VIII

Alle 14,51, Roan arrivò all’edificio che ospitava la J. D. Walsh. Nella sua testa s’intrecciava un garbuglio di avvertimenti, dati tecnici e consigli strategici. Apparve sul transplat del magazzino, non negli uffici, poiché aveva con sé una lunga cassa di legno che piazzò su un carrello. Poi spinse il suo carico nel corridoio che portava all’ala dell’amministrazione.

— Oh, Celibe Walsh, posso aiutarla?

— No, Nubile Corson. Ma aspetti… sì, venga qui. — Afferrò fra le mani guantate un’estremità della cassa e fece un cenno con il capo all’emozionata segretaria. — La prenda da quel lato.

Lei esitò, poi permise che i suoi guanti fossero in vista per un momento prima di agguantare il contenitore. Lo girò fuori dal carrello e cominciò a sollevare la sua estremità.

Non da quella parte, testa di legno!

Roan cadde all’indietro per la sorpresa. La Nubile Corson, gravata da quel peso considerevole, riuscì a puntellarsi con un ginocchio sul carrello. Seduto sul pavimento lui ansimò: — Chi ha parlato?

— Ahu! — squittì la segretaria. — È pesante!

— La lasci giù. Dio mio, Nubile Corson, lei è forte come un cavallo!

— Questa è la cosa più carina che lei mi abbia mai detto — belò la donna, compiaciuta.

Una volta nel suo ufficio Roan si volse a scrutare il volto di lei, rosso ed eccitato. — Nubile Corson, cos’ha detto sul fatto che stavamo sollevando la parte sbagliata?

— Io non ho detto nulla, Celibe Wash.

L’ho detto io.

— Grazie, può andare — la congedò lui, e vedendo che continuava a ciondolargli attorno aggiunse: — Non ho bisogno di altro, mi creda. Grazie.

La donna uscì, e appena la porta fu chiusa Roan si guardò attorno. — Nonnina! Dove sei?

Giusto davanti al suo volto comparve l’estremità appuntita di un focalizzatore per raggi audio. Lui gli diede un colpettino soddisfatto e l’oggetto svanì. Era rassicurante sapere che la vecchia donna sorvegliava sullo schermo della sua grossa apparecchiatura, con un raggio audio puntato costantemente su di lui.

Alle 15,59 e qualche secondo l’intercom disse: — Roan Walsh, hai il permesso di entrare.

— Vengo subito, Privato. — L’ordine l’aveva fatto irrigidire. Com’era possibile che, pur capace di trattare disinvoltamente con chiunque, la voce di suo padre lo trasformasse ancora in una gelatina tremante?

Ma quelle riflessioni potevano aspettare. Passò nell’ufficio accanto e si fermò nella posa prescritta.

— Vieni, vieni… avvicinati. Posso fare diverse cosette con te, ma morderti non è fra quelle.

Roan restò dov’era. — Ho il permesso del Privato di portare dentro un’attrezzatura?

— Hai il mio permesso di portare qui quei documenti, revisionati o meno. Nient’altro.

— Il Privato mi costringe a fare a meno proprio della prova che lui stesso mi ha incaricato di esibire — disse lui, rigido.

— Ah, sì? — La barba, la cui parte inferiore era celata entrò il mantello dell’intimità, ebbe una contrazione pensierosa. — Molto bene. Ma devo avvertirti: a me risulta che non hai vie d’uscita, giovanotto. Neppure una!

Roan trascinò dentro l’apparecchiatura, in posizione verticale. Stava tremando per l’apprensione, ma udibile soltanto a lui la voce di Nonnina disse: Abbi fiducia in me.

Benché fosse di fronte a suo padre, riuscì quasi a sorridere. Con un ultimo sforzo girò il parallelepipedo di metallo dalla parte giusta.

La barba emise un grugnito: — Che diavolo è quello?

— La mia prova, Privato. — Calmo all’esterno, tremante all’interno, aprì la parte superiore dell’apparecchio e ne trasse fuori le due coppie di corna mobili. Ognuna di esse era vuota con una luce azzurrina che vi aleggiava dentro. Roan le girò in avanti.

— Ti ho fatto una domanda — ruggì il Privato.

— Chiedo la sua paziente comprensione — rispose lui.

Quale comprensione? La risatina femminile che gli aleggiò all’orecchio fu un balsamo per Roan.

— Sono pronto, Privato. Posso usare ora qualche piccolo oggetto… la sua penna, magari, o un libriccino?

— Mi hai rubato del denaro e stai rubando il mio tempo. Hai intenzione di rovinare anche oggetti di mia proprietà?

Che ne diresti di sputargli in un occhio?

Roan alzò gli occhi al cielo con espressione così sofferente che la voce gli concesse un sospiro: Scusami. È solo per farti sapere che sono dalla tua parte, zucchero.

Zucchero! Aveva assaggiato per la prima volta lo zucchero nel suo «sogno». Era un dolce soprannome da dare a qualcuno, e si chiese perché nessuno ci avesse mai pensato prima. Guardò negli occhi il Privato. — Se usassi un oggetto di mia proprietà si potrebbe sospettare che l’ho predisposto.

— Sospetto che tu abbia già fin troppo predisposto ciò che hai portato nel mio ufficio — grugnì il vecchio. — Qui c’è il mio vecchio fermacarte; risale al tempo in cui l’edificio aveva ancora finestre di vetro apribili all’esterno. Se gli accadesse qualcosa…

— Sì, può andare — annuì Roan, soppesando l’oggetto. Non lo ringraziò, e notò che il Privato inarcava un sopracciglio. — Vuole adesso gentilmente indicarmi un punto del pavimento?

Con un’espressione di santa pazienza il Privato gettò al suolo una delle sue penne, che rotolò fin presso una parete. Roan poggiò il fermacarte lì accanto, sulla moquette.

— Un altro favore ancora. Un punto della sua scrivania abbastanza libero da contenere quel fermacarte.

— Che stupidaggini sono queste? Vai a prendere la documentazione e stabiliremo subito l’entità del tuo crimine! Non vedo cosa c’entri…

Non lasciarlo salire in cattedra. Cerca tu il punto adatto e chiedi se gli sta bene.

Come un uomo in una tempesta di neve, Roan avanzò nell’imperversare di quei ruggiti e poggiò una mano sulla scrivania.

— Questo punto può andare? — esclamò, interrompendolo.

Il Privato tacque di colpo, stupefatto da quell’ardire, e i due uomini si fissarono entrambi senza fiato. Fu Roan a riprendersi per primo. Il vecchio era incollato allo schienale della sua poltrona, la barba scossa da un fremito. Nonnina ridacchiò divertita. Roan prese le due corna che emergevano da uno dei supporti sferici dell’apparecchio e le girò in modo che ognuna di esse puntasse sul fermacarte.

— I modelli che andranno in produzione funzioneranno su distanze molto maggiori — spiegò, mentre lavorava. — Questa è solo una dimostrazione. — Gli altri due raggi invisibili furono centrati sulla scrivania. — Sono pronto, Privato.

— Pronto per cosa? — ringhiò lui. Poi deglutì come se avesse inghiottito una pietra perché Roan aveva toccato un pulsante e nello stesso momento il fermacarte s’era materializzato sulla scrivania, giusto nel punto dove s’erano proiettati i due circoletti sovrapposti di luce azzurra. Allungò una mano incredula, esitò, poi ricadde indietro sulla poltrona. — Fallo ancora!

Roan invertì la posizione di un cursore. Il fermacarte tornò ad apparire sulla moquette. — Per anni e anni ho fatto uso di ogni minuto libero, progettando e infine costruendo quest’apparecchiatura. Se il Privato pensa che essa non sarà utile a questa ditta e all’intera industria, e che il tempo necessario a realizzarla è stato sprecato o rubato, allora sarò lieto di sottomettermi alle misure punitive che…

— Non parliamone più, figliolo — disse la barba. Il Privato si alzò e aggirò la scrivania, fissando l’apparecchiatura come affascinato. — Sai bene che questo vecchio stava solo cercando di tenerti in riga.

È tuo!

— Si possono costruire modelli più grossi?

— Più capaci delle piattaforme dei transplat — annuì Roan.

— Ne hai già costruito uno maggiore di questo?

Rispondigli di sì!

— Sì, Privato.

Lentamente gli occhi del vecchio abbandonarono l’apparecchio e si spostarono sul volto di Roan. Lui provò la tentazione di ritrarsi, ma aveva la macchina proprio dietro di sé.

Non ti distrarre!

— Pensi che questo potrà essere meglio del transplat?

Sì. Digli di sì… anche se potrà contrariarlo, diglielo!

Roan scoprì di non riuscire a parlare. Annuì appena, con un tremito.

— Mmmh! — Il Privato girò intorno all’apparecchio e lo esaminò, anche se non c’era niente da vedere se non pannelli chiusi. — Dimmi — domandò gentilmente, — questa macchina è costruita secondo lo stesso principio del transplat?

La fronte di Roan s’imperlò di sudore. Desiderò poterselo asciugare, ma esibire così una mano guantata sarebbe stato ineducato. Lasciò scendere le goccioline sulla sopracciglia.

— No — sussurrò.

— Mi stai dicendo che questo è un macchinario di nuovo tipo… migliore del transplat! — Il Privato lo scrutò, e vedendolo rigido e immobile abbaiò improvvisamente: — Bugiardo!

Pallido in faccia e con la gola secca Roan dovette fare uno sforzo enorme per sostenere gli occhi fiammeggianti del Privato. — Un transplat non può far questo — disse, accennando al fermacarte.

— Tu stai mentendo! Se ci fosse davvero una macchina come questa tu non sapresti costruirla. Non sapresti neppure progettarla! Dove l’hai avuta?

Digli che l’hai costruita tu… presto!

— L’ho costruita io — ansimò Roan.

Il Privato strinse le palpebre. — Non la capisco — borbottò infine.

Roan non aveva mai visto il vecchio così sconvolto. La sua curiosità ebbe la meglio sulla tensione. — Cos’è che non capisce, Privato?

L’uomo si volse di scatto a fronteggiarlo: — Tu mi stai nascondendo qualcosa. Che cosa?

Ecco la domanda! Avanti, zucchero, ora digli che funziona con la TC.

Roan scosse il capo e si morse le labbra. Il Privato ruggì: — Rifiuti di rispondermi?

Diglielo! Digli della TC. Dillo, maledizione!

Roan si sentiva come spaccato in due. Nella cosa doveva esserci molto più di quel che ne sapeva lui. Cos’era a trattenerlo? Cosa gli stava legando la lingua, facendogli contrarre lo stomaco e bloccandogli la voce in gola?

Fidati di me, Roan. Fidati, soprattutto in questo.

Di colpo cedette, e con voce chioccia disse: — Questo è soltanto un localizzatore. La cosa funziona con l’energia psico-cinetica.

— L’energia cosa? Cosa? — Il Privato si rilassò così all’improvviso che parve boccheggiare.

— Si chiama TC. Telecinesi, un potere della mente.

— Dunque, in realtà non è affatto una macchina.

— Be’… sì, potremmo dire di sì. O almeno, questa è la mia teoria. — E d’un tratto dov’erano la lingua legata, lo stomaco contratto e la gola chiusa? Non c’erano più!

— Tu credi davvero in questa roba psichica?

Roan s’accorse di sorridere. — Funziona.

— Perché la tenevi nascosta?

— Lei avrebbe mai creduto in una cosa simile, Privato?

— Confesso di no.

— Be’, allora… vorrei finirla e collaudarla. Nient’altro.

— E poi che intendi farne?

Dagliela pure. La macchina, Roan… dagliela!

— Ecco, è vostra. Voglio dire, nostra. Della ditta. Che altro?

Dei due rumori che Roan udì, uno era quello di due mani guantate che si sfregavano insieme; l’altro era la risata acida di Nonnina. E non ti domanda neanche dov’era il tuo operatore psichico. Lo hai notato? Non gli passa neppure per la mente.

— Che ne pensi di lavorare con il Reparto Progetti per lo sviluppo della cosa? — domandò il Privato.

Accetta, zucchero, Io non ti lascerò nei pasticci.

— Benissimo — disse Roan.

— Non saprai mai… non puoi sapere cosa significa questo per me — disse il Privato. Per un attimo Roan temette che il vecchio gli desse una pacca su una spalla o facesse un altro gesto impensabile. — Io so riconoscere i miei errori. E pensare che avresti potuto trovarti a fare una brutta fine! Invece eccoti qua, a incrementare gli affari della ditta. Be’, hai dato una meritata lezione al tuo vecchio. Da ora in poi il tuo tempo sarà soltanto tuo. Lavora pure a tutto ciò che ti piace, ragazzo.

— Oh, questo non posso farlo, Privato.

Sì, per Dio! Sì che puoi! Sbottò la voce nel suo orecchio. E già che l’hai messo al tappeto, saltagli addosso: prenditi una casa per te.

Una casa tutta sua! Con una di quelle macchine TC sarebbe potuto andare dappertutto, ogni volta che avesse voluto. Poteva prendere con sé Val… e ritrovare Fiore!

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