Due ore più tardi, Franz Westen guardava dalla finestra aperta del proprio appartamento la torre della TV, che, colorata di bianco e di rosso vivo, illuminata dal sole del mattino, si alzava al di sopra della nebbia lattiginosa che copriva ancora il Monte Sutro e Twin Peaks, a cinque chilometri di distanza, e che faceva da sfondo alla sagoma gibbosa, color ocra chiaro, di Corona Heights. La torre della TV (la torre Eiffel di San Francisco, la si sarebbe potuta definire) aveva le spalle larghe, i fianchi stretti e le gambe lunghe di una donna bella ed elegante, o di una semidea. In quei giorni era la mediatrice tra Franz e l’universo, così come si suppone che l’uomo sia il mediatore fra gli atomi e le stelle. Guardarla, ammirarla, venerarla quasi, era il suo modo di salutare l’universo ogni mattina, di asserire la sua fede che vi fosse un contatto tra loro, prima di fare il caffè e di tornare a letto con la cartellina e i fogli per scrivere la dose giornaliera di storie d’orrore sovrannaturale e in particolare (il suo pane quotidiano) la versione romanzata del programma televisivo I segreti del sovrannaturale, in modo che la folla dei teleutenti potesse anche leggere, volendolo, qualcosa di analogo al miscuglio di stregoneria, scandali politici e cotte adolescenziali che vedevano sullo schermo. Un anno prima, o giù di lì, a quell’ora si sarebbe chiuso in se stesso, per rimuginare sulle proprie disgrazie e per pensare al primo bicchiere di liquore della giornata (ne aveva ancora, o la sera prima si era scolato tutta la bottiglia?) ma questo apparteneva al passato, era una cosa chiusa.
Lontano, tristi sirene da nebbia si avvertivano l’un l’altra. Per un attimo, Franz pensò a quel che accadeva a circa tre chilometri da lui, alle sue spalle, dove la Baia di San Francisco era coperta di nebbia, completamente, tolto le cime dei quattro piloni della prima campata del ponte per Oakland. Sotto la superficie della nebbia simile a vetro smerigliato, c’erano le file di automobili fumanti per l’impazienza e le navi che si passavano parola, mentre da sotto l’acqua e il fondo fangoso della baia, ma perfettamente udibile dai pescatori che attraversavano il mare sui loro piccoli battelli, giungeva il rombo misterioso della Bay Area Rapid Transit, la metropolitana rapida dell’area della Baia, i cui convogli sfrecciavano nelle gallerie subacquee per portare sul luogo di lavoro la massa dei pendolari.
Poi, danzando nell’aria che sapeva di mare, giunsero fino a lui le note dolci e allegre di un minuetto di Telemann, registrato da Cal, due piani sotto il suo. L’aveva messo per lui, si disse Franz, anche se Cal aveva vent’anni di meno. Diede un’occhiata al ritratto a olio di Daisy, la moglie morta, appeso sopra il letto dello studio, accanto a un disegno della torre TV, eseguito a linee nere, sottili come zampe di ragno, su un grande rettangolo di cartone fluorescente rosso, e non provò alcun senso di colpa. Tre anni di dolore e di alcolismo (una veglia funebre irlandese da Guinness dei primati!) glielo avevano tolto tutto, ed erano terminati quasi esattamente un anno prima.
Lo sguardo gli cadde sul letto dello studio, ancora mezzo da rifare. Sulla metà intatta, vicino alla parete, c’era una fila lunga, pittoresca e disordinata, di riviste, edizioni tascabili di romanzi di fantascienza, qualche romanzo giallo rilegato, ancora nel cellofane, qualche tovagliolo di carta colorato rubacchiato nei ristoranti, e una mezza dozzina di manualetti “Tutto sull’argomento, con foto a colori”: le sue letture del tempo libero, in contrapposizione al materiale di consultazione e ai suoi scritti, ordinatamente posati sul tavolino accanto al letto. Erano stati la sua principale, e spesso l’unica, compagnia durante i tre anni in cui aveva continuato a ubriacarsi e a guardare opacamente la televisione posta nell’altro lato della stanza, a prenderli in mano e a fissare stupidamente, di tanto in tanto, le loro pagine facili e colorate. Solo un mese prima si era improvvisamente accorto che quel mucchio di pubblicazioni allegre, sparse laggiù a caso, ricordava vagamente la sagoma di una donna snella e disinvolta, sdraiata accanto a lui sulle coperte, e che proprio per questo non le metteva mai sul pavimento, e si accontentava di mezzo letto, e inconsciamente le disponeva sotto forma di una figura femminile dalle gambe lunghissime. Erano una Amante dello Studioso, si era detto, analoga alla “moglie dell’olandese”, il cuscino lungo e sottile a cui, nelle zone tropicali, la gente si stringe nel sonno perché assorba il sudore: una segreta compagna di giochi, una squillo spigliata ma anche riflessiva, una sorellina snella e incestuosa, eterna compagna del suo lavoro di scrittore.
Con un’occhiata affettuosa al ritratto della moglie, e un tenero pensiero per Cal che continuava a mandare verso lui le sue note allegre, mormorò piano, con un sorriso di complicità, alla sottile forma cubista che occupava la parte interna del letto: — Non preoccuparti, cara, sarai sempre la mia preferita, anche se dovremo tenerlo nascosto a tutti — e tornò alla finestra.
Era stata la torre della TV, che sorgeva così alta e moderna sul Monte Sutro, con le tre lunghe gambe ancora immerse nella nebbia, a farlo ritornare alla realtà dopo la sua lunga evasione nei sogni degli ubriachi. All’inizio, aveva giudicato la torre incredibilmente volgare e sgargiante, un’intrusione ancora peggiore dei grattacieli in quella che era stata la più romantica delle città, l’incarnazione oscena del chiassoso mondo del commercio e della pubblicità, o addirittura, con le sue grandi strutture rosse e bianche contro lo sfondo del cielo azzurro (come adesso, al di sopra della nebbia) una raffigurazione della bandiera americana nei suoi aspetti peggiori: le strisce delle insegne dei barbieri e le stelle grasse, appariscenti, irreggimentate. Ma poi, contro la sua volontà, la torre lo aveva colpito con le sue luci rosse, che lampeggiavano di notte: ce n’erano così tante! Ne aveva contate diciannove: tredici fisse e sei intermittenti; e poi la torre, sottilmente, aveva guidato il suo interesse verso altri luoghi lontani, al paesaggio cittadino e alle stelle vere e proprie, così lontane, e, le notti più fortunate, alla luna, e alla fine lui si era di nuovo appassionato a tutte le cose vere, indipendentemente dalla loro natura. E il processo non si era più fermato: continuava ancora. Infine, Saul gli aveva detto, un paio di giorni prima:
«Non so se sia giusto, accogliere con gioia ogni nuova realtà. Potresti fare dei brutti incontri.»
«Bel discorso, da parte di uno psicologo clinico» aveva commentato Gunnar, mentre Franz aveva risposto subito:
«Certo. Ci sono anche i campi di concentramento. I germi patogeni.»
«Non intendevo precisamente questo» aveva replicato Saul. «Parlavo di certe cose incontrate dai miei pazienti dell’ospedale.»
«Ma quelle dovrebbero essere allucinazioni, proiezioni, archetipi e cose del genere, vero?» aveva osservato Franz, pensieroso. «Parti della realtà interiore, naturalmente.»
«Qualche volta non ne sono tanto sicuro» aveva detto lentamente Saul. «Chi può sapere che cosa è realmente successo, se un pazzo dice di avere appena visto un fantasma? È una realtà interiore, oppure esteriore? Chi può dirlo? Tu, Gunnar, cosa dici, quando uno dei tuoi computer comincia a dare risposte imprevedibili?»
«Dico che si è surriscaldato» aveva osservato Gunnar, con convinzione. «Ma ricorda che i miei computer, in partenza, sono degli individui normali, e non degli impallinati e degli psicopatici come i tuoi pazienti.»
«Che cosa significa “normale”?» aveva ribattuto Saul.
Franz aveva sorriso ai due amici, che occupavano due appartamenti posti nel piano tra il suo e quello di Cal. Anche Cal aveva sorriso, ma meno convinta.
Adesso, Franz guardò di nuovo fuori della finestra. Oltre il davanzale, c’era un tuffo verticale di sei piani, che passava davanti alla finestra di Cal: uno stretto pozzo tra l’edificio e quello adiacente, il cui tetto a terrazzo era quasi all’altezza del pavimento di Franz. Più avanti, a incorniciare sui due lati la visuale, c’erano le facciate posteriori, bianche come ossa e macchiate dalla pioggia, di due grattacieli che salivano sempre più su.
Lo spazio che rimaneva in mezzo ai due colossi era piuttosto stretto, ma gli permetteva di vedere tutta la realtà con cui doveva tenersi in contatto. Se ne voleva di più, bastava che salisse altri due piani fino al tetto, come faceva spesso, in quei giorni e in quelle notti.
Da quell’edificio, situato piuttosto in basso su Nob Hill, il mare di tetti scendeva per poi risalire, rimpicciolendo in lontananza, fino al banco di nebbia che ora mascherava il pendio verde scuro del Monte Sutro e la torre TV. Ma nella media distanza c’era una forma simile a una bestia in agguato, di colore bruno pallido nella luce del mattino, che si ergeva dal mare dei tetti.
Nella carta topografica era indicata semplicemente come Corona Heights. Da parecchie settimane, quell’altura stuzzicava la curiosità di Franz. Adesso, lui puntò il piccolo binocolo Nikon a sette ingrandimenti sulle pendici di terra spoglia e sulla cresta gibbosa, che spiccavano nitide contro la nebbia bianca. Si chiese perché nessuno vi avesse mai costruito. Nelle grandi città, certamente, c’erano delle strane intrusioni. Quella faceva pensare a un residuo, non ancora consumato dagli elementi, di rocce sotterranee affiorate durante i sommovimenti del terremoto del 1906, si disse, sorridendo di un’ipotesi così fantasiosa e poco scientifica. Che si chiamasse Corona Heights per la corona di grandi rocce ammassate irregolarmente sulla sua sommità? si chiese, regolando la ghiera della messa a fuoco; per un attimo, le rocce si stagliarono nitide e chiare sullo sfondo della nebbia.
Una roccia di colore bruno pallido, alquanto sottile, si staccò dalle altre e lo salutò con la mano. Maledizione, quel binocolo gli avrebbe fatto venire un infarto! Se qualcuno credeva che con un binocolo si vedesse bene, era perché non l’aveva mai provato. Oppure si trattava di una macchia della sua retina? Una di quelle briciole microscopiche che galleggiano nell’umore interno dell’occhio? No, ecco, adesso la vedeva di nuovo. Proprio come gli era sembrato: era una persona molto alta, con un impermeabile lungo o con una tonaca ampia, che si muoveva come se danzasse.
Anche con sette ingrandimenti, non si potevano scorgere i particolari delle figure umane, a tre chilometri di distanza: si ricavava solo una vaga impressione delle posizioni e dei movimenti. Tutti molto semplificati. Su Corona Heights c’era una figura scarna che si muoveva piuttosto rapidamente, certo, e che forse danzava tenendo le braccia alte e agitandole, ma era tutto quel che si riusciva a capire.
Nell’abbassare il cannocchiale, Franz sorrise all’idea di qualche hippy che salutava con una danza rituale il sole del mattino, su una collina posta in mezzo alla città, appena emersa dalla nebbia. E che cantava, anche, senza dubbio, se qualcuno fosse stato in grado di udirlo: senza dubbio, ululati lamentosi e sgradevoli come quelli delle sirene che si levavano ancora in lontananza, del tipo che ti agghiaccia il sangue se lo senti da vicino.
Doveva trattarsi di qualcuno dell’Haight-Ashbury, probabilmente. Il sacerdote drogato di qualche moderna divinità solare, che danzava nel suo piccolo, improvvisato Stonehenge in cima alla collina. In un primo momento, la cosa lo aveva sorpreso, ma adesso gli pareva soltanto una bizzarria.
All’improvviso, si levò il vento. Doveva chiudere la finestra? No, adesso l’aria era di nuovo immobile. Era stato soltanto un soffio capriccioso.
Posò il binocolo sulla scrivania, accanto a due libri vecchi e sottili. Quello che stava sopra, rilegato in tela color grigio sporco, era aperto al frontespizio, su cui si leggeva, nella composizione grafica e nei caratteri utilitaristici che lo qualificavano come un prodotto di fine Ottocento (il cattivo lavoro di un cattivo tipografo, senza alcuna preoccupazione di ordine artistico): Megalopolisomanzia: una nuova scienza urbanistica, di Thibaut De Castries.
Ora, quella sì che era una strana coincidenza! Si chiese se il sacerdote drogato, dalla lunga veste color terra (o la roccia danzante, se era solo per quello!) sarebbe stato qualificato da quel vecchio fissato di Thibaut come uno degli “eventi segreti” che si dovevano verificare nelle grandi città, a stare a quel che diceva nel presuntuoso, severo libro da lui scritto verso il 1890. Poi Franz si ripromise di leggerne qualche altra pagina, e anche qualche pagina dell’altro libro.
Ma non adesso, si disse all’improvviso, girandosi di nuovo verso il tavolino dov’era posato, sopra una busta commerciale grossa e pesante, già affrancata e indirizzata al suo agente di New York, il dattiloscritto della sua ultima trascrizione romanzata (I segreti del sovrannaturale, n. 7: Le torri del tradimento) ormai pronta per la spedizione, a parte un ultimo tocco descrittivo che si era ripromesso di controllare e di aggiungere: gli piaceva dare ai lettori qualcosa che valesse il denaro speso, anche se quella serie era pura narrativa d’evasione e costituiva un’attività marginale, tutt’al più, da parte sua.
Ma questa volta, si disse, avrebbe spedito il manoscritto senza tocco finale, e per quel giorno si sarebbe concesso una vacanza: anzi, cominciava ad avere una certa idea di che cosa farsene, di una giornata libera. Con solo un leggerissimo rimorso all’idea di defraudare un poco i lettori, si vestì, si preparò una tazza di caffè da portare giù da Cal e poi, come per un ripensamento, prese sotto braccio i due vecchi libri (voleva farli vedere alla ragazza) e infilò il binocolo nella tasca della giacca, casomai gli venisse la voglia di dare un’altra occhiata a Corona Heights e al suo pazzo dio delle rocce.