteva a offrirsi di aiutare Pierre per ogni piccola cosa. Poteva riuscire da solo a fare il caffè, sebbene gli occorresse qualcun altro per servire le tazze fumanti in soggiorno.
Versò caffè macinato nella caffettiera. Accanto c’era il dolce che aveva comprato Molly, una torta di compleanno ispirata agli Antenati coronata da figurine di plastica di Fred e Wilma. Lettere rosse sulla glassa bianca dicevano BUON COMPLEANNO, AMANDA. Pierre resistette all’impulso di assaggiare un pezzetto di glassa. Aggiunse acqua alla caffettiera, poi si diresse di nuovo in soggiorno.
Il regalo era stato messo da parte senza aprirlo; avrebbero aspettato fin dopo la torta. Ora Erik e Amanda stavano giocando con due dei giocattoli favoriti di Amanda, un elefante rosa e un rinoceronte azzurro.
Molly sorrise a Pierre quando entrò. — Sono così carini insieme — disse.
Pierre annuì e tentò di ricambiare il sorriso. Erik si comportava bene; sembrava passare con calma attraverso quella che per un bimbo normale sarebbe stata l’età più turbolenta. Ma, del resto, sapevano esattamente che c’era di sbagliato in Erik. A spezzare i nervi a Pierre era il non sapere che ci fosse di sbagliato in Amanda. Dopo un intero anno di vita, non aveva ancora detto nemmeno «Mama» o «Dada». Non c’erano dubbi che Amanda fosse intelligente, e nemmeno che sembrasse capire il linguaggio parlato, ma non lo usava. Faceva stringere il cuore e al tempo stesso era imbarazzante. Naturalmente, molti bambini non parlavano se non dopo il primo compleanno. Ma, be’, il padre biologico di Amanda era un genio certificato e sua madre era un Ph.D. in psicologia; di sicuro il suo ciclo di sviluppo avrebbe dovuto essere più rapido, e…
No, dannazione. Quello era un party… non era il momento di riflettere su cose simili. Pierre tornò in soggiorno.
Ingrid, sul divano, indicò Erik e Amanda. — Il tempo passa così in fretta — disse. — Prima ancora di rendercene conto, saranno cresciuti.
— Ci stiamo tutti facendo più vecchi — disse Sven. Si era pulito gli occhiali alla Ben Franklin sull’orlo della camicia. — In realtà — disse, rimettendoseli sul naso — mi sono sentito vecchio da quando le ragazze di «Playboy» hanno cominciato a essere più giovani di me.
Pierre sorrise. — A me è successo con le repliche della Famiglia Partridge. Quando vidi per la prima volta quella serie a metà degli anni 70, pensavo che Susan Dey fosse il massimo. Ma ho visto una replica di recente, e lei è solo una ragazzina ossuta. Ora non riesco a staccare gli occhi da Shirley Jones.
Risata.
— Io ho capito che mi stavo facendo vecchia — disse Molly — quando ho trovato il mio primo capello grigio.
— I capelli grigi non sono nulla — disse Sven, ridacchiando; ce n’erano un bel po’ nella sua imponente barba. — Ma il «pelo pubico» grigio…
Il campanello trillò ancora. Questa volta andò ad aprire Pierre. Burian Klimus stava sul gradino, con l’onnipresente bloc-notes visibile nella tasca sul petto.
— Spero di non essere troppo in ritardo — disse il vecchio.
Pierre sorrise freddamente. Aveva sperato che il suo capo stesse scherzando sul voler venire a trovarli per il compleanno della piccola. Klimus continuava a trovare motivi per visitare Molly e Pierre a casa, proseguiva a tener d’occhio Amanda, a scrivere delle cose sul suo blocco note. Pierre avrebbe voluto dirgli di andare all’inferno, ma ancora non era assegnato in permanenza al LBNL. Sospirando, si fece da parte e lasciò che Klimus entrasse.
Se n’erano andati tutti a casa. La torta era stata divorata, ma il suo vassoio di cartone stava ancora sul tavolo della sala da pranzo, con un anello di glassa e briciole sul lato superiore. Bicchieri da vino vuoti erano deposti su vari pezzi di mobilio e su uno degli altoparlanti dello stereo. Avrebbero dato una pulita più tardi; per ora, Pierre voleva solo sedersi sul divano e rilassarsi, col braccio attorno alle spalle della moglie. La piccola Amanda sedeva in grembo a Molly, e con la paffuta mano sinistra si teneva a una delle dita di suo padre.
— Sei stata una brava bambina oggi — disse Pierre ad Amanda, con voce suadente. — Sì, davvero.
Amanda lo fissò coi suoi grandi occhi castani.
— Una bambina buonissima — disse Pierre. Lei sorrise.
— Da-da — disse Pierre. — Dicci «Da-da.» Il sorriso di Amanda scomparve.
— Lo sta pensando — disse Molly. — Posso sentire le parole. «Da-da, Da-da». Riesce ad articolare il pensiero.
Pierre si sentì pungere gli occhi. Amanda poteva pensare quelle parole, e Molly poteva udire il pensiero, ma per Pierre da sua figlia veniva solo silenzio.
Il tempo passò.
Pierre aveva passato una mattinata lunga ed estremamente infruttuosa tentando di elaborare diversi schemi computerizzati per codificare i suoi studi sul «DNA intronico». Si appoggiò allo schienale della sua sedia, intrecciò le dita dietro la testa, e arcuò la spina dorsale. La sua lattina di Diet Pepsi era vuota; pensò di andare al distributore automatico a prenderne un’altra.
La porta si aprì, ed entrò Shari Cohen. — Finalmente ho avuto gli ultimi di quei rapporti, Pierre — disse. — Mi spiace di averci messo tanto.
Pierre le fece cenno di avvicinarsi e glieli fece posare sulla sua scrivania. La ringraziò, aggiunse i nuovi rapporti alla pila di altri test genetici di vittime di omicidio che gli erano stati consegnati prima, poi iniziò a esaminarli.
Niente di insolito sulla prima pagina. Nulla sulla seconda. Zero sulla terza. Oh, eccone uno… il gene dell’Alzheimer. Nada sul numero cinque. Nicht sul sei. Ah, finalmente un gene del cancro al seno. Ed ecco un povero disgraziato che aveva sia il gene dell’Alzheimer che quello della neurofibromatosi. Altri tre senza niente. Poi uno con un gene di disturbi cardiaci, e un altro con una predisposizione al cancro del retto…
Pierre segnò delle note. Quando ebbe vagliato tutti i 117 rapporti, inarcò di nuovo la schiena, sbigottito.
Ventidue delle vittime di omicidio avevano rilevanti tare genetiche. Valeva a dire, rovistò sulla scrivania ingombra in cerca del suo calcolatore, poco meno del diciannove per cento. Solo il sette per cento della popolazione in generale possedeva le tare genetiche che Pierre aveva chiesto agli studenti di cercare.
I campioni forniti da Helen erano stati tutti etichettati, ma Pierre non riconobbe nessuno dei 117 nomi, per non parlare dei 22 di loro che avevano avuto gravi tare genetiche. Aveva sperato che alcuni fossero state persone che conosceva nella comunità dell’UCB/LBNL, o gente che aveva sentito Klimus menzionare di sfuggita.
E c’era ancora il problema di Bryan Proctor. Il solo delitto indiscutibilmente collegato all’agguato subito da Pierre era quello di Proctor; Chuck Hanratty era stato coinvolto in entrambi. Ma non c’erano campioni di tessuto di Proctor, e niente che la moglie di Proctor avesse detto indicava che avesse avuto qualche malattia. Avrebbe dovuto trovare il tempo di far visita alla signora Proctor di nuovo, ma…
Merde! Erano già le 14.00. L’ora di andarsene a prendere Molly. Lo stomaco iniziò a contrarglisi. Gli omicidi potevano aspettare; quel pomeriggio, avrebbero scoperto che c’era che non andava in Amanda.
— Salve, signori Tardivel — disse il dottor Gainsley. Era di bassa statura, con una frangia di capelli grigiorossastri intorno alla testa calva, e baffi completamente grigi. — Grazie per essere venuti.
Pierre lanciò uno sguardo a sua moglie per vedere se avrebbe corretto il dottore sottolineando che erano il signor Tardivel e la signora Bond, ma lei non disse una parola. Pierre poté intuire dalla sua espressione che l’unica cosa che aveva in mente era Amanda.
Il dottore guardò ciascuno di loro, con un’espressione sinistra in faccia. — Francamente, pensavo che la vostra pediatra stesse solo scherzando quando vi ha indirizzati da me; dopotutto, un sacco di bambini non parlano fino a diciotto mesi o più. Ma, be’, diamo un’occhiata a questi raggi X. — Li condusse a un pannello illuminato sulla parete, con appiccicato un unico pezzo grigio di pellicola. L’immagine mostrava la metà inferiore di un teschio di bambino, la mandibola, e il collo. — Questa è Amanda — disse. Batté il dito su un punto in alto nella gola. — È difficile vedere i tessuti molli, ma riuscite a distinguere questo ossicino a forma di U? È chiamato ioide. A differenza della maggioranza delle ossa del corpo, non è attaccato direttamente a nessun altro osso. Piuttosto, lo ioide fluttua nella gola, fungendo da ancora per i muscoli che connettono la mandibola, la laringe e la lingua. Be’, in un bambino normale dell’età di Amanda, ci aspetteremmo di vedere quest’osso quaggiù. — Batté col dito sulla lastra più in basso nella gola, su una linea direttamente dietro la metà della mandibola inferiore.
— E? — disse Molly, in tono perplesso.
Gainsley gli fece cenno di accomodarsi sulle due sedie di fronte alla sua ampia scrivania dal ripiano di vetro. — Vediamo se riesco a spiegarlo in parole semplici — disse. — Signora Tardivel, ha allattato al seno sua figlia?
— Naturalmente.
— Be’, deve aver notato che poteva poppare continuamente senza interrompersi per respirare.
Molly annuì lievemente. — Ed è anormale?
— Non per i neonati. In essi, il percorso fra la bocca e la gola si curva verso il basso molto dolcemente. Ciò permette all’aria aspirata dal naso di fluire direttamente nei polmoni, superando del tutto la bocca, rendendo possibile respirare e mangiare allo stesso tempo.
Molly annuì di nuovo.
— Be’, quando un neonato comincia a crescere, le cose cambiano. La laringe migra giù per la gola… e con essa, si sposta in basso anche l’osso ioide. Il percorso fra le labbra e l’apparato vocale diventa un angolo retto invece di una dolce curva. Il lato negativo di ciò è che sopra la laringe si apre uno spazio dove può rimanere intrappolato del cibo, rendendo possibile morire soffocati. Il lato positivo, invece, è che il riposizionamento della laringe consente una gamma vocale molto più ampia.
Pierre e Molly si guardarono brevemente l’un l’altra, ma non dissero nulla.
— Bene — continuò Gainsley — la migrazione della laringe è di norma già in corso entro il primo anno e completata quando il bambino ha diciotto mesi. Ma la laringe di Amanda non sta migrando affatto; è ancora alta nella gola. Per quanto possa emettere certi suoni, un sacco di altri le resteranno preclusi, specialmente le vocali o, i e u. Avrà difficoltà anche con i suoni gu e ku di G e K.
— Ma infine la laringe discenderà, giusto? — chiese Pierre. Anche lui aveva un testicolo che non era sceso fino a cinque o sei anni, niente di importante, presumibilmente.
Gainsley scosse la testa. — Ne dubito. Per tutti gli altri versi, Amanda si sta sviluppando come una bimba normale. In effetti, è pure di taglia un po’ grossa per la sua età. Ma in questo campo particolare, sembra essersi completamente arrestata.
— Si può correggere chirurgicamente? — domandò Pierre.
Gainsley si tirò un baffo. — Sta parlando di una ristrutturazione su larga scala della gola. Sarebbe estremamente rischioso, e avrebbe solo minime probabilità di successo. Non lo consiglierei.
Pierre allungò la mano e prese quella di sua moglie. — E quanto… alle altre cose?
Gainsley annuì. — Be’, un sacco di bambini sono pelosi: c’è più di un motivo se a volte chiamiamo i nostri figli scimmiette. Con la pubertà, i suoi ormoni cambieranno, e perderà la maggior parte del pelo.
— E… e la sua faccia? — disse Pierre.
— Ho fatto il test genetico per la sindrome di Down. Non pensavo che fosse questo il suo problema, ma il test è abbastanza facile da fare. Risultato negativo. E gli ormoni pituitari e la ghiandola tiroide sembrano normali per una bimba della sua età. — Gainsley li guardò entrambi. — C’è… ah… qualcosa che dovrei sapere?
Pierre lanciò una rapida occhiata a Molly, poi assentì lievemente col capo al dottore. — Non sono il padre biologico di Amanda; abbiamo usato lo spenna di un donatore.
Gainsley annuì. — Lo pensavo anch’io. Conoscete l’origine etnica del padre?
— È ucraino — disse Pierre.
Il dottore annuì ancora. — Parecchi europei dell’est hanno corporature più tarchiate, facce più gonfie, e più peli sul corpo rispetto agli europei occidentali. Quindi, per quanto riguarda il suo aspetto, vi state probabilmente preoccupando per nulla. È chiaro che ha preso dal suo padre biologico.
Pierre guidò fino a San Francisco, raggiunse il fatiscente palazzo d’appartamenti, e spinse il pulsante con scritto PORTIERE. Pochi attimi dopo, una familiare voce femminile disse: — Sì?
— Signora Proctor? Sono ancora Pierre Tardivel. Avrei solo qualche altra rapida domanda da farle, se non le dispiace.
— Devono fare le repliche di Colombo, su in Canada.
Pierre trasalì a quella battuta. — Mi dispiace, ma se solo potessi…
Le sue parole furono troncate dallo scatto del meccanismo della porta. Afferrò la maniglia e attraversò lo sciatto atrio diretto alla suite 101. Un anziano asiatico stava uscendo proprio allora dal piccolo ascensore accanto all’appartamento. Occhieggiò Pierre con sospetto, ma proseguì per la sua strada. La signora Proctor aprì la porta appena prima che Pierre bussasse.
— Grazie per aver accettato di rivedermi — disse Pierre.
— Stavo solo scherzando — disse la grassona col mento a palla da golf. Si era tagliata i capelli dall’ultima volta che Pierre era stato lì. — Entri, entri. — Si fece da parte e indicò a Pierre di accomodarsi in soggiorno. Il vecchio televisore era acceso, e trasmettevano Il prezzo è giusto.
— Volevo solo farle una domanda su suo marito — disse Pierre, prendendo posto sul divano. — Se lei…
— Gesù, figliolo. È ubriaco?
Pierre sentì una vampata di calore salirgli in viso. — No. Ho un disturbo neurologico, e…
— Oh. Mi spiace. — La donna scrollò le spalle. — Ci sono un sacco di ubriachi qui in giro. Brutta zona.
Pierre tirò un profondo respiro e tentò di calmarsi. — Ho solo bisogno di qualche risposta potrebbe sembrare strano, ma suo marito aveva qualche specie di malattia genetica? Sa… qualcosa che il suo dottore diceva che aveva ereditato? Pressione alta, diabete, qualcosa del genere?
Lei scosse la testa. — No.
Pierre spinse in fuori le labbra, deluso. Eppure… — Sa di che cosa morirono i suoi genitori? Se qualcuno di loro è morto per una malattia cardiaca, per esempio, Bryan potrebbe aver ereditato quei geni dannosi.
Lei guardò Pierre. — Ha fatto un buco nell’acqua, giovanotto.
Pierre sbatté le palpebre, confuso. — Prego?
— Tutti e due i genitori di Bryan sono ancora vivi. Stanno in Florida.
— Oh, mi spiace.
— Le spiace che sono vivi?
— No, no, no. Per il mio sbaglio. — Eppure… eppure… — Sono in buona salute? Qualcuno di loro ha l’Alzheimer?
La signora Proctor rise. — Il padre di Bryan fa ancora diciotto buche al giorno a golf, e sua madre è vispa come un fringuello. No, non c’è niente che non va in loro.
— Che età hanno?
— Vediamo. Ted ha… 83 o 84 anni. E Paula è di due anni più giovane.
Pierre annuì. — Grazie. Un’ultima domanda: ha mai conosciuto un uomo di nome Burian Klimus?
— Che razza di nome è?
— Ucraino. È un vecchio, oltre gli ottanta, calvo, col fisico di un lottatore.
— No, nessuno del genere.
— Potrebbe aver usato un nome diverso. Ha mai conosciuto un certo Ivan Marchenko?
Lei scosse il capo.
— O qualcuno di nome Grozny? Ivan Grozny?
— Spiacente.
Pierre annuì e si alzò dal divano. Magari Bryan Proctor era una falsa pista… forse Chuck Hanratty era stato davvero in cerca dei suoi arnesi o del suo denaro. Dopotutto, sembrava che quel tipo avesse avuto un buon profilo genetico, e…
— Ummm… potrei usare il suo bagno prima di andarmene?
Lei indicò un breve corridoio, illuminato da un’unica lampadina dentro una sfera bianca smerigliata attaccata al soffitto.
Pierre annuì e lentamente si diresse verso la stanza, che aveva pareti azzurro pallido e infissi di legno scuro. Chiuse la porta dietro di sé, e dovette spingere un po’ per incastrarla nel telaio; apparentemente era stata deformata da anni di esposizione al vapore delle docce. Sentendosi un verme assoluto, aprì lo sportello dell’armadietto delle medicine e guardò dentro. Ecco! Un rasoio Gillette da uomo. Se lo fece scivolare in tasca, poi tirò lo sciacquone e fece scorrere il rubinetto per qualche istante, infine si diresse fuori.
— Grazie mille — disse Pierre, chiedendosi se sembrasse imbarazzato quanto si sentiva.
— Perché stava chiedendo tutta quella roba?
— Oh, niente — disse. — Solo un’idea pazzesca. Mi spiace.
Lei scrollò le spalle. — Non si preoccupi.
— Non la infastidirò più.
— Nessun problema. Dormo molto più facilmente da quando lei… da quando quell’Hanratty è morto. Lei è benvenuto qui quando vuole. — Sorrise. — Inoltre, mi piace Colombo.
Pierre prese il largo dal condominio e si diresse alla Centrale di polizia di San Francisco.
Molly si era presa per maternità un permesso di due anni dall’insegnamento in classe (il massimo che la facoltà permettesse senza perdita di anzianità), ma andava ancora al campus per mezza giornata la settimana per incontrarsi con gli studenti che dovevano preparare la tesi. Dato che Pierre era a San Francisco, di Amanda si stava occupando la signora Bailey.
Dopo l’appuntamento con l’ultimo studente, Molly pensò di sfruttare il PC nel suo ufficio per fare qualche ricerca on-line usando il Magazine Database Plus, alle cui delizie Pierre l’aveva introdotta.
Stava quasi per spegnere, quando le balenò un pensiero. Aveva tentato di assimilare quanto aveva detto il dottor Gainsley, ma ancora non aveva capito tutto. Batté sulla tastiera una richiesta di informazioni sui DISORDINI DEL LINGUAGGIO, ma vide che c’erano più di trecento articoli. Cancellò quella richiesta, e pensò. Cos’era che aveva detto Gainsley? Qualcosa sull’osso ioide? Molly non era nemmeno sicura di come scrivere quella parola. Eppure, valeva la pena di fare un tentativo. Selezionò RICERCA DI PAROLE NEL TESTO DEGLI ARTICOLI, poi batté OIDE. Lo schermo si riempì immediatamente delle citazioni di quattordici articoli. Rimase a fissarlo, leggendo e rileggendo tre delle citazioni:
DISSE IL CAVERNICOLO: MAI PIÙ (strutture laringee negli antenati dell’uomo), «Speech Dynamics», Januarv-February 1997, v6 n2 p24(3). Reference #A19429340 Text: Yes (1551 words); Abstract: Yes.
OSSO DEL COLLO DI NEANDERTHAL ACCENDE DIATRIBA (fossile di ioide può indicare capacità di linguaggio), «Science News», Aprii 24, 1993, vl43 nl7 p262(l). Reference #A13804017. Text: Yes (557 words); Abstract: Yes.
IL DIBATTITO SUL LINGUAGGIO DEI NEANDERTHAL TORNA AD ACCENDERSI (nuova ricostruzione del teschio di Neanderthal di La Chapelle), «Science», April 3, 1992, v256 n5053 p33(2). Reference #A12180871. Text: Yes (1273 words); Abstract: No.
Selezionò a turno ciascuno degli articoli, e cominciò a leggerli.
Era stato a lungo dibattuto fra gli antropologi se i Neanderthal sapessero parlare, ma era difficile risolvere la questione perché i tessuti molli non erano stati preservati. Negli anni ’60 il linguista Philip Lieberman e l’anatomista Edmund Crelin avevano condotto uno studio del Neanderthal più famoso di tutti, l’esemplare di La Chapelle-aux-Saints trovato nel 1908. Basandosi su quell’esemplare, avevano concluso che i Neanderthal avevano la laringe troppo alta nella gola, facendo compiere all’aria una dolce curva in basso dal fondo della bocca, il che significava che gli sarebbe mancata la gamma vocale degli umani moderni.
Questa opinione fu sfidata nel 1989, quando uno scheletro di Neanderthal chiamato Moshe venne scoperto vicino al monte Carmel, in Israele. Per la prima volta, era stato scoperto un osso ioide di Neanderthal. Sebbene fosse alquanto più grande dell’ioide di un umano moderno, le proporzioni erano le stesse. Sfortunatamente, il teschio di Moshe era assente, rendendo la completa ricostruzione del suo tratto vocale, inclusa l’importantissima posizione dell’ioide, impossibile.
L’articolo di «Science» conteneva una citazione di Alan Mann, dell’Università della Pennsylvania, che diceva che date le attuali contraddizioni, non vedeva «come un osservatore imparziale potesse fare una scelta» fra le posizioni pro-Neanderthal-parlanti e anti-Neanderthal-parlanti. Ian Tattersall, dell’American Museum of Natural History, concordava, asserendo che la maggior parte degli antropologi erano in attesa di qualche altra prova.
L’intero corpo di Molly stava tremando quando ebbe finito di leggere tutto quanto. Sembrava, orribilmente, incredibilmente, impensabilmente, che Burian Klimus avesse trovato un modo per portare proprio questa nuova prova alla luce.
— Ciao, Helen.
Helen Kawabata alzò gli occhi. — Gesù, Pierre, dovremmo proprio darti un parcheggio riservato. Pierre sorrise timidamente. — Mi spiace, ma…
— Ma hai un altro favore da chiedermi.
— Uno di questi giorni farò una capatina solo per salutarti.
— Sì, giusto. Che cos’è stavolta?
Pierre pescò il rasoio dalla tasca della giacca. — Ho avuto questo dalla signora Proctor. È il rasoio di Bryan Proctor, e ho pensato che forse potresti vedere se se ne può estrarre un campione di DNA. Non sono un esperto a ricavare DNA da particelle di sangue secco o roba simile.
Helen camminò verso una credenza, ne estrasse una busta di plastica per campioni, tornò da Pierre, e la tenne con l’imboccatura aperta. — Buttalo qui. Pierre lo fece.
— Ci vorrà qualche giorno prima che abbia la possibilità di darci un’occhiata.
— Grazie, Helen. Sei una vera provvidenza.
Lei rise. — Una provvidenza? Hai bisogno di un’edizione più recente del Berlitz, Pierre. Nessuno parla più così.
Molly, furiosa per quello che Klimus poteva aver fatto, era in cammino verso l’uscita del campus quando, presso la North Gate Hall, sentì per la prima volta la discussione. Si guardò intorno per vedere da dove provenisse. A circa dieci metri di distanza, vide una coppia di studenti, maschio e femmina, entrambi sui vent’anni o giù di lì. Il maschio aveva lunghi capelli castani raccolti in una coda di cavallo. La sua faccia era piena e rotonda e, in quel momento, alquanto arrossata. Sbraitava a una ragazza minuta con capelli biondi e una maglietta gialla dei Simpsons. L’uomo aveva indosso jeans neri e un giubbotto di velluto, con la lampo aperta, che mostrava sotto una maglietta bianca. Stava urlando alla donna in una lingua che Molly non riconobbe. Mentre parlava, evidenziò ogni affermazione puntando un dito contro il viso della donna.
Molly rallentò un po’ il suo cammino. Era un eterno problema, quello delle molestie sessuali alle studentesse, e Molly voleva accertarsi se dovesse intervenire.
Ma la donna sembrava ribattere punto su punto. Gridò di rimando all’uomo nella stessa lingua. Il suo linguaggio del corpo era differente da quello dell’uomo, ma altrettanto ostile: teneva entrambe le mani di fronte a sé, con le dita ad artiglio, come se volesse serrargliele intorno alla gola.
Molly intendeva solo osservare abbastanza a lungo da assicurarsi che l’alterco non diventasse violento, e che la donna prendesse parte al diverbio di sua volontà. La donna si sfilò un anello dalla mano. Era stato chiaramente un dono di quell’uomo. Glielo gettò e se ne andò come una furia. L’oggetto rimbalzò sul suo torace e ricadde fra l’erba.
Molly si voltò per andarsene, ma quando l’uomo si inginocchiò cercando di ritrovare l’anello, urlò «Blyat!» alla donna che si allontanava. In un lampo, la sua mente tornò a quel lontano giorno a San Francisco: al vecchio sadico che tormentava il gatto morente. La parola che aveva appena sentito era proprio la stessa che quell’uomo orribile aveva gridato a Molly allora.
Molly seguì la ragazza, che stava, con aria di sfida, marciando risoluta verso l’ingresso dell’edificio più vicino, ignorando gli sguardi degli astanti. L’uomo stava ancora frugando fra l’erba in cerca dell’anello. Molly raggiunse la donna proprio mentre stava tirando una delle maniglie tubolari verticali della porta, tirate a lucido dalle mani di un migliaio di studenti ogni giorno.
— Tutto bene? — chiese Molly.
La donna la guardò, col viso ancora rosso di rabbia, ma non disse nulla.
— Mi chiamo Molly Bond. Sono docente al dipartimento di psicologia. Mi stavo solo chiedendo se va tutto bene.
La donna la guardò per un altro istante, poi fece un cenno col capo verso quell’uomo. — Mai sentita meglio — disse con uno strano accento.
— Quello era il tuo ragazzo? — chiese Molly. Mentre guardava, l’uomo si rialzò in piedi, tenendo l’anello in alto. In lontananza fissò loro due.
— Lo era — disse la studentessa. — Ma l’ho sorpreso con un’altra.
— Sei straniera?
— Della Lituania. Qui per studiare computer.
Molly annuì. Quello era il momento più ovvio per finire la loro conversazione, ma non poté resistere; doveva sapere. Tentò di rendere il suo tono spontaneo, disinvolto. — Ti ha chiamata «blyat» — disse Molly. — È che… — e si rese conto che stava per sembrare un’ignorantona — è lituano?
— Nyet. È russo.
— Che significa?
La donna la guardò. — Non è una bella cosa da dire.
— Mi dispiace, ma… — Che diavolo, perché non dire la verità? — Qualcuno mi ha chiamata così una volta. Mi sono sempre chiesta cosa intendesse.
— Non so il termine inglese — disse la studentessa. — Ha a che fare con l’organo genitale femminile, capisci?
Molly girò lo sguardo verso quella figura. — Che stronzo — disse.
— Da — disse la studentessa. Salutò Molly con un secco cenno del capo e proseguì, entrando nell’edificio.
Pierre accompagnò Molly mentre portava Amanda al piano di sopra e la metteva nella culla ai piedi del letto matrimoniale. Entrambi si chinarono a turno e baciarono la figlia sulla fronte. Molly era stata stranamente silenziosa tutta la sera. Aveva chiaramente qualcosa in testa.
Amanda guardò suo padre, in attesa. Pierre sorrise; sapeva che non avrebbe potuto cavarsela tanto facilmente. Raccolse una copia di Put Me in the Zoo da sopra la credenza. Amanda scosse la testa. Pierre alzò le sopracciglia, ma mise di nuovo giù il libro. Era stato il suo preferito per cinque sere di fila. Non riusciva a immaginarsi cosa spingesse sua figlia a volerlo cambiare, ma dato che ormai sapeva ogni parola di quel libro a memoria, fu subito pronto ad accondiscendere. Raccolse un libriccino quadrato intitolato Little Miss Contrary, ma Amanda scosse il capo di nuovo. Pierre tentò una terza volta, prendendo un libro di Sesame Street intitolato Grover’s Big Day. Amanda fece un gran sorriso. Pierre si avvicinò, si sedette ai piedi del letto, e cominciò a leggere. Molly, nel frattempo, tornò di sotto. Pierre arrivò fino in fondo al libro, circa dieci minuti di lettura, prima che Amanda sembrasse pronta ad addormentarsi. Si chinò di nuovo, baciò ancora una volta la testolina della figlia, e scivolò tranquillamente fuori dalla stanza da letto.
Quando scese giù in soggiorno, trovò Molly seduta suldivano, con una gamba piegata sotto di sé. Reggeva una copia del «New Yorker», ma non sembrava che la stesse realmente guardando. Un CD di Shania Twain suonava dolcemente in sottofondo. Molly mise giù la rivista e lo guardò. — Amanda dorme? — disse.
Pierre annuì. — Penso di sì.
Il suo tono era serio. — Bene. Ho aspettato apposta. Dobbiamo parlare.
Pierre raggiunse il divano e le si sedette accanto. Lei lo guardò un attimo, poi distolse lo sguardo. — Ho fatto qualcosa di sbagliato?
Lei tornò a fissarlo. — No… no, non tu.
— Allora che c’è?
Molly espirò rumorosamente. — Ero preoccupata per Amanda, così oggi ho fatto qualche ricerca.
Pierre la incoraggiò con un sorriso. — E?
Lei distolse ancora lo sguardo. — Probabilmente è pazzesco, ma… — Ripiegò le mani in grembo e abbassò gli occhi. — Certi antropologi affermano che l’uomo di Neanderthal aveva esattamente la stessa struttura della gola che il dottor Gainsley ha detto che ha Amanda.
Pierre sentì le sopracciglia alzarsi. — E così?
— Così il tuo capo, il famoso Burian Klimus, è riuscito a estrarre DNA da quell’esemplare di Neanderthal israeliano.
— Hapless Hannah — disse Pierre. — Ma non penserai mica…
Molly guardò Pierre. — Io amo Amanda proprio per com’è, ma…
— Tabernac — disse Pierre. — Tabernac.
Poté vedere tutto nella sua mente. Dopo che Molly, Pierre, la dottoressa Bacon e le assistenti di Bacon avevano lasciato la sala operatoria, Klimus non aveva proceduto a masturbarsi in una provetta. Invece, aveva portato la prima delle cellule uovo di Molly all’estremità di una pipetta di vetro, tenendovela aderente per suzione. Lavorando attentamente sotto un microscopio, aveva poi aperto l’uovo e, usando una pipetta più piccola, aveva estratto la serie aploide dei ventitré cromosomi di Molly, e l’aveva rimpiazzata con una serie diploide dei quarantasei cromosomi di Hannah. Risultato finale: un ovulo fertilizzato che conteneva soltanto il DNA di Hannah.
Naturalmente, aprire l’ovulo avrebbe danneggiato la zona pellucida, un rivestimento gelatinoso sulla sua superficie che era necessario per l’impianto e lo sviluppo dell’embrione. Ma da quando Jerry Hall e Sandra Yee avevano mostrato nel 1991 che era possibile ricoprire le cellule uovo con una zona pellucida sintetica, la clonazione era stata teoricamente possibile. E appena due anni più tardi, a un congresso dell’American Fertility Society, tenutosi proprio a Montreal, Hall e i suoi colleghi avevano annunciato di averla realmente effettuata, sebbene gli embrioni clonati non fossero stati portati oltre il primo stadio. Sì, la tecnologia esisteva. Quel che Molly stava suggerendo era una possibilità reale. Klimus poteva aver usato quella procedura per produrre alcune cellule uovo contenenti copie del DNA di Hannah, coltivarle in vitro fino allo stadio multicellulare, e poi la dottoressa Bacon, presumibilmente inconsapevole, avrebbe inserito gli embrioni in Molly, sperando che almeno uno di essi attecchisse.
— Se fosse vero — disse Molly, alzando lo sguardo su Pierre — non cambierebbe i sentimenti che provi per Amanda, vero?
Pierre rimase zitto un momento.
La voce di Molly assunse un tono brusco. — Vero?
— Be’, no. No, suppongo di no. È solo che, be’, voglio dire, sapevo già che non era mia figlia… biologicamente, cioè. Sapevo che non era parte di me. Ma avevo sempre pensato che fosse parte di te. Ma se quanto stai suggerendo è vero, allora… — Lasciò che le sue parole si spegnessero.
Il CD di Shania Twain aveva smesso di suonare. Pierre si alzò, si diresse lentamente verso lo stereo. Stava cercando disperatamente di pensare. Certo, Amanda aveva un disturbo del linguaggio. E con questo? Un sacco di bambini avevano a che fare con cose di gran lunga più gravi, pensò al piccolo Erik Lagerkvist, rimise il CD nel raccoglitore e si trascinò di nuovo fino al divano. — Le voglio bene — disse mentre si sedeva. Prese la mano della moglie nella sua. — È sempre nostra figlia.
Molly annuì, sollevata. Ma dopo un lungo momento disse: — Eppure, dobbiamo sapere. Riguarda tante cose… la scuola, forse anche la sua vulnerabilità alle malattie.
Pierre guardò l’orologio sulla mensola del camino. Erano appena passate le 19. — Vado al laboratorio.
— Per cosa?
— Ormai saranno andati a casa quasi tutti. Vado a rubare un campione del DNA di Hapless Hannah.
Pierre usò la sua tessera magnetica per entrare negli uffici dell’Human Genome Center. Le ossa di Hapless Hannah venivano di norma tenute nell’Institute of Human Origins, ma Pierre non aveva dubbi che alcune copie del DNA fossero conservate lì. Quel materiale era troppo prezioso per essere custodito in un unico posto.
Doveva esserci un mazzo di chiavi d’emergenza da qualche parte. Avanzò verso la scrivania che un tempo era di Joan Dawson. Il cassetto in cima non era chiuso a chiave. Dentro c’era un anello con infilate forse due dozzine di chiavi differenti. Pierre se ne impadronì e si diresse lungo il corridoio.
Guardò il buco della serratura dell’ufficio di Klimus, ma niente faceva intuire quale chiave potesse adattarvisi. Cominciò a provare le chiavi una dopo l’altra, tentando invano di impedire che il tintinnio si facesse troppo forte. Pierre si sentì terribilmente nervoso, e…
— Posso aiutarla? — disse una voce dall’accento straniero.
Il cuore di Pierre ebbe un sobbalzo. Alzò lo sguardo. — Carlos! — disse, vedendo il custode. — Mi hai spaventato.
— Spiacente, dottor Tardivel. Non mi ero reso conto che fosse lei. Ha bisogno di entrare nell’ufficio del dottor Klimus?
— Uhmm, già. Sì, mi occorre un libro che ha lui.
Carlos allungò la mano verso il proprio anello di chiavi, attaccato alla cintura da un congegno che dava spago quando tirava ma riavvolgeva il filo quando lo lasciava andare. Si chinò e aprì la porta. Poi fece un passo dentro e accese le luci. I pannelli al neon lampeggiarono qualche attimo prima di tornare alla vita; il loro chiarore si riflesse sulle lastre di vetro che coprivano le foto astronomiche incorniciate. Carlos fece cenno a Pierre di seguirlo dentro. Pierre finse di dare una scorsa a una delle librerie di quercia che arrivavano fino al soffitto. — Vede quel che cerca? — chiese Carlos.
— No… non sono in ordine alfabetico. Mi ci vorrà un po’ per trovarlo.
— Be’, guardi pure. Ma stia attento a richiudere quando esce. Ultimamente abbiamo avuto guai con degli intrusi.
— Non preoccuparti — disse Pierre. — Grazie.
Carlos se ne andò. Pierre ascoltò i passi del custode perdersi in distanza. Raggiunse la seconda porta. Era chiusa a chiave. Provò tutte e venti le chiavi; nessuna di esse l’aprì. Tornò verso la scrivania di Klimus, aprì il cassetto in cima, sperando che dentro ci fosse un’altra serie di chiavi. Niente. Chiuse la porta e girò su se stesso. Il suo braccio ebbe uno scatto inaspettato, colpendo il globo di Marte sulla credenza. Per un orribile istante, Pierre pensò che stesse per farlo cadere per terra, ma il pianeta rosso si limitò a ruotare sul suo asse un paio di volte, poi si fermò.
Pierre tirò fuori il portafoglio, ne estrasse la sua carta di credito, e tentò di ficcarla nella fessura fra la porta e il telaio, proprio come aveva visto in innumerevoli telefilm. Passò il tempo. Fu terrorizzato al pensiero che Carlos tornasse. Ma alla fine il piccolo chiavistello scivolò via. Aprì la porta, entrò, e annaspò in cerca dell’interruttore della luce.
C’era un piccolo frigorifero lì dentro, piazzato in quel che sembrava il posto per un forno a microonde. Attaccato allo sportello c’era un’insegna stampata a laser che diceva: CAMPIONI BIOLOGICI, ALTAMENTE DEPERIBILI, NON SPEGNERE NÉ TOGLIERE LA SPINA.
Pierre aprì lo sportello del frigorifero. C’erano tre ripiani di rete metallica dentro, su ognuno dei quali erano posati contenitori di vetro sigillati. All’interno dello sportello c’erano lattine di Coca Cola. I contenitori di vetro erano tutti etichettati, e a Pierre ci vollero solo pochi minuti per trovare quello che voleva. Un adesivo scritto a mano diceva, semplicemente, HANNAH.
Pierre prese la provetta, chiuse lo sportello, spense la luce nella stanzetta, spense la luce dell’ufficio di Klimus, e chiuse, ma non a chiave, la porta d’ingresso. Camminò fino al proprio laboratorio, usò enzimi di restrizione per staccare qualche frammento di DNA da testare, poi li sottopose alla reazione a catena della polimerase per ottenere altri duplicati. Quando fosse tornato l’indomani, avrebbe trovato milioni di copie dei frammenti.
Si diresse di nuovo nell’ufficio di Klimus, rimise il contenitore dei campioni in frigorifero, chiuse la porta, fece girare la chiave, e se ne andò a casa, con l’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Il giorno dopo, mentre Pierre stava percorrendo il corridoio verso il laboratorio, udì squillare il suo telefono. Si affrettò, per quanto gli era possibile, aprì il laboratorio, e afferrò il telefono. — Pronto?
— Ciao, Pierre. Sono Helen Kawabata.
— Ciao, Helen.
— Sei fortunato. C’era un bel po’ di DNA sul rasoio di Bryan Proctor. La lama stava perdendo l’affilatura; l’aveva ovviamente usata per un lungo tempo. Comunque, dovrò essere in tribunale stamattina, ma puoi venire a prendere i campioni questo pomeriggio, se lo desideri.
— Mille grazie, Helen. Ti sono infinitamente grato.
— È il minimo che una «provvidenza» potesse fare. Ciao.
Pierre iniziò a comparare con la PCR il DNA di Amanda e di Hannah, non un profilo genetico completo, ma così si sarebbero avuti risultati in due giorni invece di due settimane. Poi prese la sua auto e attraversò il Bay Bridge fino a San Francisco, andò alla Centrale di polizia, raccolse i campioni refrigerati del DNA di Bryan Proctor, e guidò di nuovo fino al LBNL. Gli capitò di incontrare Shari Cohen in corridoio.
— Shari — disse Pierre — avresti la possibilità di farmi quella stessa serie di test su un altro campione, per favore?
— Certo.
— Grazie. Eccolo qui. Oh, e potresti anche controllare che ci sia un cromosoma Y presente? — C’era sempre una piccola probabilità che la signora Proctor avesse usato quel rasoio per le sue gambe o ascelle.
— Lo farò.
— Grazie. Fammi sapere non appena avrai i risultati.
Quella sera, Pierre tornò a casa, baciò Molly e Amanda, e si sedette sul divano per dare un’occhiata alla posta. Stava cercando di distogliere la mente dal DNA di Amanda; non avrebbe avuto i risultati fino a dopodomani.
Finalmente era comparsa la sua copia di «Maclean’s», con notizie adesso vecchie dì due settimane rispetto al Canada; era arrivata anche «Solaris». Si era fatto un punto d’onore di leggere riviste francesi per continuare a pensare primariamente in quel linguaggio. C’era anche l’estratto conto della sua Visa, e…
Ehi, qualcosa della Condor Health Insurance. Una grossa busta di carta gialla.
La aprì. Era il rendiconto annuale della compagnia, con una nota che annunciava la prossima assemblea generale annuale.
Molly gli si sedette accanto sul divano. Mentre Pierre dava uno sguardo all’annuncio dell’assemblea annuale, lei prese a sfogliare il rapporto. Era un sottile libriccino dalla copertina gialla e nera, con le stesse misure di un foglio standard di carta protocollo. — «La Condor è la compagnia assicurativa sanitaria numero uno nell’area nord-occidentale della costa del Pacifico» — disse, leggendo dalla prima pagina interna. — «Con preveggenza e con l’impegno a eccellere, provvediamo alla tranquillità di uno virgola sette milioni di detentori di polizze nella California settentrionale, in Oregon, e nello stato di Washington.»
— Tranquillità un cazzo — disse Pierre. — Dire a una madre incinta che deve abortire il bambino o perdere l’assicurazione, o dire a uno a rischio di Huntington che deve fare per forza il test genetico. — Tenne da parte l’avviso dell’assemblea. — Pensi che dovrei andare?
— Quand’è?
Diede un’occhiata. — Venerdì 18 ottobre. Cioè… cosa?… fra tre mesi.
— Certo. Fagli vedere di che pasta sei.
Era il primo di agosto. Pierre entrò in laboratorio di buon’ora, pronto a verificare le impronte del DNA di Hapless Hannah e Amanda Tardivel-Bond.
Tutto quel che doveva fare era guardare le autoradiografie, e…
Dannazione. Dannazione fottuta.
Ogni segno era uguale.
Trovò una sedia e vi si sedette prima di cadere a terra.
Sua figlia, la sua bambina, era un clone di una donna neanderthaliana che aveva vissuto ed era morta in Medio Oriente sessantaduemila anni prima. Era tutto…
— Dottor Tardivel?
Pierre alzò lo sguardo. Gli ci volle qualche istante per mettere a fuoco la vista. — Oh, ciao, Shari.
— Ho finito di testare quell’ultimo campione di DNA.
A Pierre stava ancora girando la testa. Fu quasi per dire «Quale campione di DNA?» Naturalmente: quello di Bryan Proctor, quello che Helen Kawabata aveva recuperato dal suo rasoio. — E?
Shari Cohen fece spallucce. — Nulla. Lui, perché era un uomo, è risultato negativo a ogni patologia genetica che ho provato.
— Diabete? Disturbi cardiaci? Alzheimer? Huntington?
— Pulito come un fischietto.
Pierre sospirò. — Grazie, Shari. Apprezzo il tuo aiuto.
— Va tutto bene, Pierre?
Pierre non poté guardarla negli occhi. — Benissimo. Tutto a posto.
Shari restò a fissarlo un altro istante, poi, con una lieve alzata di spalle, andò verso uno dei banconi del laboratorio e cominciò il suo lavoro. Pierre si appoggiò allo schienale. Era così sicuro di essere sulle tracce di qualcosa… qualche vasta cospirazione per l’eutanasia precoce di chi aveva davanti oscuri futuri genetici. Ma Chuck Hanratty aveva ucciso Bryan Proctor, un uomo senza alcuna patologia di rilievo. Non aveva senso.
Pierre diede un altro sguardo alle autoradiografie del DNA di Hannah e di Amanda, poi si alzò in piedi.
— Me ne vado a casa — disse a Shari passandole accanto.
— Sei sicuro che sia tutto okay? — chiese Shari. Pierre la udì, ma non se la sentì di rispondere. Raggiunse il parcheggio e trovò la sua macchina.
Pierre entrò dalla porta d’ingresso. Molly si precipitò ad accoglierlo, con la piccola Amanda che le trotterellava dietro.
— Be’? — disse Molly.
Pierre espirò, insicuro di come dare la notizia. — È un clone — disse semplicemente.
Anche se in origine era stata la prima a sospettarlo, Molly sbarrò gli occhi. — Quello stronzo — disse.
Pierre annuì.
Amanda ce l’aveva fatta ad arrivare fino a dove stava suo padre. Lo guardò coi grandi occhi marroni e tese le mani alzate verso di lui.
Pierre guardò giù. Amanda. Amanda Helene Tardivel… Bond. O…
O Hapless Hannah, Modello II.
Le sue braccine continuarono ad alzarsi verso di lui. Parve confusa che lui non la prendesse in braccio.
«No, dannazione» pensò Pierre. «No. È Amanda… è mia figlia.»
Abbassò le braccia e la sollevò da terra. Lei gli mise le braccia intorno al collo e si dimenò tutta, deliziata. Pierre la sostenne con una sola mano e le scompigliò i capelli castani con l’altra. — Come va? — le disse. — Come sta il tesorino di papà?
Amanda gli sorrise. Lui avrebbe voluto portarla sul divano del soggiorno, ma era rischioso. Invece la rimise giù, la prese per la manina, e insieme affrontarono la gran camminata fin lì. Lui si sedette e lei gli si arrampicò in grembo.
Molly entrò nel soggiorno e prese posto nella comoda poltrona di fronte al divano. — Allora che facciamo adesso? — disse.
— Non lo so. Non so neanche se dovremmo fare qualcosa…
Molly sbarrò gli occhi ancora. — Dopo quello che ha combinato?
Pierre alzò una mano. — Lo so, lo so. Non pensi che mi senta allo stesso modo? Dio, mi sento come se avesse stuprato mia moglie… vorrei torcergli il collo, ucciderlo a mani nude, ma…
— Ma cosa?
— Ma c’è Amanda a cui pensare. — Carezzò la testa di sua figlia, lisciando i capelli che aveva arruffato prima. — Se perseguiremo Klimus, potrebbe saltar fuori la verità su di lei.
Molly rifletté su questo. — Dobbiamo scacciarlo dalle nostre vite… non voglio che torni qui per farne un oggetto di studio. Guarda, una volta che si sarà reso conto che sappiamo la verità, dovrebbe tirarsi indietro. Quello che ha fatto non è etico…
— Decisamente.
— …e quindi rischia di perdere tutto, messo alla berlina… la sua posizione al LBNL, i suoi contratti come consulente, tutto.
— Ma se la verità su Amanda «dovesse» saltar fuori?
— chiese Pierre.
— Non lo so. Non potremmo andarcene da qui? Andare in Canada, e cambiare nome? Puoi sempre tornare in Canada, giusto?
Pierre annuì.
— So che vorresti star qui, ma…
Pierre scosse il capo. — Questo è secondario. Farò qualunque cosa per mia figlia… qualunque. — Si strinse Amanda al petto, e lei chiocciò di piacere.
— Professor Klimus — disse Pierre, con voce brusca. Aveva avuto intenzione di mostrarsi calmo e ragionevole, ma la sola vista del vecchio gli fece ribollire il sangue.
Klimus alzò lo sguardo. I suoi occhi guizzarono da Pierre a Molly. Poi reclinò indietro la testa calva e voltò la pagina della pubblicazione scientifica che teneva aperta sulla scrivania. — Sono molto occupato. Se vuole vedermi, dovrà prendere un appuntamento con la mia segretaria.
Molly chiuse la porta dell’ufficio.
— Come ha potuto? — disse Pierre a denti stretti.
Klimus tese la mano verso il telefono. — Penso che chiamerò la sicurezza.
Pierre si scagliò in avanti, agguantò la cornetta dalla mano ossuta di Klimus, e la sbatté di nuovo al suo posto.
— Non chiamerai nessuno — disse Pierre, con voce tremante di furia. — Ti ho chiesto come hai potuto farlo.
— Fare cosa? — disse Klimus, tentando ora di fingere sorpresa. Usò la mano sinistra per sfregarsi quella da cui Pierre gli aveva strappato il telefono.
— Non fare giochetti — disse Pierre. — Mi sono impossessato di un campione del DNA di Hapless Hannah. E lo stesso di Amanda.
Klimus si tese in avanti. — Sì, lo è. Ma, mi dica… cosa l’ha fatta sospettare?
— Che fottuta differenza fa?
— È il nocciolo della questione, no? — disse Klimus, allargando le braccia. — Qualcosa vi ha fatto rendere conto che quell’esemplare di infante non era un Homo sapiens sapiens. Cosa ve l’ha svelato?
— «Esemplare di infante» — ripeté Molly, con un brivido. — Non chiamarla così.
— Come avete potuto dire che non era vostra figlia? — chiese Klimus.
— Dannazione! — esclamò Pierre. — Dann… — Si lanciò in una sfilza di oscenità in francese, incapace di controllarsi. Poi: — Maledetto, maledetto… te ne stai lì seduto a fare domande a «noi»! Dovrei romperti in due, vecchio patetico!
Klimus scrollò le ampie spalle. — Fare domande è il compito di uno scienziato.
— «Scienziato?» — ringhiò Pierre. — Tu non sei uno scienziato. Sei un mostro.
Klimus si alzò dalla sedia. — Marmocchio col moccio al naso… io sono «Burian Klimus». — Disse il proprio nome come se snocciolasse una preghiera. — Non osare parlarmi in questo modo. Potrei far sì che tu non possa mai più lavorare in alcun laboratorio, in nessuna parte del mondo.
Molly era rossa in faccia e respirava a sbuffi. — Burian… ci fidavamo di te.
— Volevate un bambino. Avete un bambino. Volevate la fertilizzazione in vitro, di norma un processo costoso. L’avete avuta gratis.
I pugni di Pierre si stavano serrando. — Bastardo. Non provi alcun rimorso per quello che hai fatto.
— Quel che ho fatto è stato «meraviglioso» — disse Klimus. — Non c’è più stato un esemplare di infante come questo dall’Età della Pietra.
— Non chiamarla «esemplare di infante», dannazione — disse Molly. — È mia figlia.
— Davvero? — disse Klimus.
— Non osare nemmeno discuterne, razza di fottuto… — disse Pierre. — Noi amiamo Amanda, indipendentemente dalle sue origini.
— «Tutto» dipende dalle sue origini — disse Klimus.
— Ed ecco perché lei, signor Tardivel, ora si metterà a sedere e chiuderà la bocca.
— Non intendo chiuder bocca — disse Pierre. — Andrò dal direttore del LBNL, e dalla polizia.
— Non farà nessuna delle due cose. Dovrebbe spiegare la natura delle sue lagnanze, e ciò significherebbe rivelare la storia della bambina. — Si rivolse a Molly. — Vuole realmente che sua figlia sia oggetto di intensa attenzione del pubblico, signora Bond? — L’espressione di Klimus era tronfia.
— Pensi che questo sia il tuo asso nella manica, non è vero? — sbottò Pierre. — Be’, ti sbagli. Siamo pronti a dire la verità a chiunque possa farti rinchiudere al fresco.
— Ti faremo finire in prigione — disse Molly — e poi ce ne andremo in Canada e prenderemo nuovi nomi… qualcosa di cui sai già tutto, ne sono certa.
Klimus non batté ciglio. — Vi consiglio di non intraprendere simili azioni. Se intendete agire nell’interesse dell’esemplare di infante…
— Ne ho avuto abbastanza di te, figlio di puttana — disse Pierre. Abbrancò il telefono, e prese a comporre l’interno dell’ufficio del direttore del LBNL.
— Sta a voi scegliere — disse Klimus con una scrollata di spalle. — Naturalmente, avrei pensato che voleste evitare una battaglia legale per la sua custodia…
— Cust… — Molly sbarrò gli occhi. — Non puoi fare questo.
— La bambina è un clone, dottoressa Bond. Lei può aver portato al termine la gestazione, ma non è la madre biologica; in effetti Amanda non ha legami di sangue con nessuno di voi.
— Pronto? — disse una voce maschile all’altro capo del telefono.
— Sta a lei, Tardivel — disse Klimus. — Io sono pronto a lottare fino in fondo.
Pierre gli lanciò uno sguardo feroce, ma rimise la cornetta al suo posto. — Non potresti mai vincere.
— Non potrei? Il parente più prossimo di Amanda è Hapless Hannah… e i resti di Hannah sono sotto la custodia legale dell’Institute of Human Origins, in seguito a un accordo col governo israeliano. La dottoressa Bond qui presente non è altro che una madre surrogata, e tradizionalmente i tribunali hanno conferito ben pochi diritti a queste persone.
Molly si rivolse a Pierre. — Non può farlo, vero? Non può portarci via Amanda?
— Bastardo — disse Pierre a Klimus.
— Non io — disse Klimus, con una lieve alzata di spalle. — Se è in dubbio la paternità di qualcuno, questa è Amanda. — Guardò a turno ciascuno di loro. — Ora, credo di avervi chiesto come avete capito che la bambina non era vostra. Mi aspetto una risposta. — Allungò il braccio verso il telefono. — O forse chiamerò «io» il direttore. Prima iniziamo questa battaglia legale, e più presto sarà risolta.
Pierre gli strappò di nuovo il telefono di mano.
— Vedo che adesso preferisce che questa faccenda non diventi di dominio pubblico — disse Klimus. — Molto bene; ditemi come avete scoperto la vera origine di Amanda.
Pierre era rosso in volto, e i suoi pugni si aprivano e chiudevano spasmodicamente. Molly non disse nulla.
— È una bambina molto brutta, sapete — disse Klimus.
— Maledetto, «tu» sei un mostro — disse Molly. — Lei è bella.
Klimus non parve udirla. Parlò in toni misurati, guardando prima Molly, poi Pierre. — Sì, avevamo DNA neanderthaliano, ma c’erano ancora molte domande cui non potevamo rispondere. Se i Neanderthal potessero parlare, per esempio. C’è un enorme dibattito al riguardo nella comunità degli antropologi, avreste dovuto sentire Leakey e Johanson. Be’, ora sappiamo. Non potevano comunicare a voce; probabilmente avevano invece un proprio linguaggio dei segni molto efficace. Forse è maggiormente predisposta di noi a comunicare a segni in qualche modo.
«E c’è la più grossa domanda di tutte: sono della nostra stessa specie? Cioè, l’uomo di Neanderthal era un Homo sapiens neanderthalensis… solo una sottospecie, capace di produrre una progenie fertile con un uomo moderno? O erano qualcos’altro… Homo neanderthalensis, una specie interamente diversa, forse in grado di avere un figlio sterile con un uomo moderno, proprio come un cavallo e un asino possono generare un mulo, ma incapace di generare una progenie che potesse riprodursi. Be’, non appena Amanda entrerà nella pubertà, potremo scoprirlo.»
— Fottiti — disse Molly.
Klimus annuì. — Questa sarebbe una possibilità.
Molly si lanciò a mani tese, pronta a uccidere. Pierre scattò e afferrò sua moglie, tenendola indietro. — Non ora — le disse.
— Continueremo la finzione che sia vostra figlia — disse Klimus, per nulla turbato. — Ma le farò visita settimanalmente e registrerò ogni particolare sulla sua crescita e le sue capacità mentali. Quando verrà il momento di dare alla stampa questi dati, farò proprio come farebbe lei, dottoressa Bond, nello studio di un caso psicologico, riferendomi all’esemplare di infante solo come al «Bambino A». Non intraprenderete alcuna azione contro di me; se lo farete, la battaglia per la custodia farà sembrare il processo a O.J. Simpson roba da tribunale di provincia. — Scattò verso Pierre. — E «lei», dottor Tardivel, non mi parlerà mai più con quel tono di voce. Ora, ci siamo capiti?
Pierre, furente, non disse nulla.
Molly guardò suo marito. — Non lasciare che me la tolga. Quando…
Si interruppe di botto, ma a volte si poteva leggere nelle menti anche senza avere il beneficio di alcun talento genetico. «Quando te ne sarai andato, sarà tutto quello che mi rimarrà.»
— Sta bene — disse infine Pierre, a denti stretti. — Andiamocene, Molly.
— Ma…
— «Andiamocene.»
— Passerò questa domenica — disse Klimus. — Oh, e porterò l’attrezzatura per prelevare campioni di sangue. Non vi seccherà, ne sono sicuro.
— Stronzo fottuto.
— Certamente… — disse Klimus, con un’alzata dì spalle… — ma sono «io» che possiedo le ossa di Amanda.
Molly si alzò. Era completamente rossa in volto.
— Andiamo — disse Pierre. Aprì la porta dell’ufficio di Klimus.
Uscirono dalla stanza. Pierre sbatté la porta dietro di loro, prese Molly per mano, e insieme percorsero il corridoio. Raggiunsero il laboratorio di Pierre; Shari era fuori da qualche altra parte.
— Maledetto — disse Molly, scoppiando in lacrime.
— Maledetto, maledetto, maledetto. — Alzò gli occhi verso Pierre. — Dobbiamo trovare qualche modo per sbarazzarci di lui — disse. — Se mai c’è stato un caso giustificato di omicidio…
— Non dire così — disse Pierre.
— Perché no? «So» che stai pensando la stessa cosa.
— Non ero sicuro, prima — disse Pierre — ma ora sì… questo tipo di esperimenti è puro fottuto nazismo. Klimus «deve» essere Marchenko. — Prese la moglie tra le braccia. — Non preoccuparti… morirà, eccome. Ma non toccherà a noi. Saranno gli israeliani a impiccarlo per crimini di guerra.
— Giustizia — disse la voce femminile all’altro capo del telefono.
— Avi Meyer, OSI — disse Pierre.
— Mi dispiace, l’agente Meyer non è in ufficio oggi. Desidera…
— La sua casella vocale, allora.
— La collego subito.
— Qui l’agente Avi Meyer. Sono a una riunione a Quantico oggi, e non sarò di ritorno in ufficio fino a domani. Siete pregati di lasciare un messaggio dopo il segnale.
— Signor Meyer, mi chiami il più presto che può. Sono Pierre Tardivel, il genetista del Lawrence Berkeley. Mi contatti immediatamente. È importante. — Pierre lesse il proprio numero, poi riagganciò.
— È fuori città per oggi — disse Pierre a Molly, seduta su uno sgabello del laboratorio. — Lo richiamerò lunedì se non mi chiama lui prima. — Andò verso di lei e l’abbracciò. — Andrà tutto bene — disse. — Ce la caveremo.
Gli occhi di Molly erano ancora iniettati di sangue. — Lo so — disse, annuendo lievemente. — Lo so. — Guardò l’orologio. — Andiamo a prendere Amanda dalla signora Bailey. Voglio tener stretta mia figlia.
Pierre l’abbracciò di nuovo.
La coscienza di Pierre l’aveva tormentato per giorni. Non era come se avesse preso qualcosa di valore. Tuttavia, il rasoio di qualcuno era un oggetto molto personale. Poteva aver significato parecchio per la vedova di Bryan Proctor, un modo importante di ricordarlo. E, be’, se le cose fossero sfuggite di mano con Klimus, e avessero dovuto fuggire in Canada, Pierre non voleva che quell’oggetto rubato continuasse a rodergli la mente. Non era sicuro di che pretesto usare per spiegare una nuova visita, ma se fosse riuscito a tornare nell’appartamento, avrebbe potuto rimettere il rasoio nell’armadietto dei medicinali, magari nascondendolo dietro qualche altra cosa in modo che la sua riapparizione non fosse ovvia.
Raggiunse il cadente palazzo d’appartamenti a San Francisco, entrò nell’ingresso, e premette il pulsante del citofono con la scritta PORTIERE.
— Sì?
— Signora Proctor? Sono Pierre Tardivel.
Silenzio per alcuni secondi, poi il ronzio della porta. Pierre si issò lentamente fino alla suite 101. La signora Proctor lo stava aspettando sulla soglia, con le mani sui fianchi. — Ha preso il rasoio di mio marito — disse seccamente.
Pierre si sentì arrossire in viso. — Mi spiace. Non intendevo mancarle di rispetto. — Tirò fuori di tasca un sacchettino di plastica trasparente con dentro il rasoio. — Sono… sono un genetista; volevo un campione di DNA.
— Per che diavolo farne?
— Pensavo che forse avesse una malattia genetica di cui lei non sapeva nulla.
— E?
— Non ne aveva nessuna. Almeno non una comune, facile da diagnosticare.
— Ed è precisamente quello che le avevo detto. Cos’è questa storia, signor Tardivel?
Pierre avrebbe voluto trovarsi a un milione di chilometri di distanza. — Mi dispiace. È tutto così pazzesco. Mi sento in modo terribile.
Lei continuò a fissarlo, senza battere ciglio, col mento a palla di golf proteso in fuori.
— È solo che avevo questa folle teoria che forse la morte di suo marito e l’attentato alla mia vita fossero collegati. Lei sa che ho una tara genetica, e pensavo che forse l’avesse anche lui.
— Invece no.
— No, era in perfetta salute.
La donna guardò Pierre, con la sorpresa sul volto. — Be’, non lo direi affatto. Era in lista d’attesa per un trapianto di rene.
Pierre sentì il cuore mancare un battito. — «Che?»
— Aveva i reni a pezzi.
Pierre si arrabbiò. — Ma le ho chiesto se aveva qualche malattia ereditaria…
— Il suo problema non era ereditario. È stato il risultato di una lesione. I suoi reni erano rimasti danneggiati in un incidente d’auto circa dieci anni fa e si erano costantemente aggravati.
— Dio — disse Pierre. — Dio santo.
— Giustizia.
— Avi Meyer, OSI, per favore.
— Un attimo solo.
— Meyer.
— Avi, sono Pierre Tardivel.
— Salve, Tardivel. Spiacente per non essermi ancora fatto vivo. Ero fuori città. Dica, ha avuto fortuna con le sue proteste contro la Condor Health? — In precedenza Pierre aveva chiamato Avi per scoprire se la coercizione all’aborto fosse legale per la legge federale; lo era.
— No — disse Pierre. — Ma non è per questo che sto chiamando. Riguarda Burian Klimus.
— Non abbiamo nulla di nuovo — disse Avi con un sospiro.
— Forse no, ma io sì. Ha ragione su dì lui. È Ivan Grozny.
La voce di Avi fu eccitata, ma cauta. — Cosa glielo fa dire?
— Sa dell’attentato alla mia vita? Il tipo che ha cercato di uccidermi era un neonazista, giusto? Chuck Hanratty.
— Uh-huh.
— Be’, Hanratty in precedenza aveva ucciso un tizio di nome Bryan Proctor… e Proctor aveva i reni a pezzi.
— E così?
— E anche Joan Dawson, una diabetica qui al LBNL, è stata assassinata, da un coltello molto simile a quello usato nella mia aggressione; non è stato Hanratty a ucciderla, certamente, era già morto a quel punto. Ma potrebbe benissimo essere stato qualcuno collegato a Hanratty, il che significa qualcuno collegato al Millennial Reich.
— Sì, ma…
— E tre sofferenti di corea di Huntington sono stati uccisi di recente a San Francisco, e Burian Klimus li aveva incontrati tutti e tre.
— Davvero?
— E ho esaminato campioni di tessuti di centodiciassette vittime di omicidi irrisolti qui nella Bay Area, un numero grandemente sproporzionato avevano geni malati.
— Così pensa… merda, cosa pensa che stia facendo Klimus? Ripulire la società dagli esseri difettosi?
— Mein Kampf, capitolo uno, versetto uno — disse Pierre.
— È sicuro di tutto ciò? — disse Avi.
— Assolutamente.
— Farà meglio ad avere ragione — disse Avi.
— Ce l’ho.
— Perché se è solo qualche stronzata da impiegato incazzato, se lei vuol solo far passare dei guai al suo capo, allora sta facendo un gravissimo sbaglio. L’osi fa palle del Dipartimento della Giustizia, e non si fotte la Giustizia.
Il tono di Pierre fu determinato. — Klimus è Ivan il Terribile. Ne sono convinto.
Pierre amava sua figlia, su questo non aveva dubbi. Ma, be’, era uno scienziato, e non poteva fare a meno di essere affascinato dal suo speciale retaggio. Sapeva che il suo DNA differiva da quello di un umano moderno solo per meno dell’uno per cento. Diavolo, il DNA di scimpanzé deviava da quello umano moderno solo dell’1,6 per cento (le scimmie e gli umani si erano separati nella scala evolutiva circa sei milioni di anni prima). Le differenze tra Amanda e gli altri bambini che non avevano scavalcato gli ultimi sessantamila anni dell’evoluzione umana erano sicuramente molto sottili. Eppure, qualcosa, qualche minuscolo cambiamento genetico… aveva dato agli umani moderni, per quanto più deboli fisicamente, qualche sorta di vantaggio sui Neanderthal, che aveva portato alla scomparsa di questi ultimi. L’attaccatura dei muscoli pettorali dei Neanderthal era di dimensioni doppie rispetto agli uomini moderni; avrebbero avuto il fisico di Arnold Schwarzenegger senza doverci lavorare sopra. Tuttavia qualcosa aveva fatto pendere la bilancia in favore dell’Homo sapiens sapiens. Pur maledicendo l’orrendo esperimento di Klimus, Pierre poté condividere il fascino di studiare il DNA neanderthaliano.
Usando enzimi di restrizione per spezzare il DNA di Amanda in frammenti maneggevoli, cominciò a cercare differenze, e restò sorpreso di trovarne alcune inaspettate. Non erano nel DNA che sintetizzava le proteine, ma piuttosto in certi lunghi filamenti di introni.
Incuriosito, Pierre decise di visitare lo zoo di San Francisco. Di sicuro avrebbe potuto persuadere il curatore a fornirgli qualche campione di tessuti di primati…
Pierre e Molly stavano assistendo a un’altra riunione del gruppo di malati di corea di Huntington a San Francisco; a quello stadio, lui aveva davvero bisogno di supporto.
L’oratrice di turno era la rappresentante di una ditta che produceva sedie a rotelle, poltrone mobili da applicare alle scale, e altri aiuti per chi aveva problemi di motilità. Pierre non aveva immaginato che ci fossero a disposizione tanti aggeggi ad alta tecnologia.
Dopo la riunione, parlò di nuovo con quel tipo dai capelli bianchi, Carl Berringer. — Oratrice interessante — disse Pierre.
L’intera parte superiore del corpo di Carl stava sussultando. — C’eravamo già incontrati prima, non è vero?
— Uhmm, sì. Pierre Tardivel, di Montreal, in origine. Ero venuto a una riunione circa quindici mesi fa.
— Mi perdoni. La mia memoria non è più quella di un tempo.
Pierre annuì. Non aveva ancora incontrato molte difficoltà mentali, ma sapeva che erano un sintomo comune della corea di Huntington.
— Non so se sia una benedizione… o una maledizione, un’oratrice come quella — disse Berringer, accennando col capo in direzione della donna. Parecchi dei nostri membri non hanno alcuna copertura, e non potranno mai permettersi nessuno di questi congegni.
Sebbene la legge della California entrata in vigore due anni prima lasciasse che i sofferenti di corea di Huntington ottenessero l’assicurazione finché ancora non manifestavano chiari sintomi, quelli che portavano già i segni della malattia erano generalmente non assicurabili. — Glielo voglio proprio dire — aggiunse Carl — quel sistema che avete su in Canada è la sola cosa che ha senso nell’era della genetica, copertura universale, far condividere i rischi all’intera popolazione. — Fece una pausa. — Ha ottenuto l’assicurazione?
— Già.
— Fortunato ragazzo — disse Berringer. — Io adesso sono sotto il piano della ditta di mia moglie, ma ho dovuto lasciare il lavoro per ottenerlo; copre solo i coniugi a carico.
Pierre annuì tristemente. — Mi spiace.
— Probabilmente non ne valeva la pena — disse Carl.
— È con la Bay Area Health. Li chiamiamo B-A-H… pfui. Risarcimenti ridicolmente bassi per malattie catastrofiche. — Una pausa. — Lei con chi è?
— La Condor.
— Oh, già. Mi hanno scartato.
— In realtà possiedo qualche azione della Condor — disse Pierre. — Stavo pensando di andare all’assemblea degli azionisti quest’anno, fare un po’ di casino sulla loro politica. C’è qualcun altro qui con loro?
Berringer si tenne fermo aggrappandosi a un appiglio. Si guardò in giro nella stanza. — Be’, vediamo. Peter Mansbridge era stato con loro.
Quel nome si era impresso nella mente di Pierre la prima volta che Berringer gliel’aveva detto, perché per coincidenza era lo stesso del conduttore di «The National», il notiziario serale della CBC. — Peter Mansbridge?
— disse Pierre. — Non era il tipo cui diceva che hanno sparato?
Berringer annuì. — Una vera vergogna, quella. Il tipo più simpatico che si possa incontrare.
— Qualcun altro?
Berringer mosse in su la mano sinistra per grattarsi una tempia. La sua mano fece il percorso come un uccello svolazzante. — Di solito sapevo tutto. — Scosse la testa tristemente. — Tempo fa, avevo una memoria da elefante.
— Non si preoccupi — disse Pierre. — Non è importante.
— No, no, vediamo… — Si voltò per rivolgersi agli astanti. — Scusatemi! — disse a voce alta. — Scusatemi!
La gente si girò a guardarlo; gli infermieri del gruppo presero a muoversi.
— Scusatemi, tutti quanti. Questo tipo qui, uhm…
— Pierre.
— …Pierre, qui, si sta chiedendo se qualcun altro è assicurato con la Condor.
Pierre restò imbarazzato che quella semplice domanda fosse stata trasformata in una questione pubblica, ma sorrise debolmente.
— Io — disse una splendida donna nera sulla quarantina, alzando una mano ben curata. Era in piedi accanto a una sedia a rotelle; vi era seduto un uomo, anche lui di colore, con le gambe che si muovevano senza posa. — Naturalmente, non copriranno Burt.
— Nessun altro? — chiese Carl.
Un bianco chiaramente malato alzò la mano, col braccio che si agitava come il ramo di un virgulto nel vento. — Cathy Jurima non era con loro? — disse.
— Giusto — disse un altro. — Era un’orfana… nessun parente prossimo. Si era messa con noi anni fa.
— Chi è Cathy Jurima? — disse Pierre.
Carl aggrottò la fronte. — Un’altra dei nostri membri che è stata assassinata.
Un pensiero pazzesco colpì Pierre. — E l’altro che è stato ucciso? Da chi era assicurato?
Carl alzò la voce di nuovo. — Qualcuno ricorda chi copriva… oh, come si chiamava? Juan Kahlo?
Si videro teste scosse in tutta la stanza… alcune in segno di diniego. Carl alzò le spalle. — Spiacente.
— Grazie, comunque — disse Pierre, tentando di sembrare calmo.
Pierre e Molly lasciarono il raduno. Pierre restò muto per l’intero percorso verso casa, pensando. Molly guidava. Parcheggiarono nel loro vialetto, poi si diressero alla porta accanto per prendere Amanda dalla signora Bailey. Erano le 10:40 di sera; respinsero cortesemente l’offerta di caffè e pasticcini.
Amanda stava dormendo, ma si svegliò all’arrivo dei suoi genitori. Molly prese in braccio sua figlia, non era sicuro farla portare a Pierre, visto che dovevano scendere i gradini di cemento davanti alla porta d’ingresso della signora Bailey. Molly strinse forte a sé Amanda, e mentre tornavano a casa loro, disse: — Tesoro, è bellissimo… L’hai fatto tu? Tu davvero? Scommetto che la signora Bailey è rimasta sorpresa di quanto sei brava a disegnare!
Il cuore di Pierre batteva forte. Amava Amanda con tutta l’anima, ma si sentiva sempre come se ci fosse un muro fra lui e lei, specialmente quando Molly sembrava conversare a senso unico, leggendo nei pensieri di Amanda e rispondendole direttamente.
Tutti e tre entrarono in casa, e Molly si diresse verso il divano per sedervisi. Amanda si accomodò in grembo a sua madre.
— Joan Dawson era stata sotto il tuo stesso piano sanitario? — chiese Pierre.
Molly stava carezzando dolcemente i capelli castani di Amanda. — Non necessariamente. Io sono associata alla facoltà; lei era solo un’impiegata. È qualcosa del tutto diverso.
— Ricordi il funerale di Joan? — disse Pierre.
Amanda stava apparentemente pensando qualcosa rivolto a sua madre. — Un attimo solo, cara — disse Molly alla bambina. Poi alzò lo sguardo verso Pierre. — Certo, me lo ricordo il funerale.
— Abbiamo incontrato la figlia di Joan lì. Beth… ricordi?
— Una rossa snella? Sì.
— Come si chiamava suo marito?
— Uhmm… Christopher, non era così?
— Christopher, giusto. Ma qual era il suo cognome?
— Buon Dio, non ho neanche la più vaga…
Pierre fu insistente. — Era irlandese… O’Connor, O’Brien, qualcosa del genere.
Molly si accigliò, pensando. — Christopher… Christopher… Christopher «O’Malley», ecco com’era.
— O’Malley, giusto! — Andò in sala da pranzo e prese l’elenco telefonico da una credenza.
— È troppo tardi per chiamare qualcuno — disse Molly.
Pierre non sembrò ascoltarla. Stava già facendo il numero. — Pronto? Pronto, è Beth? Beth, mi dispiace di chiamarla così tardi. Sono Pierre Tardivel; c’eravamo incontrati al funerale di sua madre, ricorda? Lavoravo con lei al LBNL. Esatto. Ascolti, ho bisogno di sapere chi forniva l’assicurazione sanitaria di sua madre. No, no… quella è una compagnia di assicurazioni sulla vita; la sua assicurazione sanitaria. Giusto, sulla salute. Ne è sicura? Ne è assolutamente certa? Okay, grazie. Grazie mille; spiacente di averla disturbata. Cosa? No, no, niente del genere. Nulla di cui lei debba preoccuparsi. Solo… ehm… solo qualche scartafaccio arretrato in ufficio. Grazie. Buonanotte.
Mise giù il telefono, con la mano che tremava.
— Be’? — chiese Molly.
— Condor — disse Pierre, come se fosse una parolaccia.
— Cristo — disse Molly.
— Un’altra — disse Pierre, mettendo via l’elenco di Berkeley e tirando fuori quello molto più grosso di San Francisco.
— Pronto? Pronto, signora Proctor. Sono Pierre Tardivel. Mi dispiace davvero di chiamare così tardi, ma… sì, ha ragione. — Fece la sua migliore imitazione di Peter Falk. — Solo un’altra piccola cosa. — Tornò alla sua voce normale. — Mi sto chiedendo se potrebbe dirmi chi forniva l’assicurazione sanitaria a suo marito Bryan. No, no, resto in linea. — Coprì il microfono e guardò Molly — Sta controllando.
Molly annuì. Amanda era ora profondamente addormentata tra le sue braccia.
— Sì, sono ancora qui. Davvero? Grazie. Grazie un milione. E spiacente di averla disturbata. Buonanotte.
— Allora? — disse Molly.
— Le parole «La compagnia assicurativa sanitaria numero uno nell’area nord-occidentale della costa del Pacifico» non significano nulla per te?
— Merda — disse Molly.
— Dov’è quel rapporto annuale della Condor?
— Giù in cantina, penso. Nello scaffale delle riviste.
Pierre lasciò la sala da pranzo, scese in fretta la mezza rampa di scale… e in fondo incespicò, perché un inatteso movimento del piede sinistro l’aveva preso alla sprovvista. Molly apparve in cima alle scale, reggendo Amanda, che, svegliata dal fracasso, stava piangendo.
— Stai bene? — esclamò Molly, col viso contratto dalla paura.
Pierre usò la ringhiera per issarsi di nuovo in piedi. — Come no — disse. Proseguì lungo il breve corridoio e riemerse un momento dopo con in mano il rapporto annuale. Risalì le scale più attentamente e si sedette sul divano del soggiorno. Amanda aveva smesso di piangere e adesso si stava guardando attorno curiosa.
Molly si sedette accanto a Pierre, che si stava strofinando lo stinco. Lui le porse il rapporto. — Trova quella parte che avevi letto a voce alta quando l’abbiamo ricevuto… la parte su quanti assicurati ha la Condor.
Lei ripiegò la copertina gialla e nera, sfogliò il primo paio di pagine, poi: — Ecco qui. «Con preveggenza e con l’impegno a eccellere, provvediamo alla tranquillità di uno virgola sette milioni di detentori di polizze nella California settentrionale, in Oregon, e nello stato di Washington.»
Pierre sentì il gusto della bile in fondo alla gola. — Nessuna meraviglia che le loro azioni vadano così bene. Che gran modo di incrementare la redditività: «eliminare» chiunque stia per chiedere troppi soldi. Malati di corea di Huntington, diabetici che diventano ciechi, un portinaio che sta per avere un trapianto di rene…
— Eliminare!
— Eliminare… vale a dire «uccidere.»
— È pazzesco, Pierre.
— Per me o te, forse. Ma per una compagnia che costringe all’aborto? Una compagnia che costringe le persone a fare esami genetici che potrebbero spingerle al suicidio?
— Ma, guarda… — disse Molly, tentando di riportare un briciolo di ragionevolezza in quella conversazione — …la Condor è una grande compagnia. Pensa di quanta gente dovrebbero sbarazzarsi per avere qualche effetto visibile sui loro profitti.
Pierre ci pensò per un momento. — Se facessero fuori un migliaio di assicurati, ognuno dei quali stava per costargli in media centomila dollari, quanto un’operazione di bypass, o un paio di anni d’assistenza a domicilio, incrementerebbero i loro profitti di cento milioni di dollari.
— Ma un migliaio di omicidi? È pazzesco, Pierre.
— Davvero? Spargili in tre stati e alcuni anni, e nessuno li noterà.
— Ma come saprebbero di chi mettersi in caccia? Voglio dire, certo, sapevano che stava per venirti la corea di Huntington perché gliel’avevi detto tu, ma nella maggior parte dei casi non saprebbero in anticipo chi finirà per chiedere un grosso danno.
— Potrebbero ottenere responsi genetici dai dottori degli assicurati.
Molly scosse il capo. — Non in questo stato. Fa parte della stessa legge che gli impedisce la discriminazione genetica: è illegale per una compagnia d’assicurazioni richiedere dati genetici al dottore di qualcuno.
Pierre si alzò e cominciò a camminare fra uno spasmo e l’altro. — Il solo modo per riuscirci sarebbe quello di attuare propri test genetici su tutti gli assícurandi, individuando in anticipo quelli che potrebbero fare richieste di danno. Dopotutto, aspettando che le richieste siano già inoltrate prima di uccidere la persona, qualcuno noterebbe sicuramente il collegamento.
— Ma gli assicuratori non prendono solitamente campioni di tessuti. Un sacco di polizze mediche sono garantite in base a questionari, e se è richiesto un check-up, viene solitamente svolto dal medico di famiglia. Ma, ripeto, la legge dice che il dottore non può consegnare i risultati degli esami all’assicuratore, almeno qui in California.
— Allora devono ottenere campioni di tessuto in qualche altro modo, un modo «clandestino».
— Oh, andiamo, Pierre. Come potrebbero mai riuscirci?
— Dovrebbe essere durante il colloquio iniziale col cliente, di norma è l’unico momento in cui qualcuno della compagnia d’assicurazioni è fisicamente vicino all’assicurando.
— E allora, il tuo colloquio? L’incaricata ti ha toccato?
— No. No, non ci siamo nemmeno stretti la mano.
— Ne sei sicuro?
Lui annuì. — Non ricordo tutti quelli che incontro, ma, be’, mi ricordo di lei. — Si strinse nelle spalle. — Era… ehm… alquanto seducente.
— Be’, se non ti ha toccato, non può aver preso un campione di tessuti.
— Forse — disse Pierre. — Ma c’è un modo per scoprirlo per certo.
— Salve, signora Jacobs. Sono Tiffany Feng della Condor Health.
— Prego, entri — disse Molly.
— Grazie… ehi, che posto grazioso che ha.
— Posso offrirle del caffè?
— No, grazie.
— Be’, allora, la prego, si sieda.
Tiffany prese posto sul divano del soggiorno e tolse alcuni depliant dalla sua valigetta diplomatica, poi li depose sul tavolino da caffè in pino. Molly le si sedette accanto, mettendo Tiffany dentro la sua zona. — Magari potrebbe dirmi qualcosa su di sé, signora Jacobs — disse Tiffany.
— La prego — disse Molly — mi chiami Karen.
— Karen.
— Be’, sono divorziata. E lavoro in proprio. Ho una bimba in età prescolare. Ma in questo momento è con una vicina. Comunque, ho cominciato a pensare che probabilmente dovrei avere qualche polizza sanitaria.
— Be’, con la Condor non può sbagliare — disse Tiffany. — Lasci che le parli del nostro Piano Oro. È il più completo dei nostri…
Molly ascoltò assorta tutto quello che Tiffany diceva. Tutti i pensieri di Tiffany erano benigni: quanta sarebbe stata la sua commissione per aver stipulato la polizza (Molly fu sorpresa di scoprire che era più dell’importo dei premi da pagare in un anno intero), gli altri appuntamenti che aveva nella giornata, e così via.
Quando Tiffany ebbe finito il predicozzo, Molly disse: — Bello, prenderò la polizza Oro.
— Oh, non se ne pentirà — disse Tiffany. — Mi occorre solo che lei riempia un modulo. — Prese un foglio formato protocollo dalla valigetta e lo pose sul tavolino. Poi si aprì la giacca, mostrando un taschino interno con appesa una fila di penne. Ne scelse una e la porse a Molly. Era una penna a sfera retraibile. Molly premette il bottone col pollice, la punta uscì con uno scatto, e cominciò a compilare il modulo.
All’improvviso, si udì il rumore di una porta che si apriva al piano di sopra. Tiffany alzò lo sguardo, sbigottita. — Pensavo che fossimo sole.
— Oh — disse Molly — è soltanto mio marito.
— Suo marito… ma io credevo… Oh, Dio!
Pierre stava scendendo le scale barcollando; per una volta, non si preoccupò dell’immagine da «film di mostri» che offriva così facendo. Con la mano sinistra si teneva fermamente alla ringhiera, e nella destra, che si agitava furiosamente, teneva il ricevitore di un microfono nascosto. — Salve, Tiffany — disse. Le labbra piene di rossetto della donna erano spalancate per lo shock. — Si ricorda di me?
— Lei è Pierre Trudeau! — disse Tiffany a occhi sbarrati, riconoscendolo.
— Non esattamente — disse Pierre. — Tardivel, in realtà. — Si rivolse a sua moglie. — Molly, voglio dare un’occhiata a quella penna.
Tiffany cercò di prendere la penna a Molly, ma Molly gliela sottrasse di scatto. Pierre si avvicinò, prese la penna, si sedette su una comoda poltrona, svitò il cappuccio e sparse il contenuto sul tavolino da caffè. C’era il solito tubetto d’inchiostro, con una molla avvolta intorno. Ma il bottone alla sommità della penna pareva insolito. Pierre tenne il componente in alto, verso la finestra. C’era una minuscola, quasi impercettibile punta che sporgeva dalla cima arrotondata. La puntò verso l’occhio e aguzzò la vista. Era cava.
Pierre fece un’espressione ammirata. — Molto astuto — disse, guardando Tiffany. — Quando il cliente preme il bottone col pollice, viene estratto un piccolo nucleo di cellule della pelle. E lui non sente un accidente.
Tiffany aveva gli occhi spalancati, e la sua voce aveva un tono di supplica. — La prego, signor Tardivel, mi ridia la penna… mi metterà in grossi guai!
— Non ne dubito — disse Pierre torvo. — In questo stato è contro la legge discriminare i clienti basandosi su test genetici, e scommetto che rubare cellule da un corpo si potrebbe definire legalmente un’aggressione.
— Ma noi non facciamo discriminazioni! — disse Tiffany. — I campioni di tessuto sono solo per scopi attuariali.
— Che? — disse Pierre, sbigottito.
— Guardi, la nuova legge sta mettendo in ginocchio le compagnie assicurative. Non ci è permesso di ottenere alcuna informazione genetica dai medici a meno che non sia privata di tutti gli altri dettagli personali sugli individui esaminati. Come possiamo tenere aggiornate le tavole attuariali? Dobbiamo avere la nostra banca dati dei tessuti, fare test per conto nostro.
— Ma state facendo molto più di questo — disse Pierre. — Andate a caccia degli assicurati…
— Cosa? — disse Tiffany.
— Gli assicurati — ripeté Pierre. — Se hanno cattivi geni, voi…
— Noi non teniamo alcun registro che colleghi i campioni di tessuto a specifici individui. Gliel’ho detto, è solo per studi attuariali… solo per statistiche.
— Ma voi…
— No — disse Molly, ancora seduta accanto a Tiffany sul divano. — No, ci crede veramente.
— È così — disse Tiffany con enfasi.
— Ma allora… — Pierre restò muto. Maudit, davvero lei non sapeva.
— Guardi… — disse Tiffany — …la prego, non dica niente a nessuno di quella penna… mi costerebbe il lavoro.
— Tutti gli incaricati della Condor usano queste penne?
Tiffany scosse il capo. — No, no, solo quelli al vertice, come me. Ci pagano commissioni extra per questo, così…
Pierre annuì cupo. — Così nessuno abbandona mai la compagnia. — La sua voce si fece dura. — Vuole un consiglio? Lasci l’incarico. Si licenzi oggi, subito, e cominci a cercarsi un lavoro da un’altra parte… prima che tutti gli altri della Condor la usino come straccio per i pavimenti.
— La prego — disse Tiffany — la mia segretaria non sa nemmeno chi dovevo vedere stamattina. Non dica loro che mi ha preso la penna, la supplico.
Pierre la guardò per un momento. — Sta bene… se non farà sapere a nessuno che abbiamo noi la penna, non rivelerò dove l’abbiamo presa. Facciamo un patto?
— Grazie! — disse Tiffany. — Grazie!
Pierre annuì, e puntò un braccio tremante verso la porta anteriore. — Ora vada all’inferno, via dalla mia casa.
Tiffany si alzò, agguantò la valigetta diplomatica, e uscì in tutta fretta dalla porta. Pierre si distese in poltrona e guardò Molly. Rimasero entrambi in silenzio per lungo tempo. Finalmente, Molly disse: — E così, che facciamo adesso?
Pierre alzò lo sguardo al soffitto, pensando. — Be’, una cospirazione come questa dovrebbe essere ai massimi livelli della compagnia, così ci occorre andare a trovare il presidente: qual è il suo nome?
Molly andò a prendere il rapporto annuale della Condor, e cominciò a scorrere le pagine finché non trovò l’elenco dei dirigenti. — «Craig D. Bullen, M.B.A. (Harvard), Presidente e Amministratore Delegato.»
— Okay, andremo a trovare questo Craig Bullen, e…
— E come diamine potremmo riuscirci?
— Può non essergli importato quel che avevo da dire sui loro aborti forzati, ma sono dannatamente sicuro che mi presterà attenzione come genetista.
— Huh?
— Gli spedirò un’altra lettera su carta intestata dell’Human Genome Center, dicendogli che c’è stata una grande scoperta, qualcosa che rivoluzionerà le statistiche attuariali, e che sono pronto a fargli dare un’occhiata in anticipo. Diavolo, perfino i dipendenti come Tiffany sanno tutto del Progetto Genoma Umano; puoi scommettere che il presidente della compagnia sta seguendo la cosa da vicino e farà salti di gioia per l’opportunità di surclassare i suoi concorrenti.
Molly annuì, impressionata. — Ma anche se accetterà di vederti, cosa faremo dopo?
Pierre sorrise. — Metteremo Wonder Woman al lavoro.
Molly e Pierre guidarono fino al Condor Health Insurance Building sulla Toyota di Pierre. Il palazzo era situato in un ben alberato appezzamento di trenta acri alla periferia di San Francisco, non lontano dall’oceano. La torre al centro della proprietà era un monolito di vetro e acciaio, che si innalzava per quaranta piani sopra il paesaggio circostante. Era attorniata da parcheggi su tutti e quattro i lati. L’intera proprietà era delimitata da un alto recinto in maglie metalliche.
Raggiunsero il posto di blocco all’ingresso, dissero alla guardia che avevano un appuntamento con Craig Bullen, e attesero che ricevesse la conferma per telefono. La barriera, dipinta in strisce oblique gialle e nere, si alzò, ed essi entrarono, parcheggiarono, e si diressero verso l’ingresso anteriore.
Lo spazioso atrio era tutto in ottone e marmo rosso. Due gigantesche bandiere americane stavano issate su altrettante aste, e in mezzo si trovava un laghetto con pesci rossi della lunghezza di un avambraccio di Pierre, che guizzavano nell’acqua. Un’altra guardia era seduta dietro un ampio tavolo di marmo. Pierre e Molly si presentarono e ricevettero i contrassegni di VISITATORI.
— Gli uffici dei dirigenti sono al trentasettesimo piano — disse la guardia, indicando una fila di ascensori. L’insegna sopra le porte rivestite in finto marmo diceva: SOLO DAL 31MO AL 40MO.
Entrarono nella cabina, con pareti a specchio e luce diffusa, e si diressero in alto. La musichetta di sottofondo era una versione strumentale di Reflections.
Quando uscirono dall’ascensore, delle frecce indicarono loro l’ufficio del presidente. Pierre si ficcò entrambe le mani in tasca per aiutarsi a controllarne il tremito. Quando giunsero alle porte a vetri che andavano dal pavimento al soffitto, Pierre sbarrò gli occhi. La segretaria bruna di Bullen era un sogno: avrebbe potuto essere la Playmate dell’anno di «Playboy». Sorrise, coi denti bianchi come il latte.
— Salve — disse Pierre. — Dottori Tardivel e Bond, per vedere il signor Bullen.
Lei si portò all’orecchio la cornetta di un telefono. Pierre pensò per un attimo che doveva venire da «Silicone» Valley. Molly, captando la parola «silicone», gli diede un lieve buffetto sul braccio.
Avendo ottenuto l’okay, lei si alzò e, sculettando sopra i tacchi neri a spillo, scortò Pierre e Molly nel sancta sanctorum, aprendo la pesante porta in legno e indicandogli di accomodarsi.
Una buona fetta dei profitti della Condor Health Insurance era chiaramente andata spesa nell’ufficio di Craig Bullen. Era largo sei metri e lungo dodici, rivestito in caldo legno rossastro, sandalo, immaginò Pierre, con intricati bassorilievi di cani che cacciavano cervi. Nella stanza erano appesi otto dipinti a olio di paesaggi, tutti senza dubbio originali. Pierre restò sbalordito nel vedere che quello più vicino a lui, raffigurante le brughiere scozzesi, era di John Constable, e, come ogni buon canadese, riconobbe immediatamente accanto a esso il caratteristico stile di Emily Carr. Il dipinto della Carr mostrava uno dei suoi tipici totem indiani.
Bullen si alzò da dietro l’enorme scrivania in mogano e percorse la stanza in tutta la sua lunghezza. Era un uomo atletico e dalle ampie spalle sulla quarantina, col viso scuro e segnato tipico di chi passava spesso il tempo sdraiato su spiagge assolate. Aveva una testa squadrata, occhi castani, e i suoi capelli mostravano un principio di calvizie in cima alla fronte. Il suo completo su misura era blu scuro, e portava ai polsi impressionanti gemelli d’oro larghi due centimetri.
— Dottor Tardivel — disse con voce profonda, tendendo una grossa mano. — È un piacere averla qui.
— Grazie — disse Pierre, prendendo rapidamente la mano che gli veniva offerta e scuotendola con abbastanza vigore da celare i suoi disturbi di movimento.
La stretta di Bullen fu salda, forse fin troppo, un’aggressiva esibizione virile. Si rivolse a Molly: — E lei è?
— Mia moglie, dottoressa Molly Bond — disse Pierre, rinfilandosi le mani in tasca. Bloccò il piede sinistro col destro, cercando di prevenire il tremito.
Bullen strinse la mano anche a lei. — Lei è molto bella — disse, sorridendole. — Non immaginavo che il dottor Tardivel avrebbe portato qualcuno con sé, ma adesso che la vedo, sono lietissimo che l’abbia fatto.
Molly arrossì lievemente. — Grazie.
Bullen prese a camminare. — Prego, prego, entrate.
Un lungo tavolo per conferenze di legno lucido riempiva parte della stanza; aveva quattordici sedie. Bullen ne percorse un lato fino a un grosso e antico globo terrestre, e dischiuse l’emisfero settentrionale, rivelando all’interno un assortimento di bottiglie di liquore.
— Vi andrebbe qualcosa da bere? — disse. Pierre scosse il capo. — No, grazie — disse Molly.
— Caffè? Una bibita, forse? Rosalee sarà lieta di portarvi qualunque cosa desideriate.
Pierre pensò per mezzo secondo di chiedere qualcosa, solo per gettare un altro sguardo a quella spettacolare segretaria. Sorrise tristemente fra sé. Non si può sfuggire ai propri geni. — No, grazie.
— Molto bene — disse Bullen. Richiuse il globo e prese posto al tavolo per conferenze. — Ora, dottor Tardivel, mi aveva riferito di aver fatto un grande passo avanti nel suo laboratorio di ricerca.
Pierre annuì e fece cenno a Molly di sedersi. Lei prese la sedia rivestita in cuoio accanto a quella di Bullen, poi mosse la sedia leggermente, portandosi nella sua zona; il suo ginocchio destro stava ora praticamente toccando quello di lui. Pierre fece il giro del lungo tavolo fino al lato opposto, usando gli schienali delle sedie come sostegni. Si tolse il giubbotto sportivo, sotto portava una camicia azzurro pallido dalle maniche corte, e si sedette di fronte a entrambi. — Penso che non sia azzardato dire — disse Pierre — che quel che abbiamo scoperto scioccherà l’intera industria delle assicurazioni.
Bullen annuì, affascinato. — Vada avanti, signore. Sono tutto orecchie. — Un quaderno rilegato in cuoio era posato sul tavolo. Bullen lo tirò a sé, lo aprì, e prese una stilografica nera e oro dal taschino della giacca.
— Quel che abbiamo scoperto — disse Pierre — è, be’, direi la natura di un’anomalia statistica. — Fece una pausa guardando Bullen con aria seriosa.
L’uomo annuì. — Le statistiche sono la linfa vitale delle assicurazioni, come il sangue per il corpo, dottor Tardivel.
— Ben detto — commentò Pierre — perché il sangue gioca un ruolo molto importante in tutto questo. — Guardò Molly e alzò le sopracciglia in modo quasi impercettibile, trasmettendole la domanda se stesse riuscendo a leggere nella mente di Bullen. Lei annuì lievemente. Pierre andò avanti. — Quel che abbiamo scoperto, signor Bullen, è che la sua compagnia ha un tasso molto basso di richieste elevate di danno.
Qualche ruga verticale si unì a quelle orizzontali sulla fronte abbronzata di Bullen mentre le sue sopracciglia si accostavano. — Siamo stati molto fortunati, ultimamente.
— Non è forse qualcosa di più che semplice fortuna, signor Bullen?
Bullen stava visibilmente cominciando a seccarsi. — La buona amministrazione è il nostro vanto. Suppongo che lei non abbia letto Milton Friedman, ma…
— Al contrario, l’ho fatto — disse Pierre. Fu compiaciuto di vedere le sopracciglia di Bullen alzarsi, Friedman aveva vinto il Nobel nel 1976 per l’economia. — So che si pose la questione: «I dirigenti d’azienda, ammesso che restino nel rispetto della legge, hanno altre responsabilità nelle loro attività affaristiche, oltre a quella di fare per i propri azionisti quanto più denaro possibile?».
Bullen annuì. — E la risposta di Friedman fu… No, non ne hanno.
— Ma restare nel rispetto della legge è il punto cruciale, no? Ma è molto difficile.
— Pensavo che avesse qualcosa da dirmi sul Progetto Genoma Umano — disse Bullen, arrossendo in faccia. Rimise di nuovo il cappuccio sulla sua penna.
Il cuore di Pierre stava battendo così forte da fargli sospettare che Bullen e Molly potessero entrambi udirlo. Si sentì improvvisamente confuso. Gli era accaduto sempre più volte ultimamente, ma l’aveva negato a se stesso. Che la corea di Huntington l’avesse già privato di molta della sua abilità fisica poteva accettarlo, ma che fosse destinata anche a debilitarlo mentalmente era qualcosa che si era rifiutato di considerare. Chiuse gli occhi un momento e inspirò profondamente, tentando di ricordarsi cos’avrebbe dovuto dire in seguito. — Signor Bullen, credo che la sua compagnia stia illegalmente prelevando campioni genetici da chi stipula polizze.
Gli occhi di Molly si spalancarono. Non appena pronunciate quelle parole, Pierre si rese conto di aver detto esattamente la cosa che avevano deciso di non dire. Tutto quel che intendevano era portare cautamente la conversazione intorno a quell’argomento, lasciando che Molly ascoltasse i suoi pensieri. Ma ora…
Bullen guardò prima Pierre, poi Molly che gli sedeva accanto, poi di nuovo Pierre. — Non so di che cosa stia parlando — disse lentamente.
Che fare? Tentare di svicolare? Ma l’accusa era stata lanciata, e adesso Bullen era chiaramente in guardia. — Ho visto le penne — disse Pierre.
Bullen scrollò le spalle. — Non c’è nulla di illegale in esse.
Incalzarlo? Di sicuro era l’unica cosa da fare. — State raccogliendo campioni di tessuto senza permesso.
Bullen si appoggiò allo schienale della poltrona e allargò le braccia. — Dottor Tardivel, la poltrona su cui è seduto è rivestita in cuoio, e oggi è una bella, calda giornata d’estate, anche con l’aria condizionata. Il suo avambraccio sta probabilmente aderendo al bracciolo della poltrona, no? Quando solleverà il braccio, lo strato più esterno della sua pelle si distaccherà, e lei lascerà sul cuoio molte centinaia di cellule. Posso raccoglierle liberamente. Se lei usasse il mio bagno… — indicò una porta senza segni, fra i pannelli in legno di sandalo — …e lasciasse nella tazza una massa fecale, ci sarebbero migliaia e migliaia di cellule epiteliali del suo intestino a coprire le feci, e potrei raccogliere anche quelle. Se le cadesse un capello col follicolo attaccato, o sputasse del collutorio nel mio lavabo, o si soffiasse il naso, o facesse qualcuna di centinaia dì altre cose, io potrei raccogliere campioni del suo DNA senza che lei lo sapesse. I miei avvocati mi dicono che non c’è assolutamente nulla di illegale a prelevare del materiale che la gente lascia comunque cadere in continuazione.
— Ma voi non state solo raccogliendo cellule — disse Pierre. — State usando le informazioni ottenute per determinare quali assicurati è probabile che presentino costose richieste di danno.
Bullen alzò la mano, col palmo in fuori. — Solo in termini generali, così da poter pianificare responsabilmente. I miei statistici se ne servono per prevedere l’importo in dollari che probabilmente dovremo versare agli assicurati in futuro… e ciò è a beneficio degli assicurati stessi, in realtà. Eravamo totalmente impreparati a tutte le richieste relative all’AIDS, per esempio; c’è stato un momento, nei tardi anni ’80, in cui pensavamo di dover ricorrere al Capitolo Undici.
— Capitolo Undici?
— Bancarotta, dottor Tardivel. A una persona non è molto utile avere una polizza di un assicuratore in bancarotta. In questo modo, siamo in grado di pianificare responsabilmente i danni che dovremo pagare.
— Io non penso che sia tutto qui, signor Bullen. Penso che lo stiate facendo per «evitare» di dover pagare danni comunque. Penso che lo facciate per identificare in anticipo ed eliminare gli assicurati che chiederanno troppi soldi in futuro.
Molly scosse il capo leggermente. Pierre capì che si stava spingendo troppo oltre. «Dannazione, perché non riusciva a pensare chiaramente?»
Bullen inclinò il capo di lato. — Che?
Pierre guardò Molly, poi di nuovo Bullen. Tirò un profondo respiro, ma era ormai troppo tardi per fermarsi. — La sua compagnia sta uccidendo la gente, non è vero, signor Bullen? Organizzate l’omicidio di chiunque scopriate possa chiedervi un grosso danno.
— Dottor Tardivel, se lei è un dottore, credo che dovrebbe andarsene.
— È vero, non è così? — disse Pierre, volendo risolvere la questione una volta per tutte. — Avete ucciso Joan Dawson. Avete ucciso Bryan Proctor. Ucciso Peter Mansbridge. Ucciso Cathy Jurima. E avete tentato di far uccidere anche me… e probabilmente ci avreste provato ancora, se non fosse per non destare troppi sospetti.
Bullen era in piedi adesso. — Rosalee! — gridò. — «Rosalee!»
La massiccia porta si aprì di pochi centimetri, e la stupefacente brunetta infilò la testa dentro. — Signore?
— Chiama la sicurezza! Questi individui sono pazzi. — Bullen stava indietreggiando rapidamente verso la sua scrivania. — Fuori, voi due! Fuori di qui. — Rosalee era al telefono. Bullen aprì il cassetto superiore sinistro della scrivania e ne estrasse un piccolo revolver. — Uscite!
Pierre si mise col sedere sul tavolo, scivolò sulla sua ampia superficie lucida, scese dall’altro lato, e si frappose rapidamente tra Molly e la linea di fuoco di Bullen. — Ce ne stiamo andando — disse Pierre. — Ce ne stiamo andando. La metta via.
Rosalee riapparve. Le sue labbra turgide di collagene si spalancarono quando vide la pistola di Bullen. — S…s…sicurezza in arrivo — balbettò.
Presto comparvero quattro corpulente guardie in uniformi grigie. Due di esse avevano grossi revolver spianati.
— Cacciate questi due dall’edificio — sbottò Bullen.
— Venite con noi — disse una delle guardie, facendo un gesto con la pistola. Pierre prese a camminare, e Molly lo seguì subito. Le guardie li portarono immediatamente all’ascensore. Una guardia girò una chiave nel pannello dei comandi, e l’ascensore scese rapidamente per i trentasette piani fino a terra, così facendo Pierre si sentì scoppiare le orecchie.
— Fuori — disse la stessa guardia che aveva parlato prima.
Pierre e Molly si affrettarono a raggiungere il parcheggio, con le due guardie che li seguivano. Entrarono nella Toyota, con Molly al posto di guida, e si allontanarono in fretta.
Pierre stava tremando dalla testa ai piedi; la sua corea era aggravata dall’adrenalina.
— Che è successo lì dentro? — disse Molly.
— Io… mi sono confuso.
— Hai detto molto di più di quanto avessimo previsto.
Pierre chiuse gli occhi. — Lo so. Lo so. È… dannazione, odio questa fottuta malattia.
La strada curvava a sinistra. Le gomme stridettero leggermente mentre la macchina seguiva la deviazione.
— Che mi dici di Bullen? — disse Pierre infine.
Molly scosse il capo. — Niente.
— Che significa «Niente?»
— Bullen ha solo continuato a pensare cose tipo «Mio Dio… è un lunatico» ed «È fuori di sé», e…
— Sì?
— E «Guarda come sta tremando… dev’essere ubriaco».
— Ma niente sugli omicidi?
Lei svoltò per un’altra strada. — Niente.
— Niente colpa? Nessun senso di shock per essere stato scoperto?
— No. Nulla del genere. Te lo dico io, Pierre, onestamente quello non aveva idea di che cosa stessi parlando.
— Ma ero così sicuro. Tutte le prove…
Giunsero a un semaforo, e Molly fermò l’auto. — Prove che hai visto tu — disse a bassa voce. Lo guardò brevemente, poi abbassò gli occhi.
— No — disse secco Pierre. — Dannazione, no. Quel che è successo là dentro è stato un caso. La mia non è un’allucinazione. Non ho perso la testa.
La luce si fece verde. Molly premette sull’acceleratore e per il resto del percorso in silenzio.
Pierre, esausto, attraversò la porta posteriore e immediatamente sentì rialzarglisi il morale. La loro casa non era costosa e i loro mobili IKEA non erano raffinati. Ma era confortevole… il tipo di vita che non avrebbe mai pensato di avere. Una moglie, una figlia, il profumo della cena sul fuoco, giocattoli sparsi sul pavimento del soggiorno, un focolare.
Molly entrò nel soggiorno, portando Amanda. — Guarda chi c’è qui! — disse a sua figlia. — Giusto! È papà! …Non lo so. Glielo chiederò. — Molly guardò suo marito. — Vuole sapere se ti sono piaciuti i biscotti che ti abbiamo fatto.
Pierre si portava sempre il pranzo da casa, in un sacchetto, di quei tempi; era più facile mangiare direttamente in laboratorio che trascinarsi per i lunghi corridoi dell’edificio 74 fino allo snack bar. — Erano deliziosi — disse Pierre. — Grazie.
Amanda sorrise.
Molly diede a Pierre un bacio, Pierre si mise a sedere sul divano, e Molly trasferì Amanda fra le sue braccia in attesa. Lui la sollevò sopra la testa, e lei fece piccoli suoni gorgoglianti di gioia.
— Come sta la mia bambina? — le disse. — La mia piccolina?
Molly si ritirò brevemente in cucina per rimescolare lo stufato, poi si unì di nuovo a loro. Pierre fece sedere Amanda su un ginocchio e la fece rimbalzare su e giù. In TV c’era Sesame Street, col volume al minimo.
— Hai fatto la brava bambina oggi? — chiese Pierre. — Non hai fatto passare guai alla mamma, vero?
Amanda si dimenò deliziata, come se l’insinuazione di poter essere una combinaguai le piacesse enormemente.
— La cena sarà pronta fra circa venti minuti — disse Molly.
Pierre sorrise. — Grazie. Mi spiace di non essere arrivato in tempo per prepararla io. Oggi era il mio turno.
— Oh, non preoccuparti, tesoro. Mi sono divertita stavolta.
Sembrò per un po’ assorta nei suoi pensieri. Nessuno di loro sapeva esattamente cos’avrebbero fatto con Amanda quando i due anni di congedo per maternità di Molly fossero scaduti. Non potevano mettere una bambina muta in un asilo normale, e dovevano ancora trovarne uno che sembrasse adatto. Nei paraggi ce n’era uno per bambini sordi, ma nessuno per quelli che potevano sentire ma non parlare. Molly aveva parlato di non tornare affatto all’università, ma entrambi sapevano che non poteva farlo. Era sulla strada per la docenza fissa, e aveva bisogno di costruirsi una solida carriera per quando Pierre non fosse più stato fra loro.
Pierre prese di nuovo Amanda e la tenne di fronte a sé. Cominciò a farle delle facce buffe, e lei ridacchiò forte. Ma pochi istanti dopo, prese ad agitare le braccine, tentando di dire qualcosa. Pierre la mise giù in grembo, così che potesse muovere le mani liberamente. «Bere», fece segno.
Pierre la guardò severo, e tracciò i segni «Cosa dici?» «Per favore» fece segno lei. «Bere, per favore.» Molly sorrise. — Glielo do io. Succo di mela? Amanda annuì. Per un po’, Amanda aveva fatto resistenza a imparare il linguaggio dei segni; era sembrato un fastidio non necessario, finché non era giunta a capire che sebbene sua madre potesse sentire quel che stava pensando, non ci riusciva né suo padre né nessun altro. Molly riapparve pochi momenti dopo con un bicchierino di plastica mezzo pieno di succo. Amanda lo prese con tutte e due le mani e lo prosciugò in un paio di sorsi. Porse di nuovo il bicchiere a sua madre.
— Devo fare l’insalata — disse Molly.
— Grazie — disse Pierre.
Lei sorrise e andò via. Pierre sollevò Amanda dal suo grembo e la poggiò sul divano accanto a sé. Sapeva che il linguaggio dei segni era, al massimo, un rudimentale sostituto della lingua parlata, e peggio ancora della lettura diretta dei pensieri, ma essere in grado di comunicare con lei era tremendamente importante per Pierre. Le mani di Pierre si mossero. «Cos’hai fatto oggi?»
«Giocato» fece segno Amanda. «Guardato tv. Disegnato.»
«Cos’hai disegnato?»
Amanda lo guardò senza espressione.
«Cos’hai disegnato?» fece di nuovo segno Pierre.
Amanda fece spallucce.
Pierre non si era impratichito col linguaggio dei segni quanto avrebbe voluto. Immaginò di stare facendo uno sbaglio, così tentò di chiederlo in un modo diverso. «Hai fatto un disegno di cosa?»
Gli occhi di Amanda erano spalancati.
Pierre abbassò gli occhi sulle sue mani, e vide che si stavano agitando. Non l’aveva sentito affatto. Si strinse la mano destra con la sinistra, tentando di fermarla. Provò a fare i segni di nuovo, ma non venivano nel modo giusto. Non poté far sì che il palmo sinistro si aprisse correttamente per «disegnare», e non poté muovere dolcemente l’indice destro fra le dita della mano sinistra per «cosa».
La fronte di Amanda si stava corrugando. Poteva chiaramente vedere che Pierre era agitato. Pierre tentò ancora, ma i gesti apparvero aggressivi, simili a quelli di artigli. Si rese conto di stare spaventando sua figlia, ma, dannazione, se solo avesse «potuto» controllare le sue dita…
Amanda cominciò a piangere.
— Lo sai, tesoro, l’assemblea degli azionisti della Condor si terrà il mese prossimo — disse Molly nel fine settimana. Stavano mangiando carne, grigliata nel loro giardino. Molly aveva tagliato il filetto di Pierre in pezzi maneggevoli; lui non aveva difficoltà a usare i coltelli sul cibo soffice, ma aveva problemi quando era necessario fare tagli consecutivi nello stesso punto.
Pierre annuì. Le sue mani si muovevano incessantemente ora, e le gambe facevano lo stesso per la maggior parte del tempo. — Ma probabilmente non ci lasceranno entrare dopo quel che è successo quando abbiamo visto Craig Bullen.
— Legalmente non possono sbarrarti l’ingresso. Sei un azionista.
— Eppure, sarebbe più facile se passassimo inosservati.
— Potremmo andarci camuffati — disse Molly.
— Camuffati? — Il tono di Pierre indicò la sua sorpresa.
— Certo. Niente di teatrale, ma… be’, potresti farti crescere la barba. Ti restano quattro settimane, dopotutto, e… — La sua voce si spense, ma Pierre capì quel che stava pensando: che il suo lavoro di rasatura era andato costantemente peggiorando via via che le mani si erano messe a tremare sempre più. Una barba gli avrebbe comunque semplificato la vita.
Lui annuì. — Okay, vada per la barba. E tu?
— No, io dovrei prendere pillole di testosterone per questo.
Pierre sogghignò. — Voglio dire, cos’hai intenzione di fare per camuffarti?
— Be’, conosco piuttosto bene Constance Brinkley, del Center for Theater Arts. Un sacco dei suoi studenti di recitazione fanno corsi di psicologia. Sono certa che potrebbe prestarmi una parrucca castana.
Pierre ci rifletté sopra. — Una vera missione in incognito, eh?
Dopo un mese di crescita, la barba di Pierre si rivelò molto più soddisfacente di quanto avesse immaginato. Molly si era portata a casa la parrucca la sera prima. Pierre restò sbigottito di quanto facesse apparire diversa sua moglie: la pelle sembrava bianca quasi quanto la porcellana al confronto, e i suoi occhi color fiordaliso spiccavano penetranti. Le aveva chiesto di portare la parrucca a letto quella notte, e questa lo ispirò a raggiungere nuovi livelli di creatività. Molly lo prese gentilmente in giro, dicendo che era il suo vibratore di un metro e ottanta.
Il giorno dopo, Molly guidò fino a San Francisco; Pierre le aveva silenziosamente ceduto il posto dopo che un incontrollabile movimento del braccio li aveva quasi fatti piombare nel Pacifico dall’Highway 1.
Mentre si avvicinavano alla Condor Tower, Pierre vide un piccolo elicottero che gli volava sulla testa. Pur non potendo notare le insegne che portava, era dipinto di giallo e nero, i colori della Condor. Scosse il capo mentre lo osservava atterrare sul tetto del grattacielo di quaranta piani. Altri premi ben spesi.
Parcheggiarono l’auto e andarono dentro.
Molly e Pierre scesero con l’ascensore nel seminterrato della Condor Tower. Nelle ultime settimane, Pierre aveva camminato con l’aiuto di un bastone. Erano stati approntati lunghi tavoli per far registrare gli azionisti e avanzò lentamente verso di essi, dove ricevette una copia dell’agenda dell’assemblea. Centinaia di persone si aggiravano in quel luogo, bevendo caffè o acqua minerale e assaggiando stuzzichini serviti da donne in eleganti livree. Molly e Pierre entrarono nell’auditorium, che aveva circa settecento posti. Trovarono due sedie insieme quasi nel mezzo, una di esse su un corridoio. Pierre prese quella sul corridoio e si tenne strettamente al manico del suo bastone, tentando di controllare il tremore. Molly si mise a sedere, si aggiustò leggermente la posizione della parrucca, e diede un’occhiata all’agenda.
Sul palco, una fila di nove uomini e una donna, tutti bianchi, aveva preso posto dietro un lungo tavolo in mogano. Craig Bullen era nel mezzo. Indossava un completo grigio con un garofano rosso infilato nel risvolto della giacca. Conferì con gli uomini che stavano da entrambi i lati, poi si alzò in piedi e si portò verso il podio. — Signore e signori — disse nel microfono — benvenuti all’assemblea generale annuale della Condor Health Insurance. Mi chiamo Craig Bullen e sono il presidente della compagnia.
Qualche ritardatario era ancora in procinto di sedersi, ma tutti gli altri scoppiarono in applausi. Pierre resistette alla voglia di fischiare. L’applauso proseguì più a lungo di quanto richiesto dalle semplici convenzioni sociali. L’auditorio era pieno per tre quarti. Molte persone erano in apparenza singoli azionisti, ma Molly aveva individuato alcuni tipi che erano probabilmente rappresentanti di fondi di investimento interessati alla compagnia.
Bullen stava sorridendo da un orecchio all’altro. — Grazie — disse quando l’applauso finalmente si spense. — Grazie mille. È stato un anno spettacolare, vero?
Altri applausi.
— Sul nostro bilancio avremo qualche parola da dirvi più tardi, ma per ora, lasciate che vi illustri i nostri progressi dell’anno passato. Cominceremo presentandovi i revisori…
Furono presentati tutti i soliti rapporti, e qualche membro del pubblico fece domande. Un giovanotto se la prese per il fatto che il rapporto annuale non era stampato su carta riciclata. Pierre sorrise. Lo spirito del radicalismo californiano non era morto.
Bullen tornò sul podio. — Ovviamente, il maggior impatto sul nostro afflusso di capitali l’ha avuto la nuova legge 1145 del senatore Patrick Johnston, diventata esecutiva il primo gennaio di tre anni fa. Quella legge ci ha impedito di negare polizze a coloro i cui test genetici dimostravano di avere serie malattie, finché il male non si è ancora manifestato. Le compagnie d’assicurazioni californiane si sono battute duramente a Sacramento per far sconfiggere questo obbrobrio, e in effetti sono riuscite a spingere il governatore Wilson a porre il veto. Ma, come saprete, il senatore Johnston ha continuato a reintrodurla, e Wilson alla fine l’ha firmata. — Gettò uno sguardo al pubblico. — Queste sono le cattive notizie. Quelle buone sono che stiamo proseguendo a lottare in Oregon e nello stato di Washington per far sì che nessuna simile aberrazione venga introdotta lì. Finora, la legge californiana è ancora l’unica del suo genere nella nazione… e intendiamo farsi che rimanga tale.
Il pubblico applaudì. Pierre fumava di rabbia.
Al termine delle presentazioni formali, Bullen, la cui profonda voce era adesso percettibilmente rauca, chiese se ci fosse qualcosa da dire. Pierre diede una lieve gomitata a Molly, che alzò una mano al posto suo; non voleva che la gente gli vedesse il braccio agitarsi selvaggiamente come quello di un moccioso delle elementari, e poi Bullen indicò Molly.
Lei si alzò un momento. — In realtà — disse a voce alta — è mio marito che desidera parlare. — Lentamente, meticolosamente, Pierre si mise in piedi, appoggiandosi sul suo bastone. Avanzò fino al microfono installato in mezzo al corridoio. Aveva i piedi divaricati mentre si muoveva, e il braccio libero, quello che non teneva il bastone, si alzava e ricadeva al suo fianco. Alcuni fecero versi di sgomento. Qualcuno, poche file più indietro, disse a un altro che quel tizio doveva essere ubriaco. Molly si voltò e gli lanciò uno sguardo rovente.
Pierre raggiunse infine il microfono. Era troppo basso per lui, ma sapeva di non avere abbastanza coordinazione per allentare il giunto che gli avrebbe permesso di rialzare una delle sezioni telescopiche. Eppure, afferrò l’asta con la mano sinistra per aiutarsi a stabilizzare i movimenti, e si abbassò il più possibile.
— Salve — disse al microfono. — Io… non sono solo un azionista; sono anche un genetista. — Bullen si drizzò a sedere al suo posto, forse riconoscendo l’accento di Pierre. Fece un cenno a qualcuno giù dal palco. — Ho sentito il signor Bullen dirvi che cosa malefica sia la legge californiana contro la discriminazione genetica. Ma non è vero… è una cosa meravigliosa. Io vengo dal Canada, dove crediamo che il diritto alle cure sanitarie sia inalienabile come il diritto di parola. La legge del senatore Johnston riconosce che nessuno di noi può controllare il nostro retaggio genetico.
Si arrestò per prendere fiato… il suo diaframma aveva degli spasmi occasionali. Notò che due guardie erano apparse da un lato del teatro; entrambe avevano la pistola nella fondina. — Lavoro al Progetto Genoma Umano. Stiamo sequenziando ogni frammento di DNA che costituisce un essere umano. Sappiamo già dov’è situato il gene della corea di Huntington, che è quella che ho io, come anche i geni di alcune forme del morbo di Alzheimer e di cancro al seno e di malattie cardiache. Ma alla fine sapremo dove si trova «ogni» gene, cosa fa ogni gene. Potremmo benissimo venirlo a sapere nel corpo della vita di molte persone presenti in questa stanza. Oggi, c’è solo una manciata di cose per cui possiamo fare test genetici, ma domani, saremo in grado di dire chi diventerà obeso, chi svilupperà alti livelli di colesterolo, a chi verrà il cancro al colon. Allora, se non fosse per leggi come quella del senatore Johnston, potrebbe toccare a voi o ai vostri figli già nati o ai vostri nipoti di vedervi sfilare di sotto la rete di sicurezza mentre state precipitando: tutto in nome del profitto. — Il suo istinto in quel momento fu di aprire le braccia in un gesto implorante, ma non avrebbe potuto farlo senza perdere l’equilibrio. — Non dovremmo lottare per impedire che altri stati adottino leggi come quella che c’è qui in California. Piuttosto, dovremmo aiutarli ad adottare simili principi. Dovremmo…
Craig Bullen parlò con fermezza nel proprio microfono — Le assicurazioni sono un affare, dottor Tardivel.
Pierre trasalì sentendo usare il suo nome. Il gioco era ormai scoperto. — Sì, ma…
— E anche queste brave persone… — allargò le braccia, e Pierre per un momento si domandò meravigliato se Bullen stesse scimmiottando il gesto che lui era stato incapace di fare — …hanno dei diritti. Il diritto di veder fruttare il denaro ottenuto lavorando sodo. Il diritto di ottenere profitto dal sudore delle loro fronti. Investono il loro denaro qui, in questa compagnia, per dare a se stessi sicurezza economica… la sicurezza di una pensione confortevole, la sicurezza di sopportare tempi incerti. Lei si è presentato come un genetista, esatto?
— Sì.
— Ma perché non dice pure a queste brave persone che anche lei è un assicurato? Perché non dice loro che ha stipulato la polizza il giorno «dopo» che la legge del senatore Johnston è entrata in vigore? Perché non gli parla delle migliaia di dollari che lei ha già ottenuto da questa compagnia, per tutto quanto, dalle medicine che l’aiutano a trattenere la sua corea, fino al costo di quel bastone che regge? Lei è un fardello, signore… un fardello per ogni persona in questa stanza. Fornire copertura a lei rappresenta una sorta di carità imposta dallo stato.
— Ma io sono…
— E «c’è» di sicuro un posto per la carità, lo riconosco. Senza dubbio la sorprenderebbe sapere, dottor Tardivel, che io in persona, di tasca mia, ho donato l’anno scorso diecimila dollari a un ospizio per malati di AIDS qui a San Francisco. Ma la nostra munificenza deve restare entro limiti ragionevoli. L’assistenza medica costa denaro. Il suo vantato sistema sanitario canadese potrebbe collassare man mano che i costi salgono sempre più in alto.
— Questo non…
— Ora la prego, signore, ha già detto abbastanza. Per favore, si sieda.
— Ma voi state cercando di…
Un uomo dalla voce cupa gridò da dietro: — E siediti, francese!
— Tornatene a casa se non ti piace qui — strillò una donna.
— Une minute! — disse Pierre.
— Cancella la tua polizza! — urlò un altro uomo. — Smettila di fare la sanguisuga!
— Gente, voi non capite — disse Pierre. — È…
Un tipo si mise a fischiare. Altri si unirono presto. Qualcuno tirò a Pierre una copia arrotolata del programma. Bullen fece cenno con due dita agli addetti alla sicurezza, che presero a farsi avanti. Pierre espirò sonoramente e tornò con passo lento e penoso al suo posto. Molly gli batté dolcemente sul braccio quando si rimise a sedere.
— Hai una crisi di nervi, amico — disse un tizio nella fila dietro di loro, tendendosi in avanti.
Molly, che aveva captato alcuni pensieri di quell’uomo e sua moglie per tutta la sera, si girò di scatto e sbottò: — E tu ti fai ogni giorno la tua segretaria Rebecca.
L’uomo restò a bocca aperta e cominciò a farfugliare qualcosa. Immediatamente sua moglie prese a rimbeccarlo.
Molly si rivolse di nuovo a Pierre. — Andiamo, tesoro. Non c’è motivo di restare oltre.
Pierre annuì e iniziò il lento processo di rimettersi ancora in piedi. Bullen ricompose l’assemblea. — Le mie scuse per questa sfortunata esibizione. Ora, signore e signori, come facciamo ogni anno, chiuderemo con qualche parola del fondatore della compagnia, Abraham Danielson.
Pierre stava per imboccare il corridoio, adesso. Frattanto, un ottuagenario completamente calvo si alzò dal lungo tavolo di mogano e cominciò il proprio lento viaggio attraverso il palco fino al podio. Molly stava raccogliendo la sua borsa. Alzò lo sguardo, e…
«Oh, mio Dio!»
Quella faccia… quei crudeli occhi scuri…
Aveva un cappello l’ultima volta che lei l’aveva visto, con le orecchie appiattite contro la testa, la calvizie nascosta, ma quello era lui, nessun dubbio al riguardo…
— Pierre, aspetta! — Suo marito si voltò a guardarla.
Molly era rimasta a bocca spalancata.
— Ho fondato questa compagnia quarantotto anni fa — disse Abraham Danielson, con nell’esile voce un accento dell’Europa Orientale. — A quel tempo…
— È lui — disse Molly sottovoce a Pierre, che ora si stava sedendo sulla poltrona. — È lui… è l’uomo che ho visto torturare il gatto morente!
— Sei sicura? — bisbigliò Pierre. Molly annuì vigorosamente. — È lui!
Pierre strizzò le palpebre per vedere meglio quel tipo: collo taurino, calvo. Certo tutti i vecchi marpioni sembrano simili per molti versi, ma quello aveva più che una fuggevole affinità con Burian Klimus, sebbene Klimus non avesse orecchie a sventola come lui. In effetti, l’uomo a cui somigliava realmente era…
Gesù, era il ritratto sputato di John Demjanjuk.
— Dio santo — disse Pierre. Si afflosciò sulla poltrona, come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno da lasciarlo senza fiato. — Dio santo — disse di nuovo. — Molly… è Ivan Marchenko!
— Ma… ma quando lo vidi quella mattina a San Francisco, mi insultò in russo, non ucraino.
— Un sacco di gente parla russo in Ucraina — disse Pierre. Scosse la testa avanti e indietro. Aveva tutto senso. Quale miglior lavoro per un nazista disoccupato? Aveva passato gli anni della guerra a dividere la gente in classi buone e cattive… ariano, ebreo; padrone, schiavo… e ora aveva trovato un modo di continuare a farlo. E gli omicidi, compiuti da neonazisti guidati da un uomo che chiamavano Grozny. Quante persone necessitavano di essere eliminate per assicurare alla Condor i suoi osceni profitti? Qualunque fosse il loro numero, era ben misero in confronto a quelle che Marchenko aveva ucciso mezzo secolo prima.
Se solo avesse avuto una macchina fotografica… se solo avesse potuto mostrare ad Avi Meyer a chi somigliava quel fottuto, dannato, stronzo figlio di puttana…
Si alzarono per andarsene di nuovo. Pierre si mosse quanto più velocemente poteva. Raggiunsero il più vicino ascensore, e Molly premette il bottone di chiamata. Mentre attendevano, un corpulento nero con una giacca di tweed spuntò dietro di loro. — Aspettate! — esclamò. Aveva una grossa borsa di cuoio appesa a una spalla.
Molly alzò gli occhi alla fila di indicatori illuminati sopra ognuna delle quattro porte. L’ascensore più vicino era ancora a otto piani di distanza.
— Aspettate! — disse l’uomo di nuovo, affrettando il passo per accorciare le distanze. — Dottor Tardivel, vorrei scambiare una parola con lei.
Molly si strinse a suo marito. — Ha già detto là dentro tutto quello che aveva da dire.
Il nero scosse la testa. Era sulla quarantina, con uno spolverio di neve fra i capelli tagliati corti. — Io non la penso così. Credo che abbia un sacco di altre dannate cose da dire. — Guardò direttamente Pierre. — Non è vero?
Le gambe di Pierre tentarono di sfuggirgli di sotto. — Be’…
— Che cosa gliene importa? — disse Molly, troncandogli le parole di bocca. L’ascensore era arrivato e le porte si aprirono.
Il nero infilò la mano nella giacca. Per un orribile istante, Pierre pensò che stesse per prendere una pistola. Ma tutto quel che tirò fuori fu una sottile e logora scatoletta di cuoio per biglietti da visita. Porse un biglietto a Molly. — Sono Barnaby Lincoln — disse. — Delle pagine economiche del «San Francisco Chronicle».
— Cosa…? — iniziò Pierre.
— Sono qui per un servizio sull’assemblea degli azionisti. Ma c’è qualcosa di più interessante in quel che stava dicendo.
— Non riescono a vedere il futuro… vedere dove ci sta portando tutto questo.
— Esattamente — disse Lincoln. — Occorre che ci sia dovunque una legislazione federale per impedire l’uso dei profili genetici da parte delle assicurazioni.
Pierre restò colpito. Ivan Marchenko era già libero da cinquant’anni; pochi minuti in più non sarebbero importati. — D’accord — disse Pierre.
— Possiamo prenderci un caffè da qualche parte?
— Va bene — disse Pierre. — Ma prima, ho bisogno che lei mi faccia un favore. Mi occorre una foto di Abraham Danielson.
Lincoln aggrottò la fronte. — Al vecchio non piace che scattino sue foto. Non ne abbiamo nemmeno una d’archivio al «Chronicle».
— Non ne sono sorpreso — disse Pierre. — Ha un teleobiettivo qui? Di sicuro potrà riprenderlo dal fondo della stanza. Ho bisogno di una buona, chiara sua immagine della testa e delle spalle.
— A che scopo?
Pierre restò muto per un momento. — Non posso dirglielo adesso, ma se scatta la foto, e me ne fa subito alcune stampe, prometto che sarà lei la persona che chiamerò per prima quando… — conosceva la metafora appropriata in francese, ma dovette lambiccarsi il cervello per un momento per uscirsene con l’equivalente inglese — …quando la storia esploderà.
Lincoln si strinse nelle spalle. — Aspetti qui — disse. Fece ritorno nell’auditorium. Quando si aprì la porta, Pierre riconobbe che era la voce di Craig Bullen a venire dagli altoparlanti. Tanto meglio: Abraham Danielson si era chiaramente seduto di nuovo e non sarebbe stato in guardia contro il tentativo di scattargli una foto adesso. Lincoln tornò pochi minuti dopo. — Ce l’ho — disse.
— Bene — disse Pierre. — Usciamo di qui.
— Avi Meyer — disse una familiare voce dall’accento di Chicago.
— Avi, sono Pierre Tardivel al LBNL. — Premette il pulsante di trasmissione del suo fax.
— Ehi, Tardivel. Che c’è di nuovo con Klimus?
— Niente, ma…
— Neanche noi abbiamo niente di nuovo. Ho un agente a Kiev; lavora a riportare alla luce documenti sul tempo che ha trascorso in un campo per rifugiati, ma…
— No, no, no — disse Pierre. — Klimus non è Ivan Marchenko.
— «Che»?
— Mi ero sbagliato. Non è lui Marchenko.
— Ne è sicuro?
— Assolutamente.
— Dannazione, Tardivel, abbiamo passato mesi a seguire questa pista su sua insistenza…
— Ho visto Marchenko. Faccia a faccia.
— A Berkeley?
— No, a San Francisco. E Molly l’ha visto in strada, che indossava un impermeabile.
— Che roba è questa? La nuova versione degli avvistamenti di Elvis? — Avi sospirò forte. Il suo tono mostrò che rimpiangeva di essersi fatto coinvolgere da un investigatore dilettante. — Dannazione, Tardivel, chi additerà la prossima volta? Ross Perot? Ha orecchie enormi, dopotutto. O Patrick Stewart? «Quello sì» che è calvo e con un’aria sospetta. O il Papa? Pure lui ha un accento est-europeo, e…
— Dico sul serio, Avi. L’ho visto. Sta usando il nome Abraham Danielson, adesso. È stato il fondatore di una compagnia chiamata Condor Health Insurance.
Clicchettio di tasti sullo sfondo. — Non abbiamo nessun fascicolo su un tizio con quel nome, e… Condor? Non sono la gente che ha quella politica abortista che non le piace? Maledizione, Tardivel, le avevo detto di non fottere la Giustizia. Potrei farla incarcerare per questo. Prima ci fa dare la caccia al suo boss perché le ha rotto i coglioni in qualche modo; adesso cerca di metterci contro il tizio la cui compagnia offende la sua delicata sensibilità…
— No, le dico che l’ho in pugno questa volta.
— Certo che ce l’ha.
— Realmente, dannazione. Quel tipo è un mostro…
— Perché incoraggia gli aborti.
— Perché è Ivan Grozny. Perché dirige il Millennial Reich. E perché ha ordinato l’esecuzione di migliaia di persone qui in California.
— Può provarlo? Può provare una sola parola di tutto ciò? Perché se non può…
— Dia un’occhiata al suo fax, Avi.
— Cosa? Oh… un secondo solo. — Pierre poté sentire Avi metter giù la cornetta e muoversi per l’ufficio. Un momento dopo la cornetta fu raccolta di nuovo. — Dove ha preso questa foto?
— L’ha scattata un reporter del «San Francisco Chronicle».
— E sarebbe… qual era il nome che ha detto?… Abraham Danielson?
— Proprio lui.
— Merda, certo che «sembra» Marchenko.
— A chi lo dice — replicò Pierre con soddisfazione.
— Metterò il mio assistente a frugare negli archivi dell’immigrazione; ci potrebbero volere un paio di settimane. Ma se restiamo con un pugno di mosche, Tardível…
— Lo so, lo so. Me la vedrò brutta.
Amanda non aveva detto ancora niente a voce, per quanto, stando a Molly, potesse articolare mentalmente alcune centinaia di parole… molte più di quante le restassero da imparare nel linguaggio dei segni americano.
Il sabato pomeriggio significava che era l’ora della visita settimanale di Klimus. Il vecchio arrivò alle 3.00. Non portò nessun regalo per Amanda, non lo faceva mai, ma, come al solito, aveva un piccolo blocco d appunti nel taschino sul petto. Si accomodò sul divano, prendendo note sul comportamento di Amanda e sulla sua abilità di comunicare con le mani. Durante tutto questo, Molly dovette tenere Amanda a distanza dalla sua zona: Amanda capiva che a meno che non fosse vicina a sua madre, sua madre non poteva leggerle nel pensiero, ma ancora non capiva che quella capacità era un segreto, e così Molly si limitò a star lontana, sperando che nulla nel comportamento di Amanda destasse sospetti in Klimus.
Dopo due ore di tutto ciò, Klimus si alzò per andarsene, ma Molly si mise a sedere accanto a lui sul divano. — La prego, resti — disse.
Klimus apparve sorpreso. Si era ormai abituato all’ostilità di Molly e di Pierre.
— Per che cosa? — chiese.
— Solo per parlare — disse Molly, avvicinandosigli ancora di più.
— Di cosa?
— Oh, questo e quello. Di tutto. In realtà non ci conosciamo tanto bene, e, be’, se deve proprio far parte della famiglia, immaginavo che dovremmo…
— Sono un uomo molto occupato — disse Klimus.
Ma anche Pierre si sedette, su una poltrona di fronte al divano. — Abbiamo su del caffè. Non ci vorrà neanche un minuto.
Klimus sospirò e allargò le braccia. — Molto bene.
Amanda trotterellò verso sua madre e iniziò ad arrampicarsi sul suo grembo, ma Molly la bloccò. — Vai da tuo padre — disse. Amanda guardò a distanza, pensando ovviamente che la madre a portata di mano andasse altrettanto bene, ma poi sembrò fare lievemente spallucce, e raggiunse Pierre, che la issò in grembo a sé.
— Ci parli un po’ di lei — disse Molly.
— Per esempio?
— Oh, non lo so. Che spettacoli televisivi le piacciono?
— L’unico che guardo è 60 Minutes. Il resto è solo spazzatura.
Le sopracciglia di Pierre si alzarono. Era stato 60 Minutes a trattare per primo la storia di Ivan Marchenko; nessuna meraviglia che Klimus avesse conosciuto quel nome.
— Be’… — disse Klimus impacciato. — Come stanno i vostri amici, i Lagerkvist?
— Stanno bene — disse Molly. — Ingrid parla di passare alla pratica privata.
— Ah — disse Klimus. — E resterebbe a Berkeley?
— Se i Lagerkvist hanno in progetto di trasferirsi — disse Molly — Io stanno tenendo segreto. — Si interruppe un istante. — I segreti sono sempre interessanti, non è vero? — Guardò il vecchio dritto in faccia. — Cioè, tutti abbiamo dei segreti. Io, Pierre, anche la piccola Amanda, sono sicura. E lei, Burian? Qual è il suo segreto?
«Che diavolo le passa per la testa?» pensò Klimus.
— Sa… qualcosa di profondo, qualcosa di nascosto… «È pazza se pensa che mi metta a parlare della mia vita privata…»
— Non so cosa si aspetta che io dica, Molly.
— Oh, niente, in realtà. Sto solo divagando. Solo chiedendomi che cosa anima un uomo come lei. Lo sa che sono una psicologa. Deve perdonarmi per essere attratta dalla mente di un genio.
«Finalmente» pensò Klimus. «Un po’ di rispetto.»
— Voglio dire — proseguì Molly — le persone normali hanno segreti di ogni genere… cose sessuali…
«Cristo, non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che ho fatto sesso…»
— Segreti finanziari… magari barare un pochino sulla vecchia tassa sul reddito…
«Non più di chiunque altro…»
— O segreti riguardo il lavoro…
«Il miglior dannato lavoro del mondo, professore universitario. Viaggi, rispetto, denaro, potere…»
— Segreti riguardo le sue ricerche… «Non ultimamente…»
— Le sue ricerche precedenti…
«Il premio avrebbe dovuto essere mio comunque…»
— Riguardo… il suo Premio Nobel, forse?
«Segreti che Tottenham si è portata nella tomba…»
Molly lo guardò direttamente negli occhi. — Chi è Tottenham?
La pelle incartapecorita di Klimus mostrò un po’ di colore. — Tottenham…
— Già, chi è?
«Cristo, che sta…» — Non conosco nessuno di nome…
Amanda stava giocando con le dita di Pierre. D’improvviso lui parlò. — Tottenham… non Myra Tottenham?
Molly guardò suo marito. — Conosci quel nome?
Pierre si accigliò, pensando. Dove l’aveva già sentito?
— Una biochimica di Stanford, negli anni ’60. Ho letto di recente un suo vecchio articolo.
Gli occhi di Molly si restrinsero. Aveva dato una scorsa alla biografia di Klimus sul Who’s Who, per prepararsi a quel giorno. — Non era anche lei a Stanford negli anni Sessanta? — disse. — Cos’è successo a Myra Tottenham?
— Oh, «quella» Tottenham — disse Klimus. Si strinse nelle spalle. — È morta nel 1969, penso. Leucemia. — «Quella frigida cagna.»
Molly aggrottò la fronte. — Myra Tottenham. Bel nome. Lavoravate insieme? «Ci ho provato.» — No.
— È triste quando qualcuno muore in quel modo. «Non per me.» — La gente muore di continuo, Molly.
— Si alzò in piedi. — Ora devo proprio andarmene.
— Ma il caffè… — disse Pierre.
— No. No, devo scappare adesso. — Si avviò verso la porta d’ingresso. — Arrivederci.
Molly lo seguì alla porta. Una volta che se ne fu andato, tornò in soggiorno e batté le mani. Ancora sulle ginocchia del padre, Amanda si voltò a guardarla, sorpresa da quel suono. — Be’? — disse Pierre.
— So che non potrò mai distoglierti dall’hockey… ma il mio sport preferito è curiosare.
— Quant’è lontana Stanford? — chiese Pierre. Molly scrollò le spalle. — Non molto. Quaranta miglia.
Pierre baciò sua figlia sulla guancia e le parlò con voce tranquillizzante: — Presto non dovrai più vedere quel vecchio malvagio.
Pierre non poteva fare il lavoro da sé; richiedeva una mano troppo ferma. Ma il LBNL aveva un’intera officina meccanica; al Lawrence Berkeley veniva svolta una vasta gamma di operazioni, e attrezzi e parti progettati su misura dovevano essere costruiti di continuo. Pierre fece schizzare a Shari un disegno basato sulla sua descrizione verbale, e poi prese il bus navetta fino all’UCB, dove fece visita alla Stanley Hall, sede del laboratorio di virologia dell’università. L’aveva pensata giusta: quel laboratorio aveva le siringhe con gli aghi più fini che avesse mai visto. Ne prese alcune e si diresse di nuovo in officina.
Il capo officina, un ingegnere meccanico di nome Jesus DiMarco, diede un’occhiata al rudimentale abbozzo di Pierre e suggerì tre o quattro perfezionamenti, poi andò a stilare l’ordinazione. Il LBNL era un laboratorio governativo, e ogni cosa generava scartoffie. — Come lo chiamiamo ’sto affare? — chiese DiMarco.
Pierre aggrottò la fronte, pensando. Poi: — Un joybuzzer.
DiMarco ridacchiò. — Carino — disse.
— Solo, mi chiami ku — disse Pierre.
— Che?
— Sa… — Fischiettò il tema di James Bond.
DiMarco rise. — Vuol dire Q. — Alzò gli occhi all’orologio a muro. — Torni quando vuole dopo le tre. Sarà pronto.
— Redazione — disse la voce maschile.
— Barnaby Lincoln — disse Pierre al telefono. — È un reporter finanziario.
— In questo momento è fuori, e… oh, aspetti. Eccolo che arriva. — La voce urlò nel telefono; Pierre odiava la gente che non copriva il microfono quando gridava. — Barney! Chiamata per te! — Il telefono fu lasciato cadere su una superficie dura.
Pochi attimi dopo fu raccolto.
— Lincoln — disse la voce.
— Barnaby, sono Pierre Tardivel del LBNL.
— Tardivel! Lieto di sentirla. Ha ripensato a quello di cui parlavamo?
— Sono interessato, sì. Ma non è per questo che sto chiamando. Per prima cosa, comunque, grazie per le foto di Danielson. Erano fantastiche.
— È per questo che mi pagano dei bei verdoni — disse Lincoln, con voce inespressiva.
— Tuttavia, ho bisogno che lei faccia un’altra cosa per me.
— Sì?
— Le capiterà presto di intervistare Abraham Danielson?
— Diamine, non intervisto il vecchio da… eh, devono essere sei anni ormai.
— Accetterebbe di vederla, se lei lo chiamasse?
— Credo di sì, certo.
— Può ottenere un appuntamento? Può riuscirci? Anche per soli cinque minuti?
— Certo, ma perché?
— Organizzi tutto. Ma passi prima dal mio laboratorio. Le spiegherò ogni cosa quando sarà qui.
Lincoln ci rimuginò sopra per un momento. — Sarà meglio che ne esca un buon servizio — disse infine.
— Il termine «Pulitzer» le dice qualcosa? — disse Pierre.
La segretaria scortò Barnaby Lincoln nell’ufficio di Abraham Danielson.
— Signor Lincoln — disse Abraham, alzandosi dalla poltrona di cuoio.
Lincoln si precipitò avanti, porgendogli la mano. — Grazie per avermi incontrato con così poco preavviso.
Abraham guardò la mano tesa di Lincoln. Poi il vecchio si decise finalmente a prenderla, e se le strinsero saldamente.
Pierre era rimasto a lavorare in cantina a casa… era imbarazzante andare al LBNL di quei tempi, dato che doveva essere Molly a guidare. Decise di risalire su in soggiorno per prendere dell’altra Diet Pepsi. Il caffè era diventato un modo troppo pericoloso di assumere la sua dose di caffeina mattutina: ormai rovesciava le bevande almeno una volta alla settimana, e non voleva scottarsi. E la Pepsi non dietetica conteneva tutto quello zucchero, avrebbe rovinato la tastiera o il computer se l’avesse rovesciata.
Naturalmente Pierre fece un bel po’ di rumore risalendo le scale, ma la lavapiatti era in funzione, e produceva abbastanza fracasso da coprire il suo. Quando entrò in soggiorno, vide Molly seduta con Amanda sul divano. Molly stava dicendo ad Amanda qualcosa che Pierre non riuscì a distinguere bene, e Amanda sembrava concentrarsi con molta, molta intensità.
Le osservò per un momento e fu lieto che la gelosia per l’intimità nata tra sua moglie e la figlia si fosse attenuata in lui. Sì, gli doleva ancora di non essere in grado di comunicare con lei nel modo che gli sarebbe piaciuto, ma stava cominciando a rendersi conto di quanto fosse importante quella speciale relazione fra Molly e Amanda. La bimba sembrava totalmente a suo agio col potere di Molly di raggiungere la sua mente e udire i suoi pensieri; era quasi un sollievo, per lei, poter comunicare senza sforzo con un altro essere umano. E il legame di Molly con Amanda andava anche oltre il normale attaccamento tra madre e figlia; Molly poteva toccare la stessa mente della bambina.
Pierre pensava ancora soprattutto in francese e sapeva che lo stava facendo come una forma di difesa subconscia, per non farsi leggere nei pensieri. Ma Amanda aveva accettato la capacità di sua madre fin dal principio, e non aveva eretto barriere tra sé e Molly; il loro era un rapporto che prescindeva dai normali legami e Pierre ne era, infine, contento, ben sapendo che dopo che lui se ne fosse andato, a Molly e Amanda sarebbe occorso quello speciale rapporto per sostenersi a vicenda, e affrontare insieme, come una sola persona, qualsiasi cosa il futuro potesse portar loro.
— Provaci ancora — disse ad Amanda Molly, volgendo la schiena a Pierre. — Puoi farcela.
Pierre avanzò nella stanza. — Che state tramando voi due? — chiese divertito.
Molly alzò gli occhi, sgomenta. — Niente — disse troppo in fretta. — Niente. — Sembrò imbarazzata. Gli occhi castani di Amanda si spalancarono, come quando veniva colta a fare qualcosa di male.
— Sembri il gatto che ha inghiottito il canarino — disse Pierre a Molly, con un sorriso divertito. — Che stai…
Squillò il telefono.
Molly balzò in piedi. — Lo prendo io — disse, dirigendosi in cucina. Un momento dopo, esclamò: — Pierre! È per te!
Pierre si trascinò con fatica verso la cucina. Il rumore della lavapiatti era irritante, ma gli ci sarebbero voluti diversi minuti per ridiscendere giù in cantina o salire in camera da letto e usare un telefono diverso.
— Pronto? — disse Pierre dopo aver preso la cornetta a sua moglie.
— Tardivel? Sono Meyer.
Molly si diresse di nuovo in soggiorno; Pierre poté appena sentirla tornare a parlare sottovoce ad Amanda.
— Abbiamo scartabellato i registri dell’immigrazione di Abraham Danielson — continuò Avi. — Aveva ragione; non è questo il suo vero nome. Niente di insolito in ciò, comunque; un sacco di immigranti si sono cambiati il nome quando sono giunti qui dopo la guerra. Stando alla domanda di visto, il suo vero nome è Avrom Danylchenko. Nato nel 1911, lo stesso anno di Ivan Marchenko, ma, del resto, anche Klimus, quindi questa non è affatto una prova decisiva. Viveva a Rijeka al tempo in cui fece domanda per venire negli States.
— Okay.
— Non riusciamo a trovare nulla di anteriore al 1945 su Avrom Danylchenko. Ma ancora una volta, questo non prova un accidente. Un sacco di documenti sono andati persi durante la guerra, e ci sono tonnellate di roba della vecchia Unione Sovietica che nessuno ha ancora passato al setaccio. Comunque, è interessante che l’ultima traccia che abbiamo di Ivan Marchenko è la testimonianza di Nikolai Shelaiev di averlo visto a Fiume nel 1944, e la prima traccia di Avrom Danylchenko è la sua domanda di visto, l’anno seguente a Rijeka. — Quant’è lontana Rijeka da Fiume?
— Me lo sono chiesto anch’io, dapprima non riuscivo a trovare Fiume sul mio atlante. È spuntato fuori, senta questa, che Fiume e Rijeka sono la stessa città. Fiume è il vecchio nome italiano della città.
— Gesù. Allora che farete adesso?
— Mostrerò la foto ai rimanenti superstiti di Treblinka. Domani prenderò un aereo per il New Mexico per vederne uno, dopodiché me ne andrò in Israele.
— Non potrebbe solo mandare per fax la foto alla polizia di là? — chiese Pierre.
— No, voglio essere a portata di mano. Voglio vedere i testimoni nel momento in cui guardano per la prima volta la foto. Siamo rimasti fottuti sul caso Demjanjuk perché non venne identificato adeguatamente. Yoram Sheftel, cioè l’avvocato israeliano di Demjanjuk, dice che in tutti i suoi anni di lavoro non ha mai visto una sola volta la polizia israeliana svolgere a dovere un’identificazione fotografica. Nel caso di Demjanjuk, hanno usato la foto di Demjanjuk mischiata con altre sette. Ma alcune foto erano più grandi o più chiare delle altre, e la maggior parte non avevano nemmeno una fuggevole rassomiglianza con l’uomo che i testimoni avevano descritto. Questa volta ci sarò io a supervisionare tutto, ogni fase della procedura. Non ci saranno più disguidi. — Una pausa. — Comunque, devo andare ora.
— Aspetti… un’ultima cosa.
— Chi è lei, «Colombo»?
Pierre restò sbigottito. Almeno era un miglioramento rispetto a tutti quelli che lo scambiavano per un piazzista. — Quando avete qualcuno in custodia, che genere di metodi di identificazione usate?
— Che vuol dire? — disse Avi.
— Che dovete tenere degli archivi, giusto? L’intero concetto su cui si basa la caccia ai nazisti è dimostrarne l’identità. Certamente se tenete qualcuno in custodia, dovete darvi da fare per assicurarvi di poter identificare di nuovo la stessa persona anni dopo, in caso di bisogno.
— Certo. Prendiamo impronte digitali, anche della retina…
— Prendete campioni di tessuto? Per l’identificazione del DNA?
— Questo genere di esami non è legale.
— Non è una risposta. Lo fate? È abbastanza facile, dopotutto. Tutto quello che vi occorre sono poche cellule. Lo fate?
— In forma non ufficiale, sì.
— Lo facevate anche negli anni ’80?
— Sì.
— Avete un campione di tessuto di John Demjanjuk ancora in archivio?
— Immagino di sì. Perché?
— Lo prenda. E lo faccia spedire al mio laboratorio con il Federal Express.
— Perché?
— Lo faccia e basta. Se ho ragione potrò svelare il mistero di cosa esattamente andò storto al processo di Ivan il Terribile a Gerusalemme, tanti anni fa.
Il telefono squillò di nuovo il giorno dopo. Pierre era giù in cantina, e stavolta prese la chiamata da lì. — Pronto?
— Tardivel, sono Meyer. Sto chiamando dall’aeroporto O’Hare. Ho visto Zalmon Chudzik stamattina; è uno dei superstiti di Treblinka che ora vivono negli States.
— E?
— E quel povero bastardo si è preso l’Alzheimer.
— Merde.
— Esattamente. Ma, sa, può sembrare crudele, ma in questo caso particolare, forse è una benedizione.
— Uh?
— Sua figlia dice che ha dimenticato tutto di Treblinka. Per la prima volta da oltre cinquant’anni, riesce a dormire per tutta la notte.
Pierre non seppe cosa rispondere. Dopo pochi attimi, disse: — Quando partirà per Israele?
— Fra circa tre ore.
— Spero che avrà miglior fortuna laggiù.
La voce di Avi era stanca. — Anch’io. Ci sono stati solo cinquanta superstiti di Treblinka, e oltre trentacinque di questi sono trapassati durante questi anni. Ne rimangono solo quattro che in precedenza non avessero erroneamente identificato Demjanjuk come Ivan… e Chudzik era uno di questi quattro.
— Che succederà al nostro caso se non otterremo un’identificazione certa?
— Evaporerà. Consideri tutte le prove che avevano contro OJ. Simpson… non ha fatto nessuna differenza per la giuria. Senza testimoni oculari, falliremo. E intendo proprio testimoni, al plurale. Gli israeliani non ci presteranno attenzione a meno che non otteniamo almeno due identificazioni indipendenti.
— Cristo — disse Pierre sottovoce.
— In questo momento — disse Avi — accetterei anche il suo aiuto.
Avi Meyer aveva trascorso gli ultimi giorni a litigare per questioni di giurisdizione con Izzy Tischler, un detective in abiti borghesi della Divisione Investigativa sui crimini nazisti della polizia israeliana. Adesso erano pronti a tentare la loro prima identificazione. Tischler era un alto, snello quarantenne dai capelli rossi; Avi portava un gran cappello di tela, tentando di proteggersi dal sole bruciante. Scesero lungo la stretta stradina, a fianco di case di mattoni gialli con piccoli balconi, stretti proprio l’uno contro l’altro. Due ebrei ortodossi camminavano lungo il sentiero, e un arabo si dirigeva nell’altro senso. Non si degnarono di un’occhiata mentre passavano.
— Eccoci qui — disse Tischler, controllando il numero della casa con un indirizzo che si era scritto su un post-it tenuto in mano e piegato in modo che la striscia adesiva fosse coperta. La porta era solo un metro più indietro della strada. Erbacce crescevano dalle crepe sul marciapiede di pietra, ma lo sguardo di Avi fu catturato dalla bellezza della ceramica decorata dello stipite. Bussò. Circa mezzo minuto dopo, apparve una donna di mezza età.
— Shalom — disse Avi. — Il mio nome è Avi Meyer, e questo è il detective Tischler, della polizia israeliana. È in casa Casimir Landowski?
— Lui è di sopra. Che storia è questa?
— Potremmo parlargli?
— Di che cosa?
— Ci occorre solo che identifichi alcune foto.
La donna di mezza età guardò prima l’uno e poi l’altro. — Avete trovato Ivan Grozny — disse di colpo.
Avi si inchinò leggermente. — È importante che l’identificazione sia esente da pregiudizi. Casimir Landowski è suo padre?
— Sì. Mio marito e io ci prendiamo cura di lui da quando è morta sua moglie.
— Suo padre non deve sapere in anticipo chi gli stiamo chiedendo di identificare. Se lo sapesse, gli avvocati della difesa sarebbero in grado di far dichiarare nulla la sua testimonianza. La prego, non gli dica una parola.
— Lui non potrà aiutarvi.
— Per quale motivo?
— Perché è cieco, ecco il motivo. Complicazioni del diabete.
— Oh — disse Avi, sentendosi sprofondare. — Mi dispiace.
— Anche se potesse vedere — disse la donna — non sono sicura che vi lascerei parlargli.
— Perché?
— Abbiamo guardato il processo di John Demjanjuk in TV. Quand’è stato, dieci anni fa o di più? Allora poteva vedere, e sapeva che avevate preso il tipo sbagliato. Gli avevano mostrato foto di Demjanjuk, e aveva già detto che non era Ivan.
— Lo so. Ecco perché la sua testimonianza sarebbe stata molto importante, stavolta.
— Ma l’ha ridotto uno straccio, guardare quel processo. Tutte quelle storie su Treblinka. Non me ne aveva mai parlato: in tutta la vita, non mi aveva mai detto una parola. Ma stava lì seduto, impalato, un giorno dopo l’altro, ad ascoltare i racconti. Conosceva alcuni di quelli che stavano parlando. Ascoltarli raccontare le cose che faceva quel macellaio: omicidi, stupri e torture. Pensava che se non ne avesse mai parlato, in qualche modo sarebbe riuscito a separare tutto ciò dalla sua vita, tenerlo isolato da tutto il resto. Dover rivivere tutto quanto di nuovo, anche dal suo confortevole salotto, l’ha quasi ucciso. Chiedergli di rifarlo un’altra volta è una cosa che non farei mai. Ha novantatré anni; non sopravviverebbe.
— Mi spiace — disse Avi. Guardò la donna, tentando di valutarne l’attendibilità. Gli balenò in mente che forse quell’uomo non era davvero cieco. Magari lei stava solo cercando di proteggerlo. — Mi… ah… piacerebbe parlare ugualmente con suo padre, se posso. Sa, solo per stringergli la mano. Ho fatto un sacco di strada dagli Stati Uniti.
— Lei non mi crede — disse la donna, nello stesso tono brusco che aveva usato prima. Ma poi alzò le spalle. — Vi lascerò parlargli, ma non potrete dire neanche una parola sul perché siete qui. Non posso permettervi di metterlo in agitazione.
— Prometto.
— Entrate, allora. — Si diresse di sopra, e Avi e Tischler la seguirono. L’uomo era seduto in poltrona di fronte a un televisore. Avi pensò che la donna avesse mentito, ma presto fu evidente che non stava guardando la TV. C’era un talk show in ebraico. L’intervistatrice, una giovane donna, stava chiedendo ai suoi ospiti delle loro prime esperienze sessuali. L’uomo ascoltava assorto. In un angolo della stanza, un bastone bianco stava appoggiato al muro.
— Abba — disse la donna — vorrei presentarti due persone. Erano di passaggio in città. Miei vecchi amici.
L’uomo si alzò lentamente, penosamente, in piedi. Non appena si drizzò, Avi gli vide gli occhi. Erano completamente velati. — È un grande piacere incontrarla — disse Avi, prendendo la mano rinsecchita dell’uomo. — Un grande piacere.
— Il suo accento… lei è americano?
— Sì.
— Cosa la porta in Israele? — chiese l’uomo, a voce bassa.
— Solo turismo — disse Avi. — Sa… la storia.
— Oh, già — disse il vecchio. — Ne abbiamo tanta, di quella.
Il telefono nel laboratorio di Pierre squillò. Andò a rispondere strascicando i piedi. — Pronto?
— Tardivel?
— Salve, Meyer. Qual è il punteggio?
— Forze del bene, zero. Forze del male, due.
— Niente identificazione?
— Non ancora. Il secondo tizio è cieco. Complicazioni del diabete, ha detto sua figlia.
Pierre sbuffò.
— Che c’è di tanto divertente?
— Non è divertente, in realtà. Solo ironico. Il primo aveva l’Alzheimer e quest’altro ha il diabete. Sotto l’identità di Danielson, Marchenko discrimina le persone che hanno queste stesse malattie e ora queste malattie lo stanno salvando.
— Già — disse Avi. — Be’, speriamo che le cose migliorino. Ci restano solo due possibilità.
— Mi tenga informato.
— Lo farò. A risentirci.
Pierre tornò al tavolo luminoso, chinandosi sulle due autoradiografie. Continuò a esaminarle per ore, ma quando ebbe finito, si distese sullo schienale e annuì soddisfatto fra sé. Era esattamente quello che si era aspettato.
Al ritorno di Meyer negli States, Pierre avrebbe avuto una fottuta sorpresa per lui.
Mever e il detective Tischler guidarono fino a Gerusalemme per il loro prossimo tentativo. Tutti gli edifici erano fatti di pietra… c’era un’ordinanza che lo richiedeva; al tramonto, la luce riflessa dalla pietra trasformava Gerusalemme nella favoleggiata Città d’Oro. Trovarono la vecchia casa che stavano cercando e bussarono alla porta. Pochi momenti dopo un giovanetto, forse di tredici anni, apparve, con indosso una maglietta di Melrose Place. Avi scosse lievemente il capo. Era sempre sorpreso di quanto fosse invasiva la cultura pop americana, ovunque viaggiasse.
— Sì? — disse il ragazzo in ebraico.
Avi sorrise. — Shalom — disse. Sapeva che il suo ebraico era arrugginito, ma aveva detto a Tischler di voler essere lui a parlare. Non poteva rischiare che il poliziotto israeliano dicesse qualcosa che potesse contaminare l’identificazione. — Mi chiamo Avi Meyer. Sto cercando Shlomo Malamud.
— È il mio zayde — disse il ragazzo. Ma poi i suoi occhi si restrinsero immediatamente. — Che cosa vuole?
— Solo parlargli… soltanto un momento.
— Di che cosa?
Avi sospirò. — Sono americano…
— Su questo non ci piove — disse il ragazzo, rendendo chiaro che ciò era stato ovvio fin dalla prima sillaba che Avi aveva pronunciato.
— …e quest’uomo è un agente della polizia israeliana. Glielo mostri — disse Avi, rivolgendosi a Tischler. Questi tirò fuori il suo tesserino e lo tenne alto in modo che il ragazzo lo vedesse.
Il ragazzo scosse il capo. — Il mio zayde è molto vecchio — disse — e non esce quasi mai di casa. Non ha fatto niente.
— Lo sappiamo. Ci occorre solo parlargli un momento.
— Forse dovreste tornare quando è a casa mio padre — disse il ragazzo.
— E quando sarà?
— Venerdì, per Shabbat. Adesso è ad Haifa, per affari.
— Quel che vogliamo richiederà solo un attimo. — Attraverso la soglia, Avi poté vedere che era apparso un vecchio, incurante della loro presenza, chino, che si trascinava verso la cucina.
— È lui? — chiese Avi.
Il ragazzo non dovette guardarsi indietro. — È molto vecchio — disse.
— Shlomo Malamud! — gridò Avi.
L’uomo si voltò lentamente, con un’espressione sorpresa sul volto solcato da profonde rughe e indurito dal sole.
— Mar Malamud! — gridò di nuovo Avi. L’uomo cominciò a strascicare i passi verso di loro.
— Va tutto bene — disse il ragazzo, cercando di trattenere suo nonno dal farsi più vicino. — Me ne sto occupando io.
— Mar Malamud — disse Avi, sovrastando la voce del ragazzo. — Ho fatto molta strada per porgerle solo una domanda, signore. Mi occorre che lei guardi alcune fotografie e mi dica se riconosce qualcuno.
L’uomo si muoveva lentamente verso di loro, ma il ragazzo stava ancora bloccando l’ingresso col suo corpo.
— Sprecate il vostro tempo — disse. — È cieco.
Avi si sentì sprofondare. Non di nuovo! Dannazione, perché non aveva pensato di controllare prima di lasciare gli States? Come avrebbe fatto a spiegare tutto questo al suo boss? «Sì, signore, proprio così, ho speso tremila dollari per volare dall’altra parte del mondo a mostrare delle foto a un branco di vecchi ciechi.»
Il vecchietto stava ancora avanzando lungo il corridoio. — Mi… mi spiace di averla disturbata — disse Avi, voltandosi per andarsene.
— Che volete voi due? — chiese Malamud, con voce secca come il deserto.
— Niente — disse Avi, e poi, quasi all’istante, pensando per un secondo di aver mal compreso l’ebraico: — Ha detto «voi due»? — Tischler non aveva pronunciato parola da quando erano arrivati.
— Parla forte, giovanotto. Ti sento a malapena.
Avi si voltò di scatto verso il ragazzino. — È cieco, o no?
— Certo che lo è — disse quello. — Be’, «legalmente» cieco.
— Signor Malamud, quanta vista le è rimasta?
— Non molta.
— Se le mostrassi una serie di fotografie, riuscirebbe a distinguerle?
— Forse.
— Possiamo entrare?
Il vecchio restò pensoso per lungo tempo. — Immagino — disse infine.
Il ragazzino, sembrando alquanto offeso, si fece da parte con riluttanza. Avi e Tischler seguirono Malamud mentre procedeva a passo di lumaca fino in cucina. Trovò una sedia, se riuscisse davvero a vederla, o sapesse semplicemente dov’era, Avi non poté dirlo. Dopo essersi seduto, fece cenno ad Avi e Tischler di fare lo stesso. Avi aprì la valigetta e ne estrasse un piccolo registratore, lo accese, poi lo pose sul tavolo vicino a Malamud. Poi tirò fuori il foglio con le fotografie, lo aprì al centro e lo collocò di fronte a Malamud. Il foglio consisteva di tre file di otto foto, ventiquattro in tutto.
— Queste sono foto recenti — disse Avi. — Mostrano tutte uomini di ottanta-novant’anni. Ma stiamo tentando di identificare qualcuno che lei potrebbe aver conosciuto in gioventù… nei primi anni ’40.
Il vecchio alzò lo sguardo, con gli occhi pieni di speranza. — Avete trovato Saul?
Avi guardò il ragazzino. — Chi è Saul?
— Suo fratello — disse. — Scomparve durante la guerra. Mio nonno fu portato a Treblinka; Saul lo portarono a Chelm.
— L’ho cercato fin da allora — disse Malamud. — E ora l’avete trovato!
Avi sapeva che quello era l’ideale. Se Malamud pensava di star cercando qualcun altro e individuava ugualmente Ivan Grozny, l’identificazione sarebbe stata molto difficile da screditare in tribunale. Ma Avi non se la sentì di servirsi dell’uomo in quel modo. — No — disse. — No, mi spiace tanto, ma questo non ha niente a che fare con suo fratello.
L’uomo ricadde visibilmente nella disperazione. — Allora cosa?
— Se solo potesse guardare queste foto…
Malamud impiegò un momento a ricomporsi, poi annaspò in cerca di un paio di occhiali nel taschino sul petto. Avevano lenti enormemente spesse. Se li mise in equilibrio sul grosso naso butterato e sbirciò le immagini per pochi attimi. — Non riesco ancora a vederle molto bene — disse.
Avi sospirò. Ma poi Malamud continuò: — Ezra, va a prendermi la lente.
Il ragazzo, ora alquanto affascinato dalla procedura, parve riluttante ad andarsene, ma, dopo un momento d’esitazione, scomparve in un’altra stanza e poi tornò brandendo una lente d’ingrandimento degna di Sherlock Holmes. Il vecchio si tolse gli occhiali, tese il braccio, lasciò che Ezra gli mettesse la lente in mano, e poi si chinò sulle foto di nuovo.
— No — disse, guardata la prima foto, e: — No — di nuovo, dopo aver dato uno sguardo alla seconda.
— Ricordi — disse Avi, sapendo che sarebbe dovuto restar zitto, ma incapace di farlo — sta cercando qualcuno di quaranta e rotti anni fa. Cerchi di immaginarseli da giovani.
L’uomo grugnì, come per dire che non c’era bisogno di rammentarglielo, poteva essere vecchio, ma non stupido. Si mosse da un viso all’altro, con l’occhio solo a pochi centimetri dalle immagini. — No. No. Nemmeno lui. No… oh, Dio! Oh, cielo… oh, cielo. — Il suo dito era sulla foto di Danielson. — È lui! Dopo tutti questi anni, l’avete trovato!
Avi sentì accelerare il battito. — Chi? — disse, tentando di tenere la voce sotto controllo. — Chi è?
— Quel mostro di Treblinka. — Il volto dell’uomo si era fatto completamente bianco e la mano gli tremava tanto che sembrò quasi che stesse per far cadere la lente d’ingrandimento. Ezra accorse e la prese gentilmente a suo nonno.
— Chi è? — chiese Avi. — Qual è il suo nome?
— Ivan — disse il vecchio, praticamente sputando quella parola. — Ivan Grozny.
— Ne è sicuro? — disse Avi. — Ha qualche dubbio?
— Quegli occhi. Quella bocca. No… nessun dubbio. È lui, il demonio in persona.
Avi chiuse gli occhi. — Grazie — disse. — Se stiliamo una deposizione, la firmerà?
Il vecchio si voltò fronteggiando Avi. — Dov’è? L’avete preso?
— È negli Stati Uniti.
— Lo porterete qui? Per un processo?
— Sì.
Il vecchio restò in silenzio per lungo tempo, poi: — Sì, firmerò la deposizione. Avete paura che io muoia prima del processo, non è vero? Paura che non vivrò tanto da identificarlo in tribunale?
Avi non disse nulla.
— Io vivrò — disse semplicemente il vecchio. — Mi avete dato qualcosa per cui vivere. — Allungò una mano, cercando quella di Avi. Si toccarono, e Avi sentì la pelle ruvida e floscia dell’altro. Mentre tendeva il braccio, la manica di Malamud gli scivolò su per l’avambraccio, rivelando il tatuaggio del suo numero di serie. — Grazie — disse Malamud. — Grazie per portarlo davanti alla giustizia. — Una pausa. — Come ha detto che era il suo nome?
— Meyer, signore. Agente Avi Meyer, del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.
— Conoscevo qualcuno di nome Meyer, a Treblinka. Jubas Meyer. Era il mio aiutante a rimuovere i corpi.
Avi si sentì le lacrime agli occhi. — Quello era mio padre.
— Un brav’uomo, Jubas.
— È morto prima che nascessi — disse Avi. — Come… com’era?
— Si sieda — disse Malamud — e glielo racconterò.
Avi guardò Tischler, cercando con gli occhi l’indulgenza del poliziotto israeliano. — Faccia pure — disse Tischler gentilmente. — La famiglia è importante.
Avi prese una sedia, col cuore che gli batteva forte.
Malamud gli narrò di Jubas, e Avi ascoltò, rapito. Quando il vecchio ebbe raccontato tutto quel che poteva ricordare, Avi gli strinse la mano di nuovo. — Grazie — disse. — Grazie tante, tante.
Malamud scosse il capo. — No, giovane… grazie a «lei». Grazie da entrambi, da me e da suo padre. Sarebbe stato molto orgoglioso di lei, oggi.
Avi sorrise, ricacciando indietro le lacrime.
Pierre aveva fatto dei test su vari tipi di DNA di primati raccolti allo zoo, determinando non solo il grado di divergenza genetica ma anche in che modo specifico variavano fra loro nei segmenti chiave dei loro cromosomi tredici. Pierre e Shari erano ora immersi nella progettazione di una simulazione computerizzata. Integrarono tutti i dati che avevano sulla metilazione della citosina, tutti gli schemi che avevano individuato negli introni umani e non umani, tutte le idee che avevano sul significato dei sinonimi dei codoni.
Era un progetto imponente, con un’enorme base di dati. La simulazione era di gran lunga troppo complessa perché la svolgessero in un ragionevole lasso di tempo sul PC del loro laboratorio. Ma il LBNL aveva un supercomputer Cray, una macchina che poteva calcolare il corso delle galassie in un batter di ciglio. Tempo prima Pierre aveva sottoposto una richiesta per usare il Cray, ed era lentamente risalito lungo la lista. Il suo turno era in programma due settimane più tardi.
Gli sarebbe occorso ogni minuto di quel tempo per allestire la simulazione, ma, presumendo che funzionasse tutto, avrebbero infine avuto le risposte che andavano cercando.
— David Solomon?
— Sì?
— Mi chiamo Avi Meyer, del governo degli Stati Uniti. Questo è il detective Izzy Tischler della polizia israeliana. Desidereremmo mostrarle delle foto, e vedere se riconosce qualche persona.
Solomon aveva una faccia simile a un sacchetto di carta spiegazzato, abbronzata e irruvidita dall’esposizione al sole e al vento. L’unica parte aguzza era il suo naso, una cosa enorme, curva ad artiglio come un becco d’aquila, solcata sull’intera superficie da una ragnatela di minuscoli vasi sanguigni. Le sue iridi erano di un marrone così scuro che le pupille quasi vi si perdevano, e il resto dei globi oculari era più giallo che bianco, iniettato di vene.
— Perché? — chiese Solomon.
— Potrò dirglielo dopo che avrà guardato le foto — disse Avi.
Solomon scrollò le spalle. — Va bene.
— Possiamo entrare?
Un’altra alzata di spalle. — Sicuro. — Il vecchio si trascinò in soggiorno e si sedette su un divano logoro. Non c’era aria condizionata; l’afa era opprimente. Tischler tolse con cautela un vaso dal tavolino da caffè e, non trovando nessun altro posto per metterlo giù, si limitò a tenerlo in mano. Avi piazzò il registratore sul tavolino, poi spiegò di nuovo il foglio con le sue tre file di otto foto. Solomon si tolse il paio di occhiali che portava e li sostituì con un altro paio tratto dal taschino sul petto. — Queste sono persone che…
— Ivan Marchenko! — disse l’uomo d’un tratto. Avi si tese in avanti, ansioso. — Quale?
— La fila di mezzo. La terza.
Avi sentì un tuffo al cuore. La terza foto nella fila di mezzo era effettivamente di un uomo calvo e dal viso tondo, ma non era Marchenko; invece, era un guardiano della sede centrale dell’osi a Washington. Avi sapeva che se avesse fatto qualche domanda… «Ne è sicuro? Non c’è qualcun altro che somigli di più a Ivan?»… gli avvocati della difesa l’avrebbero scacciato ridendo dalla corte. Invece, incapace di mascherare il disappunto nella voce, Avi disse semplicemente: — Grazie — e si accinse a richiudere il foglio.
Ma Solomon era chino sulle immagini. — Riconoscerei ovunque quella faccia — disse. Tese un dito nodoso e batté sulla sesta foto nella fila di otto.
Avi sentì un flusso di adrenalina. — Ma aveva detto la terza foto…
— Certo. La terza da destra. — L’uomo guardò Avi. — Il suo è un accento americano, vero? L’ebraico va da destra a sinistra. Non lo legge?
Avi rise forte. — Non quanto dovrei, ovviamente.
— Tardivel, sono Avi Meyer.
— Com’è andata?
— Ho due identificazioni positive.
— Straordinario!
— Tornerò in volo a Washington fra pochi giorni; ho ancora del lavoro da fare con la polizia israeliana. Aiutarli a stendere una richiesta di estradizione.
— No. Prenda un volo per qui. Venga a San Francisco. Ho qualcosa che le interesserà vedere.
Pierre tentò di ignorare il modo in cui Avi Meyer lo stava guardando. Erano passati ventisei mesi dall’ultima volta che si erano visti faccia a faccia, e sebbene Pierre avesse parlato ad Avi per telefono delle sue condizioni, Avi non aveva realmente visto Pierre colpito dalla corea fino a quel giorno.
Pierre lentamente, attentamente, posò due autoradiografie sul ripiano luminoso del bancone, e poi, con le mani che danzavano, cercò di allinearle l’una a fianco all’altra. Si sedette su uno sgabello del laboratorio, poi fece cenno ad Avi di farsi avanti e guardarle. — Va bene — disse Pierre — che cosa vede?
Avi si strinse nelle spalle, non sapendo quel che Pierre voleva dicesse. — Un mucchio di linee nere?
— Giusto… quasi come i codici a barre che si vedono sulle confezioni di alimentari. Ma questi codici a barre… — batté un dito tremolante su uno dei pezzi di pellicola — …sono le impronte del DNA di due persone diverse.
— Chi?
— Ci arriverò fra un minuto. Vede che i codici a barre sono alquanto differenti, no?
Avi annuì con la testa da bulldog.
— C’è una grossa linea nera qui — disse Pierre, indicando di nuovo con un dito tremante — e non c’è nessuna linea nera in corrispondenza sull’altro foglio. Giusto?
Avi annuì ancora.
— Ma alcune delle linee nere sono le stesse, non è vero? Ecco una linea sottile, e, guardi!, l’altra persona ha un’altra linea sottile esattamente nello stesso punto.
Avi sembrò impaziente. — Così pare.
— Ora, dia una buona occhiata da vicino alle due impronte, e mi dica di quanto pensa che si sovrappongano.
— Non vedo cosa questo…
— Lo faccia e basta. Vuole?
Avi sospirò rassegnato e fissò la pellicola strizzando gli occhi. — Non lo so. Venti o trenta per cento.
— Circa un quarto, in altre parole.
— Credo.
— Un quarto. Ora, lei deve sapere qualcosa sulla genetica… chiunque lo sa. Quanto DNA riceve uno dai suoi genitori?
— Tutto quanto.
Pierre sorrise. — Non è quello che intendevo. Voglio dire, quale proporzione viene dalla madre e quale proporzione dal padre?
— Oh… è metà e metà, non è vero?
— Esattamente. Di tutto il DNA che compone un essere umano, metà precisa viene da ciascun genitore. Ora, mi dica questo: ha un fratello?
— Sì — disse Avi.
— Okay, bene. Adesso, se lei ha metà del DNA di sua madre, lo stesso vale per suo fratello, giusto?
— Certo.
— Ma è la stessa metà?
Avi si passò una mano sulla corta barba. — Che intende dire?
— Il DNA che ha ottenuto da sua madre è lo stesso o è diverso da quello che ha avuto suo fratello?
— Be’, non lo so. Immagino che se ho ricevuto una selezione casuale dei geni di mia madre, e anche Barry ha avuto una selezione a caso, si sovrapporrebbero di… cosa? Il cinquanta per cento?
— Esatto — disse Pierre. Non annuì deliberatamente, ma la testa gli dondolò in modo tale da far sembrare così. — Una sovrapposizione media del cinquanta per cento. Quindi, se mettessi fianco a fianco le sue impronte del DNA e quelle di suo fratello, cosa si aspetterebbe di vedere?
— Uhmm… metà delle mie barre negli stessi posti di metà delle sue?
— Proprio così! Ma qui che abbiamo? — Indicò i due pezzi di pellicola sul pannello illuminato.
— Una coincidenza del venticinque per cento.
— Quindi queste due persone è altamente improbabili che siano fratelli, giusto?
Avi annuì.
— Ma, del resto, sembrano essere imparentate, no?
— Presumo — disse Avi.
— Okay. Ora, quando mi interessai per la prima volta a questo caso lessi qualcosa che mi è rimasto impresso in mente. Sul modulo per ottenere lo status di rifugiato, John Demjanjuk scrisse che il cognome da nubile di sua madre era Marchenko.
— Già, ma era sbagliato. Il suo nome da ragazza era Tabachuk. Demjanjuk non riusciva a ricordarselo, disse, così scribacchiò un comune nome ucraino.
— E questo fatto mi ha sempre colpito per la sua stranezza. Io so il cognome da nubile di mia madre, Menard… e quello da nubile di «sua madre», Bergeron. Come poteva qualcuno «non» ricordarsi il nome della propria madre? Dopotutto, Demjanjuk riempì quel modulo negli anni ’40, quando era ancora sulla ventina. Non è come se fosse stato un vecchio con vuoti di memoria.
Avi si strinse nelle spalle. — Chissà? Il fatto è che non riuscì a ricordarlo in quel momento.
— Oh, io penso che lo ricordasse molto bene… ma piuttosto che non capì la domanda.
— Cosa?
— Non capì la domanda. Supponiamo che Demjanjuk… che, stando agli articoli che ho letto, aveva fatto solo la quarta elementare… supponiamo che abbia pensato che significasse semplicemente il nome che aveva sua madre prima di sposare suo padre.
— È la stessa cosa.
— Non necessariamente. Sarebbe la stessa cosa solo se sua madre non si fosse mai sposata prima.
— Ma… oh, merda. Merda, merda, merda.
— Vede? Qual era il nome di battesimo della madre di Demjanjuk?
— Olga. Morì nel 1970.
— Se Olga fosse nata come Olga Tabachuk, ma avesse sposato un uomo di nome Marchenko e più tardi avesse divorziato da lui prima di sposare il padre di John Demjanjuk…
— …Nikolai Demjanjuk…
— …allora, sentendosi chiedere il nome da ragazza di sua madre, e interpretandolo come se significasse il suo nome «precedente», John Demjanjuk avrebbe risposto «Marchenko». E se Olga avesse avuto un figlio chiamato Ivan nel 1911, da quel precedente Marchenko, e un altro figlio chiamato Ivan nove anni dopo da Nikolai Demjanjuk, allora…
— Allora Ivan Marchenko e Ivan Demjanjuk sarebbero fratellastri! — disse Avi.
— Esattamente! Fratellastri, ciascuno dei quali con circa il venticinque percento del DNA in comune. In effetti, ha anche senso che siano entrambi calvi. Il gene della calvizie maschile è ereditato dalla madre; risiede sul cromosoma x. E ciò spiega perché siano tanto simili… perché un testimone dopo l’altro li abbia scambiati fra loro.
— Ma aspetti… aspetti. Così non funziona. Nikolai e Olga Tabachuk si sposarono il 24 gennaio 1910, e Ivan Marchenko nacque «dopo» di ciò… il 2 marzo 1911. Ciò significa che sarebbe stato concepito nell’estate del 1910… «dopo» che Olga aveva già abbandonato il cognome di Demjanjuk.
Pierre aggrottò la fronte un momento, ma poi, pensando brevemente alla propria madre e a Henry Spade, esclamò: — Un triangolo!
Avi lo guardò. — Che?
— Un triangolo… non vede? Pensi al matrimonio dello stesso John Demjanjuk nel 1947. Ricordo di aver letto che aveva ronzato attorno alla donna di un altro uomo mentre quello era via. — Pierre fece una pausa. — Sa, qualche volta noi riassumiamo il credo del genetista come «tale il padre, tale il figlio»… ma «tale la madre, tale il figlio» è altrettanto valido per molte cose. A mia moglie, psicologa comportamentale, non piacerebbe ammetterlo, ma in certe famiglie si ripetono particolari tipi di infedeltà. Diciamo che Olga Tabachuk abbia sposato Marchenko, poi divorziato da lui, e infine sposato Nikolai Demjanjuk.
Avi annuì. — Sta bene.
— Ma Nikolai lascia il loro villaggio e si dirige a… in che città è nato Demjanjuk?
— Dub Macharenzi.
— A Dub-comesichiama. Va lì, in cerca di lavoro o qualcosa del genere, dicendo che tornerà a prendere la moglie una volta trovato un posto. Be’, come si dice, via il gatto… Olga torna ad andare a letto col suo ex, Marchenko. Rimane incinta e dà alla luce il figlio di Marchenko, un bambino che chiamano Ivan. Ma poi Nikolai le manda a dire di venire a raggiungerlo a Dub-comecazzoè. Olga abbandona il piccolo Ivan, lasciandolo con Marchenko. In effetti… be’, ecco qualcosa che a mia moglie «piacerebbe»: Ivan Marchenko sviluppa una predilezione per tagliare i capezzoli alle donne. Chiamiamola una vendetta per essere stato abbandonato da sua madre.
Avi stava annuendo lentamente. — Sa, ha un senso. Se Olga avesse realmente abbandonato il piccolo Ivan Marchenko, e se il suo secondo marito, Nikolai Demjanjuk, non avesse mai saputo di quell’incidente, quando infine ebbe un figlio da Nikolai, ciò potrebbe spiegare perché decise di chiamare anche «lui» Ivan… in modo da non potersi mai tradire riferendosi accidentalmente al suo figlio legittimo col nome di quello bastardo. — Avi abbassò lo sguardo sulle autoradiografie. — Così… così una di queste è stata fatta dal campione di tessuto che le ho mandato e che avevamo preso da John Demjanjuk, giusto?
Pierre assentì, e toccò quella a sinistra. — Questa, a essere precisi.
— E l’altra… non sarà di Abraham Danielson?
— Proprio così.
— Com’è riuscito a ottenere un campione di tessuto da lui? Pensavo che l’avesse solo visto da lontano.
— Ho fatto costruire un piccolo congegno. — Lentamente si alzò dallo sgabello e, tenendosi al bordo arrotondato del bancone per sorreggersi, si trascinò fino a uno scaffale e ne raccolse un piccolo oggetto. Tornò dov’era seduto Avi e tese la mano tremante in modo che Avi potesse vedere cosa stava reggendo. Era impossibile dargli un’occhiata attenta, dato il modo in cui la mano di Pierre continuava a muoversi: Avi allungò il braccio e prese il minuscolo congegno dal palmo di Pierre. Sembrava una minuscola puntina da disegno, con un aculeo molto corto e sottile.
— L’ho chiamato joy-buzzer — disse Pierre, mettendosi di nuovo a sedere. — Aderisce al palmo della mano con una minuscola goccia di cianoacrilato, e quando si stringe la mano a qualcuno, prende un campione di poche cellule della pelle. La pressione della stretta di mano è sufficiente a distrarre dalla sensazione della minuscola puntura. — Alzò una mano. — Non è tutta farina del mio sacco: ho avuto l’idea da una penna speciale che usa la Condor Health; sembrava giustizia poetica impiegare un congegno analogo. Un tale che conosco, un reporter di giornale — lo stesso che ha scattato la foto di Abraham Danielson che le avevo inviato per fax — l’ha portato andando a un appuntamento con Danielson, e gli ha stretto la mano salutandolo.
Avi annuì, impressionato. — Posso avere copie di queste… queste… come le chiamate?
— Autoradiografie.
— Queste autoradiografie?
— Certo. Perché?
— Quando sarà tutto finito, voglio mandarle all’avvocato di Demjanjuk a Cleveland. Forse potranno aiutarlo a riprendersi la cittadinanza americana. — Guardò Pierre, poi si strinse lievemente nelle spalle. — È il minimo che io possa fare.
Pierre annuì. — Così, a che punto siamo?
— Abbiamo due identificazioni oculari, entrambe certe. Ma, be’, i testimoni sono vecchi, e uno di loro è legalmente cieco. Vorrei che avessimo di più. Eppure, questa storia dei fratellastri riabilita in certo grado Demjanjuk dalle identificazioni certe fatte durante la privazione della cittadinanza e il processo in Israele.
— Quindi avete abbastanza da procedere contro Marchenko?
Avi sospirò. — Non lo so. Danielson non era nemmeno «sospettato» di essere un nazi. Ha fatto un gran lavoro per coprire le sue tracce.
— Senza dubbio è stato in grado di corrompere molta gente nel corso degli anni… far sparire qualsiasi documento volesse.
— Più che probabile. — Avi scosse il capo. — Gli israeliani andranno coi piedi di piombo, specialmente dopo quello che è successo l’ultima volta.
— Così di che altro avreste bisogno per aprire il caso? Avi scrollò le spalle. — Nel migliore dei modi possibili? Una confessione.
Pierre aggrottò la fronte. Naturalmente, Molly poteva confermare la colpevolezza di Danielson abbastanza facilmente, ma mai e poi mai Pierre avrebbe voluto farla testimoniare davanti alla corte. — Potrei incontrarmi con lui portando un microfono nascosto.
— Cosa le fa pensare che accetterà di vederla? — Dal tono, fu quasi come se Avi stesse dicendo: «Cosa le fa pensare che vedrà qualcuno nelle sue condizioni?».
Pierre digrignò i denti. — Troveremo un modo.
— Anche se volesse riceverla — disse Avi, allargando le braccia — cosa le fa credere che confesserà?
— Non dovrà confessare su due piedi. Deve solo dire qualcosa che lo incrimini abbastanza da giustificare il suo arresto. Poi potrete interrogarlo a dovere.
— Suppongo. Ci vorrebbero un po’ di scartoffie.
— Lo faccia. Si metta all’opera.
— Non lo so, Tardivel. Lei è un civile, e…
— Sono un volontario. Vuole che quel bastardo rimanga impunito?
Avi si accigliò, mentre valutava ogni possibilità. — Sta bene — disse infine. — Facciamo un tentativo.
— Ufficio di Abraham Danielson — disse una voce di donna.
— Potrebbe passarmelo, prego?
— Chi parla?
— Dottor Pierre Tardivel.
— Un momento. Silenzio.
— Mi dispiace, dottor Tardivel. Il signor Danielson non è in grado di ricevere la sua chiamata in questo momento. Vorrebbe lasciare un messaggio?
— Gli dica che una donna polacca di nome Maria Dudek mi ha suggerito di chiamarlo. Gli dia il messaggio ora; resterò in linea.
— È davvero molto occupato, signore, e…
— Si limiti a dargli il messaggio. Sono sicuro che vorrà prendere questa chiamata.
Ci fu silenzio per un momento, mentre la segretaria ci rimuginava sopra. — Un secondo solo.
Uno scatto quando Pierre fu posto in attesa. Passarono tre minuti. Un altro scatto.
— Parla Abraham Danielson.
— Ciao, Ivan. Maria Dudek ti manda i suoi omaggi.
— Non so di cosa…
— Incontrami fra un’ora al Lawrence Berkeley National Laboratory.
— Non andrò da nessuna parte dietro a un pazzo…
— Puoi parlare con me, o comincerò io a parlare con altri. So che il Dipartimento della Giustizia ha uno speciale ufficio incaricato di scoprire i criminali di guerra.
Silenzio per quasi trenta secondi. Poi: — Se dobbiamo parlare — disse Danielson — sarà qui, sul mio terreno.
— Ma…
— Prendere o lasciare.
Pierre alzò lo sguardo verso Avi Meyer, che stava ascoltando a un altro apparecchio. Avi alzò tre dita.
— Sarò lì alle tre in punto — disse Pierre.
— Pierre Tardivel — disse Pierre. Era in piedi di fronte alla scrivania della segretaria del fondatore, appena fuori dal suo ufficio al trentasettesimo piano del Condor Building, che contava quaranta piani in tutto. — Sono qui per vedere Abraham Danielson.
La segretaria era due decenni più anziana di Rosalee, la sventola che lavorava allo stesso piano per il presidente Craig Bullen. Fu chiaramente sbigottita dagli arti danzanti e dai tic facciali di Pierre, ma si ricompose rapidamente. — Si sieda, prego. Il signor Danielson la riceverà tra pochi istanti.
Pierre comprese che lo stavano facendo attendere apposta, che Abraham voleva tenere psicologicamente il coltello per il manico. Eppure, aveva le mani sudate. Con l’aiuto del bastone, Pierre si fece lentamente strada fino al divano della saletta d’aspetto. Alcune riviste recenti stavano sul ripiano di vetro del tavolino da caffè, incluse «Forbes» e «Business Week»; c’era anche una copia del rapporto annuale giallo e nero della Condor.
Avi Meyer, quattro altri uomini dell’osi, e due agenti del San Francisco Police Department erano parcheggiati a poca distanza, fuori dalla recinzione intorno alla proprietà della Condor. Tutti quanti erano accalcati in un furgone preso a nolo, stipato di attrezzature per l’ascolto.
Pochi minuti dopo, il telefono della segretaria squillò. La donna sollevò la cornetta. — Sì, signore? Subito. — Mise giù il telefono, poi guardò Pierre. — Il signor Danielson la vedrà adesso.
Pierre lottò per rimettersi in piedi e avanzò lentamente nell’ufficio. Era più piccolo di quello di Craig Bullen, non aveva un tavolo per conferenze, ma il mobilio era ugualmente lussuoso, per quanto i gusti di Danielson fossero ironicamente più moderni di quelli del molto più giovane Bullen, spaziando dal cuoio nero all’acciaio cromato, con alcuni tocchi di colore, rosa e turchese, qua e là.
— Signor Tardivel — disse Abraham Danielson, senza alcun calore nell’esile voce fortemente accentata. — Ora, cosa sono tutte queste sciocchezze?
— Vedo che ha riconosciuto il nome di Maria Dudek — disse Pierre, prendendo lentamente posto di fronte alla scrivania di Danielson.
— Quel nome non significa niente per me.
— Allora perché ha accettato di vedermi?
— Lei è un azionista; la riconosco dopo quel vergognoso spettacolo che ha dato alla nostra assemblea. Eppure, per i miei azionisti ho sempre tempo.
— Sono già stato qui una volta — disse Pierre. — Oh, non in questa stanza, ma allo stesso piano. Qualche tempo fa ho preso un appuntamento con Craig Bullen. Ma avevo scelto la persona sbagliata… il burattino invece del burattinaio.
— Francamente non so di che lei stia parlando.
— E non è solo perché lei è Ivan Marchenko che la tengo in pugno, non che questo non sia già sufficiente. So che è anche il capo del Millennial Reich. Lei ha fatto ben altro che discriminare le persone che avevano tare genetiche. Incrementa i profitti uccidendo quelli che altrimenti costituirebbero grossi esborsi per lei, il maggior singolo azionista di questa compagnia.
Danielson guardò Pierre, senza espressione. — Lei è pazzo — disse infine.
Pierre non disse nulla. Le sue mani danzavano.
Danielson allargò le braccia. — Lei soffre della corea di Huntington, non è vero? È una malattia degenerativa del sistema nervoso che ha un devastante effetto sulle facoltà mentali. Qualunque cosa lei pensi di sapere non è, senza dubbio, che un prodotto della sua condizione.
Pierre aggrottò la fronte. — Come no? Ho fatto un sacco di ricerche, riguardo gli omicidi insoluti negli ultimi anni. Uno sproporzionato numero dei morti aveva tare genetiche, o era in attesa di costosi trattamenti medici. E la maggior parte di costoro era assicurata dalla Condor. E so che di routine prendete in segreto campioni di cellule cutanee dai nuovi assicurandi. Se qualcuno ha un cattivo DNA, o richiede una terapia costosa, lei lo fa uccidere.
— Su, su, signor Tardivel. Quel che sta proponendo è mostruoso, e io le assicuro che non sono un mostro.
— No? — disse Pierre. — Cosa faceva esattamente durante la Seconda guerra mondiale?
— Non che sia cosa che la riguardi, ma ero un insignificante soldato dell’Armata Rossa in Ucraina.
— Stronzate — disse Pierre. Lasciò che quella parola restasse sospesa fra loro per qualche secondo. — Il suo vero nome è Ivan Marchenko. È stato addestrato a Trawniki e dislocato a Treblinka.
— «Ivan Marchenko» — disse Danielson, pronunciando ogni sillaba con cura. — Di nuovo, è un nome che non mi è familiare.
— Certo. E suppongo che non conosca nemmeno il nome Ivan Grozny.
— Ivan… sarebbe Ivan il Terribile, no? Non è stato il primo zar di Russia? — Il volto di Danielson era composto.
— Ivan il Terribile era un operatore delle camere a gas nel campo di sterminio di Treblinka, in Polonia, dove vennero uccise ottocentosettantamila persone.
— Questo non ha niente a che fare con me.
— Ci sono dei testimoni.
— Di eventi che ebbero luogo mezzo secolo fa? Andiamo.
— Io posso provare entrambe le accuse contro di lei… gli omicidi legati alle polizze, e che lei è Ivan. La questione è… quale vuole ammettere? Crede di avere migliori possibilità qui in un tribunale californiano, o in Israele in un processo per crimini di guerra?
— Lei è pazzo.
— L’ha già detto prima.
— Qualunque buon avvocato difensore farebbe in polpette uno che siede al banco dei testimoni con una malattia al cervello.
Pierre scrollò le spalle. — Be’, se la mia storia non le interessa, la darò ai giornali. Conosco Barnaby Lincoln del «Chronicle». — Iniziò il lento processo di alzarsi dalla poltrona.
Gli occhi di Danielson si restrinsero. — Che cosa vuole?
Pierre si rimise giù di nuovo. — Ah, ora sì che ragioniamo. Quello che voglio, Ivan, sono cinque milioni di dollari… abbastanza per provvedere a mia moglie e mia figlia dopo che la corea di Huntington mi avrà finalmente portato nella tomba.
— È un sacco di soldi.
— Comprerà il mio silenzio.
— Se sono il mostro che lei crede io sia, cosa le fa pensare di poter mai farla franca dopo avermi ricattato? Se ho ucciso tutte le persone che ha detto, di sicuro non mi tratterrei dall’uccidere lei. — Si interruppe e poi guardò direttamente Pierre. — O sua moglie e sua figlia.
Per una volta, Pierre fu lieto della sua corea; mascherava il fatto che stava tremando dalla paura. — Ho preso delle precauzioni. Le informazioni sono nelle mani di persone di mia fiducia, sia qui negli States che in Canada, gente che non troverà mai. Se succedesse qualcosa a me o alla mia famiglia, hanno istruzioni di renderle pubbliche.
Danielson rimase zitto per lungo tempo. Finalmente, disse: — Non sono un uomo cui piaccia farsi mettere alle strette.
Pierre non disse nulla.
Il vecchio restò in silenzio un altro po’. Infine: — Mi dia una settimana per prepararmi, e…
Proprio allora, la porta dell’ufficio si aprì di botto. Entrò una robusta guardia in uniforme della sicurezza. Danielson si alzò in piedi. — Che succede?
— Perdoni l’interruzione, signore, ma abbiamo individuato un trasmettitore in questa stanza.
Danielson socchiuse gli occhi. — Perquisitelo — scattò. E poi, a voce alta, come per accertarsi che anche quello venisse registrato: — Non ho ammesso nulla. Mi sono semplicemente preso gioco di un individuo mentalmente minorato.
La guardia afferrò Pierre sotto la spalla sinistra, lo sollevò di peso dalla poltrona, e iniziò a dargli rudi pacche sugli abiti. In pochi attimi, trovò il piccolo radiomicrofono agganciato all’interno della camicia di Pierre. Lo strappò via e lo tenne in modo che Danielson lo vedesse.
Pierre tentò di fare il coraggioso. — Non importa. Ci sono ben sette fra poliziotti e agenti governativi che aspettano fuori dall’edificio di prelevarla per l’interrogatorio, e abbiamo due sue identificazioni certe dei superstiti di Treblinka…
Danielson picchiò il pugno sulla scrivania. Dapprima Pierre pensò che fosse un gesto di frustrazione, ma una piccola sezione del ripiano scattò in alto, rivelando all’interno una piccola consolle di comandi. Danielson batté su una serie di bottoni, e all’improvviso una sottile parete metallica calò giù dal soffitto come una lama, proprio di fronte alle ginocchia di Pierre. Se i suoi piedi non fossero appena scattati indietro a causa della corea, sarebbero stati troncati in due.
La guardia apparve sbigottita e così anche Pierre, ma Marchenko/Danielson era un fuggitivo multimiliardario che aveva avuto cinquant’anni per prepararsi a ogni eventualità. Senza dubbio c’era un’uscita segreta nella parte di ufficio in cui ancora si trovava.
— Andiamo, amico — disse la guardia, ficcandosi in tasca il microfono e agguantando di nuovo Pierre rudemente per il braccio. Scaraventò Pierre fuori dall’ufficio di Danielson, oltre la sua sbalordita segretaria, attraverso l’anticamera e fino all’ascensore. L’uomo menò un colpo al pulsante per chiamarlo, ma il quadratino di plastica non si illuminò. Tentò ancora, poi imprecò. Marchenko doveva aver messo fuori uso gli ascensori per rallentare l’arrivo fin lassù degli agenti dell’osi. Gli ci sarebbe voluto un po’ ad arrampicarsi per trentasette piani, anche se fossero potuti entrare nell’edificio superando gli uomini della sicurezza di Marchenko.
La corpulenta guardia lasciò andare Pierre, che, senza il suo bastone rimasto nell’ufficio di Marchenko, immediatamente crollò al suolo. La guardia lo fissò con un’espressione di disgusto sul volto. — Cristo, sei un fottuto storpio, non è vero? — disse. Guardò di nuovo le porte chiuse dell’ascensore, come se pensasse, poi di nuovo Pierre. — Suppongo che tu non possa fare alcun danno se ti lascio quassù. — Girò l’angolo. Pierre poté udire aprirsi una porta e i piedi dell’omone risuonare sulle scale mentre si dirigeva giù, presumibilmente nell’atrio per unirsi alla difesa dell’ingresso dell’edificio.
Pierre restò tutto solo accanto all’ascensore. Alzò lo sguardo, comunque, e poté vedere la segretaria di Marchenko attraverso le porte a vetri dell’anticamera. Lo stava guardando, come se fosse incerta di cosa fare. Lui tese una mano verso di lei. Lei si alzò, gli voltò le spalle, e scomparve nell’ufficio del suo capo. Pierre sospirò. Avrebbe voluto solo poter giacere lì senza muoversi, ma le sue gambe stavano danzando incessantemente e la testa gli ballonzolava a destra e a sinistra.
La donna riapparve, stava tenendo il bastone di Pierre! Lo raggiunse e lo aiutò a rimettersi in piedi. — Non so cosa non vada — disse — ma nessuno dovrebbe trattare una persona come stanno trattando lei.
Pierre prese il bastone e vi si appoggiò. — Merci — disse.
— Che succede? — chiese lei. — Che fine ha fatto il signor Danielson?
— Sapeva di quella parete di emergenza?
Lei scosse il capo. — Sono rimasta terrorizzata a sentirla venir giù. Credevo che stessimo avendo un altro terremoto.
— Potrebbero esserci uomini armati che entrano nell’edificio — disse Pierre. — Dovrebbe allontanarsi da qui. Scenda di qualche piano e trovi un posto per nascondersi.
Lei lo guardò, sopraffatta dagli avvenimenti. — Lei sta bene?
Lui tentò di fare spallucce, ma quel gesto fu perso fra la corea. — Questo è il meglio che posso. — Agitò un braccio verso la tromba delle scale. — Vada, si metta da qualche parte al sicuro.
Lei annuì e sparì girato l’angolo. Pierre non era sicuro di che fare in seguito. Decise di trascinarsi fino alla scrivania della segretaria. Sollevò il telefono, ma anche quello era muto.
Pierre cercò di immaginarsi la scena sottostante, gli agenti e poliziotti che sciamavano dall’ingresso anteriore, facendo lampeggiare i distintivi, di sicuro si sarebbero precipitati dentro sentendo che il microfono era stato scoperto. Stavano cercando di oltrepassare le guardie che probabilmente avevano a loro volta sfoderato le pistole. Pierre ricordava meglio quell’edificio l’ultima volta che l’aveva visto, all’assemblea degli azionisti, che non in quel momento. Era stato così nervoso e teso mentre si preparava a quel confronto. Un alto grattacielo, tutto vetro e acciaio, con un elicottero che atterrava sul tetto…
Gesù Cristo… un «elicottero». Marchenko non stava scendendo al piano terra; probabilmente era già salito sul tetto, tre piani più sopra.
Pierre si trascinò oltre l’angolo. La porta delle scale era accanto ai bagni degli uomini e delle donne. L’aprì con una spinta e sentì l’aria fredda avventarsi su di lui. L’interno della tromba delle scale era di nudo cemento, con gradini dipinti di un grigio uniforme. Cominciò lentamente, dolorosamente, ad arrancare su per la prima rampa. Ogni rampa copriva mezzo piano… ce ne sarebbero state almeno sei prima di raggiungere il tetto.
Poté udire fiochi echi di passi molto, molto più in basso. Altri stavano usando le scale per cercare di risalire. Ma trentasette piani, anche per un giovane allenato, erano un sacco di energia potenziale. Si tirò sempre più in alto, girando l’angolo ogni volta che una rampa di scale dava seguito alla successiva. Sperò che anche Avi avesse immaginato che Marchenko sarebbe salito, non sceso.
Pierre proseguì la sua ascesa. I suoi polmoni erano al massimo dello sforzo, e il respiro gli usciva in ansimi convulsi. Ebbe un soprassalto al suono di una sparatoria che arrivava da molto più giù.
Adesso Pierre si stava avvicinando al trentanovesimo piano, il numero era stato rozzamente spennellato in vernice bianca sul dorso della grigia porta antincendio metallica. Per un breve istante maledisse la sua educazione canadese: non gli era mai nemmeno passato per la testa di chiedere ad Avi una pistola prima di entrare.
Pierre si aggrappò al mancorrente e si tirò su un altro po’, ma all’improvviso inciampò: la sua gamba si era mossa a sinistra quando gli aveva detto di andare avanti. Il bastone gli sfuggì di lato, incastrandosi fra due delle sbarre verticali di metallo che sorreggevano la ringhiera. Pierre cadde all’indietro, afferrandosi al bastone in cerca di sostegno. Ci fu un suono scricchiolante quando quell’unico punto nel mezzo del bastone sostenne tutto il peso di Pierre per un secondo, ma poi Pierre perse la presa e si trovò a ruzzolare fino in fondo alla rampa. Il suo gomito sinistro cozzò sul pavimento di cemento. Il dolore fu una tortura. Tese la mano destra per toccarsi il gomito, e la ritrasse con sopra macchioline di sangue. Il bastone era piombato a circa due metri di distanza. Strisciò verso di esso e poi lottò per rimettersi in piedi. Ce la fece, incapace di continuare, in attesa che i suoi polmoni smettessero di trangugiare aria. Finalmente, con uno sforzo enorme, si avviò su per le scale di nuovo.
Su per mezzo piano, girato l’angolo, poi su per un altro. Finalmente si trovò di fronte alla porta contrassegnata dal numero 40. Ma, dannazione, la piazzuola per l’elicottero era sul tetto, altre due scalinate sopra di lui. E tutti i suoi sforzi erano basati sull’ipotesi che in cima ci fosse un’uscita sul tetto. Se no, avrebbe dovuto ridiscendere al quarantesimo piano e cercare di trovare la strada giusta fino al tetto.
Si issò su, un gradino dopo l’altro di agonia. I passi sotto sembravano più vicini; forse gli agenti del Dipartimento Giustizia erano già riusciti ad arrivare all’altezza del ventesimo piano.
Infine Pierre raggiunse la cima. C’era una porta lì, dipinta di blu invece che di grigio, con spennellata sopra la parola TETTO. Pierre girò la maniglia, poi spinse, e la porta si aprì in fuori, rivelando l’ampia sommità di cemento del grattacielo della Condor Health Insurance. Dopo tutto quel tempo nella tromba semibuia delle scale, i raggi del sole del tardo pomeriggio, posizionato direttamente di fronte a lui, gli forarono gli occhi. Pierre si tenne allo stipite dalla porta per sorreggersi. A quell’altitudine la forza del venti lo fustigò; il sibilo aveva coperto il rumore della porta che si apriva.
Marchenko era in piedi a circa venti metri di distanza, dando la schiena a Pierre, in attesa presso una baracchetta di metallo grigio-verde che, presumibilmente, conteneva attrezzi per la manutenzione degli elicotteri. Non c’era nessun velivolo in vista, ma sul tetto vicino a Marchenko era dipinto un segnale circolare giallo di atterraggio, e il vecchio stava scrutando il cielo con impazienza.
Il vento ululò infilandosi nella tromba delle scale. Pierre mosse qualche passo e uscì. Il tetto era quadrato, con un muretto alto un metro lungo il perimetro. Dei gabbiani stavano appollaiati in fila ordinata lungo la parete sud. Tre piccole antenne satellitari, e altre due grandi, stavano in un angolo del tetto e un trasmettitore a microonde si innalzava da un altro. C’era una luce rossa rotante montata in cima a una delle cabine degli ascensori, e due riflettori, entrambi spenti, in cima all’altra.
Marchenko non aveva ancora notato l’arrivo di Pierre. Il vecchio teneva al suo fianco un telefono cellulare nella mano sinistra, senza dubbio l’aveva usato per chiamare qualcuno che venisse a prenderlo.
Pierre cercò di valutare le sue possibilità. Aveva trentacinque anni, per l’amor di Dio. Marchenko ne aveva ottantasette. Non doveva esserci paragone. Pierre avrebbe dovuto semplicemente camminare verso il vecchio, prenderlo in consegna e trascinarlo più sotto fin nelle mani della giustizia.
Ma ora… ora, chi poteva dirlo? Pierre si appoggiò al suo bastone. C’erano buone probabilità che Marchenko potesse ucciderlo, specialmente se era armato. Non c’era alcun segno che avesse una pistola, e, in effetti, l’arma preferita di Ivan Grozny, mezzo secolo prima, era stata un tubo di piombo. Ma anche disarmato, Marchenko poteva essere in grado di avere la meglio su Pierre.
Forse non avrebbe dovuto fare nulla. Alzò gli occhi, scrutando di nuovo il cielo. Non c’era nessun elicottero in avvicinamento. Gli agenti di Meyer sarebbero giunti lassù abbastanza presto, e…
— Tu! — Marchenko si era voltato e aveva individuato Pierre. Il suo grido spaventò i gabbiani, facendoli alzare in volo; le loro strida furono debolmente udibili sopra il vento sferzante. Il vecchio cominciò a muoversi verso Pierre con una lenta andatura. Pierre si rese conto che doveva allontanarsi dalla porta aperta che dava sulle scale. Tutto quello che Marchenko avrebbe dovuto fare per sconfiggerlo sarebbe stata una buona, veloce spinta giù per i gradini.
Pierre, barcollante, si diresse verso nord. Marchenko cambiò percorso e continuò ad accorciare le distanze. Pierre pensò al Pequod e a Moby Dick, che fra le alte onde si inseguivano a vicenda. Marchenko si stava avvicinando.
«Lui mi dà la caccia» pensò Pierre «ma io lo avrò.» Col passo del capitano Achab, usando il bastone come se fosse la gamba di legno, Pierre avanzò più rapidamente che poteva. Sapeva che una ritirata sarebbe stata stupida. Se si fosse lasciato sospingere contro il muretto alto un metro intorno al bordo del tetto, Marchenko non avrebbe avuto alcun problema a spingerlo di sotto, facendolo piombare per quaranta piani fino a spiaccicarsi. Pierre si mosse verso il centro del tetto, col vento che gli sferzava i capelli, infilandosi tra i suoi abiti con dita di ghiaccio.
L’ampia faccia di Marchenko era contorta dal furore, non solo per causa sua, intuì Pierre, ma anche per chi, chiamato, non era ancora giunto a prenderlo. Non c’era ancora alcun segno dell’avvicinarsi di un elicottero, sebbene il cielo fosse solcato da alcune scie di reattori, simili ai segni della frusta sul dorso di un prigioniero.
Appena cinque metri li separavano adesso. La testa calva di Marchenko luccicava di un velo di sudore, che, nella rossastra luce del tardo pomeriggio, sembrava quasi sangue. L’arrampicata per le scale era stata ardua anche per lui; qualunque uscita segreta ci fosse dal suo ufficio, in apparenza gli aveva dato accesso alla tromba delle scale piuttosto che agli ascensori.
Marchenko allargò le braccia, come se si aspettasse che Pierre gli scivolasse via. Pierre voleva alzare il bastone abbastanza da usarlo come arma, qualcosa che avrebbe potuto fare solo, comprese, se si fosse appoggiato per sostenersi alla baracca degli attrezzi o alle cabine degli ascensori. Cominciò a muoversi di traverso, verso la più vicina delle strutture in cemento.
Marchenko colmò le distanze tra loro. Stava ancora tenendo il telefono nella mano sinistra, ma sferrò un colpo con la destra. Il suo pugno colpì Pierre sulla spalla, ma non fu abbastanza forte da fargli male sul serio. Marchenko in apparenza se ne rese conto; ficcò la mano destra nella tasca dei calzoni e ne trasse un mazzo di chiavi, che procedette a infilarsi fra le dita scheletriche, proprio come aveva fatto Pierre più di due anni prima, quando lo sgherro di Marchenko, Chuck Hanratty, aveva tentato di ucciderlo.
Adesso erano a circa tre metri dalla cabina dell’ascensore. Pierre pensò di sentire un altro colpo d’arma da fuoco che veniva dalla porta, ancora aperta, delle scale. Apparentemente gli uomini dell’osi erano alle prese con quelli della sicurezza a uno dei piani superiori. Eppure, Avi doveva, senza dubbio, aver già chiamato dei rinforzi.
Pierre appoggiò la schiena contro il muro della cabina dell’ascensore. Sollevò il suo bastone e lo sbatté giù con più forza che poteva. Aveva mirato in cima alla testa di Marchenko, ma il suo braccio aveva tremato abbassandosi e l’impatto era invece stato sulla spalla destra. Ci fu il rumore secco di qualcosa che si rompeva. Pierre sperò che fosse la scapola di Marchenko, ma scoprì che era stato il bastone. Quando Pierre lo ritrasse, vide che si era parzialmente spezzato nel mezzo, nel punto in cui aveva sostenuto il suo peso durante il capitombolo di prima giù per le scale. Tuttavia, l’impatto aveva fatto cadere il telefono cellulare dalla mano rinsecchita di Marchenko. Colpì il cemento e le batterie schizzarono fuori dal suo vano.
Altri spari sullo sfondo. Pierre guardò oltre Marchenko e allora vide un elicottero all’orizzonte, ma era impossibile dire se stesse venendo verso di loro. Marchenko prese a indietreggiare. Non si era reso conto dell’elicottero, ma in apparenza aveva capito che per lui era uno svantaggio lasciare Pierre con tutte e due le mani libere.
— Fatti avanti, pezzo di merda — lo schernì Marchenko con la sua voce stridula e dal forte accento. — Vieni a prendermi, fottuto pezzo di merda. — Agitò la mano, facendo luccicare le chiavi al sole. — Avanti, stronzo…
— Morceau de merde — ribatté Pierre. Si allontanò dalla parete della cabina con una spinta della mano sinistra, e si appoggiò sul bastone danneggiato, sperando che continuasse a sorreggerlo finché esercitava la pressione solo verso il basso.
Ora Marchenko stava danzando all’indietro, attirando Pierre più vicino alla baracca degli attrezzi: dove il vecchio avrebbe potuto, probabilmente, trovare un’arma migliore di un mazzo di chiavi. Pierre sperò che Marchenko incespicasse mentre camminava all’indietro. Poteva non essere in grado di sottometterlo con la forza, ma superava ancora il vegliardo di almeno dieci chili di peso. Sedersi su di lui avrebbe potuto bastare a sopraffarlo.
Marchenko si guardò alle spalle per assicurarsi che il cammino fosse sgombro, e vide l’elicottero, adesso a solo un paio di chilometri di distanza. Anche Pierre gettò un’occhiata dietro di sé, ma non vide emergere nessuno dalla tromba delle scale.
Continuarono a trascinarsi attraverso il tetto, col vento che li schiaffeggiava come mani invisibili. Finalmente, raccogliendo tutte le forze, Pierre balzò avanti. Non fu granché come salto, ma riuscì a sbattere contro il petto di Marchenko, e il vecchio ruzzolò indietro sul duro cemento. Pierre si mise a cavalcioni di Marchenko. La mano con le chiavi lo sferzò, e Pierre le sentì conficcarsi nella guancia. Arcuò il dorso e tentò di sferrare a sua volta un pugno, mirando alla faccia di Marchenko. Colpì il bersaglio, e sentì rompersi qualcosa. La bocca di Marchenko si aprì in un urlo di dolore, e Pierre vide che i denti in alto erano tutti sbilenchi, il suo pugno gli aveva fracassato la mascella superiore.
Pierre tentò di ripetere l’impresa, ma questa volta mancò l’avversario e la mossa gli fece perdere l’equilibrio, permettendo a Marchenko di spingerlo via e di lottare per rimettersi in piedi. Pierre poté vedere che la testa calva di Marchenko era scorticata nel punto in cui aveva colpito il cemento.
Marchenko raggiunse la baracca degli attrezzi. Aveva un lucchetto alla porta, ma una delle chiavi insanguinate che teneva in mano lo aprì. Pierre, steso sulla schiena, si sforzò di prendere fiato e di trattenere le gambe, che stavano danzando selvaggiamente. Marchenko si chinò per entrare e riemerse un momento dopo reggendo un lungo piede di porco nero, presumibilmente usato per aprire casse scaricate dagli elicotteri. Avanzò fino a incombere su Pierre.
— Prima che tu muoia — disse Marchenko, mentre alzava il piede di porco sulla testa — devo saperlo. Sei ebreo?
Pierre scosse il capo lievemente.
Marchenko sembrò rattristato. — Peccato. Avrebbe reso tutto quanto perfetto. — Calò giù la barra metallica. Pierre si voltò da parte giusto in tempo, e l’estremità del piede di porco fece schizzar via una scheggia dal tetto.
Il rumore dell’elicottero sovrastava, adesso, quello del vento. Pierre gli gettò uno sguardo. Non era lo stesso velivolo giallo e nero che aveva visto tutti quei mesi prima. No, questo sembrava privato, civile, tutto bianco e argenteo. Marchenko aveva probabilmente chiamato a venire a salvarlo uno dei suoi accoliti del Millennial Reich.
Il vecchio tirò un altro colpo col piede di porco. Pierre rotolò sulla destra; il metallo sprizzò scintille abbattendosi sul cemento. Pierre rotolò di nuovo sul dorso, e, pregando di poter mantenere una salda presa, sollevò in alto il bastone. Ma quando incontrò la barra metallica di Marchenko, il legno del bastone si spezzò in due. Una parte schizzò alta in cielo, roteando.
Marchenko abbatté il piede di porco con un arco sulle ginocchia di Pierre. Lui urlò quando la sua rotula sinistra si fratturò. Marchenko alzò la barra di nuovo, cercando stavolta di dargliela in testa. Pierre strisciò per terra. Il suo braccio si tese, ondulando come un serpente, e si chiuse sulla caviglia di Marchenko, strattonando il vecchio giù. Marchenko cadde insieme al piede di porco con uno scricchiolio di costole rotte.
Pierre alzò lo sguardo. L’elicottero era ora sospeso sulla scena, preparandosi ad atterrare, col rotore che spazzava via polvere e detriti dal tetto. L’uomo sul sedile destro, che lo pilotava… Cristo, portava perfino lo stesso giubbotto da aviatore con occhiali a specchio di Hard Copy. Felix Sousa. Quel fottuto non si limitava a pensarla da nazista; era un vero membro tesserato del Millennial Reich di Ivan Marchenko.
L’elicottero ora stava scendendo, e il vento del suo rotore li squassò. Pierre sperò che la spinta verso il basso tenesse Marchenko inchiodato al suolo, ma il vecchio riuscì presto a rialzarsi vacillando. L’elicottero toccò terra.
Pierre si guardò indietro. Un altro elicottero si stava avvicinando. Era difficile vedere qualcosa fra tutto quel vento, ma…! Il nuovo elicottero era chiaramente marchiato SFPD, San Francisco Police Department.
Marchenko si stagliò su Pierre, chiaramente intenzionato a finirlo, ma Sousa gli stava gesticolando freneticamente di affrettarsi a salire a bordo; l’elicottero della polizia sarebbe giunto a minuti. La testa rotonda di Marchenko si aprì in un orribile sogghigno sbilenco, coi denti ancora storti, e sputò sprezzante un grumo sanguinolento sulla faccia di Pierre. Poi barcollò, comprimendosi le costole rotte, verso la salvezza, chinandosi per evitare il rotore.
D’improvviso Avi Meyer apparve in cima alle scale. Ansimava orribilmente ed era rosso come un peperone dopo la scalata di quaranta piani. Si infilò una mano nella giacca, estrasse una pistola, e tentò di sparare all’elicottero di Sousa. Ma Marchenko era già a bordo, e dopo aver chiuso lo sportello, il velivolo sì innalzò dal tetto.
L’elicottero della SFPD gli era ormai addosso, comunque, e adesso stava cercando dì costringere Marchenko e Sousa ad atterrare volando direttamente sopra di loro. Sousa diresse il velivolo a nord, e si mosse di traverso pochi metri sopra il grattacielo, inclinato di lato, col rotore che evitava appena il muro attorno al bordo del tetto. L’elicottero della polizia lo seguì.
Pierre strizzò le palpebre, tentando di seguire la scena, ma anche di proteggersi gli occhi. Avi uscì dalla porta della tromba delle scale, e due dei suoi uomini gli apparvero dietro, anch’essi boccheggianti. Uno si teneva il fianco e faceva una smorfia di dolore. Un momento dopo, Avi barcollò verso il lato sud del tetto, quanto più possibile lontano dal rumore degli elicotteri, e tirò fuori il suo cellulare.
Pierre, nel frattempo, raccolse il piede di porco e, usandolo come un corto bastone, evitando che il peso gravasse sul suo ginocchio sinistro sfasciato, zoppicò verso il lato nord; il dolore era quasi insopportabile, e a ogni passo doveva lottare contro il capogiro e la nausea. Quando giunse al parapetto alto un metro intorno al bordo, vi si accasciò contro e si portò entrambe le mani al ginocchio. Poté udire vorticare le pale dell’elicottero, non più in vista sotto di lui, accanto all’edificio.
«Qui è la polizia» disse dal secondo elicottero una voce femminile, con un megafono; ma la voce si perse nel frastuono del duello fra i rotori. «Vi ordiniamo di atterrare.» Pierre si costrinse a rimettersi in piedi, usando il parapetto per sorreggersi. Stava quasi per svenire; il suo corpo era scosso dal dolore e dalla corea. A guardar giù venivano le vertigini: quaranta piani di vetro e basta, che davano direttamente sull’asfalto del parcheggio. Cinque autovetture della SFPD stavano dirigendosi verso il palazzo, a sirene spiegate. Pochi metri a destra di Pierre, e circa dieci metri più in basso, c’era l’elicottero argenteo con dentro Marchenko e Sousa. Probabilmente Marchenko poteva vedere proprio l’ufficio di Craig Bullen, col suo rivestimento di legno di sandalo e i dipinti inestimabili.
Il loro velivolo era solo a breve distanza dal fianco della torre. Adesso l’elicottero della SFPD si era portato al suo fianco, come se cercasse di prenderlo di mira per sparargli addosso. Pierre poté chiaramente vedere la pilota e il suo compagno, entrambi in uniforme, nella cabina a forma di bolla. Sembravano discutere fra loro, e poi l’elicottero della polizia cominciò ad allontanarsi. La pericolosità nel volare così vicino all’edificio aveva costretto l’elicottero della polizia ad allontanarsi.
Il rotore dell’elicottero di Sousa era un confuso vortice circolare sotto Pierre. Il rumore era assordante, ma era ormai solo questione di secondi, prima che Sousa si dirigesse lontano. Avrebbe potuto puntare diritto sul Pacifico, sulle acque internazionali, oltre la giurisdizione della SFPD, o anche del DOJ, forse appontando su un battello e salpando verso il Messico od oltre; certamente nel piano di fuga di Marchenko c’era ben più del solo elicottero.
Pierre sollevò il piede di porco, soppesandolo. Probabilmente non avrebbe funzionato, probabilmente sarebbe stata solo scagliato via. Ma non poteva starsene lì a non fare niente.
Pierre chiuse gli occhi, raccogliendo tutto il controllo e tutta l’energia che gli erano rimasti. E poi scagliò la sbarra più forte che poteva, facendola roteare in senso verticale, giù fra le pale turbinanti dell’elicottero, mirando al bordo esterno del disco del rotore.
Era pronto a farsi indietro, nel caso che la sbarra volteggiasse di nuovo su verso di lui.
Il ferro colpì con un orribile fragore. L’elicottero cominciò a vibrare, inclinandosi verso l’edificio, le pale toccarono il vetro, irrorando con una doccia di schegge scintillanti il terreno sottostante, poi le pale presero a tranciare le veneziane metalliche, sfrangiando il metallo in piccoli frammenti e facendo volare scintille dappertutto.
L’elicottero proseguì la sua corsa in avanti adesso, mentre il disco del rotore colpiva la parete tra gli uffici adiacenti. Le estremità delle pale frantumarono il rivestimento di sandalo col suono di una sega elettrica, poi affondarono nella parete di cemento facendo schizzare in aria polvere e frammenti di muro finché, fra lo stridore del metallo torturato, le pale giunsero a un mortale arresto.
L’elicottero si inclinò di nuovo in avanti, ruotando adesso lentamente in senso orario. Anche il rotore di coda cozzò contro la parete dell’edificio, infrangendo altre finestre e frantumando altri mobili.
Le turbine del velivolo stavano urlando; del fumo si riversava dal comparto del motore e delle fiamme uscivano dagli ugelli. L’intero veicolo cadde in avanti e cominciò a precipitare nel vuoto, un piano dopo l’altro e un altro ancora. Molto più in basso Pierre poté vedere la gente disperdersi, tentando di togliersi dalla sua traiettoria.
Pierre udì dei passi, coperti dal tuono dell’elicottero della polizia. Avi stava correndo lungo il tetto.
L’elicottero di Sousa continuò a cadere, come al rallentatore, coi mozziconi di pale che ora ruotavano pigramente, sostenendolo solo minimamente. Superò un piano dopo l’altro, facendosi in apparenza sempre più piccolo, finché si schiantò sul parcheggio come un uovo, scagliando ovunque vetro e metallo. Poi, come un fiore che si schiude, delle fiamme si levarono dai rottami quando esplose il serbatoio. Presto una colonna di fumo nero si innalzò fino al quarantesimo piano e oltre.
L’elicottero della SFPD fece qualche giro sopra la scena del disastro, poi si calò per atterrare nel parcheggio.
Pierre guardò giù, verso l’inferno sottostante, attorniato dagli spettatori, illuminato dalla rossa luce del sole basso e dalle fiamme ruggenti riflesse dalle finestre, e dalle luci sulle auto della polizia. Finalmente, Ivan Grozny era morto.
Pierre barcollò indietro di un passo, si girò, e si accasciò per la sofferenza contro il muretto.
— Sta bene? — chiese Avi, chinandosi a guardarlo dopo aver osservato a sufficienza il carnaio sottostante.
Le mani di Pierre erano di nuovo sul ginocchio fracassato. Il dolore era incredibile, come dei pugnali che gli venissero ficcati nella gamba a martellate. Trasalendo, scosse la testa.
Avi aprì di scatto il telefono cellulare. — Qui Meyer. Ci occorrono subito dei medici sul tetto.
Dalla rampa di scale apparve un altro agente dell’osi, ma a questo non mancava il fiato. Si affrettò verso Avi e Pierre. — Abbiamo rimesso in funzione uno degli ascensori — disse. — Erano tutti bloccati al quarantesimo piano, ma siamo stati in grado di riattivarne uno dopo aver forzato la porta.
— Cos’è successo? — chiese Avi.
L’agente lanciò un rapido sguardo a Pierre, poi tornò a guardare Avi. — Sembra che una sbarra sia stata fatta cadere da quassù fra le pale dell’elicottero. L’ha fatto sfracellare.
Avi annuì e poi fece segno all’agente di andarsene. Quando furono soli, si abbassò ad afferrare le spalle di Pierre con le braccia. — L’ha fatta cadere lei?
Pierre non disse nulla.
Avi sospirò. — Dannazione, Tardivel… Danielson non era nemmeno stato ancora accusato.
Pierre si strinse lievemente nelle spalle. — «La giustizia» — disse, ansimando mentre citava un altro premio Nobel, in quel preciso momento, non riuscì a ricordare quale — «è sempre rimandata e infine fatta solo per sbaglio». — Tolse la mano destra dal ginocchio e la tenne alta in aria. Sebbene lì fossero riparati dal vento dal basso muretto, il suo braccio si mosse avanti e indietro come se agitato da una brezza che solo Pierre poteva sentire. — Dia la colpa — disse — alla mia corea di Huntington. Gli occhi di Avi si restrinsero e poi lui annuì, si voltò, e appoggiò la schiena contro il muro, esausto non solo per la scalata ma anche per gli anni passati a rincorrere tipi di nome Ivan e Adolph e Heinrich. Chiuse le palpebre ed espirò lentamente, in attesa che i medici arrivassero.
Non appena iniziarono le ore di visita, Molly entrò nella stanza di Pierre al San Francisco General Hospital. Pierre alzò gli occhi su di lei dal letto. Il lato sinistro del suo volto era bendato, e le sue gambe erano in trazione.
— Ciao, tesoro — disse Molly.
— Ciao, amore — disse Pierre. Indicò con un gesto tutti gli aggeggi che aveva intorno. — Dopo che ieri te ne sei andata, qualcuno ha detto che in totale il mio conto per l’ospedale sarà intorno ai duecentomila dollari. — Riuscì a sorridere. — Sono contentissimo che Tiffany mi avesse parlato del Piano Oro.
— Ti ho portato un giornale — disse Molly, tirando fuori una copia del «San Francisco Chronicle» dalla borsa di tela che portava.
— Grazie, ma non mi sento molto di leggere.
Molly disse: — Allora lascia che te lo legga io. C’è un articolo di prima pagina di quel tale che abbiamo incontrato, Barnaby Lincoln.
— Davvero?
— Uh-huh. — Lei si schiarì la gola.
Funzionari del Consiglio d’Amministrazione dell’Assicurazione dello Stato della California, scortati da otto agenti di polizia, hanno oggi assunto il controllo della Condor Health Insurance, Inc., di San Francisco, sulla scia delle stupefacenti rivelazioni fatte la settimana scorsa. «La Condor ha cessato l’attività, oggi come oggi» ha detto Clark Finchurst, Commissario dell’Assicurazione dello Stato. «Il fondo di emergenza dell’industria, creato per affrontare casi simili, si occuperà dei danni correnti finché le polizze della Condor non potranno essere gestite da un’altra compagnia.»
— Perfetto! — disse Pierre.
— Dice che ci sarà un’inchiesta approfondita. Craig Bullen sta cooperando con le autorità.
— Buon per lui.
— Oh, e ti ho portato quello stampato che volevi. — Prese dalla borsa un mazzo spesso cinque centimetri di carta pieghevole da computer e glielo mise sul tavolino accanto al letto.
— Grazie — disse Pierre.
Molly si mise a sedere sul bordo del letto e prese una delle mani danzanti di Pierre fra le sue. — Ti amo — disse.
— E anch’io ti amo — disse Pierre, stringendole la mano. — Ti amo più di quanto possano dire le parole.
Pierre giacque nel suo letto d’ospedale quella notte. I suoi sei minuti di tempo d’elaborazione sul supercomputer Cray del LBNL erano finalmente divenuti disponibili, e la simulazione che lui e Shari avevano codificato era stata infine collaudata. Pierre iniziò a leggere a fatica le 384 pagine di stampato.
Quando ebbe finito, azionò il controllo manuale che abbassava lo schienale motorizzato del letto. Restò a fissare il soffitto.
Aveva senso. Quadrava tutto.
L’esistenza di codoni sinonimi permetteva realmente che informazioni supplementari venissero sovrapposte al codice genetico standard formato da A, C, G e T. Sì, AAA e AAG formavano entrambi la lisina, ma la forma AAA stava inoltre per «zero» in quella che Shari aveva già denominato, in una nota scribacchiata a margine, «la funzione di guardiano» che correggeva o invocava la mutazione delle trasposizioni dell’ordine strutturale del DNA. Nello stesso tempo, la versione AAG stava per «uno».
Ma questa era solo la punta dell’iceberg. C’erano quattro codoni validi per la formazione della prolina: CCA, CCC, CCG, e CCT. In questi, la lettera finale indicava lo spostamento di un cursore di divisione, che, muovendosi di un ordine di grandezza in base sedici, marcava la posizione dove un nucleotide sarebbe stato aggiunto o cancellato dal DNA, causando una trasposizione strutturale. La forma CCT spostava il cursore di sedici nucleotidi; la forma ccc lo muoveva di 162, o 256 nucleotidi; la forma CCA di 163, o 4.096 nucleotidi; e la forma CCG lo spostava di 164, o 65.536 nucleotidi.
Altri sinonimi svolgevano compiti differenti: CAA e CAG formavano entrambi la glutammina, ma servivano anche a fissare la direzione del movimento del cursore di divisione, CAG lo faceva muovere verso «sinistra» (nella direzione principale dei tre atomi primari di carbonio ai cinque in ciascun desossiribosio), e CAA lo metteva in moto verso «destra». Al tempo stesso, TTT, che formava la fenilalanina, codificava l’inserzione di un nucleotide, mentre il suo sinonimo TTC era l’istruzione perché un nucleotide venisse cancellato. E i quattro codoni che formavano la treonina, ACA, ACC, ACG e ACT, indicavano con la loro lettera finale quale nucleotide sarebbe stato inserito nel cursore di divisione.
Il codice basato sui sinonimi muoveva il cursore, ma il momento in cui si sarebbe attivata la trasposizione della struttura era governato da alcune delle infinite sequenze ripetitive nel «DNA intronico». Su scala più piccola, individuale, era già stato dimostrato che il numero di ripetizioni del CAG fissava l’età in cui la corea di Huntington si sarebbe manifestata per la prima volta, e, come Pierre aveva spiegato a Molly, le ripetizioni cambiavano da una generazione all’altra in un fenomeno chiamato «anticipazione» nome ironicamente profetico dato quel che mostrava il modello di Pierre e Shari.
In effetti, la simulazione al computer suggeriva promettenti linee di ricerca sulla manipolazione degli orologi genetici, ricerca che al termine avrebbe potuto curare la corea di Huntington e le relative sofferenze. Certamente non era probabile nessun grande progresso improvviso, ma, all’incirca nel giro di un decennio, controllare gli orologi genetici aberranti avrebbe dovuto essere possibile. Era diventato un circolo chiuso: scegliendo deliberatamente di non seguire ricerche sulla corea di Huntington, Pierre poteva avere, in realtà, fatto la scoperta che avrebbe infine condotto a una cura per la malattia.
Se quel che suggeriva la sua ricerca fosse stato tutto qui, avrebbe potuto godere di un certo compiacimento intellettuale, pur rimanendo profondamente triste, oppresso da quella crudele ironia: dopotutto, nient’altro che una cura immediata sarebbe arrivata in tempo ad aiutare Pierre Jacques Tardivel.
Ma Pierre non provava tristezza. Al contrario, era eccitato, perché il significato degli orologi genetici andava oltre i suoi problemi personali, oltre i problemi, per quanto reali, per quanto dolorosi, di quella persona su diecimila che aveva la sua stessa affezione. Gli orologi indicavano una verità, una rivelazione fondamentale, che riguardava ognuno dei cinque miliardi di esseri umani ora viventi, ognuno dei miliardi che erano venuti prima, e ognuno di tutti gli innumerevoli trilioni che ancora dovevano nascere.
Stando alla simulazione, gli orologi del DNA, incrementando di generazione in generazione tramite l’anticipazione genetica, sarebbero potuti scattare in intere popolazioni quasi simultaneamente. I multiregionalísti erano più nel giusto di quanto avessero mai creduto: la ricerca di Pierre dimostrava che balzi pre-programmati nell’evoluzione potevano aver luogo, tutto d’un tratto, in vasti gruppi di esseri viventi.
A Pierre venne in mente una citazione, naturalmente di un Premio Nobel. Il filosofo francese Henri Bergson aveva scritto nel suo libro del 1907 Evoluzione creativa che «il presente non contiene nient’altro che il passato, e quel che si trova nell’effetto era già nella causa.» Il «DNA intronico» era un linguaggio, proprio come aveva suggerito quell’articolo trovato da Shari: il linguaggio in cui il piano di base della vita era stato scritto dal suo progettista. Il cuore di Pierre batteva forte per l’eccitazione, e l’adrenalina gli scorreva nelle vene, ma finalmente si abbandonò al sonno, con lo stampato che ancora gli riposava sul petto, sognando della mano di Dio.
Molly aprì la porta dell’ufficio e vi mise piede dentro. — Dottor Klimus, io…
— Molly, sono molto occupato…
— Troppo occupato per parlare di Myra Tottenham?
Klimus alzò gli occhi. Qualcun altro stava passando nel corridoio. — Chiuda la porta.
Molly lo fece e si mise a sedere. — Shari Cohen e io abbiamo appena passato un giorno a Stanford a frugare fra le carte di Myra; ne hanno interi scatoloni nei loro archivi.
Klimus riuscì a fare un debole sorriso. — Le università amano la carta.
— In effetti, è così. Myra Tottenham stava lavorando a dei metodi per accelerare la sequenziazione dei nucleotidi quando morì.
— Davvero? — disse Klimus. — Proprio non capisco cos’abbia a che fare questo…
— Ha tutto a che fare con lei, Klimus. La tecnica di Myra, che impiegava enzimi di restrizione specializzati, era in anticipo di anni su quel che stavano facendo gli altri.
— Che ne può sapere una psicologa delle ricerche sul DNA?
— Non molto. Ma Shari mi ha detto che quel che stava facendo Myra era vicino a quella che noi ora chiamiamo la Tecnica Klimus, proprio la stessa tecnica per cui lei ha vinto il Premio Nobel. A Stanford abbiamo dato una scorsa anche alle sue vecchie carte. Stava brancolando in una direzione del tutto sbagliata, cercando di usare direttamente la carica ionica dei nucleotidi come tecnica di classificazione…
— Avrebbe funzionato…
— Funzionato in un universo dove l’idrogeno libero non si combina con qualsiasi cosa ci sia in vista. Ma in questo universo era un vicolo cieco… un vicolo cieco che lei non abbandonò fino a poco dopo la morte di Myra Tottenham.
Ci fu una lunga, lunga pausa. Infine: — Il comitato del Nobel è molto riluttante ad assegnare premi postumi — disse Klimus, come se ciò giustificasse tutto.
Molly incrociò le braccia davanti al petto. — Voglio gli appunti che ha preso su Amanda. E voglio la sua parola che non cercherà di vederla mai più.
— Signora Bond…
— Amanda è mia figlia… mia e di Pierre. Questa è la sola verità. Lei non ci darà mai più fastidio.
— Ma…
— Niente ma. Mi dia i suoi appunti subito.
— Io… ho bisogno di un po’ di tempo per raccoglierli tutti.
— Tempo per fotocopiarli, intende dire. Giammai. Verrò con lei ovunque vada per andare a prenderli, ma non la perderò di vista finché non li avrò trovati e bruciati tutti.
Klimus sedette immobile per alcuni secondi, pensando. Il solo suono fu il fioco ronzio di un orologio elettrico. — Lei è una vera cagna — disse infine, aprendo il cassetto della scrivania in basso a sinistra e tirando fuori una dozzina di piccoli blocchi note rilegati a spirale.
— No, non è così — disse Molly, raccogliendoli. — Sono semplicemente la madre di mia figlia.
Erano passati quattro mesi. Mentre attraversava lentamente il laboratorio, sembrò che Shari Cohen avrebbe preferito essere in qualunque altra parte del mondo. Pierre era seduto su uno sgabello. — Pierre — disse lei — io non so come dirtelo, ma i risultati dei tuoi test più recenti sono… — Distolse lo sguardo. — Mi spiace, Pierre, ma sono sbagliati.
Pierre alzò un braccio che si agitava. — Sbagliati?
— Hai pasticciato la distillazione. Temo che dovrò rifarla io.
Pierre annuì. — Sono spiacente. Io… divento confuso a volte.
Anche Shari annuì. Il labbro superiore le stava tremando. — Lo so. — Rimase zitta per un lungo, lungo tempo. Poi: — Forse è il momento, Pierre, che tu…
— No. — Lo disse con quanta più fermezza poteva. Tenne le mani tremanti di fronte a sé, come per proteggersi dalle sue parole. — No, non chiedermi di smettere di venire al laboratorio. — Fece un lungo sospiro, rabbrividendo. — Magari hai ragione… forse non posso più fare cose complicate. Ma devi permettermi di essere d’aiuto.
— Posso proseguire io il nostro lavoro — disse Shari.
— Posso finire l’articolo. — Sorrise. Il loro articolo avrebbe lasciato la gente a bocca aperta. — Si ricorderanno di te, Pierre, non solo alla maniera di Crick e Watson, ma addirittura come un nuovo Darwin. Lui ci disse da dove venivamo, e tu ci hai detto dove stiamo andando.
Si interruppe, riflettendo. La più recente scoperta di Pierre, probabilmente, era triste a dirsi, T’ultima scoperta» era la sequenza di DNA che in apparenza governava l’abbassamento dell’osso ioide nella gola, una sequenza che era trasposta fuori dal DNA di Hapless Hannah, ma inserita in quello dell’Homo sapiens sapiens. E aveva mostrato a Shari un campione di DNA con inserita la trasposizione telepatica, sebbene lei non sapesse a chi apparteneva, e avesse creduto solo a metà alle affermazioni di Pierre su a che cosa serviva.
Pierre si guardò intorno nel laboratorio, impotente.
— Dev’esserci qualcosa che posso fare. Lavare gli strumenti in vetro, riordinare gli archivi… qualcosa.
Shari guardò il secchio dei rifiuti, dove riposavano i cocci di vetro di un matraccio che Pierre aveva fatto cadere prima, quel giorno. — Hai dedicato così tanto tempo a questo progetto — disse. — Ma… be’, lo so che sei tu quello che dovrebbe citare i Premi Nobel, ma non ha forse detto Woodrow Wilson «Non solo uso tutto il cervello che ho, ma tutto quello che posso farmi prestare»? Puoi prendere in prestito il mio; basta a farci andare avanti tutti e due. È ora che tu ti rilassi. Passa qualche tempo con tua moglie e tua figlia.
Pierre si sentì le lacrime agli occhi. Sapeva che quel giorno sarebbe venuto, ma era troppo presto, ancora tanto presto.
Ci fu un momento di imbarazzo tra loro, e Pierre si rammentò di quel pomeriggio di tre anni e mezzo prima, quando aveva finito per abbracciare Shari mentre lei piangeva per aver rotto il fidanzamento. Anche lei, forse, riconobbe la similarità di quel momento, perché, con un sorriso, gli si fece più vicino e con leggerezza gli avvolse le braccia intorno, senza tenerlo strettamente, ma conformandosi alla ritmica danza del suo corpo.
— Tu «sarai ricordato», Pierre — disse. — Lo sai. Verrai ricordato per sempre per quello che hai scoperto qui.
Pierre annuì, cercando di trovare conforto in quelle parole, ma presto le lacrime gli scorsero giù per le guance.
— Non piangere — disse Shari dolcemente. — Non piangere.
Lui alzò lo sguardo su di lei e scosse il capo. — So che abbiamo fatto un buon lavoro qui — disse — ma… Lei gli scostò i capelli dalla fronte. — Ma cosa?
— Frammenti isolati — disse lui. — Riesco ancora a cogliere frammenti isolati. Ma il quadro generale: i nucleotide gli enzimi, le reazioni, le sequenze di geni… — Sollevò una mano tremante e si sfregò la guancia. — Non ricordo tutto, e quello che ricordo, non lo capisco più.
Shari gli accarezzò la spalla. — Non importa — disse. — Hai fatto tu il lavoro. Hai fatto tu le scoperte. A partire da qui posso finire io.
Pierre la guardò. — Ma cosa farò adesso? Io… io non so fare altro che il genetista.
Shari parlò a bassa voce. — Barnaby Lincoln, del «Chronicle», ha lasciato un altro messaggio telefonico per te. Perché non lo chiami?
Pierre fu occupato in quei giorni. Battersi per una causa «era» un lavoro soddisfacente. E, chissà? Un giorno avrebbe anche potuto portare frutti. Nel frattempo, Shari aveva completato il loro articolo a quattro mani — UN MECCANISMO DEL DNA INTRONICO PER INVOCARE TRASPOSIZIONI GENETICHE COME FORZA TRAINANTE DELL’EVOLUZIONE — e l’aveva sottoposto a «Nature».
Ma quel giorno aveva altro a cui pensare che cosa avrebbero fatto dell’articolo i recensori del giornale, altro a cui pensare che a rispondere al telefono e dettare lettere.
Non potevano limitarsi ad andare in uno studio per ritratti; scattare foto della famiglia Tardivel-Bond era un po’ più complicato. Pierre aveva momenti buoni e altri cattivi, e dovettero aspettare più di un’ora perché riguadagnasse abbastanza controllo da sedersi ragionevolmente immobile. E Amanda, be’, a tre anni di età, se la stava cavando meglio a trattare con le altre persone, ma continuava a essere più facile tenerla a distanza da adulti benintenzionati, ma stupidi, che dicevano sempre le cose sbagliate, pensando che, dato che non parlava, non potesse sentire.
Molly aveva aiutato Pierre a mettersi i vestiti, come ormai faceva ogni giorno. Dapprima aveva pensato di fargli indossare giacca e cravatta, un abbigliamento tutto serio e formale, ma quello non sarebbe stato Pierre, e lei voleva ricordarlo com’era realmente. Invece, lo aiutò a infilarsi uno dei maglioni rossi dei Montreal Canadiens cui era così affezionato.
Da parte sua, Molly si abbigliò un po’ più ricercatamente di quanto non facesse di solito, indossando una camicetta di seta azzurra e una elegante gonna nera. Si mise anche un po’ di rossetto e di ombretto.
Amanda vestiva un adorabile abitino rosa con dei fiorellini sopra. Molly si era trastullata con l’idea di combattere gli stereotipi, ma per quel giorno, almeno, voleva che sua figlia somigliasse proprio a una bambina qualunque. A volte queste cose «importavano».
Finalmente, Pierre disse: — Penso di essere pronto.
Molly sorrise e lo aiutò a sistemarsi su una delle sedie. Il suo avambraccio destro si stava muovendo un pochino, ma una volta che si fu accomodato, Pierre ci portò sopra la mano sinistra, tenendolo saldo. Molly si mise a sedere, si lisciò i vestiti, e fece segno ad Amanda di venire a sedersi in grembo. Lei obbedì, divertendosi a dimenarsi per tutta la stanza nel suo vestitino.
Molly la baciò in fronte, e Amanda sorrise. Nella mano sinistra Molly teneva l’autoscatto della macchina fotografica. Puntò un dito verso l’obiettivo e disse ad Amanda di guardarlo e sorridere.
Pierre sollevò la mano sinistra dal braccio destro e anche lui sorrise quando vide che, almeno per il momento, non stava più agitandosi. Riuscì ad alzarlo lentamente e a cingere le spalle di sua moglie. La piccola Amanda prese con la manina tre delle dita del padre. Molly premette l’autoscatto.
Amanda sobbalzò in grembo a sua madre sgomenta ma eccitata dal lampo del flash. Molly attese che si calmasse un po’ prima di tentare un’altra posa e, nel frattempo, rifletté su che straordinario ritratto di famiglia stessero facendo. Non era solo una donna e suo marito e la loro bimba, che si volevano bene. Era anche, in senso letterale, un ritratto della razza umana: del silenzio, della parola, e della telepatia, del passato, del presente, e del futuro, di dove la razza era venuta, dov’era, e dove stava andando.
La telepatia di Molly, lì, adesso, all’alba del Ventunesimo secolo, era stata un incidente, il risultato di un unico nucleotide che si era infiltrato nel suo DNA. Ma il codice genetico per produrre il neurotrasmettitore della telepatia era là, nascosto, trasposto in qualcos’altro, nel DNA di ogni uomo e donna della Terra.
Le tornarono in mente le parole che aveva detto precedentemente a Pierre: «Forse un giorno, nel lontano futuro, l’umanità potrà essere in grado di affrontare qualcosa del genere. Ma non ora; non è il momento giusto».
«Non il momento giusto.»
Le scoperte di Pierre erano state stupefacenti: erano tutto. Non solo quel che eravamo stati. Non solo codici per fare code e scaglie e uova dal guscio duro. Non solo il nostro passato di pesci, di anfibi e di rettili. Non solo i comandi che orchestravano la danza dell’ontogenesi, quando questa ricapitolava in apparenza la filogenesi durante lo sviluppo dell’embrione. Non solo avanzi e rimasugli.
Non solo «inutilità».
Sì, in esse c’era il passato. Ma così anche il futuro. Così pure il progetto, il piano, di quel che saremmo diventati.
Cos’era che aveva detto a Pierre, tutti quegli anni prima?
«Dio ha programmato in anticipo la grande direttiva che avrebbe preso la vita, il cammino da seguire per l’universo ma, dopo aver messo tutto quanto in moto, si limitò a osservare la situazione, lasciandola crescere e svilupparsi da sola, seguendo la rotta da lui tracciata.»
Premette di nuovo l’autoscatto della fotocamera. Ci fu luce dovunque.
Amanda alzò lo sguardo su suo padre e mosse le mani. «Perché stiamo facendo questo?»
— Lo stiamo facendo — disse Pierre — perché siamo una famiglia. — Le parole gli vennero lentamente ma con chiarezza.
I grandi occhi castani di Amanda lo fissarono. Il suo visetto si contorse. Aveva tentato per moltissimo tempo, facendo pratica in segreto con sua madre. Erano anche state interrotte un mattino, quando Pierre era spuntato in soggiorno senza che si rendessero conto del suo arrivo, ma ancora non c’era mai riuscita. Eppure, sapeva che quello era proprio un momento molto speciale, e così ci mise tutte le sue forze.
Il suono fu grezzo, come il lacerarsi di carta ruvida, più simile a un respiro forzato che a qualunque altra cosa. Ma fu anche inconfondibile, almeno per uno che aveva bramato di udirlo. — Ti voglio bene — disse Amanda, guardando il suo papà. Pierre penso qualcosa in francese, ma poi sorridendo a sua moglie e abbracciandola stretta, riformulò lo stesso pensiero in inglese.
«La mia vita» pensò Pierre Tardivel non poteva finire meglio di così.»