1 Festa

Ero sicura al novantanove virgola nove per cento che fosse un sogno.

Ne ero certa perché, innanzitutto, ero illuminata da un raggio di sole—accecante, limpido, impossibile a vedersi nella piovigginosa Forks, la cittadina dello Stato di Washington che mi aveva adottata—e poi perché guardavo in faccia mia nonna Marie: era morta da sei anni, perciò anche quella era una prova decisiva.

Non era cambiata granché; la ricordavo proprio così. La pelle era morbida e rugosa, solcata da migliaia di piccole increspature che correvano delicate sul velo di pelle affondando fino alle ossa. Come un’albicocca avvizzita avvolta in una nuvola di capelli folti e bianchi. Sulle nostre labbra—le sue erano una piega raggrinzita—comparve lo stesso sorriso, sorpreso e appena accennato, nel medesimo istante. Forse la mia apparizione era una sorpresa anche per lei.

Ero sul punto di farle una domanda: ne avevo tante—cosa ci faceva nel sogno?, come aveva trascorso gli ultimi sei anni?, il nonno stava bene?, si erano ritrovati, dovunque fossero?—ma appena tentai di parlare lo fece anche lei, e preferii tacere per non interromperla. Anche lei restò in silenzio ed entrambe sorridemmo di quel leggero imbarazzo.

«Bella?».

Non era la nonna a chiamarmi e insieme ci voltammo a guardare chi si stava aggiungendo alla nostra piccola riunione di famiglia. Ma non avevo bisogno di vederlo per sapere chi fosse: quella voce l’avrei riconosciuta ovunque; la riconoscevo sempre con emozione, che fossi sveglia, addormentata... persino da morta. La voce per cui ero disposta a camminare nel fuoco, oppure, senza esagerare, a sguazzare per una vita intera sotto un’interminabile pioggia fredda.

Edward.

Benché, consapevole o meno, incontrarlo mi desse sempre un brivido, e malgrado fossi quasi sicura di sognare, fui presa dal panico quando lo vidi avanzare verso di noi sotto la luce abbagliante del sole. La nonna non sapeva che fossi innamorata di un vampiro, anzi nessuno lo sapeva. Come avrei spiegato i riflessi luccicanti che s’irradiavano dalla sua pelle, simili a migliaia di frammenti iridescenti, come fosse fatto di cristallo o di diamante?

Be’, nonna, ti sarai accorta che il mio ragazzo risplende. Gli capita alla luce del sole. Non preoccuparti...

Che intenzioni aveva? L’unica ragione per cui si era trasferito a Forks, il posto più piovoso del mondo, era la possibilità di uscire alla luce del sole senza rivelare il segreto della sua famiglia. Eppure, eccolo camminare aggraziato verso di me, con il suo più bel sorriso sul volto angelico, come fossi da sola.

In quel momento desiderai di non essere l’unica a risultare immune al suo talento misterioso: di solito mi compiacevo di essere la sola persona di cui non percepisse i pensieri come fossero parole pronunciate ad alta voce. Ma ora speravo che si accorgesse dell’avvertimento che gli urlavo tra me e me. Lanciai un’occhiata alla nonna, ma era troppo tardi. Si stava voltando anche lei verso di me, con uno sguardo altrettanto allarmato.

Edward—sempre armato di quel sorriso magnifico, capace di riempirmi il cuore tanto da farlo scoppiare—mi cinse le spalle con un braccio e si voltò a guardare la nonna.

L’espressione di lei mi stupì. Anziché spaventarsi, mi fissava impacciata, come attendesse un rimprovero. E la sua posizione era molto strana: un braccio goffamente teso a cingere l’aria attorno a sé, quasi abbracciasse qualcuno o qualcosa di invisibile...

Solo in quell’istante la visuale si allargò e mi accorsi dell’enorme cornice dorata che racchiudeva la sagoma di mia nonna. Perplessa, allungai la mano che non stringeva Edward per toccarla. Lei ripeté lo stesso movimento, come uno specchio. E nel punto in cui le nostre dita avrebbero dovuto sfiorarsi, non c’era nient’altro che vetro freddo...

Con un balzo vertiginoso, il sogno si trasformò in un incubo.

Non c’era nessuna nonna.

Quella ero io. Io allo specchio. Io: vecchia, rugosa e rinsecchita.

Edward era al mio fianco, ma lo specchio non rifletteva la sua bellezza straziante e il suo aspetto da eterno diciassettenne.

Sfiorò con le labbra ghiacciate e perfette la mia guancia devastata.

«Buon compleanno», mi sussurrò.


Mi risvegliai di soprassalto, senza fiato, spalancando gli occhi. Una luce grigia e smorta, il chiarore tipico delle mattine di cielo coperto, prese il posto del sole accecante che avevo sognato.

Era soltanto un sogno, soltanto un sogno. Ripresi fiato per calmarmi, ma scattai di nuovo al suono della sveglia. Il piccolo calendario nell’angolo del display m’informò che era il 13 settembre.

Era stato soltanto un sogno, ma un sogno premonitore. Quel giorno era il mio compleanno. Avevo ufficialmente diciotto anni.

Temevo l’arrivo di quel momento da mesi.

Durante tutta quell’estate perfetta—la più felice della mia vita, la più felice di qualsiasi vita, e la più piovosa nella storia della penisola di Olympia—questa lugubre data era stata costantemente in agguato, facendo capolino di tanto in tanto, pronta a balzar fuori.

E adesso che il momento era arrivato, era anche peggio di quanto avessi temuto. Lo sentivo: ero più vecchia. Ogni giorno invecchiavo, ma oggi era diverso, peggiore, quantificabile. Avevo diciotto anni.

Edward non li avrebbe compiuti mai.

Andai a lavarmi i denti e fui quasi sorpresa che il volto riflesso dallo specchio non fosse cambiato. Restai a osservarmi, in cerca dei segni delle prime rughe sulla mia pelle d’avorio. Le uniche visibili erano quelle sulla fronte, ma sapevo che se fossi riuscita a rilassarmi sarebbero sparite. Tentativo inutile. Le sopracciglia erano bloccate dalla preoccupazione, rigide sopra i miei occhi ansiosi.

Era soltanto un sogno, ripetei a me stessa. Soltanto un sogno... ma anche il mio incubo peggiore.

Saltai la colazione, impaziente di uscire di casa il più presto possibile. Non riuscii a evitare del tutto mio padre, perciò fui costretta a fingere qualche minuto di buonumore. Feci del mio meglio per dimostrare un entusiasmo spontaneo di fronte ai regali che lo avevo scongiurato di non farmi, ma a ogni sorriso forzato rischiavo di mettermi a piangere.

Mentre guidavo verso la scuola, tentai di ricompormi. Il volto della nonna—non osavo pensare di poter essere io—non mi usciva dalla testa. Fui invasa dallo sconforto finché non entrai nel familiare parcheggio della scuola superiore di Forks e notai Edward, immobile, appoggiato alla sua Volvo argentata e lucida, come un tributo marmoreo a un oscuro dio pagano della bellezza. Il sogno non gli aveva reso giustizia. Ed era lì, che aspettava me, come un qualsiasi altro giorno.

Ogni pensiero cupo sparì per qualche istante, rimpiazzato dalla meraviglia. Sei mesi insieme, e ancora non riuscivo a credere di meritare una fortuna così grande.

Di fianco a lui c’era sua sorella Alice, anche lei in mia attesa.

Ovviamente, Edward e Alice non erano veri fratelli (secondo la versione di Forks della loro storia, i ragazzi dei Cullen erano stati tutti adottati dal dottor Carlisle e da sua moglie Esme, di certo troppo giovani per avere figli adolescenti), ma la loro pelle aveva lo stesso pallore, gli occhi erano della stessa, singolare tonalità dorata ed erano cerchiati dalle medesime occhiaie profonde e simili a ustioni. Il volto della ragazza era bellissimo, come quello di suo fratello. Chi la sapeva lunga, come me, riconosceva in quei tratti comuni la loro vera essenza.

Alla vista di Alice, che mi aspettava con gli occhi fulvi accesi di entusiasmo e tra le mani un pacchetto quadrato avvolto in carta argentata, mi rabbuiai. Le avevo detto che non volevo niente, niente, né regali né attenzioni, per il mio compleanno. Ovviamente, poco le importava del mio desiderio.

Sbattei la portiera del mio pick-up Chevy del ’53, scatenando una pioggia di briciole di ruggine sull’asfalto umido, e mi avvicinai lentamente ai fratelli in attesa. Alice mi venne incontro, con il suo raggiante viso da folletto incorniciato dai capelli neri disordinati.

«Buon compleanno, Bella!».

«Sssh!», sibilai, guardandomi attorno per assicurarmi che nessuno l’avesse sentita. L’ultima cosa che desideravo era un qualsiasi genere di festeggiamento della disgrazia.

Lei mi ignorò. «Il regalo lo apri adesso o più tardi?», chiese impaziente, mentre raggiungevamo Edward.

«Niente regali», borbottai.

Finalmente sembrò accorgersi del mio umore. «Va bene... più tardi, allora. Ti è piaciuto l’album che ti ha regalato tua madre? E la macchina fotografica di Charlie?».

Sospirai. Naturalmente sapeva già cos’avevo ricevuto in regalo. Edward non era l’unico, in famiglia, a possedere qualità fuori dalla norma. Alice, probabilmente, aveva “visto” i progetti dei miei genitori nel momento esatto in cui li avevano concepiti.

«Sì. Grande».

«Secondo me è una bella idea. L’ultimo anno di scuola arriva una volta sola nella vita. Vale la pena di documentare l’avvenimento».

«Tu quanti ultimi anni di scuola hai già vissuto?».

«Questo è un altro discorso».

Raggiungemmo Edward, che mi offrì la mano. La accettai volentieri, dimenticando per un breve istante l’umore tetro. Come al solito, la sua pelle era liscia, tonica e freddissima. Mi strinse le dita con delicatezza. Fissai i suoi occhi liquidi di topazio e anche il mio cuore si strinse, con molta meno delicatezza. Lui si accorse del battito zoppicante, e tornò a sorridere.

Sollevò la mano libera e, parlandomi, sfiorò il contorno delle mie labbra con la punta fredda di un dito. «Quindi, come stabilito, ho il divieto di augurarti buon compleanno, ho inteso bene?».

«Hai inteso benissimo». Il suo modo di parlare fluido e articolato era per me inimitabile. Ce l’avrei fatta solo se fossi nata in un secolo precedente.

«Grazie per la conferma». Con la mano sistemò i capelli bronzei, spettinati. «Speravo che avessi cambiato idea. Di solito la gente adora compleanni, regali e cose del genere».

La risata argentina di Alice squillò come tanti campanellini. «Vedrai che sarà un divertimento. Oggi tutti saranno gentili e faranno quello che dici tu, Bella. Cosa potrebbe succedere di tanto brutto?». Voleva essere una domanda retorica.

«Che sto invecchiando», risposi con voce molto meno ferma di quanto volessi.

Il sorriso di Edward, al mio fianco, si appiattì rigido.

«Diciotto anni non sono tanti», rispose Alice. «Sbaglio, o di solito le donne aspettano di averne ventinove, prima di farsi rovinare l’umore da un compleanno?».

«Sono più vecchia di Edward», mormorai.

Lui sospirò.

«Tecnicamente, sì», aggiunse Alice, senza perdere il buonumore. «Ma di un annetto soltanto».

Intanto immaginavo che... se fossi stata sicura del futuro che desideravo, sicura di poter passare l’eternità assieme a Edward, ad Alice e agli altri Cullen (preferibilmente non nei panni di una vecchietta rugosa)... un anno o due di differenza non sarebbero stati così importanti. Ma Edward si opponeva con forza a qualsiasi futuro che contemplasse la mia trasformazione. Qualsiasi futuro che mi rendesse uguale a lui: immortale.

L’aveva chiamata “impasse”.

Onestamente, non riuscivo a capire le sue ragioni. Che c’era di così grandioso nell’essere mortali? Vivere da vampiro non mi sembrava una prospettiva così terribile, almeno se pensavo a come vivevano i Cullen.

«A che ora vieni a trovarci?», continuò Alice per cambiare discorso. A giudicare dall’espressione, stava per farmi esattamente la proposta che più desideravo evitare.

«Non sapevo di avere una visita in programma».

«Oh, sii buona!», si lamentò. «Non vorrai rovinarci il divertimento, vero?».

«Pensavo che al mio compleanno si parlasse dei miei desideri».

«Vado a prenderla da Charlie subito dopo la scuola», le rispose Edward, senza badare a me.

«Devo andare al lavoro», protestai.

«Invece no», rispose soddisfatta Alice. «Ne ho già parlato con la signora Newton. Oggi ti sostituisce lei in negozio. Mi ha chiesto di farti gli auguri».

«Ma... non posso venire», balbettai in cerca di una scusa. «Io, be’, non ho ancora guardato Romeo e Giulietta, per la lezione di inglese».

Alice sbuffò. «Ma se lo sai a memoria».

«Il professor Berty dice che per apprezzarlo davvero dobbiamo vederlo rappresentato: com’era nelle intenzioni di Shakespeare».

Edward alzò gli occhi al cielo.

«Hai già visto il film», sbottò Alice.

«La versione degli anni Sessanta no. Secondo Berty è la migliore».

Alla fine, Alice perse il sorriso allegro e mi lanciò un’occhiataccia. «Con le buone o con le cattive, Bella, in un modo o nell’altro...».

Edward interruppe la minaccia. «Tranquilla, Alice. Se Bella desidera vedere un film, lascia che lo faccia. È il suo compleanno».

«Appunto», commentai.

«Arriveremo entro le sette», aggiunse lui. «Così avrai un po’ di tempo in più per prepararti».

La risata di Alice tornò a squillare. «Così va meglio. Allora ci vediamo stasera, Bella! Vedrai che ci divertiremo». Sorrise sfoderando i denti perfetti e brillanti, e mi diede un buffetto sulla guancia prima di dirigersi a passi di danza verso la prima lezione senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere.

«Ti prego, Edward...», cercai di implorarlo, ma lui mi zittì posandomi un dito sulle labbra.

«Ne parliamo dopo. Rischiamo di fare tardi».

Nessuno si preoccupò di guardarci mentre occupavamo i soliti posti in fondo all’aula (ormai condividevamo quasi tutte le lezioni; Edward era stupefacente nell’ottenere favori dalle impiegate dell’amministrazione). Ormai stavamo insieme da un periodo di tempo sufficiente per essere esclusi dai pettegolezzi. Nemmeno Mike Newton sprecava più lo sguardo malinconico che mi faceva sentire un po’ in colpa. Mi salutava sorridendo ed ero felice che si fosse arreso all’idea che fossimo semplici amici. Durante l’estate Mike era cambiato: il suo viso si era smagrito, le guance erano meno piene, e aveva cambiato taglio di capelli; anziché ispida, portava la chioma biondo cenere più lunga, in un apparente disordine fissato con il gel. Non era difficile capire a chi si ispirasse; ma il look di Edward non lo si poteva ottenere per mera imitazione.

Con il passare della giornata, pensai a tutti i modi di sfuggire a ciò che i Cullen avevano in serbo per me. Non sarebbe stato per niente carino essere costretta a festeggiare, quando avrei preferito piangere la mia sventura. Peggio ancora, oltre ai festeggiamenti avrei dovuto mettere in conto un sacco di attenzioni e regali.

Le attenzioni non sono mai una buona cosa, e chi è particolarmente goffo e maldestro lo sa bene. Nessuno desidera restare sotto i riflettori se sa che probabilmente finirà per inciampare da qualche parte.

Per giunta, avevo chiesto con decisione—anzi, ordinato—che nessuno mi facesse regali. A quanto pareva, Charlie e Renée non erano stati gli unici a ignorare la richiesta.

Non avevo mai avuto tanti soldi, ma non erano neanche la mia prima preoccupazione. Renée mi aveva cresciuta basandosi esclusivamente sul suo stipendio da insegnante d’asilo. Nemmeno Charlie era diventato ricco con il suo lavoro: era solo il capo della polizia nella cittadina di Forks. I miei unici introiti personali venivano dai tre giorni settimanali in cui lavoravo nel locale negozio di articoli sportivi. In una città così piccola avere un lavoro era una fortuna. Tutto quello che mettevo da parte, fino all’ultimo centesimo, finiva tra i miseri risparmi con cui intendevo pagarmi il college (questo era il piano B. Speravo ancora di realizzare il piano A, ma Edward voleva che restassi umana e non c’era modo di convincerlo...).

Edward era ricchissimo... preferivo non pensarci troppo. Per lui, come per gli altri Cullen, il denaro non valeva quasi nulla. Era soltanto qualcosa che si accumulava, con l’eternità a disposizione e una sorella praticamente infallibile nelle previsioni di Borsa. Sembrava che Edward non capisse, quando gli chiedevo di non sprecare denaro per me, o quando mi sentivo a disagio se prenotava un ristorante di lusso a Seattle, proponeva di comprarmi un’auto che potesse superare i novanta all’ora, oppure si offriva di pagarmi la retta del college (era assurdamente entusiasta del piano B). Secondo lui facevo troppo la difficile, inutilmente.

Come potevo lasciarlo pagare per tutto se non avevo niente da offrirgli in cambio? Per qualche motivo inspiegabile, voleva stare con me. Tutto ciò che aggiungeva a questo semplice desiderio bastava a scompigliare il nostro equilibrio.

Durante la giornata, né Edward né Alice parlarono più del mio compleanno e iniziai a rilassarmi.

A pranzo occupammo il nostro solito tavolo.

Era la sede di uno strano genere di tregua. Noi tre—io, Edward e Alice—sedevamo a un estremo della tavolata. Adesso che i più “vecchi” e, per qualche verso, terrificanti dei fratellastri Cullen si erano diplomati, Alice ed Edward non sembravano più tanto minacciosi, cosicché non restavamo seduti da soli. Il gruppo dei miei compagni—Mike e Jessica (che erano nella fase di amicizia imbarazzata del dopo-sfidanzamento), Angela e Ben (la cui unione era sopravvissuta all’estate), Eric, Conner, Tyler e Lauren (l’unica che non rientrasse davvero nella categoria degli amici)—occupava il resto dei posti, separato da un confine invisibile. Confine che si dissolveva senza difficoltà nei giorni di sole, in cui Edward e Alice non si presentavano e le chiacchiere giungevano spontanee fino a me.

A Edward e Alice quell’ostracismo su scala ridotta non sembrava né strano né irritante come lo trovavo io. Quasi non se ne accorgevano. La gente si sentiva sempre piuttosto a disagio in presenza dei Cullen, quasi impaurita, per ragioni tutto sommato inspiegabili. Io ero una curiosa eccezione alla regola. A volte, Edward era perplesso da quanto mi sentissi a mio agio accanto a lui. Temeva di poter mettere a rischio la mia incolumità, ipotesi che mi rifiutavo con decisione di considerare.

Il pomeriggio trascorse in fretta. Alla fine delle lezioni, Edward mi accompagnò al pick-up, come al solito. Ma stavolta mi sorprese, aprendomi la portiera del passeggero. Probabilmente della sua auto si era occupata Alice, in modo che lui potesse impedirmi la fuga.

Incrociai le braccia e non mi spostai di un millimetro, restando sotto la pioggia. «È il mio compleanno, non mi è concesso di guidare?».

«Sto fingendo che non lo sia, come hai chiesto tu».

«Se non è il mio compleanno, stasera non sono obbligata a venire a casa tua...».

«Va bene». Chiuse la portiera e andò ad aprire quella del guidatore. «Buon compleanno».

«Sssh...». Cercai di zittirlo, senza troppo entusiasmo. Mi arrampicai al posto di guida, rimpiangendo che non avesse insistito.

Mentre guidavo, Edward giocherellava con la radio e scuoteva la testa in segno di disapprovazione.

«La ricezione è davvero pessima».

Aggrottai le sopracciglia. Non mi piaceva sentirlo criticare il mio mezzo. Era un signor pick-up: aveva una gran personalità.

«Vuoi un impianto migliore? Guida la tua macchina». Il piano di Alice aveva aggiunto talmente tanto nervosismo al mio umore già grigio da rendermi più acida di quanto desiderassi. Con Edward non perdevo mai la calma e di fronte alla mia rispostaccia trattenne a stento le risate.

Parcheggiai di fronte a casa di Charlie ed Edward mi si avvicinò prendendo il mio viso tra le mani. Mi sfiorava con delicatezza, premendo la punta delle dita sulle mie tempie, le guance, il profilo del mento. Come fossi un oggetto fragilissimo. Ed era proprio cosi, soprattutto in confronto a lui.

«Dovresti essere di buonumore. Se non oggi, quando?», sussurrò. Sentivo sul viso il suo dolce respiro.

«E se non volessi essere di buonumore?», chiesi, col fiato corto.

I suoi occhi ardevano dorati. «Peccato».

Quando si fece ancora più vicino e posò le labbra ghiacciate sulle mie, la testa mi girava già. Proprio come voleva, riuscì a farmi dimenticare qualsiasi affanno, occupata com’ero a ricordarmi di inspirare ed espirare.

La sua bocca, fredda, morbida e delicata, indugiò sulla mia, finché non lo strinsi forte e mi gettai nel bacio con un eccesso di entusiasmo. Lo sentii sorridere, mentre si allontanava e scioglieva l’abbraccio.

Per salvarmi la vita, Edward aveva posto molti confini di sicurezza alla nostra relazione fisica. Benché rispettassi il suo bisogno di mantenere una certa distanza tra la mia pelle e i suoi denti affilati come rasoi e zeppi di veleno, quando mi baciava tendevo a dimenticare particolari così insignificanti.

«Fai la brava, per favore», sussurrò a un centimetro dal mio collo. Posò di nuovo le labbra sulle mie, con delicatezza, e sciolse definitivamente l’abbraccio incrociandomi le braccia sullo stomaco.

Sentivo un battito martellante nelle orecchie. Mi posai una mano sul cuore. Lo sentivo battere all’impazzata.

«Pensi che migliorerò mai?», chiesi più a me stessa che a lui. «Che un giorno il mio cuore la smetterà di cercare di uscirmi dal petto ogni volta che mi sfiori?».

«Spero proprio di no», mi rispose vagamente compiaciuto.

Alzai gli occhi al cielo. «Adesso andiamo a vedere i Capuleti e i Montecchi che si fanno a pezzi, d’accordo?».

«Ogni tuo desiderio è un ordine».

Edward si lasciò sprofondare nel divano mentre facevo partire il film, saltando i titoli di testa. Quando mi accomodai anch’io sul bordo, davanti a lui, mi cinse i fianchi con un abbraccio e mi strinse al petto. Certo, non era comodo come il cuscino del divano, duro e freddo—e perfetto—come una scultura di ghiaccio, ma lo preferivo assolutamente. Afferrò il vecchio plaid sullo schienale del sofà e mi ci avvolse, per non congelarmi con il suo corpo ghiacciato.

«Sai, Romeo mi ha sempre dato sui nervi», commentò all’inizio del film.

«Cosa c’è che non va in Romeo?», chiesi leggermente offesa. Era uno dei miei personaggi preferiti. Prima di incontrare Edward mi ero quasi presa una cotta per lui.

«Be’, prima di tutto è innamorato di questa Rosalina... Non ti pare un po’ volubile, il ragazzo? Poi, qualche minuto dopo il matrimonio, uccide il cugino di Giulietta. Poco intelligente, davvero. Un errore dopo l’altro. Peggio di così non avrebbe potuto fare per demolire la propria felicità».

Feci un sospiro. «Vuoi che lo guardi da sola?».

«No, non preoccuparti, tanto io resto qui a guardare te». Con le dita tracciava disegni immaginari sul mio braccio, facendomi venire la pelle d’oca. «Pensi che piangerai?».

«Probabilmente sì, se seguo la trama».

«Allora cercherò di non distrarti». Ma sentivo le sue labbra sui capelli e quelle mi distraevano, altroché.

Il film riuscì a catturare la mia attenzione, soprattutto grazie a Edward che mi sussurrava nell’orecchio le battute di Romeo. In confronto alla sua voce vellutata e irresistibile, quella del protagonista sembrava rauca, debole. E, con suo gran divertimento, piansi quando Giulietta si svegliò e trovò il marito morto.

«Ti confesso che qui lo invidio un po’», disse Edward, asciugandomi le lacrime con una ciocca dei miei capelli.

«In effetti lei è molto carina».

Rispose con un’espressione disgustata. «Non gli invidio la ragazza... ma la facilità con cui si è suicidato», precisò, punzecchiandomi. «Per voi umani è così facile! Vi basta buttare giù una fialetta di estratto vegetale...».

«Cosa?», esclamai.

«Una volta ci ho dovuto pensare, e grazie all’esperienza di Carlisle sapevo che non sarebbe stato semplice. Non so neanche a quanti tentativi di suicidio sia sopravvissuto lui, all’inizio... dopo essersi reso conto di ciò che era diventato...». Da serio, il suo tono si rifece ironico. «Oltretutto, è ancora in forma smagliante».

Mi voltai per guardarlo in faccia. «Cosa stai dicendo? Cosa vuol dire che una volta ci hai dovuto pensare?».

«La primavera scorsa, quando hai rischiato di... morire...». Fece una pausa per respirare, sforzandosi di apparire ancora rilassato e ironico. «Ovviamente cercavo di concentrarmi per ritrovarti ancora viva, ma una parte di me valutava tutte le alternative. Come ho detto, per me non è facile come per gli esseri umani».

Per un secondo, il ricordo del mio ultimo viaggio a Phoenix mi esplose nella mente frastornandomi. Rivedevo tutto molto chiaramente—il sole accecante, il calore che saliva dal cemento mentre correvo svelta e disperata verso il sadico vampiro che voleva torturarmi a morte. Verso James, che mi aspettava nella sala degli specchi tenendo in ostaggio mia madre—almeno, così credevo. Non avevo capito che era tutto un imbroglio, proprio come James non aveva capito che Edward stava correndo a salvarmi. Ci riuscì per un pelo. Involontariamente, tracciai con le dita il contorno della cicatrice a mezzaluna che portavo sulla mano, sempre un po’ più fredda del resto della mia pelle.

Scossi la testa, come per liberarmi dei brutti ricordi, e cercai di capire cosa volesse dire Edward, mentre mi si apriva una voragine nello stomaco. «Di quali alternative parli?», domandai.

«Be’, non sarei mai riuscito a vivere senza di te». Alzò gli occhi al cielo, come se fosse una considerazione ovvia e infantile. «Ma non sapevo come avrei fatto... sapevo di non poter contare su Emmett e Jasper... perciò pensai di andare in Italia, a scatenare l’ira dei Volturi».

Non potevo credere che dicesse sul serio, ma i suoi occhi dorati risplendevano, fissi su un punto lontano, mentre ripensava a quando aveva deciso di mettere fine alla propria vita. D’un tratto fui presa dalla rabbia.

«Cosa sono i Volturi?», chiesi.

«Una famiglia», rispose ancora con lo sguardo lontano. «Una famiglia di nostri simili, molto antica e potente. Quanto di più vicino abbiamo a una casata reale, più o meno. Da giovane, prima di trasferirsi in America, Carlisle ha vissuto per un po’ con loro in Italia... ricordi la storia?».

«Certo che sì».

Non avrei mai potuto dimenticare la mia prima visita a casa Cullen, l’enorme villa di campagna nascosta nel cuore della foresta vicino al fiume, né la stanza in cui Carlisle—sotto molti aspetti un vero padre per Edward—conservava una parete zeppa di dipinti che raccontavano la storia della sua vita. La tela più vivace, colorata e sgargiante veniva dal periodo che aveva trascorso in Italia.

Ovviamente, ricordavo il quartetto di uomini ritratti in atteggiamento rilassato e con espressione serafica sul balcone più alto che sovrastava il turbine di colori. Benché il quadro fosse antico di secoli, Carlisle, l’angelo biondo, non era cambiato. E ricordavo gli altri tre, i suoi primi amici. Edward non aveva mai usato il nome “Volturi” per il bellissimo trio, due uomini dai capelli neri, l’altro con la chioma bianca come la neve. Li aveva chiamati Aro, Caius e Marcus, protettori notturni delle arti...

«Comunque sia, i Volturi non vanno fatti arrabbiare», proseguì Edward, interrompendo il mio sogno a occhi aperti. «A meno che non si cerchi la morte, o qualunque altra cosa ci tocchi». La sua voce era talmente calma da far apparire banale anche quella prospettiva.

La mia rabbia si trasformò in orrore. Presi il suo volto marmoreo tra le mani e lo strinsi forte.

«Non devi mai, mai, mai più pensare a una cosa del genere!», dissi. «Non importa ciò che potrebbe accadere a me, non ti permetterò di fare del male a te stesso!».

«È un discorso inutile... non ti metterò mai più in pericolo».

«Come se fosse colpa tua! Mi sembrava che avessimo deciso che sono io ad attirare le disgrazie». La rabbia cresceva. «Come ti passa per la testa una cosa del genere?». La sola idea della scomparsa di Edward, anche dopo la mia morte, scatenava un dolore insopportabile.

«E tu, cosa faresti se i ruoli fossero invertiti?», domandò.

«Non è la stessa cosa».

Non sembrava cogliere la differenza. Soffocò una risata.

«Se succedesse qualcosa a te?», chiesi, e a quel pensiero impallidii. «Preferiresti che anch’io mi togliessi di mezzo?».

Sui suoi lineamenti perfetti apparve un’ombra di sofferenza.

«Adesso, penso di capirti... un po’», ammise. «Ma cosa farei io senza di te?».

«Quello che facevi prima che arrivassi a complicarti l’esistenza».

Sospirò. «Per te è tutto così facile».

«Lo è. In fondo non sono così interessante».

Stava per controbattere, ma preferì lasciar perdere. «Discorso inutile», ribadì. Di scatto si ricompose, allontanandomi con delicatezza e facendomi scivolare accanto a lui.

«È Charlie?», chiesi.

Sorrise. Dopo un istante, sentii il rumore dell’auto della polizia che entrava nel vialetto di casa. Strinsi forte la mano di Edward. Era il massimo che mio padre potesse sopportare.

Charlie entrò, con una scatola di pizza tra le mani.

«Ciao, ragazzi». Mi fece un gran sorriso. «Pensavo che almeno il giorno del tuo compleanno ti facesse piacere non dover cucinare né lavare i piatti. Fame?».

«Eccome. Grazie, papà».

Charlie non fece commenti sull’apparente mancanza di appetito di Edward. Era abituato a vederlo saltare la cena.

«È un problema se prendo in prestito Bella, per stasera?», chiese Edward a Charlie quando finimmo di mangiare.

Guardai mio padre. Magari considerava il compleanno un affare di famiglia, con l’obbligo di restare in casa: era il primo che trascorrevo con lui, il primo da quando mia madre Renée si era risposata ed era andata a vivere in Florida, perciò non sapevo cosa aspettarmi.

«Va bene... stasera i Mariners giocano contro i Sox», spiegò Charlie facendo svanire le mie speranze, «perciò non sarò molto di compagnia... qui». Pescò la macchina fotografica che mi aveva regalato, su suggerimento di Renée (con le foto avrei riempito il suo album), e me la lanciò.

Sapeva che non avrebbe dovuto, avevo da sempre qualche fastidioso problema di coordinazione. La macchina mi sfiorò la punta delle dita e cadde per terra. Edward l’afferrò prima che toccasse il linoleum.

«Bella presa», commentò Charlie. «Se stasera dai Cullen ci sarà da divertirsi, Bella, è meglio che scatti qualche foto. Sai com’è tua madre... vorrà vederle ancora prima che tu le faccia».

«Buona idea, Charlie», disse Edward porgendomi la macchina.

La puntai verso di lui e scattai la prima foto. «Funziona».

«Meno male. Ehi, saluta Alice da parte mia. È da un po’ che non la vedo». Una piega amara spuntò da un angolo della bocca di Charlie.

«Da soli tre giorni, papà», gli ricordai. Charlie adorava Alice. Le si era affezionato la primavera precedente, quando mi aveva aiutato durante la mia goffa convalescenza. Charlie le era eternamente grato per avergli evitato l’incubo di dover far la doccia a una figlia quasi adulta. «Glielo dirò».

«Bene. E stasera divertitevi, ragazzi». Con questo ci congedò. Era già pronto ad appropriarsi di salotto e TV.

Edward sorrise trionfante e mi accompagnò per mano fuori dalla cucina.

Giunti al pick-up, mi aprì di nuovo la portiera del passeggero e stavolta non protestai. Al buio mi risultava sempre difficile trovare la deviazione nascosta che portava a casa sua.

Edward attraversò Forks, diretto a nord, visibilmente irritato dal limite di velocità a cui lo costringeva il mio Chevy preistorico. Il motore cigolava più del solito, mentre superavamo gli ottanta all’ora.

«Vacci piano», avvertii Edward.

«Sai cosa farebbe per te? Una bella Audi coupé. Silenziosa e potentissima...».

«Il mio pick-up è perfetto. A proposito di oggetti costosi e superflui, se avessi un po’ di buonsenso non spenderesti un soldo in regali di compleanno».

«Nemmeno un centesimo», fece lui.

«Bene».

«Mi fai almeno un favore?».

«Dipende dal favore».

Fece un sospiro, un’espressione seria apparve sul suo volto adorabile. «Bella, l’ultimo di noi a festeggiare un vero compleanno è stato Emmett, nel 1935. Cerca di capirci, e questa sera non fare troppo la difficile. Sono tutti su di giri».

Quando toccava certi argomenti non riuscivo a non sentire un leggero brivido. «D’accordo, mi comporterò bene».

«Forse dovrei metterti in guardia...».

«Ti prego, fallo».

«Quando dico che sono tutti su di giri... intendo proprio tutti».

«Tutti?». Quasi soffocai. «Pensavo che Emmett e Rosalie fossero in Africa». A Forks si diceva che i due maggiori dei fratelli Cullen fossero andati al college, a Dartmouth, ma io la sapevo lunga.

«Emmett ci teneva».

«E... Rosalie?».

«Lo so, Bella. Non preoccuparti. Farà del suo meglio».

Non risposi. Come se fosse facile non preoccuparmi. Rosalie, la deliziosa e biondissima sorella di Edward, a differenza di Alice tollerava a malapena la mia presenza. Anzi, nei miei confronti provava qualcosa di peggio che semplice antipatia. Per lei ero un’intrusa indesiderata nella vita privata della sua famiglia.

Mi sentivo orrendamente in colpa, convinta com’ero di essere la responsabile dell’assenza prolungata di Emmett e Rosalie, anche se, per quanto riguardava quest’ultima, ero segretamente lieta di non doverla frequentare. Invece Emmett, il simpatico fratello-orso di Edward, mi mancava davvero. Per molti versi era il fratello maggiore che non avevo mai avuto... soltanto molto più spaventoso.

Edward decise di cambiare discorso. «Allora, se non ti va bene l’Audi, che altro regalo vuoi?».

Risposi mormorando: «Sai bene cosa voglio».

Aggrottò le sopracciglia e sulla fronte marmorea comparve una ruga profonda. Probabilmente avrebbe preferito continuare a parlare di Rosalie.

Sembrava che avessimo passato tutto il giorno a discuterne.

«Non stasera, Bella, ti prego».

«Be’, allora magari sarà Alice a darmi ciò che voglio».

Edward ringhiò, un suono profondo e minaccioso. «Questo non sarà il tuo ultimo compleanno, Bella», dichiarò.

«Non è giusto!».

Mi parve di sentirlo digrignare i denti.

Ci avvicinavamo alla meta. Le finestre dei primi due piani di casa Cullen erano tutte accese. Appesa alla veranda spiccava una fila di lanterne giapponesi, il cui bagliore si rifletteva delicato sugli enormi cedri che circondavano l’edificio. Grossi vasi di fiori—rose rosa—decoravano la scalinata di fronte alla porta principale.

Mi lasciai sfuggire un gemito.

Edward fece qualche respiro profondo per calmarsi. «È una festa», ribadì. «Cerca di fare la brava ragazza».

«Certo», mormorai.

Scese ad aprirmi la portiera e mi offrì la mano.

«Ho una domanda».

Restò in attesa, allarmato.

«Se sviluppo questo rullino», dissi giocando con la macchina fotografica, «vi si vedrà nelle foto?».

Scoppiò a ridere. E, senza mai smettere, mi aiutò a scendere, mi guidò lungo le scale e aprì la porta di casa.

Mi aspettavano tutti nel grande salotto bianco; quando entrai mi salutarono in coro, con un «Buon compleanno, Bella!», mentre io, a occhi bassi, arrossivo. Qualcuno, probabilmente Alice, aveva ricoperto ogni centimetro libero di candele rosa e dozzine di vasi di cristallo colmi con centinaia di rose. Su un tavolo, vicino al pianoforte a coda di Edward, sopra una tovaglia bianca spiccavano una torta di compleanno rosa, altri fiori, una pila di piatti di vetro e una piccola montagna di regali avvolti in carta argentata.

Cento volte peggio di quanto immaginassi.

Edward si accorse del mio disagio e per incoraggiarmi mi strinse forte con un braccio, baciandomi sul capo.

Carlisle ed Esme, i suoi genitori—incredibilmente giovani e carini come sempre—erano i più vicini alla porta. Esme mi abbracciò con cautela, sfiorandomi il viso con i capelli morbidi color caramello mentre mi baciava sulla fronte, e Carlisle mi cinse le spalle.

«Mi dispiace, Bella», sussurrò, «ma non siamo riusciti a trattenere Alice».

Dietro di loro c’erano Rosalie ed Emmett. Rosalie non sorrideva, ma perlomeno non m’incenerì con lo sguardo. Il volto di Emmett era illuminato dal sorriso. Non ci vedevamo da mesi e mi ero dimenticata di quanto straordinariamente bella fosse lei—bella quasi da star male. Ed Emmett, era sempre stato così... grosso?

«Non sei cambiata per niente», disse lui fingendosi deluso. «Mi aspettavo di trovarti cambiata e invece eccoti qui, con le guance rosse di sempre».

«Grazie mille, Emmett», risposi arrossendo ancora di più.

Rise. «Devo uscire un attimo», fece una pausa e strizzò l’occhio ad Alice. «Non combinare guai, mentre sono via».

«Ci provo».

Alice lasciò la mano di Jasper e mi si avvicinò, il sorriso sfavillante sotto le luci accese. Anche Jasper sorrideva, mantenendo le distanze. Alto e biondo, era appoggiato al corrimano, ai piedi della scala. Dopo i giorni in cui eravamo stati costretti a tenerci nascosti a Phoenix, pensavo che avesse superato l’avversione nei miei confronti. Invece, appena libero dall’obbligo di proteggermi, era tornato esattamente al punto di partenza, evitandomi ogni volta che poteva. Sapevo che non era una questione personale, ma soltanto una precauzione, e cercavo di non mostrarmene troppo toccata. Jasper aveva ancora qualche problema di adattamento alla dieta dei Cullen: gli era molto più difficile, rispetto agli altri, resistere all’odore del sangue umano, dato che era il meno allenato della famiglia.

«È ora di aprire i regali», dichiarò Alice. Mi prese a braccetto, con la mano fredda, e mi trascinò fino al tavolo con la torta e i pacchetti luccicanti.

Sfoderai la mia migliore espressione da martire. «Alice, ti avevo detto che non volevo nulla...».

«E io non ti ho ascoltata», m’interruppe, sfacciata. «Apri». Mi tolse di mano la macchina fotografica e la rimpiazzò con una grossa scatola quadrata e argentata.

Era tanto leggera da sembrare vuota. Il biglietto diceva che era un regalo di Emmett, Rosalie e Jasper. Senza pensarci, strappai la carta e fissai la scatola.

Era qualcosa di elettrico, con un nome pieno di numeri. Aprii la scatola per capirci qualcosa di più, ma in effetti era vuota.

«Ehm... grazie».

Rosalie riuscì addirittura a sorridere. Jasper sghignazzò. «È un’autoradio per il tuo pick-up», spiegò. «Emmett è andato subito a installarla, così non la potrai rifiutare».

Alice mi precedeva sempre.

«Jasper, Rosalie... grazie», dissi con un sorriso, e ripensai alle lamentele di Edward a proposito della radio, quel pomeriggio: evidentemente era tutto combinato. «Grazie, Emmett!», gridai.

Sentii la sua risata tonante rimbombare dal pick-up e anch’io non riuscii a trattenere un sorriso.

«Adesso apri quello mio e di Edward», disse Alice, così entusiasta che la sua voce somigliava a un trillo acutissimo. In mano aveva un piccolo involucro, quadrato e piatto.

Mi voltai e rivolsi a Edward uno sguardo inceneritore. «Avevi promesso».

Prima che potesse rispondere, rispuntò Emmett. «Appena in tempo!», esclamò. Spinse avanti Jasper, che si era avvicinato più del solito per guardare meglio.

«Non ho speso un centesimo», mi rassicurò Edward. Scostò una ciocca di capelli dal mio viso, e un fremito passò sulla mia pelle.

Feci un respiro profondo e mi rivolsi ad Alice. «Dammi», dissi rassegnata.

Emmett ridacchiò divertito.

Afferrai il pacchetto, lo sguardo puntato su Edward, mentre infilavo il dito sotto il bordo del rivestimento per strappare il nastro.

«Oh, cavolo», mormorai, quando la carta mi tagliò il dito; lo alzai per esaminare il danno. Dalla ferita invisibile colava una minuscola goccia di sangue.

Poi accadde tutto molto velocemente.

«No!», ruggì Edward.

Si lanciò verso di me scagliandomi dall’altra parte del tavolo, che si rovesciò insieme alla torta, ai regali, ai fiori e piatti. Atterrai in una pioggia di frammenti di cristallo.

Jasper si scontrò con Edward e il fragore fu lo stesso di una valanga di rocce.

Si sentì un altro suono, un ringhio raccapricciante e cavernoso che nasceva dal petto di Jasper. Cercò di sfuggire alla presa di Edward, mordendo l’aria a pochi centimetri dal suo viso.

Emmett lo afferrò da dietro un istante dopo, bloccandolo nella sua presa d’acciaio, ma Jasper si dimenava, gli occhi impazziti e vuoti puntati verso di me.

Oltre allo spavento, sentivo anche una fitta lancinante. Ero caduta vicino al pianoforte, gettando le braccia in avanti per proteggermi, in mezzo alle schegge di vetro affilate. Dal polso al gomito, ormai il dolore m’invadeva, acuto e bruciante.

Confusa e disorientata, cercai di non badare al rosso vivo del sangue che mi colava dal braccio... e incrociai gli sguardi eccitati di sei vampiri improvvisamente famelici.

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