Un’ora più tardi, Franz saliva lungo Beaver Street e respirava profondamente per non dover avere, in seguito, il fiato corto. Aveva aggiunto a I segreti del sovrannaturale la frase sul Tempo che si schiariva la gola, aveva infilato il manoscritto nella busta e l’aveva spedito. Nell’uscire, si era messo il binocolo al collo, con l’apposita cinghia, come il protagonista di un romanzo d’avventura, e Dorotea Luque, che, nell’androne, stava aspettando il postino in compagnia di un paio di inquilini attempati, aveva chiesto allegramente: «Va a cercare qualcosa di spaventoso per scriverci poi le storie, eh?» E lui aveva risposto: «Sì, señora Luque. Espectros y fantasmas» in quello che gli sembrava un’accettabile parodia dello spagnolo. Poi, dopo avere percorso un paio di isolati e dopo essere sceso dal tram sulla Market Street, si era di nuovo messo in tasca il binocolo, insieme con la guida stradale che si era portato dietro. Sembrava un quartiere abbastanza tranquillo, ma era inutile sfoggiare troppo la propria ricchezza, e lui pensava che un binocolo fosse ancor più appariscente di una macchina fotografica. Peccato che le grandi città fossero diventate luoghi pericolosi, o godessero fama di esserlo. Prima, aveva quasi rimproverato Cal perché si preoccupava di rapinatori e pazzoidi, e adesso era lui a temerli. Comunque, era soddisfatto di essere partito da solo. L’esplorazione dei luoghi che in precedenza aveva studiato alla finestra era una nuova fase naturale del suo ritorno alla realtà, ma era una fase molto personale.
C’era relativamente poca gente per la strada, quella mattina. In quel momento non si vedeva nessuno. La sua mente si gingillò per qualche tempo con l’idea di una grande città moderna, divenuta all’improvviso completamente deserta, come la nave Marie Celeste o come l’albergo di lusso di quel film acuto e inquietante che era L’anno scorso a Marienbad.
Passò davanti alla casa di Jaime Donaldus Byers, una stretta costruzione di legno in stile gotico, ora verniciata in color oliva e oro, che faceva molto “vecchia San Francisco”. Forse poteva suonare il campanello, si disse, ma al ritorno.
Da quella zona non si scorgeva più Corona Heights. Era nascosta dagli edifici adiacenti (così come era nascosta la torre della TV). Mentre in lontananza la collina era quanto mai visibile (aveva potuto vedere bene il suo profilo dall’incrocio tra la Market e la Duboce Street) al suo avvicinarsi si era nascosta come una tigre di colore bruno chiaro, tanto che lui era stato costretto a prendere la cartina e ad aprirla per assicurarsi di non avere sbagliato direzione.
Dopo Castro, la strada diventò piuttosto ripida, e Franz si dovette fermare due volte a riprendere fiato.
Alla fine arrivò in una breve stradina trasversale senza sbocco, posta dietro un nuovo palazzo di appartamenti. In fondo era parcheggiata una berlina con due persone sul sedile anteriore… Poi Franz si accorse di avere scambiato per due teste i poggiatesta. Sembravano due pietre tombali, piccole e scure!
Dall’altra parte della strada, non si vedevano edifici, ma solo argini di sbancamento, verdi e marrone, che salivano a formare una cresta irregolare sullo sfondo del cielo azzurro. Capì di avere raggiunto Corona Heights, ma sul lato opposto a quello visibile da casa sua.
Dopo avere fumato tranquillamente una sigaretta, oltrepassò alcuni campi da tennis e alcuni prati, e s’incamminò lungo una rampa stretta e tortuosa, chiusa tra reticolati, e arrivò in un’altra strada cieca. Si voltò verso la direzione da cui era giunto, e scorse la torre della TV, enorme (e più bella che mai) a meno di un chilometro di distanza, eppure, chissà come, con le dimensioni giuste. Dopo un istante, si rese conto che adesso aveva le stesse dimensioni di quando la guardava al binocolo dal suo appartamento.
Si avviò verso la fine della strada e passò davanti a un lungo edificio di mattoni di un solo piano, che si presentava modestamente come Museo Josephine Randall Junior. C’era un camioncino con la scritta (di esecuzione piuttosto dilettantesca) “Sidewalk Astronomer”. Ricordò di averne sentito parlare da Bonita, la figlia della signora Luque: era il posto dove i bambini portavano gli scoiattoli addomesticati, i serpenti, i topi ballerini giapponesi e magari anche i pipistrelli da compagnia, quando per una ragione o per l’altra non erano più in grado di tenerli. E ricordò anche di avere visto, dalla finestra, il basso tetto dell’edificio.
Dove terminava la strada, c’era un breve sentiero che lo portò fino allo spartiacque della collina: giunto ad affacciarsi sull’altro versante, Franz scorse l’intera metà orientale di San Francisco, la baia, i due ponti.
Si oppose risolutamente alla tentazione di fermarsi a osservare tutto minuziosamente e si avviò verso la cima, percorrendo il faticoso sentiero coperto di ghiaia. Ben presto, però, cominciò a sentire la stanchezza. Dovette fermarsi varie volte per riprendere fiato, e posare saldamente i piedi a terra per non scivolare.
Quando ebbe quasi raggiunto il punto dove aveva visto per la prima volta i due escursionisti, si accorse all’improvviso di essere in preda a un’apprensione puerile. Quasi si pentiva di non avere portato con sé Saul o Gunnar, e rimpiangeva di non avere incontrato qualche altro escursionista serio e rispettabile, anche se vestito in modo sgargiante, o se rumoroso e chiacchierone. Al momento, avrebbe apprezzato perfino la compagnia di una radiolina portatile. Adesso prese a fermarsi non tanto per riprendere fiato, quanto per esaminare con cura ogni masso roccioso prima di girargli intorno, perché era convinto che se si fosse sporto troppo fiduciosamente a guardare quel che gli stava dietro, chissà quale faccia (o quale mostruosità priva di faccia) c’era il rischio che gli comparisse davanti.
Ma questo era davvero troppo puerile, si disse. Non era partito per conoscere il tizio sulla vetta e per capire che razza di mattoide fosse? Molto probabilmente si trattava di una persona mite, a giudicare dal vestito umile, dalla timidezza e dal desiderio di solitudine. Anche se ormai, probabilmente, se n’era già andato via.
Franz, comunque, continuò a studiare sistematicamente la zona, mentre saliva l’ultimo tratto del sentiero, che adesso era più dolce, fino alla cima.
Gli ultimi affioramenti di rocce (la Corona?) erano più vasti e più alti degli altri. Dopo avere atteso per qualche minuto (voleva cercare il percorso migliore, si disse), si arrampicò su tre cornicioni di roccia, ciascuno dei quali gli richiese di scavalcare un tratto piuttosto alto, e raggiunse la cima, dove poté fermarsi (con qualche attenzione, e piantando bene i piedi in terra, perché lassù il vento del Pacifico spirava forte), con tutta Corona Heights sotto di lui.
Fece lentamente un giro completo su se stesso, seguendo con lo sguardo l’orizzonte ma osservando minuziosamente tutti i massi rocciosi e tutti i pendii verdi e ocra che stavano sotto di lui, per familiarizzarsi con il nuovo ambiente e per accertarsi nello stesso tempo che su Corona Heights non ci fossero altre persone che lui.
Poi ridiscese di un paio di cornicioni e si accomodò su un sedile naturale di pietra rivolto a est, completamente al riparo dal vento. Si sentiva del tutto a suo agio e al sicuro in quel nido d’aquila, soprattutto con la presenza della grande torre della TV che s’innalzava dietro di lui come una dea protettrice. Mentre fumava tranquillamente un’altra sigaretta, esplorò a occhio nudo l’intera distesa della città e della baia, con le grandi navi che sembravano più piccole dei giocattoli, dal piccolo cuscino di fumo color verde chiaro sopra San José a sud fino alla piccola piramide indistinta di Mount Diablo alle spalle di Berkeley e, ancora più in là, a nord fino ai rossi piloni del Golden Gate e al monte Tamalpais dietro di esso. Era curioso constatare come si fossero spostati i punti di riferimento, adesso che li osservava dalla nuova posizione. In confronto alla prospettiva di cui godeva dal tetto, alcuni edifici del centro parevano essersi improvvisamente innalzati, mentre altri parevano volersi nascondere dietro i vicini.
Ancora una sigaretta, poi prese il binocolo, si passò la cinghia attorno al collo e cominciò a studiare questo e quello. Adesso le immagini erano ferme, non come la mattina. Ridacchiando, Franz lesse alcuni grandi cartelli, a sud della Market Street, sull’Embarcadero della Mission: soprattutto pubblicità di sigarette, birra e vodka (con l’onnipresente Black Velvet!) e le insegne di alcuni grossi locali con cameriere topless, roba per turisti.
Quando ebbe esaminato le acque lucenti, color dell’acciaio, della baia interna ed ebbe seguito il ponte fino a Oakland, concentrò l’attenzione sugli edifici del centro e presto scoprì, con un certo stupore, che da lassù era difficile riconoscerli. La distanza e la prospettiva alteravano in modo sottile i colori e le disposizioni. Inoltre, i grattacieli moderni erano piuttosto anonimi, senza insegne e senza nomi, senza statue sulla cima e senza croci o galletti segnavento, senza facciate e cornicioni caratteristici, senza la minima decorazione architettonica: c’erano solo grandi lastre lisce di pietra o di cemento o di vetro che brillavano al sole o si scurivano nell’ombra. Potevano davvero essere le “pantagrueliche tombe e le mostruose bare verticali dell’umanità vivente, il fertile terreno di riproduzione delle peggiori entità paramentali” di cui farneticava nel suo libro il vecchio De Castries.
Dopo un altro breve studio a sette ingrandimenti, in cui riuscì finalmente a riconoscere un paio di quei grattacieli elusivi, Franz lasciò il binocolo e tirò fuori dall’altra tasca il panino di carne che si era preparato prima di uscire. Nel toglierlo dalla carta e nel mangiarlo lentamente, si disse che era proprio fortunato. Un anno prima era davvero ridotto male, ma adesso…
Udì uno scricchiolìo della ghiaia, poi un altro. Si guardò attorno, ma non vide niente. Non riuscì a capire da dove fossero giunti quei suoni. Il panino, nella sua bocca, divenne improvvisamente asciutto.
Con uno sforzo, inghiottì il boccone e continuò a mangiare, riprendendo il filo dei suoi pensieri. Sì, adesso aveva amici come Gunnar e Saul, e Cal, e stava molto meglio anche di salute, e soprattutto il lavoro andava bene, le sue belle storie (be’, per lui erano belle) e perfino l’orribile materiale per I segreti del sovrannaturale…
Un altro scricchiolìo, ancora più forte, e con quello una strana risata acuta. Franz irrigidì i muscoli e si guardò attorno, in fretta, senza più pensare al panino e al bilancio della sua vita.
La risata echeggiò di nuovo, salì fin quasi a diventare uno strillo, e dalle rocce giunsero di corsa, lungo il sentiero, due bambine vestite d’azzurro. Una afferrò l’altra e cominciarono a girare in tondo, lanciando strilli di gioia, in un turbinìo di braccia abbronzate e di capelli biondi.
Franz ebbe appena il tempo di pensare che quella scena smentiva tutti i timori di Cal (e i suoi) a proposito della zona adiacente alla collina, ma che comunque non gli sembrava giusto che i genitori lasciassero vagabondare in un luogo tanto isolato due bambine così piccole e graziose (non potevano avere più di sette o otto anni) quando dalle rocce uscì a grandi balzi un pelosissimo sanbernardo, che subito venne coinvolto nel girotondo delle bambine. Dopo qualche istante, però, tutt’e due corsero via lungo il sentiero da cui era giunto lo stesso Franz, e il loro grosso difensore le seguì da vicino. Non dovevano essersi accorte della presenza di Franz, oppure, come fanno spesso le bambine, avevano finto di non accorgersene. Franz sorrise, perché quell’episodio aveva rivelato in lui un residuo di nervosismo, precedentemente insospettato. Ora, il panino non sapeva più di secco.
Appallottolò la carta oleata e se la cacciò in tasca. Il sole stava già scendendo, e illuminava le pareti opposte a lui. Il viaggio e la scalata avevano richiesto più tempo del previsto, e lui era rimasto seduto laggiù più del preventivato. Come diceva l’epitaffio letto su una vecchia lapide da Dorothy Sayers e da lei definito il culmine del macabro? Ah, “È più tardi di quel che pensi”. Poco prima della guerra ne avevano perfino tratto una canzone alla moda: “Divertiti, divertiti, è più tardi di quel che pensi”. Una battuta che metteva i brividi. Ma lui aveva tutto il tempo che voleva.
Riprese il binocolo per osservare il tetto in stile medievaleggiante, bruno-verde, del Mark Hopkins Hotel, dove c’era il bar-ristorante Top of the Mark. La Grace Cathedral, in cima a Nob Hill, era nascosta dai grattacieli della collina, ma il cilindro in stile moderno della St Mary Cathedral spiccava sulla testé ribattezzata Cathedral Hill. Gli venne in mente un compito ovvio e piacevole: cercare il suo palazzo di sette piani. Dalla sua finestra si vedeva Corona Heights: ergo, da Corona Heights si doveva vedere la sua finestra… Senz’altro l’avrebbe trovata in una stretta fessura tra due grattacieli, si disse; però, in quel momento, il sole doveva penetrare nel varco e offrirgli una buona illuminazione.
Con un certo dispiacere capì subito che l’impresa era più ardua del previsto. Visti da lassù, gli edifici più bassi sembravano solo più un mare inesplorato di tetti, così appiattiti dalla prospettiva che era faticosissimo riconoscere le linee delle strade: come una scacchiera vista di coltello. Il compito di trovare le vie lo assorbì a tal punto da fargli dimenticare ciò che gli stava attorno. Se in quel momento le bambine fossero ritornate e si fossero fermate a guardarlo, probabilmente lui non se ne sarebbe neppure accorto. Eppure, lo sciocco problemino che si era proposto di risolvere era così sfuggente che Franz, più di una volta, fu tentato di rinunciare.
Davvero, i tetti di una città erano un mondo scuro e sconosciuto, a sé stante, insospettato dalle miriadi di cittadini che vi abitavano, e anch’esso senza dubbio dotato dei suoi abitanti, dei suoi spettri e delle sue “entità paramentali”.
Comunque, Franz accettò la sfida e, con l’aiuto di due serbatoi dell’acqua ben riconoscibili, situati sui tetti accanto al suo, e di un’insegna, BEDFORD HOTEL, dipinta a grandi lettere nere, molto in alto, sul muro laterale di un edificio a lui noto, riuscì finalmente a trovare la sua casa.
Per qualche istante rimase totalmente assorto in quel lavoro.
Ecco laggiù la fenditura! Ed ecco la sua finestra, la seconda dall’alto, molto piccola ma nitida nella luce del sole. Una vera fortuna, riconoscerla proprio in quel momento, perché le ombre, spostandosi sul muro, entro breve tempo l’avrebbero nascosta.
E poi, all’improvviso, le mani gli tremarono, a tal punto che gli sfuggì il binocolo. Solo la cinghia gli impedì di cadere sulle rocce.
Una figura bruna, pallida, si sporgeva dalla sua finestra e agitava il braccio per salutarlo.
Gli vennero in mente due versi di una vecchia filastrocca popolare, quella che comincia:
Taffy era un gallese, Taffy era un gran mariolo.
Venne a casa mia, rubò la carne dal paiolo.
Ma quelli che gli vennero in mente erano gli ultimi versi:
Andai a casa sua, Taffy non l’ho trovato.
Taffy era da me e l’osso del brodo aveva rubato.
Adesso, per l’amor di Dio, non farti prendere dal panico, si disse, riprendendo il binocolo e portandoselo di nuovo agli occhi. E smettila di ansimare così, non hai mica corso.
Gli occorse qualche tempo per trovare di nuovo l’edificio e l’apertura tra i grattacieli (maledetto mare di tetti!) ma, quando riuscì di nuovo a vederli, la figura era ancora alla finestra. Aveva un colore bruno pallido, il colore delle vecchie ossa (via, adesso non diventare morboso!). Potevano essere le tende, si disse poi, agitate da un soffio di vento: ricordava di avere lasciato la finestra aperta. Dove c’erano edifici così alti, le correnti d’aria assumevano forme capricciose. Lui aveva le tende verdi, naturalmente, ma gli orli avevano lo stesso colore indefinito dell’apparizione alla finestra. E la figura, a guardarla adesso, non lo stava affatto salutando (la sua danza era dovuta unicamente al binocolo) ma piuttosto pareva guardarlo pensierosa, come per dirgli: “Sei voluto venire a visitare casa mia, signor Westen, e perciò io ho deciso di approfittare dell’occasione per dare con calma un’occhiatina alla tua”.
Piantala! si disse. L’ultima cosa che ci serve, adesso, è la fantasia di uno scrittore.
Abbassò nuovamente il binocolo per dare al proprio cuore la possibilità di rallentare i battiti e per muovere le dita anchilosate. All’improvviso, sentì una forte collera. Si era lasciato trascinare dalle fantasticherie, e così aveva perso di vista il fatto più evidente, ossia che qualcuno era andato a ficcare il naso nella sua camera!
Ma chi poteva essere stato? Dorotea Luque aveva un passepartout, naturalmente, ma non era mai stata una ficcanaso; e neppure il suo taciturno fratello, Fernando, che stava giù in portineria e non parlava inglese, ma che era un fenomeno quando giocava a scacchi. Franz aveva una seconda chiave e l’aveva data a Gunnar, la settimana prima, per via di un certo pacco di libri che doveva arrivargli mentre era fuori, e non se l’era ancora fatta ridare. Di conseguenza, la chiave poteva essere in mano a Gunnar come a Saul, o anche a Cal, se era solo per questo. E Cal aveva un vecchio accappatoio sbiadito che era proprio di quel colore, e continuava a metterlo, di tanto intanto…
Macché, era assurdo pensare che uno di loro… Però, che cosa aveva detto Saul, quella mattina, quando lui si era fermato sulle scale? La “fregona” che dava tante preoccupazioni a Dorotea Luque: questo era già più ragionevole. Renditene conto, disse a se stesso: mentre te ne stavi qui a perdere tempo, per venire incontro a oscure curiosità d’ordine estetico, qualche ladro, probabilmente pieno di eroina, è entrato chissà come nel tuo appartamento e ti sta portando via tutto.
Sollevò nuovamente il binocolo, con ira, e trovò subito la sua finestra, ma ormai era troppo tardi. Mentre lui aveva cercato di calmarsi i nervi e aveva continuato a seguire ipotesi assurde, il sole si era spostato e la fenditura si era riempita d’ombra; e lui non riusciva a distinguere la finestra, tanto meno la figura dentro la stanza.
Tutta la collera svanì. Capì che era stata soprattutto una reazione alla sorpresa di quel che aveva visto, o creduto di vedere… no, qualcosa l’aveva visto davvero, ma di che cosa si trattasse, esattamente, nessuno poteva esserne sicuro.
Si alzò dal sedile naturale di pietra, un po’ a fatica, perché aveva le gambe anchilosate e la schiena rigida, dopo essere rimasto immobile così a lungo, e fece cautamente qualche passo, per poi essere di nuovo investito dal vento. Era leggermente depresso: cosa per niente strana, perché da ovest cominciavano ad arrivare le prime volute di nebbia, che si avvolgevano attorno alla torre della TV e la nascondevano in parte; c’erano ombre dappertutto. Ai suoi occhi, Corona Heights aveva perso gran parte della magìa, e adesso lui voleva solo scendere al più presto possibile e correre a controllare la sua stanza. Perciò, dopo avere dato un’occhiata alla cartina, s’incamminò lungo la discesa sotto di lui, come aveva visto fare ai due escursionisti. Davvero, non vedeva l’ora di essere di nuovo a casa.