PARTE SECONDA

Tanajin

Quella sera ci accampammo in un boschetto in prossimità del fiume. Mangiammo quel che restava dei nostri viveri.

Nia disse: — Domani andrò a caccia.

Derek fece il gesto dell’assenso e poi quello dell’inclusione. Insieme significavano "verrò a caccia anch’io"…

Pensai di chiamare la nave, ma ero stanca e depressa e non me la sentivo di conversare con Eddie.

Durante la notte cadde un po’ di pioggia. Mi svegliai e sentii il leggero picchiettio sul fogliame sopra di me. Non doveva essere una gran pioggia. Non passava fra le foglie. Restai in ascolto per un po’, poi mi riaddormentai.

Al mattino la pioggia era cessata, ma il cielo rimaneva nuvoloso. Nia e Derek andarono a caccia. Io e l’oracolo proseguimmo lungo la pista. Sulla nostra destra avevamo boschetti di erba enorme, sulla sinistra c’era il fiume. Scorreva su pietre gialle e fra macchie di canneti di un color porpora spento. C’erano uccelli abbarbicati alle canne che emettevano gorgoglii.

Pensai alla colazione. Anche il mio stomaco gorgogliava, facendo lo stesso suono degli uccelli. — Raccontami una storia.

— Di che genere? — chiese l’oracolo.

— Una storia importante. Una storia su qualcosa che importi.

— Ti parlerò della luna.

— Quale?

— Quella grande. Non è sempre stata alta nel cielo. Un tempo si trovava quaggiù al suolo. La conservava la Madre delle Madri. Era la sua pentola per cucinare. La pentola era in grado di riempirsi da sola. Non aveva bisogno di aiuto da nessuno.

Pensai di chiedergli di raccontare una storia diversa.

— La gente poteva mangiare a sazietà. Quando la pentola era vuota, la gente si sedeva e aspettava. Entro breve tempo la pentola era di nuovo piena, fino all’orlo. Al mattino conteneva poltiglia. Alla sera conteneva un gustoso stufato di carne. La Madre delle Madri nutriva tutti coloro che avevano fame. Tutti coloro che avevano bisogno di cibo potevano recarsi da lei.

Troppo tardi. Si stava addentrando nella storia. Sarebbe stato scortese chiedergli di smetterla. Il mio stomaco fece un altro gorgoglio.

— Ma le persone diventarono pigre e ingorde. Pensavano che se un villaggio avesse avuto quella pentola, nessuno nel villaggio avrebbe mai dovuto lavorare. Così tutte le quattordici razze di persone di cui io sia a conoscenza mandarono ambasciatrici dalla Madre. Ciascuna disse: "Dammi la tua pentola, perché così la mia gente sarà felice per sempre.

"La Madre rispose di no. Le inviate s’infuriarono. Se ne andarono via tutte insieme e si consultarono.

"’Ruberemo la pentola, tutte noi insieme. Quando sarà in nostro possesso, tireremo a sorte. Quella che prenderà la paglia più lunga potrà portarsi a casa la pentola e tenerla per un anno. Alla fine dell’anno dovrà consegnare la pentola a chi avrà preso la seconda paglia per lunghezza. In questo modo ce la divideremo. Ogni villaggio avrà un anno buono, uno su quattordici.’

"Rubarono la pentola. Non fu difficile. La Madre delle Madri non era sospettosa. Poi tirarono a sorte e a quel punto incominciarono i guai. Le donne con le paglie lunghe erano contente. Quelle con le paglie corte erano furiose. Incominciarono a litigare e a sbraitare. Arrivarono perfino a picchiarsi.

"Il baccano attirò lo Spirito del Cielo, che si trovava a una grande altezza sopra di loro. Volò giù dal cielo, afferrò la pentola e se la portò via, anche se non so come abbia fatto, poiché ha le ali al posto delle braccia. Forse afferrò la pentola con i piedi. Ci sono donne che sostengono che i suoi piedi sono artigli come quelli di un uccello da preda.

"Allora la Madre delle Madri disse: ’Vedete che cosa vi ha fruttato essere avide. Intendo mettere la mia pentola per cucinare in un posto sicuro, e intendo punirvi tutte quante così che, in futuro, le donne ci penseranno due volte prima di infastidire gli spiriti’.

"Mise la sua pentola per cucinare nel cielo notturno. Essa divenne la luna. E mise lassù anche le inviate. ’Per voi la punizione sarà che non porterete mai a termine la vostra missione. Vagherete per sempre nel cielo, senza poter prendere la mia pentola per cucinare e senza poter tornare a casa. Gli abitanti del mondo impareranno da questo a essere meno ingordi e a trattare gli spiriti con maggior riguardo.’

"Quelle donne divennero le piccole luci che vagano per il cielo notte dopo notte. Noi le chiamiamo le Vagabonde o le Ladre o le Donne Senza Rispetto."

Le piccole lune, pensai. I planetoidi catturati. Una bellissima spiegazione, se non che noi avevamo contato solo dodici piccole lune.

— Hai detto che c’erano quattordici ambasciatrici — dissi alla fine. — Ma io ho visto soltanto dodici luci.

— Questo è vero — rispose l’oracolo.

— Che ne è stato delle altre due?

— Questa è un’altra storia, e non credo che un uomo dovrebbe raccontarla a una donna.

— Oh.

— Non è decoroso. — Usò la forma negativa della parola che significava "giusto", "ben fatto", "equilibrato" o "appropriato".

— Oh — feci di nuovo.

Proseguimmo in silenzio. Alla fine l’oracolo disse: — Ho dimenticato una cosa sulla storia della pentola per cucinare. Se guardi in su verso il cielo, vedrai che la pentola diventa sempre più vuota notte dopo notte. E poi, una notte dopo l’altra, la vedrai riempirsi di nuovo.

— Chi mangia da quella pentola? — domandai.

— Nessuno lo sa con certezza. Forse sono i grandi spiriti, o forse le persone che sono morte. Devono pur andare da qualche parte e, quando ci arrivano, devono mangiare.

Feci il gesto dell’incertezza e poi il gesto dell’intesa. Significava che ero d’accordo, ma non con particolare entusiasmo.

— Adesso ho fame — disse l’oracolo. — Avrei dovuto raccontare un’altra storia.

— Vuoi farlo? Ascolto volentieri.

— Non adesso. Forse Nia sarà presto di ritorno.

Così non fu. Dopo un po’ incominciò a piovere: una pioggerella sottile. Ci riparammo in un boschetto di erba enorme. La pioggia si fece più intensa. Le gocce d’acqua penetravano fra il fogliame e ci bagnavano.

L’oracolo disse: — In una giornata come questa, ricordo la casa di mia madre.

— Davvero?

Fece il gesto dell’affermazione. — Ricordo che era sempre asciutta, perfino quando la pioggia scendeva dal cielo come un fiume, come la cascata in cui abita il mio spirito. Aiya! Com’era confortevole! Un lembo del soffitto era sollevato sopra l’apertura per il fumo e il fuoco ardeva basso. Le gocce di pioggia vi cadevano sibilando. Il fumo si attorcigliava su se stesso sotto il soffitto, come le lucertole a primavera inoltrata quando si accoppiano. — Tacque per un momento. — Quando aveva finito di attorcigliarsi, il fumo scivolava fuori attorno alle estremità sollevate della falda, proprio come fanno i maschi delle lucertole quando hanno finito con le loro femmine e sono ansiosi di andarsene ma anche stanchi.

Che discorso! Era sorprendente come le persone sapessero parlare bene in una cultura priva di libri e olovisione. Noi, che davamo grande valore alla parola scritta e all’immagine proiettata, parlavamo a grugniti ed evitavamo il più possibile le metafore.

Guardai l’oracolo. Teneva le spalle curve contro la pioggia. La tunica gli si incollava al’corpo. Il tessuto era così sottile che non offriva quasi protezione. Poverino!

Qualcosa scattò nella mia mente. Perché questi individui non portavano pantaloni? Eppure cavalcavano. Sulla Terra, per gran parte della nostra storia, i pantaloni erano stati collegati all’uso del cavallo. Le culture che si spostavano a cavallo usavano i pantaloni. Le altre culture no.

La regola non valeva per la Cina. Lì tutti indossavano i pantaloni e l’avevano fatto per secoli, ma pochissimi andavano a cavallo.

Mi ero fatta l’idea che i pantaloni cinesi fossero giunti dall’Asia Centrale. In questo caso avevo trovato il mio legame con i cavalli.

C’era un’altra eccezione alla regola: gli indiani delle pianure del Nord America. Costoro non indossavano pantaloni. Ma non avevano i cavalli da molto tempo, quando furono annientati dalla "civiltà" dei bianchi. Forse col tempo avrebbero acquisito i pantaloni. E comunque portavano gambali.

Guardai di nuovo l’oracolo. Naturalmente la sua pelliccia era una protezione, ma di certo non lo era per i suoi organi sessuali. Mi resi conto che mi trovavo di fronte alla domanda consacrata dal tempo: che cosa si indossa sotto un gonnellino? O una tunica, a seconda dei casi. Frugai nel mio vocabolario, nel tentativo di trovare le parole giuste.

L’oracolo disse: — La pioggia è cessata. — Toccò il suo animale sulla spalla e questo si rimise in cammino sulla pista. Il mio animale lo seguì. Forse sarebbe stato meglio se avessi chiesto a Derek di domandarglielo.

Per il resto della mattinata meditai su perizomi e calzoncini corti, pantaloni alla ciclista e il problema della fertilità maschile. Se costoro si accoppiavano solo una volta all’anno, non potevano permettersi un’alta percentuale di sterilità. Forse era questa la ragione per cui non portavano pantaloni. Ma senza dubbio era disagevole per gli uomini.

Derek e Nia tornarono nel primo pomeriggio, portando del cibo: un bipede azzurro. Era un piccolo: cucciolo o pulcino o comunque si potesse chiamare.

Ci fermammo e ci accampammo. Ricominciò a piovere. Derek e io andammo in cerca di legna secca. Ne approfittai per porgli la mia domanda sull’abbigliamento.

Lui rise. — Immagino che avrei dovuto dirtelo. L’ho già chiesto all’oracolo molto tempo fa. Alcuni uomini non indossano niente. Altri portano qualcosa che sembrerebbe un sospensorio. E ci sono popolazioni nel sud che portano pantaloni corti invece del gonnellino. Ma non sa che cosa indossino sotto.

— Un sospensorio dovrebbe avere qualche effetto sulla fertilità.

— Non ho visto l’indumento in questione — disse Derek. — Non so quanto sia aderente, e inoltre non sappiamo molto sulla fisiologia di questi individui. Per quel che ne sappiamo, quelle cose che ha l’oracolo non sono testicoli. Forse conserva i suoi spermatozoi nelle orecchie.

Feci il gesto che significava "no". — Intralcerebbe il suo udito. Ma… — feci il gesto dell’assenso. — Dobbiamo fare altre ricerche.

Derek sorrise.

Aggiunsi: — Penso che lascerò a te questo particolare problema.

— Okay. Probabilmente ne verrà fuori un articolo. "Variazioni nella biancheria fra una specie umanoide aliena." Il titolo non è del tutto giusto. Non è abbastanza enfatico. Ma è sempre un inizio.

— Cominci sempre dal titolo?

— Il titolo è molto importante, mia cara Lixia. E faremmo meglio a procurarci la nostra legna prima che si metta a piovere più forte.

Quando tornammo all’accampamento, Nia aveva finito di pulire il bipede. Senza le penne aveva un’aria meno aliena, anche se non riuscivo a decidere che cosa mi ricordasse. Un coniglio? Una scimmia? L’arrostimmo. Aveva un gusto delicato, simile al pollo.

Dopo cena Derek chiamò la nave. Rispose uno dei computer. Aveva una voce femminile con un dolce accento caraibico. Eddie era occupato, ci disse. Avrebbe passato la nostra chiamata ad Antonio. Ci furono dei suoni simili a scampanii, un’intera serie, poi un bip.

— Dov’è Eddie? — s’informò Derek.

— A una riunione — rispose Tony. — A redigere un manifesto.

— Oh, sì? — disse Derek. — Su che cosa?

— C’è bisogno di chiederlo? Il non intervento.

— Facciamola breve — intervenni io. — I nativi sono qui, e non si sentono a loro agio quando parliamo una lingua che non capiscono.

— Okay — disse Tony. — Fatemi il vostro rapporto.

Derek gli raccontò dei tre fratelli.

Tony tacque per un momento. Infine disse: — Siete stati fortunati. Siamo stati fortunati. Se quegli uomini si fossero infuriati, saremmo quassù a discutere di come raccogliere i pezzi. Ed Eddie starebbe dicendo che non si deve intervenire.

— Sì — convenne Derek. — Hai qualche informazione sull’appuntamento?

— Certo! Proseguite. Il fiume che state seguendo è un affluente di un fiume molto più grande. Quando ci arrivate… al fiume grande, intendo… andate verso valle. Il lago si trova più a sud di circa 80 chilometri. L’aereo atterrerà lì, anche se Lysenko è tuttora scontento della cosa. Continua a chiedere una pianura di sale. Gli abbiamo risposto che i mendicanti non possono fare i pignoli. Lui ribatte che non ci sono mendicanti in una società socialista.

— Che cosa? — dissi.

— Pensiamo che stesse scherzando. Non sempre l’umorismo attraversa i confini culturali.

Derek disse: — Ora spengo la radio.

— Buonanotte — rispose Tony.

Derek schiacciò il pulsante, poi sbadigliò. — Basta così. Forse domani smetterà di piovere.

Così non fu. Viaggiammo in mezzo alla foschia e a una pioggerella. Mi doleva tutto il corpo, in particolare la spalla e il braccio, ma anche ferite molto più vecchie: un paio di canali di radici dentarie e la caviglia che mi ero rotta alla Stazione Finlandese mentre andavo a raggiungere la spedizione interstellare. La mia prima volta su un L-5, la mia prima esperienza con la bassa gravità, e avevo deciso di provare la forma di danza locale.

La valle si restringeva. Incominciavo a vedere affioramenti di roccia. Era gialla ed erosa. Quasi certamente calcare. Eravamo usciti dalla zona di attività vulcanica.

La maggior parte della roccia si trovava molto più in alto di noi. Le pendici più basse della valle erano coperte di vegetazione. Non più erba enorme. Questi erano autentici alberi. La corteccia era ruvida e grigia, le foglie verdi e rotonde.

— Sarà un autunno precoce — disse Nia. — Hanno già cambiato colore.

— È quello il colore che manterranno? — chiesi.

Lei fece il gesto dell’affermazione. — Alcuni alberi diventano gialli dopo essere diventati verdi, ma questa specie non cambia più. Le foglie rimarranno verdi finché non cadranno.

Aiya! - dissi.

Nel pomeriggio inoltrato arrivammo in un punto in cui la valle era molto stretta e la pista passava sotto una scogliera. C’era una sporgenza rocciosa. No. Una grotta poco profonda.

Smontammo e conducemmo i nostri animali su per un breve pendio fino alla grotta. C’era della cenere sul pavimento e pezzi di legno bruciato.

— È quello che pensavo. Resteremo qui questa notte. — Nia si rivolse a Derek. — Procurati della legna.

Derek fece il gesto dell’assenso. Se ne andò. Togliemmo la sella ai cornacurve e li portammo giù al fiume ad abbeverarsi, poi li legammo dove potevano pascolare. Uno degli animali zoppicava un po’. Nia si accoccolò e gli esaminò uno zoccolo.

L’oracolo chiamò: — Lixia! Vieni qui!

Entrai nella grotta. L’accesso era largo forse quindici metri e alto dieci, ma si restringeva rapidamente e il soffitto scendeva bruscamente tanto che dovetti chinare il capo. L’oracolo era fermo dove la grotta finiva o sembrava finire. Quando mi avvicinai, sentii un vento freddo: aria che veniva verso di me. — Questo è un luogo sacro. — Fece un passo di lato e puntò il dito. Vidi un’apertura: alta un metro e larga mezzo. Era da lì che proveniva il vento. L’oracolo disse: — Mi si drizza il pelo sulla schiena e ho un senso di nausea allo stomaco. Questo è certamente un luogo che appartiene agli spiriti.

— Possiamo restare qui? — chiesi.

— Credo di sì. Non ho sentito niente nella parte anteriore della grotta.

Guardai l’apertura. Una volta acceso il fuoco, avrei potuto fare una torcia. — È proibito entrare lì dentro?

— Non lo so. Gli spiriti di questa terra non sono quelli che conosco io.

Tornammo nella parte anteriore della caverna. Nia era lì e gocciolava acqua. — Aiya! Che giornata! — Si asciugò le braccia e le spalle. — Quello zoccolo sembra a posto. L’animale è stanco e non vuole viaggiare con un tempo così. Chi mai lo vorrebbe? O sta simulando o c’è una vecchia ferita che non riesco a vedere.

Derek uscì dal bosco, le braccia piene di rami. Salì di corsa il pendio, scivolando un paio di volte nel fango, raggiunse la grotta e disse: — Questa era secca quando l’ho presa. Adesso… non so.

— Lo scoprirò — ribatté Nia.

Accendemmo un fuoco. Raccontai a Derek del luogo sacro.

— Dopo cena — disse. — Andremo a dare un’occhiata.

Nia alzò lo sguardo. — Non impari mai? Ricordati di quello che è successo l’ultima volta che ti è venuta la curiosità per qualcosa di sacro. Quella pazza per poco non ci ha uccisi.

— Non ti fai mai domande sulle cose? — domandò Derek.

— No. — Nia si dondolò all’indietro sui calcagni. — Ho imparato più di quanto avrei mai voluto sapere sui luoghi strani.

— E sulle persone strane?

Nia aggrottò la fronte. — Li-sa mi piace. Sono felice di averla incontrata. Ero stanca di vivere nella foresta e non mi è mai piaciuto veramente il Popolo del Rame.

— Che cosa intendi dire? — domandò l’oracolo.

— Non mi riferivo alla tua gente. Non ho niente contro di loro. Ma non mi piaceva il Popolo del Rame della Foresta.

— Quelli! — esclamò l’oracolo. — Sono strani.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — È stato un bene che sia arrivata Li-sa e io me ne sia dovuta andare. Sarei potuta restare là per tutta la vita. Sarebbe stato terribile!

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.

— E per quanto riguarda me? — chiese Derek.

— Non ho ancora deciso se tu mi piaci — rispose Nia.

— No? — Derek parve offeso.

L’oracolo disse: — Andrò nella parte posteriore della grotta. Sono abituato ai luoghi sacri e il mio spirito mi proteggerà. — Rovistò in una delle bisacce da sella e trovò un pezzo di carne. Bipede arrostito freddo. Lo addentò.

— Io non ci vengo — disse Nia. — Non ho nessuno spirito che mi protegga e i luoghi sacri mi hanno sempre fatta sentire a disagio. Ma è un bene che tu ci vada. Potrai assicurarti che Deragu non faccia nulla che non dovrebbe.

L’oracolo stava masticando e non poteva parlare. Ma con una mano fece il gesto che significava "perché credi che lo faccia?".

Finimmo il bipede, prendemmo dei rami e vi demmo fuoco. Derek fece strada verso il fondo della caverna. Le ombre si muovevano attorno a noi. Le nostre torce tremolavano e ondeggiavano al vento che proveniva dall’apertura. Derek si accucciò. — È molto stretto. Credo che ce la farò. — Si girò di lato e vi s’introdusse a forza. La sua torcia fu l’ultima cosa a sparire.

Io e l’oracolo aspettammo. Ero abbastanza calma, pensai, ma l’oracolo stava in ansia. Un tipo nervoso. Mi mordicchiai un’unghia.

— Si allarga — disse Derek. La sua voce echeggiò. — Parecchio.

L’oracolo si accucciò. — Riesco a vedere la sua torcia. Vado. — S’introdusse e sparì. Dopo uno o due minuti disse: — Aiya!

Lanciai un’occhiata all’entrata della grotta. Il fuoco ardeva luminoso. Nia era seduta lì accanto, china sulla fiamma, una figura scura. Dietro di lei c’era la pioggia, una cortina lucente.

Entrai a mia volta camminando sulle ginocchia e mi ricordai che al college ero andata in qualche grotta e avevo scoperto di soffrire un po’ di claustrofobia. La claustrofobia era aggravata dall’oscurità.

Qui non c’era oscurità. La torcia ardeva davanti a me e il fumo mi veniva in faccia, facendomi venir voglia di tossire o starnutire. Il passaggio si restringeva ancora di più. Sfioravo con la testa il soffitto e la mia spalla strusciava contro la ruvida parete bagnata.

— Sbrigati — mi sollecitò Derek. — Devi venire a vedere…

Il passaggio si allargò. Sentii che c’era spazio sopra di me e mi raddrizzai, sollevando la torcia. Non vedevo niente all’infuori del pavimento (era coperto da un sottile strato d’acqua e riluceva debolmente) e di due punti luminosi in lontananza: le torce tenute dai miei compagni.

— Qui — disse Derek.

Mi diressi verso il suono della voce.

Derek era fermo presso una parete e teneva alta la torcia. La parete era di calcare giallo, coperta d’acqua. C’erano pitture sulla parete. Animali. Erano dipinte in rosso e arancione, azzurro spento, grigio e marrone. Riconobbi la creatura che ci aveva attaccati presso il lago e i bipedi azzurri. La cena.

C’erano persone che si muovevano fra gli animali. Erano solo abbozzate, senza alcuna cura dei particolari, al contrario degli animali che erano raffigurati con cura in tutti i dettagli. Le persone portavano lance e archi.

— Magia della caccia — disse Derek. Camminò lungo la parete.

Vidi altri animali. Uccelli. Dall’aspetto, dovevano essere grandi. Le zampe erano pesanti, i corpi rotondi e massicci. Avevano colli e teste grossi. Le bocche erano piene di denti.

— Hai notato che cosa manca? — mi chiese Derek. — Cornacurve e schieneargentate. Gli animali che consideriamo mammiferi. — Parlò nel linguaggio dei doni, ma l’ultima parola era in inglese.

Feci il gesto dell’assenso. Continuammo a camminare. C’erano altri grossi uccelli e pseudo-dinosauri. Le figure non somigliavano per niente al resto dell’arte che avevo visto sul pianeta. Quella era stata complessa e spesso astratta: un’arte fatta di disegni geometrici, un’arte decorativa. Queste figure erano semplici e realistiche. Sembravano vive, a eccezione delle persone, che sembravano disegnate da bambini.

Derek indicò la pittura di una lucertola. Aveva una lunga coda e aculei lungo la schiena. Le zampe erano palmate. Era enorme, per lo meno in confronto ai cacciatori che la circondavano. La lucertola e i cacciatori erano dipinti in nero. C’erano strisce rosse sulla lucertola. Ferite, ne ero quasi certa. Dall’animale sporgevano lance dipinte.

Derek guardò l’oracolo. — Che cos’è?

— Non lo so. Non ho mai visto un animale come quello. Forse è un mostro.

— Perché non ci sono cornacurve?

— Non lo so. — L’oracolo esitò. — Questo posto è molto antico. Riesco a sentire gli spiriti che vi risiedono, ma non so chi siano. Sono vecchi e affamati. L’avverto. Aiya! La loro fame! È come un vento nel cuore dell’inverno!

Derek si voltò a fissare l’oracolo. — Di che cosa sono affamati?

— Non lo so. Sono molte le cose che piacciono agli spiriti. Buon cibo. Bei tessuti. Ricami. L’opera delle lavoratrici del metallo. Alcuni amano fiori e rami pieni di foglie. Altri amano il sangue.

— Uh! — esclamò Derek. Tornò a guardare la parete.

C’erano altre pitture, una sopra l’altra: lucertole, uccelli e pseudo-dinosauri. La maggior parte delle specie non le riconoscevo. Quasi tutti avevano lance conficcate nel corpo.

— Dovremo chiedere ai biologi — disse Derek. — Guarda. Gli uccelli hanno delle specie di braccia.

Erano minuscole e terminavano in artigli. L’animale era senza dubbio un uccello. Il corpo era ricoperto di penne, fatte con leggere pennellate di pittura color marrone rossiccio. Aveva una coda fatta di piume, niente di simile alla coda lunga e stretta di una lucertola o di un dinosauro.

— Bizzarro — dissi.

L’oracolo si era allontanato da noi e si era diretto verso il centro della caverna. — Venite qui.

Era ritto presso un cerchio di pietre largo circa venti metri. Le pietre erano dipinte di rosso e fra di esse c’erano dei teschi. Alcuni avevano becchi, altri musi pieni di denti irregolari. Erano tutti dipinti di rosso, e tutti rivolti verso il centro del cerchio.

Al centro c’era una zona di oscurità. Il pavimento di pietra era scolorito.

— Ora lo so — disse l’oracolo. — Questi spiriti sono del genere che ama il sangue. Prendi questa. — Mi porse la sua torcia ed entrò nel cerchio.

— Sii prudente.

L’oracolo andò verso la zona di oscurità. Si abbassò su un ginocchio, poi si girò e ci guardò. Vidi il luccichio dei suoi occhi. — Venite qui. Avrò bisogno di luce.

— Non è pericoloso? — s’informò Derek.

— Entrare nel cerchio? Non lo so. Ma non dovresti essere preoccupato, Deraku. Sei intrepido quando si tratta di spiriti. Sei disposto a rubare ciò che appartiene loro.

— Può darsi che io abbia imparato qualcosa. — Derek rivolse un’occhiata all’oscurità che ci circondava. — E forse questo posto è diverso. Forse questi spiriti sono più spaventosi dell’Imbroglione.

— Penso che non ti succederà nulla — disse l’oracolo. — Parlerò per te.

Scavalcammo le pietre rosse e andammo a raggiungerlo. Aveva estratto il suo coltello e stava saggiando la lama con il pollice. — È troppo smussata. — Rimise il coltello nel fodero, poi allungò la mano. — Dammi il tuo coltello, Deraku.

Derek tirò fuori il coltello.

— Che cosa intendi fare? — chiesi.

— State zitti — disse l’oracolo. — E tenete le torce in modo che la luce cada su di me. — Prese il coltello di Derek ed esaminò la lama. — Bene. — Lo posò al suolo, poi si mise il braccio destro sul ginocchio, il palmo della mano all’insù. La pelle sul palmo era nera e senza pelo. Vidi dei calli alla base delle dita; erano di un grigio scuro. L’oracolo si palpò tutto il braccio, poi raccolse il coltello. Era mancino come la maggior parte delle persone che avevo incontrato su questo pianeta.

Fece un breve rumore, un gemito, e girò leggermente il braccio. Con la lama intaccò la carne appena sotto il gomito, quindi la tirò giù verso il polso. Il movimento era lento e accurato. Immaginai che un chirurgo si sarebbe mosso così. Sapevo che un buon medico lo faceva quando inseriva un’endovena. Arrivò al polso ed estrasse la lama. C’era sangue lungo il taglio.

Aiya! - Asciugò la lama sulla pelliccia della gamba e restituì il coltello a Derek.

Derek lo mise via. Tornai a osservare l’oracolo. Era ancora nella stessa posizione, col braccio appoggiato sul ginocchio. Si guardava la ferita. Il sangue sgorgava attraverso il pelo, colava nel palmo della mano e gocciolava al suolo.

— L’hai fatto spesso? — domandò Derek.

L’oracolo alzò lo sguardo. — No. Il mio spirito ama la birra e il metallo lavorato. Non ha alcun interesse per il sangue. Non credo che mi piacerebbe parlare per spiriti come questi.

Derek fece il gesto dell’approvazione. L’oracolo si premette il braccio per far uscire il sangue. Pensai alle antiche cerimonie del Nord America: i danzatori del sole della pianura centro-occidentale e ì sacerdoti del Messico che si conficcavano spine nella lingua. Non erano le usanze dei miei antenati e non le capivo.

Ormai c’era una piccola pozza di sangue sul pavimento della grotta. Luccicava alla luce delle torce.

— Basta così — disse l’oracolo. — Può darsi che siano ancora affamati, ma io ho solo quel tanto di sangue. Capiranno, credo. — Si alzò in piedi.

Derek mise giù la torcia. Si tolse la camicia e l’avvolse attorno al braccio dell’oracolo, legandola. — Okay — disse e raccolse di nuovo la torcia. — Andiamocene di qui.

L’oracolo incespicò un paio di volte nell’attraversare la caverna.

— Credi di potercela fare da solo? — s’informò Derek.

— A uscire dal passaggio? Sì.

Lasciammo le torce nella grotta e uscimmo strisciando: Derek per primo, poi l’oracolo. Io fui l’ultima. Procedevo cercando a tentoni la via lungo la pietra bagnata. Davanti a me nell’oscurità l’oracolo sospirava e gemeva. Il taglio doveva essere più profondo di quanto mi fossi resa conto.

La galleria terminò. Mi alzai e vidi il fuoco di bivacco che ardeva luminoso di fronte alla cortina di pioggia. Nia era in piedi e guardava nella nostra direzione.

— State tutti bene? — chiese.

Derek disse: — La Voce della Cascata è ferito.

Aiya! Quel pazzo!

L’oracolo gemette e vacillò.

Derek lo afferrò. — Lixia, prendi la tua cassetta del pronto soccorso. — Adagiò l’uomo peloso sul pavimento della grotta accanto al fuoco.

Aiya! - si lamentò l’oracolo. — Non mi sento del tutto bene.

Derek slegò la camicia. Il tessuto di cotone azzurro era macchiato di sangue che sembrava nero alla luce del fuoco.

— Sarà dura togliere queste macchie. — Derek mise giù la camicia, poi osservò la ferita. — Non è brutta. Un buon salassatore. Non è profonda.

— Lo dici tu — ribatté l’oracolo. — Non mi piace il sangue. Non mi è mai piaciuto.

Derek aprì la cassetta del pronto soccorso. Pulì la ferita, poi sistemò il beccuccio al barattolo della fasciatura. — Dovrei rasare il braccio — disse in inglese. — Ma non riesco a immaginare come farlo senza far entrare peli nella ferita. Farò la fasciatura più stretta possibile. — Spruzzò.

L’oracolo emise un leggero suono lamentoso.

— Si rimetterà? — domandò Nia.

— Sì — rispose Derek. — Non so come spiegarlo. Ci sono persone che sentono il dolore più di altre.

— Lo so — disse Nia.

— Credo che lui sia una di queste.

— Il dolore è mio — disse l’oracolo. — Come fai a sapere com’è?

— Questo è vero — rispose Derek. Si dondolò all’indietro sui calcagni. — Ho finito.

L’oracolo mosse il braccio. — La tua medicina è buona? Impedirà al mio braccio di imputridire?

— Sì.

L’oracolo fece il gesto che significava approvazione o soddisfazione.

Derek richiuse la cassetta del pronto soccorso.

— Non riesco a rimanere seduto — disse l’oracolo e si sdraiò.

Nia prese il suo mantello e lo stese sopra l’oracolo.

— Bene, bene — fece lui.

Nia mise altra legna sul fuoco. Dall’apertura entrò una raffica di vento, portando gocce di pioggia. Mi spruzzarono. La fiamma guizzò. Rabbrividii.

— Che cosa c’era là dentro? — s’informò Nia.

Dissi: — Una caverna. C’erano animali a colori sulle pareti. Nia aggrottò la fronte. — A colori?

— Come gli animali che la gente ricama su pezze di tessuto.

— Non la gente — mi corresse Nia. — Gli uomini. Sono loro che fanno i ricami.

— Ah. Gli animali sono… — cercai di pensare alla parola giusta. Come si diceva "dipingere" nel linguaggio dei doni? — Sono fatti con colori come quelli che usate per tingere. I colori sono messi sulla pietra, non sul tessuto.

Nia aggrottò di nuovo la fronte. — Penso che tu stia cercando di dire che ci sono atmi là dentro?

Atmi?

— Come questo. — Tracciò una figura nel terriccio. Era una figura abbozzata: un quadrupede dalle lunghe corna ricurve. Un cornacurve. Atmi significava disegno.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Ho già visto queste cose in precedenza. Fra le colline a sud di qui. Non so chi fossero le persone che hanno fatto quelle cose. Noi non disegnamo sulla pietra. Non intagliamo neppure la pietra, soltanto il legno e il metallo. Ma quelle persone l’hanno fatto. Ho visto una rupe coperta di incisioni.

Derek si protese in avanti. — Che specie di animali hanno disegnato quelle persone? Li hai riconosciuti?

Nia fece il gesto che significava "no". — Alcuni li conoscevo. Altri erano strani. Forse erano animali-spiriti. O forse quelle persone venivano da un altro posto. Come il posto dal quale venite voi, dove tutte le persone sono senza pelo. Senza dubbio devono esserci degli strani animali nella vostra terra. Sono senza pelo come voi?

— No — dissi. — Quasi tutti hanno pelo o squame o penne.

Aiya! - disse Nia. — Credo che mi metterò a dormire. — Si coricò accanto al fuoco.

Io e Derek restammo alzati. Il respiro di Nia cambiò, diventando lento e regolare. L’oracolo gemette, poi sbuffò. Nia faceva un suono ronzante. Russava.

— Interessante — disse Derek. Parlò in inglese. — La fauna dev’essere cambiata, e in modo sensazionale, e lei non riesce nemmeno a concepire che sia possibile un cambamento di tale vastità. Nia capisce la distanza, ma non il tempo. — Tacque un momento. — Non riesco a pensare a una società umana contemporanea priva del senso della storia. La mia gente sa com’era la California prima del Grande Terremoto. Loro sono convinti di essere sfuggiti alla storia e tornati alle verità eterne. Ma sanno che un tempo esisteva la storia nella California meridionale e che esiste ancora nella maggior parte del resto del mondo. Non sono sicuro di essere chiaro. Incomincio a sentirmi stanco e inoltre non sono mai stato bravo a pensare alle astrazioni.

— Credevo che tu fossi bravo in tutto, Derek.

Lui parve sorpreso, poi compiaciuto. Rise. — No. Ho i miei limiti, anche se non mi piace pensarci. Faremmo meglio a metterci a dormire.

Mi svegliai con la luce del sole che rifulgeva sulla parete della grotta e mi girai. Eccolo: l’astro principale del pianeta, appena sopra la sogliera sull’altra riva del fiume. Non c’erano nuvole nelle vicinanze ed era così luminoso che dovetti distogliere lo sguardo.

Una giornata come questa richiedeva un saluto solare!

L’oracolo disse: — Sono andati a pescare.

Mi guardai attorno. Era seduto presso la cenere del fuoco.

— Derek e Nia?

Fece il gesto dell’assenso.

— Come stai?

— Mi duole il braccio. Ho dormito male.

— Oh. — Mi alzai e feci un piegamento laterale. Era una sensazione piacevole. Ne feci un altro, piegandomi sull’altro lato. Poi mi toccai la punta dei piedi.

— Gli spiriti sono venuti da me.

Mi raddrizzai.

— Somigliavano agli animali sulla parete della caverna.

— Oh.

— Mi hanno parlato. Le loro voci erano come le voci delle persone, ma non capivo la lingua che parlavano. — Fece una breve pausa. — Erano rumorosi. Credo che fossero in collera. Ma non so se mi stessero minacciando o cercassero di avvertirmi di qualcosa. Può darsi che fossero adirati perché non capivo. È stato un brutto sogno.

Con ogni probabilità aveva ragione. — Devo uscire.

— Okay — disse l’oracolo.

Derek e Nia non si vedevano. Invece vidi degli uccelli. Svolazzavano fra le canne e i cespugli. Volavano da un albero all’altro. Un uccello alto e snello camminava impettito sull’altra riva, cercando qualcosa da mangiare nell’acqua bassa.

Feci il mio yoga. Quando ebbi finito, il sole era abbastanza alto da illuminare gran parte della valle. Feci ritorno alla grotta. Derek e l’oracolo sedevano accanto al fuoco. L’oracolo stava mangiando. Derek si leccava le dita con aria soddisfatta.

— Dov’è Nia?

— Sta sellando gli animali. Vuoi qualcosa da mangiare?

Feci il gesto dell’assenso. Lui prese qualcosa dal fuoco.

Foglie, annerite dal fuoco. Le scartocciò con un paio di movimenti rapidi. — Ohi! — Dentro c’era un pezzo di pesce, fumante e profumato. — Io non ci ho trovato lische — disse nel linguaggio dei doni. — Aprilo e cerca bene.

Era delizioso e non c’erano lische. — L’oracolo ti ha parlato del sogno che ha fatto?

— Sì. Potrebbe non significare niente. Ne ha passate parecchie ed è sofferente. Vorrei potergli dare dell’aspirina. A volte un sogno non significa niente d’importante. A volte un sigaro è solo un sigaro. Tuttavia… — Esitò. — Lui è un oracolo e questo è un luogo sacro.

— Derek, sei un selvaggio superstizioso.

— Ingiuriami, amor mio, e ti ricorderò che io ho un incarico fisso e tu no.

— Fottiti — gli risposi.

Lui fece il gesto che significava un dubbioso assenso. Risi.

— Sta arrivando Nia — disse. — Spegnamo il fuoco.

Proseguimmo lungo il fiume, in direzione sud-ovest. Il cielo si manteneva limpido. La giornata si fece sempre più calda. L’oracolo cavalcava davanti a me. Lo vedevo spostarsi spesso sulla sella e muovere il braccio, nel tentativo di trovare una posizione comoda.

Ci fermammo a metà mattina. Derek usò la camicia macchiata di sangue per fare una fascia per sorreggere il braccio. L’oracolo se la mise e sospirò. — Aiya! Così va meglio.

La valle si fece più ampia e il fiume si aprì in una serie di acquitrini. A volte non riuscivo a vedere l’acqua, soltanto canne, alte e color porpora, che si muovevano appena al vento leggerissimo.

Gli uccelli divennero silenziosi, come facevano nel pomeriggio sulla Terra, e io mi abbandonai a una serie di sogni a occhi aperti: la Terra, le Hawaii, la mia famiglia. Erano tutti morti a eccezione di Charlie, un fratellastro che si era fatto ibernare. Era curioso sul futuro, mi aveva detto nel suo ultimo messaggio. Sarebbe stato là a darmi il bentornato a casa.

L’oracolo si afflosciò. Spronai il mio cornacurve e lo afferrai mentre stava per cadere. — Derek!

L’oracolo si raddrizzò. — Sono solo stanco.

Derek ci raggiunse. Insieme adagiammo al suolo l’oracolo.

— Abbiamo percorso abbastanza strada — disse Nia. Si guardò attorno. — Non è un buon posto per fermarsi. Ma non è neppure cattivo.

Eravamo in una zona aperta. Una prateria. La vegetazione era per lo più bassa e del giallo della tarda estate. C’era una sola eccezione che risaltava veramente: una pianta che cresceva fino a due metri, costellando la prateria. Ne vidi almeno una dozzina di esemplari. La parte inferiore della pianta era una massa di grosse foglie frastagliate e dall’aspetto polveroso. Dalle foglie cresceva uno stelo che terminava in un grappolo di fiori. I fiori erano di un color arancione straordinariamente intenso. Sembrava fiammeggiare.

Una pianta dall’aspetto bizzarro. Non proprio piacevole.

— Stai sognando? — mi chiese Derek. — Scendi dalle nuvole.

Smontai di sella.

L’oracolo era seduto per terra. Aveva le spalle afflosciate e il capo chino.

— Nia, tu occupati degli animali. Lixia, va’ a cercare della legna. Io mi prenderò cura dell’oracolo.

Non badai molto al modo in cui dava ordini a tutti. D’altra parte, non avevo un piano migliore. M’incamminai attraverso la prateria. Gli insetti ronzavano e svolazzavano attorno a me e il sole scottava sulla testa e le spalle. L’aria aveva un aroma dolce: fiori d’arancio.

Attorno ai fiori svolazzavano insetti dalle ali arancione, si posavano e si alzavano di nuovo in volo. Non sempre riuscivo a capire quale fosse l’insetto e quale il fiore. Era strano, vedere un fiore che si piegava e all’improvviso prendeva il volo, librandosi nell’aria immobile verso un’altra pianta.

Arrivai all’altra estremità del prato. Lì crescevano alberi. Raccolsi dei rami, muovendomi adagio, intorpidita dalla calura.


Quando tornai, l’oracolo era disteso all’ombra di un fiore. Derek sedeva accanto a lui a gambe incrociate e teneva in mano la radio.

— Dannazione, Eddie — stava dicendo. — Ho qui una persona inferma. Ho bisogno di parlare con qualcuno del team medico.

— Abbiamo raggiunto un accordo — disse la radio. — Nessun ulteriore intervento di alcun genere finché non avremo discusso la nostra politica.

Lasciai andare i rami, poi caddi in ginocchio. — Tutto questo è ridicolo, Eddie.

Ci fu un momento di silenzio rotto solo dalle scariche elettrostatiche. — Devo ammetterlo. Penso che abbiamo trattato malamente l’intera faccenda. Anche se non sono sicuro di come si elabori una politica riguardo a qualcosa che non si è mai verificato in precedenza. Credevamo di averne una. Credevo che ne avessimo una. Ma quello che intendo io per non intervento non è quello che intendete voi. E sembra che tutti abbiano una diversa idea di quando, se mai, sia legittimo stravolgere le regole.

"Per il momento, tuttavia, non intendiamo fare alcun intervento.

"Avete una qualche idea di quando arriverete al lago?"

— Dipende da quanto sta male l’oracolo — rispose Derek.

La radio emise un suono crepitante. Infine Eddie disse: — Chiamatemi quando ne saprete di più sulle sue condizioni. Non credo davvero che potremo essere d’aiuto. Ma la decisione non tocca a me. Riferirò quanto sta succedendo al comitato per l’amministrazione quotidiana.

— Grazie — rispose Derek, e spense la radio.

— Credi davvero che avremo bisogno di consigli? Abbiamo già curato ferite a due indigeni.

— Con ben poco successo, nel caso di Inahooli — commentò Derek.

Feci il gesto che significava assenso con rammarico.

— No. Non credo che sia necessario ricorrere al team medico per questo caso. È una ferita abbastanza superficiale. Ma questo è un modo di controllare che cosa sta succedendo lassù. Divento inquieto quando sono da troppo tempo sul campo. Una volta sono tornato da un viaggio sulla luna e ho trovato che il peggior imbecille della facoltà si era preso un ufficio che volevo io. Era d’angolo. Quattro grandi finestre e una vista splendida. Se fossi stato a Berkeley, glielo avrei impedito. Su questo non c’è alcun dubbio! Ma non ne ero informato. C’erano cose che avrei dovuto sapere e invece non sapevo.

Dava l’impressione di essere ancora adirato, sebbene avesse perso l’ufficio più di cento anni prima.

— Che cosa pensi che accadrà? — chiesi.

— Credo che riusciremo a parlare con il team medico. Ricordati delle persone che fanno parte al momento del comitato per l’amministrazione quotidiana. Due biologi e tre membri dell’equipaggio.

— Non è una maggioranza — osservai.

— I cinesi di solito votano in blocco, e penso che saranno a favore dell’intervento, in generale e in questa situazione. Ricordati la teoria di Jian l’idraulico. È nostro dovere rivoluzionario salvare dal ristagno queste sventurate popolazioni.

Riflettei un momento, poi feci il gesto dell’incertezza.

— Dovrei misurare la temperatura all’oracolo — disse De-rek. Diede un’occhiata alla mia catasta di rami. — E tu dovresti procurarti altra legna.

Tornai una seconda volta e trovai l’oracolo addormentato.

— Non c’è traccia di infezione — disse Derek. — La sua temperatura è quasi la stessa di quella di Nia. È assai probabile che sia stato il gran caldo a farlo star male. E il viaggio, e forse qualche genere di reazione alla notte scorsa. Trattare con gli spiriti richiede un sacco di energia. Gli sciamani e le streghe spesso si sentono male per parecchi giorni in seguito.

— Quindi non ci occorre alcun aiuto dalla nave.

— No. Ma non ho intenzione di dirglielo. Se stai cercando Nia, si è fatta prestare il mio arco ed è andata a caccia lungo il fiume.

Il sole calò dietro la parete della valle e Nia tornò con una lucertola. Era grossa, lunga un metro e mezzo. Nia sventrò l’animale e lo scuoiò. Lo arrostimmo. La carne era scura e, più di ogni altra cosa, sapeva di pesce.

L’indomani mattina il cielo era limpido. Feci il mio yoga, terminando con il saluto solare. L’oracolo mi osservava. — Che genere di cerimonia è quella? — chiese alla fine.

— Sto dando il benvenuto al sole e lo sto lodando.

— Ah. Non sono ancora riuscito a stabilire in che cosa credi. Era ancora troppo presto per discutere di religione. — Come stai?

— Ho dormito bene. Non ho fatto sogni. Il mio braccio va meglio. Credo che sia stato un bene andarcene dalla grotta. Penso che sarei potuto stare più male se fossimo rimasti. Gli spiriti di quel luogo sono molto affamati e non sono certo che il mio dono fosse sufficiente per loro. Ma non sono spiriti che viaggiano. Non mi hanno seguito.

Mangiammo ancora un po’ della lucertola, fredda questa volta, poi sellammo i cornacurve e proseguimmo.

La valle continuava ad allargarsi. Poco dopo mezzogiorno mi guardai attorno e vidi che le coste rocciose erano sparite. Mi girai sulla sella per guardarmi indietro. Eccole là: una parete gialla, illuminata dal sole, che si estendeva a nord e a sud fin dove potevo vedere. Avevamo lasciato la valle del nostro piccolo affluente e ci trovavamo nella valle del Grande Fiume, viaggiando attraverso una foresta pianeggiante. Numerosi alberi erano caduti e parecchi altri erano pericolosamente inclinati. C’erano macchie di colore sui tronchi: azzurro chiaro, verde chiaro e giallo. Le chiazze, conclusi, erano organismi. Con ogni probabilità si nutrivano del tessuto morto. Questo era un bassopiano. Pianura alluvionale. Parecchi alberi dovevano morire negli anni in cui il livello del fiume saliva.

Nel pomeriggio inoltrato arrivammo a un vasto stagno, o forse un’insenatura del fiume. Non avrei saputo dire quale. Vi galleggiava della schiuma di un azzurro acceso e c’erano fiori di color arancione che mi ricordavano il loto. La nostra pista costeggiava il fiume. Al massimo eravamo a dieci metri di distanza, viaggiando fra la foresta e la riva.

Davanti a noi un animale sguazzava nell’acqua bassa. Era un bipede, di una specie che non avevo mai visto prima, molto alto e snello. Il colore era marrone chiaro o grigio smorto. Aveva il solito collo lungo con il capo minuscolo. Si piegava e sradicava fiori, ficcandosi in bocca i petali arancione e gli steli azzurri.

La scena aveva una bellezza strana: l’acqua scura, i fiori sgargianti, il bipede che si muoveva in modo attento e aggraziato, simile a un danzatore, la lunga coda sollevata in modo che non sfiorasse la superficie dell’acqua.

— Laggiù — disse Derek e puntò il dito. Più al largo l’acqua si muoveva leggermente. I fiori si alzavano e si abbassavano. Vidi delle increspature, poi una testa. Era una lucertola, ma molto più grossa di tutte quelle che avevamo visto fino a quel momento.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

La testa andò sotto. Intravidi una lunga schiena con una fila di aculei, poi una coda, poi più nulla all’infuori di un’increspatura che si spostava verso la riva. Il bipede era forse cieco? Mi venne voglia di gridare.

Il bipede raccolse un’altra manciata di fiori e se li ficcò in bocca.

— Adesso — disse Derek.

La lucertola colpì, l’enorme corpo scuro che usciva con impeto dall’acqua. Il bipede urlò e cadde. Gli uccelli si levarono in volo dagli alberi e dai cespugli lungo la riva.

Tirai le redini del mio cornacurve. I corpi rotolavano nell’acqua. Vidi una schiena scura, una lunga coda scura, il ventre bianco del bipede.

Gli uccelli volavano sopra la mia testa, lanciando grida di avvertimento. Ci fu un altro strillo. Dio! Che suono!

Il mio cornacurve rabbrividì. Serrai la mia presa sulle redini.

Nia era accanto a me. Non l’avevo vista arrivare. Prese la briglia del mio animale. — Calmo — disse. — Calmo. — Con la mano libera strofinò il collo coperto di pelo scuro.

Tornai a guardare l’acqua. Il dimenarsi era cessato. Scorgevo ancora il ventre bianco del bipede che fluttuava appena sotto la superficie dell’acqua. Per un momento restò immobile, poi sobbalzò, e sobbalzò ancora. Si muoveva verso riva. No. Veniva mosso. La lucertola lo trascinava. Vidi la schiena coperta di aculei. La testa smussata si sollevò. Le mandibole erano ancora strette attorno a una zampa sottile.

Aiya - disse l’oracolo. — Questo è un animale che non ho mai visto prima.

— Nemmeno io — fece Nia. — Sebbene abbia sentito dire che ci sono grosse lucertole nel fiume.

— Basta discorsi — disse Derek. — Continuiamo a muoverci. Voglio passare oltre quella cosa mentre è ancora indaffarata.

Nia lasciò andare la briglia del mio animale. Sbattei le redini. Il cornacurve si avviò.

La nostra pista girava attorno all’insenatura e ci portava verso la lucertola, che ora era uscita del tutto dall’acqua. Trascinò la sua preda su per la riva, poi si guardò attorno. Cielo, se era brutta! La pelle scura era cascante e piena di pieghe. Gli aculei che correvano lungo tutto il dorso erano piegati e spezzati. Alcuni mancavano del tutto. Quegli animali dovevano combattere. C’erano macchie sul corpo pesante: numerose e di un grigio smorto. Un parassita, giudicai, una specie di malattia della pelle.

La lucertola ci fissò, poi afferrò di nuovo il bipede, tirandolo fuori del tutto dall’acqua. Lo lasciò andare e sollevò la testa, osservandoci di nuovo.

Eravamo a venti metri di distanza e non avevamo altra scelta che passarle accanto. Continuammo a muoverci e nessuno di noi parlava. Il mio cornacurve scuoteva le orecchie. Davanti a me l’altro cornacurve sembrava altrettanto nervoso. Agitava avanti e indietro la corta coda, pronto a dare un segno di allarme. Nia camminava al mio fianco, una mano sulla briglia dell’animale.

La lucertola chinò la testa e spinse col muso il bipede, girandolo così che avesse il ventre all’insù. Poi lo addentò.

Dopo di che non ci prestò più la minima attenzione. Un paio di volte mi girai sulla sella a guardare indietro. La prima volta la testa della lucertola era bassa. La seconda volta la testa era sollevata. Frammenti di carne le penzolavano dalle mandibole e un lungo pezzo di intestino era avvolto attorno al muso.

Rabbrividii. Il mio cornacurve sbuffò. La pista tornava nella foresta. Mi voltai un’ultima volta. L’insenatura era sparita alla vista.

— Quant’era grossa quella creatura? — chiesi.

Nia disse: — Il corpo era grande quanto Derek.

— Due metri più la coda — disse Derek in inglese.

— Uh! — esclamai.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

Un po’ prima del tramonto arrivammo alla riva del fiume. La foresta finiva all’improvviso. Di fronte a noi c’era una vasta distesa d’acqua. Quanto era larga? Un chilometro? Era costellata di basse isolette. Alcune erano brulle: banchi di fango o di sabbia. Altre erano ricoperte di vegetazione. L’acqua scorreva placida, luccicando alla luce del sole che era quasi sparito.

— È uno spettacolo che non vedevo da molti inverni — ci disse Nia. L’ho attraversato in inverno a nord di qui. Era gelato. Quello è il periodo migliore per attraversarlo.

— Non l’ho mai visto prima — disse l’oracolo. — È certamente grande.

Ci riposammo per un po’. Il sole calò. Sopra di noi volavano uccelli, diretti verso i loro nidi.

— Sono stanco — disse l’oracolo. — Accampiamoci.

— Non qui — fece Nia.

— Perché no? — domandai.

Lei puntò il dito verso nord. Un filo di fumo si levava lento nel cielo. — Passeremo la notte con quelle persone… se sono donne. Se invece è un uomo, meglio saperlo ora, prima di dormire.

Ci dirigemmo verso il fumo, viaggiando lungo l’argine del fiume. Scorsi una casa. No. Una tenda, a forma di emisfero. La porta si apriva verso il fiume. Davanti alla porta c’era un fuoco che brillava nel crepuscolo.

Nia si fermò e gridò: — Arriva gente!

Non ci fu risposta.

— C’è qualcuno in casa?

Una figura emerse dalla tenda. Indugiò presso il fuoco, guardando nella nostra direzione e aggrottando la fronte mentre cercava di vedere nell’oscurità. — Ti sento ma non riesco a distinguere che aspetto hai. — La figura fece il gesto che significava "vieni qui".

Smontai di sella. L’oracolo fece altrettanto. Barcollò e Derek lo cinse con il braccio. Nia prese le redini degli animali mentre noi ci facevamo avanti nella luce del fuoco.

Atcha! - esclamò la persona. — Siete qualcosa da guardare!

— Siamo viaggiatori — disse Derek. — Il nostro amico è sofferente. Abbiamo bisogno di un posto dove stare per la notte.

La persona tacque. La guardai. Ero arrivata al punto di riuscire solitamente a indovinare il sesso di un nativo, ma questo individuo mi lasciava perplessa. La voce era profonda, il corpo ampio e massiccio. Tutto questo faceva pensare a un maschio. Ma la pelliccia era quella di una donna: soffice e liscia con la lieve lucentezza del velluto.

Indossava una tunica gialla con ricami sulle maniche e sul bordo. La fibbia della cintura era d’argento. E portava braccialetti d’oro e di bronzo.

Quasi certamente un uomo. Erano loro che amavano i fronzoli. Eppure non avevo mai visto un uomo con una pelliccia così.

— Potete restare qui — disse l’individuo.

Derek fece il gesto della gratitudine.

— Devo dirvi che non intendo dividere con voi la mia tenda. È piccola. Non ho più l’abitudine di vivere con altre persone. Ma ho un sacco di coperte e viveri sufficienti per tutti. Voglio sapere di voi. Non ho mai visto persone nude come voi.

Derek aiutò l’oracolo a sedersi, poi si raddrizzò. Una volta tanto era completamente vestito con jeans e una camicia. I jeans erano sporchi, la camicia strappata. Gli stivali erano consumati.

La persona disse: — In un primo tempo ho pensato che foste persone che avevano perso la pelliccia. Ci sono due brutte malattie negli acquitrini a sud di qui. Una fa tremare un individuo finché muore. L’altra fa cadere il pelo a chiazze. Di solito questa non uccide. Ma certamente mette in imbarazzo! — Corrugò la fronte. — Adesso vedo che non avete il corpo di persone. Siete troppo magri. Avete le gambe e le braccia troppo lunghe. E il modo in cui vi muovete non mi sembra giusto. Che cosa siete?

L’oracolo sollevò il capo. — Viaggio con loro da parecchi giorni. Hanno un aspetto strano, ma non sono demoni. E non sono neppure mostri come quelli che i bambini sacri scacciarono dal mondo molto tempo fa.

— Questa è una storia che non conosco — disse l’individuo. — O almeno non mi suona familiare. Di dove sei?

— Il mio popolo vive a est di qui. È il Popolo del Rame della Pianura. Io sono il loro oracolo. Viaggio con queste persone — indicò Derek e me con un cenno della mano — perché il mio spirito mi ha ordinato di farlo.

"L’altra persona che sta con noi, la donna che si tiene nell’ombra, è stata cresciuta fra il Popolo del Ferro."

Atcha. - L’individuo guardò Nia. — Molti fra la tua gente vengono qui. Li traghetto oltre il fiume. Come ti chiami?

Nia non disse nulla.

— Ti vergogni — disse la persona in giallo. — Posso capirlo. Stai viaggiando con individui molto strani. Ti dirò qualcosa. Non mi importa. Tutti devono venire da me, anche quelli che preferirebbero nascondersi o mantenere segreto quello che fanno. Ho visto uomini che viaggiano insieme. Ho visto donne che amano viaggiare sole. Li porto da una riva del fiume all’altra. Tengo la bocca chiusa. Non critico.

— Il mio nome è Nia e non mi vergogno di queste persone.

L’individuo ci guardò di nuovo. — Devo dire che sono davvero strani. Io sono Tanajin. Sono cresciuta a sud di qui. La mia gente, la gente che mi ha cresciuta, vive negli acquitrini dove il Grande Fiume entra nella pianura di acqua salata. Il loro dono è il cuoio, che è fatto con la pelle degli umazi, che sono lucertole più grandi di qualunque altra si trovi nel fiume.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Io sono Lixia — dissi. — Questo è Derek. Il mio popolo è chiamato gli Hawaiani; il suo gli Angelinos.

— È un uomo. — Tanajin fissò Derek. — Non me ne ero accorta. E tu sei una donna?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Siete i benvenuti. Legate i vostri animali dietro la mia tenda. Lì saranno al sicuro. Le lucertole non vanno a caccia fuori dall’acqua, e gli assassini-delle-foreste non amano lasciare l’ombra degli alberi.

Nia fece il gesto dell’intesa. Portò via gli animali. Derek la seguì.

C’era una grossa pietra piatta accanto al fuoco. Tanajin la spinse fra le fiamme, poi prese un bastoncino e raccolse la brace attorno alla pietra. Una superficie per cucinare. Poi fece il gesto che significava "solo un minuto" ed entrò nella tenda.

— È un uomo o una donna? — domandai all’oracolo.

— Una donna. Non riesci a capirlo?

— No. E il nome non ha una desinenza che io riconosca.

— Mi sono abituato a te — disse lui. — Continuo a dimenticare che sei completamente fuori dal comune. Ci vogliono altre persone per ricordarmelo.

Tanajin uscì, portando qualcosa che mise sulla pietra per cucinare.

Mi protesi in avanti.

— È pane. — Sollevò il pezzo superiore della pila. Era piatto e rotondo come una frittella o una tortilla.

— Non un genere che io conosca — disse l’oracolo.

— Lo faccio con le radici della pianta di talina. Cresce negli acquitrini. La usano le persone del sud. E vi aggiungo la farina che mi danno i viaggiatori quando li trasporto al di là del fiume.

— Hai una barca? — chiesi.

— Una zattera. Questi abitanti della pianura si ostinano a portare ovunque i loro animali. Non posso trasportare un cornacurve su una canoa, neppure su una grossa come quelle utilizzate dagli uomini negli acquitrini. Loro non hanno nessun’altra casa, non le tende come quelle che gli uomini portano con sé qui sulla pianura e montano quando si accampano. Quando piove gli uomini delle paludi innalzano un paio di lance, poi stendono un mantello di pelle di umazi sulle lance, e quello è il loro rifugio.

— Sembra disagevole — osservò l’oracolo.

— Non è tanto male. Sono vissuta in quel modo quando ho risalito il fiume. Ma quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono procurata una tenda. A una donna piace avere una casa che non oscilli.

Si alzò e tornò dentro la tenda. Questa volta portò fuori una scodella e un tegame. Il tegame era basso e con un lungo manico. Sembrava fatto di ferro. Lo mise sulla pietra accanto al mucchio di pane. La scodella fu appoggiata sul terreno. Era piena di un liquido biancastro.

— Ho trovato delle uova vicino al fiume stamattina. Qualche stupida lucertola ha fatto il nido nel periodo sbagliato dell’anno. Se i piccoli fossero usciti, sarebbero morti.

— Perché? — chiesi.

— Guarda le foglie! Stanno cambiando colore. — Batté leggermente sul lato della scodella. — Quando questi piccoli fossero stati pronti a uscire dall’uovo, la loro madre se ne sarebbe già andata. Non ci sarebbe stato nessuno a proteggerli. Nessuno a prendersi cura di loro.

Le lucertole erano materne. Buffo, non lo sembravano affatto.

— Dove va la madre?

— A sud lungo il fiume. Tutte quelle grosse lo fanno. Continuano a spostarsi finché non arrivano in un posto dove l’acqua non gela. Molte finiscono nelle paludi. Gli umazi le mangiano e diventano grassi e lenti, e allora è possibile cacciare gli umazi.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

— E che ne è di quelle piccole? Vanno a sud?

Tanajin fece il gesto che significava "no". — Scavano delle buche nel fango lungo le rive del fiume. Si arrotolano su se stesse e si mettono a dormire e si svegliano in primavera. Tu fai un sacco di domande.

Feci il gesto dell’intesa. — Hai qualcosa in contrario?

— Se non mi va di rispondere, non lo faccio. — Rovesciò il contenuto della scodella nel tegame. Il liquido incominciò a sfrigolare.

Derek e Nia emersero dalle tenebre portando sulle spalle le nostre sacche. Derek lasciò cadere a terra quelle che portava. — Credo che darò un’altra occhiata al tuo braccio.

— Bene — rispose l’oracolo. — Fa male, e non sono del tutto certo che la tua magia funzioni qui presso il fiume. Gli spiriti di qui non possono essere gli stessi della tua terra o della mia terra. Tanajin non sa nulla dei bambini sacri.

— Nemmeno io — dissi.

— Più tardi — fece Derek. Tirò fuori la cassetta del pronto soccorso.

Il liquido nella padella gorgogliava. Tanajin tirò fuori un cucchiaio dalla sua cintura e sollevò i bordi della cosa che stava cucinando, qualunque cosa fosse. Uova strapazzate? Un’omelette? Il liquido in cima scivolò di sotto. Usando la mano libera, la donna fece il gesto della soddisfazione.

— Come sei arrivata qui? — le domandai. — Perché hai lasciato la tua casa?

— È una lunga storia. Non mi va di raccontarla. — Rivolse un’occhiata a Nia. — A te piace spiegare come ti sei allontanata tanto dal villaggio della tua gente?

— No — rispose Nia.

Tanajin si alzò in piedi. — Devo andare a prendere un’altra cosa. Tenete d’occhio le uova.

Quando se ne fu andata, Nia disse: — Non so, che cosa dovrei aspettarmi? Che cosa dovrebbero fare le uova?

Mi avvicinai di più al fuoco. Ora vedevo chiaramente la padella. Il manico era intarsiato di metallo grigio: un disegno che raffigurava animali, due creature dai lunghi corpi aggrovigliati l’uno all’altro come nastri in una treccia. Si aggrappavano l’uno all’altro con le zampe artigliate. Le teste si fronteggiavano accanto alla padella, le bocche aperte che quasi si toccavano, le lingue che uscivano a spirale fra file di denti aguzzi. Che cos’erano? Gli umazi? Tanajin aveva lasciato lì il cucchiaio. Lo usai per sollevare i bordi dell’omelette. Quasi cotta.

— Sembra che la ferita abbia sanguinato un po’ — disse Derek. — Ma non è niente di grave. Non c’è alcun segno di putrefazione.

— Bene — disse l’oracolo. — Non voglio morire.

— Non sono molti a volerlo — ribatté Nia.

L’oracolo piegò il braccio. Derek vi aveva fatto una nuova fasciatura. — Fa ancora male. Spero di non incontrare più altri spiriti come quelli della caverna. Non mi piace donare il sangue.

Le uova sembravano cotte. Sollevai la padella dal fuoco, ma la rimisi subito giù e agitai in aria la mano. — Ohi!

— Avrei dovuto avvertirti — disse Tanajin. — Il manico si arroventa. Dammi il cucchiaio.

S’inginocchiò e divise l’omelette in quattro parti, poi prese un pezzo di pane e vi appoggiò sopra un quarto dell’omelette, ripiegando il pane. Un sandwich alle uova. Me lo porse. — La caraffa lì per terra è piena di birra. L’ho fatta io. Non è buona come la birra che portano i viaggiatori. Ci sono svantaggi a vivere da soli.

Presi la caraffa e mi allontanai dal fuoco. Il pane che tenevo in mane era caldo e soffice. Al tatto sembrava unto. Ne staccai un morso. Era unto… e saporito. Le uova avevano un gusto forte. A che cosa somigliava? Forse al pesce. La birra era aspra. Mi piaceva.

I miei compagni presero i loro sandwich. Mangiammo e bevemmo. Tanajin ci osservava.

Terminato di mangiare, Nia disse: — C’è un lago a sud di qui.

Tanajin fece il gesto dell’assenso.

— Dobbiamo arrivare laggiù.

Tanajin aggrottò la fronte. — Non è facile. La pista attraversa il fiume. Porta dal territorio del Popolo dell’Ambra a quello del tuo popolo, Nia. Prima che io arrivassi qui, i viaggiatori dovevano accamparsi sulla riva del fiume e abbattere alberi. Costruivano zattere che li portassero sull’altra sponda del fiume e poi dovevano abbandonare lì le zattere a marcire. Uno spreco di buon legname!

"E non sapevano che cosa fare una volta che si trovavano sull’acqua. Si lasciavano portare a valle dalla corrente. Restavano incagliati nei tronchi sommersi. Le lucertole li inseguivano. Ho sentito parlare di queste cose.

"Così ho pensato: ecco che posso fare qualcosa di utile. Ecco un dono che questa gente apprezzerà.

"Non c’è nessuna pista che costeggi il fiume. Il percorso è arduo. Ci sono acquitrini e paludi. Vi ci vorranno parecchi giorni."

Derek disse: — Dobbiamo arrivarci presto.

— Non è possibile.

Derek si protese in avanti. — È importante. Dobbiamo incontrare delle persone. Abbiamo promesso di trovarci là.

Tanajin bevve la birra. Mi porse la caraffa, poi si cinse le ginocchia con le braccia e fissò il fuoco. — Potrei portarvi giù per il fiume con la mia zattera. Ma la perderei. La corrente è troppo impetuosa. Non potrei mai risalire il fiume con la zattera. E c’è un punto in cui l’acqua scende rapidamente. Con una imbarcazione riuscireste a superare quel tratto, ma non sono certa che una zattera possa farcela. — Tacque un momento. — Lasciatemi pensare. Forse domattina saprò che cosa fare. — Si alzò in piedi. — Vi ho detto che avevo delle coperte. Sono ammucchiate fuori dalla porta. Dormite bene.

Tanajin entrò nella tenda. Presi una coperta, troppo stanca per esaminarla, anche se, standovi sdraiata sotto, notai come fosse pesante e calda.

— Lixia? — Era Derek.

— Eh?

— Ho chiamato la nave.

Sollevai il capo. Derek era seduto accanto al fuoco. La luce rossastra gli metteva in evidenza uno zigomo e gli faceva brillare un occhio.

— Sì? — dissi.

— Non avremo alcuna conversazione con un dottore.

— Che cosa? L’avevi calcolato. Ne eri sicuro.

— Uuh. — Sorrise. Vidi l’angolo della sua bocca che si sollevava. — La Ivanova ha deciso che votare a favore di un qualunque genere di intervento prima della grande riunione avrebbe nuociuto alla loro posizione. E i cinesi si sono astenuti. Tutti.

— Perché?

— Non chiedermelo. Non ne ho la minima idea.

— Ti importa davvero tanto?

— Lixia, non arriverai mai da nessuna parte finché non comprenderai l’importanza della politica.

— Mmm — dissi e tornai a coricarmi.

— Un’altra cosa.

— Sì?

— Gregory è stato prelevato. Non stava imparando molto, seduto da solo nella sua capanna, e la capanna puzzava, e il cibo era una noia. Siamo le sole persone rimaste su questo continente.

— Eddie vuole ancora che ce ne andiamo?

— Vuole avere quella possibilità. Se vince la sua fazione, ha intenzione di mettere in quarantena il pianeta.

— Merda.

Derek sorrise. — Yvonne è intenzionata a passare dalla sua parte nella grande lotta. Santha e Meiling restano dove sono, per il momento.

— Mmm — dissi di nuovo.

Mi svegliai all’alba, mi alzai e mi stiracchiai, poi passeggiai lungo la riva finché non trovai una macchia di arbusti, orinai e poi mi lavai le mani nel fiume. C’era uno stormo di uccelli sull’isolotto più vicino, appollaiati fra gli alberi. Erano grossi e bianchi. Continuavano a muoversi, svolazzando da un albero all’altro o lasciando del tutto l’isola e volando via sul fiume. Uno volò sopra di me. Era abbastanza in alto da trovarsi in piena luce del sole. Com’era splendido! Di un bianco così luminoso!

Tornai all’accampamento. Derek era sparito. Con ogni probabilità era andato a controllare gli animali. L’oracolo giaceva avvolto nella sua coperta. Nia stava rovistando in una delle bisacce da sella e Tanajin sedeva accanto al fuoco, sopra il quale era sistemato un treppiede di metallo con appesa una pentola. Le fiamme la lambivano. Guardai dentro. Poltiglia grigiastra.

Tanajin disse: — Ho pensato ancora un po’ alla vostra necessità.

Feci il gesto che significava "va’ avanti".

— Non esiste una strada veloce attraverso gli acquitrini. Questo ve l’ho già detto. Non esiste nemmeno una strada sicura. Le grosse lucertole amano scaldarsi al sole sulle rive del fiume e vanno a caccia fra le secche. Sono affamate in questo periodo dell’anno. Sanno che devono mangiare in abbondanza prima di iniziare il viaggio verso sud.

"Ci sono altri animali che sono pericolosi. Gli assassini-delle-foreste. I piccoli mathadi. Non sono più grandi della mia mano, ma il loro morso è velenoso. Dovete proseguire sul fiume."

— In che modo? — chiesi.

— C’è un uomo che vive qui vicino. Come me viene dal sud. Un tempo era un grande cacciatore di umazi. Conosce il fiume, tutto quanto. Dopo che avremo mangiato, accenderò il fuoco e gli farò un segnale. Se si trova nella zona, verrà. Forse vi porterà fino al lago.

Feci il gesto della gratitudine. Tanajin diede un’altra mescolata alla poltiglia. — Dovrete lasciare qui gli animali. Non ci staranno nella barca.

Feci il gesto che significava "non importa". — Ti piacerebbe averli? Ti dobbiamo un dono in cambio del tuo aiuto.

Tanajin aggrottò la fronte. — Io non viaggio via terra. Non per lunghe distanze. Posso andare a piedi in qualunque posto desideri visitare.

Nia si avvicinò. Sembrava in collera. — Che cosa stai dicendo, Li-sa? Come puoi offrire gli animali a questa donna?

Alzai gli occhi, sorpresa. — Ha trovato un mezzo per farci arrivare al lago.

— Voi incontrerete i vostri amici e ve ne andrete con loro. È il vostro piano, non è vero?

— Non ne sono sicura. Forse.

— Se lo fate, che ne sarà di me? E dell’oracolo? Che cosa ci succederà? Resteremo qui da soli nel mezzo della pianura. — Si accosciò e mi fissò. — Non voglio andare dal Popolo dell’Ambra. E non credo che sarò la benvenuta presso il Popolo del Ferro. Abbiamo bisogno di quegli animali! Dovremo percorrere una lunga distanza prima di trovare qualcuno disposto a offrirci ospitalità per tutto l’inverno.

— Che cosa avete fatto? — s’informò Tanajin.

— Abbiamo avuto sfortuna — tagliò corto Nia. Il suo tono era brusco.

— Peggiore che nella maggior parte dei casi, a quanto sembra — fu il commento di Tanajin. Prese una scodella e la riempì di poltiglia. — Ho sentito parlare di persone che suscitano l’ira di un villaggio contro di loro. Ma due! È eccezionale!

— Non ci pensavo — dissi a Nia. — Hai ragione. Avrete bisogno dei cornacurve. Dovremo trovare un altro dono per Tanajin. — Esitai. — Non è necessario che veniate con noi per il resto del viaggio fino al lago. Potreste restare qui.

— È questo che vuoi? — domandò Nia.

— No. Voglio che veniate. Non sarà facile lasciare te o l’oracolo. Non voglio farlo adesso.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Verrò con voi per il resto del tragitto. Finché non incontrerete i vostri amici.

Guardai Tanajin. — Ti prenderai cura degli animali finché Nia e l’oracolo non saranno di ritorno?

Lei mi porse la scodella di poltiglia, poi fece il gesto dell’assenso.

Io feci il gesto della gratitudine e assaggiai la poltiglia. Aveva una consistenza granulosa e un gusto dolce, quasi di noce. Non male.

— C’è della birra da bere — disse Tanajin. — Mangeremo e poi alimenterò il fuoco.

Nia svegliò l’oracolo. Derek tornò. Gli spiegai il nostro piano fra un boccone e l’altro di poltiglia.

Lui fece il gesto dell’approvazione, poi guardò Tanajin. — Il fiume è abbastanza sicuro? Ho bisogno di fare un bagno.

— La corrente è forte qui. Le lucertole non amano particolarmente l’acqua che corre veloce. È improbabile che caccino in questa zona. Puoi entrare nel fiume, ma rimani vicino alla riva e tieni gli occhi ben aperti. Quegli animali non sempre fanno quello che ci si aspetterebbe.

— Okay — disse Derek.

Tanajin aggrottò la fronte.

— D’accordo — ripeté Derek nel linguaggio dei doni.

— Vengo con te — dissi e mi alzai in piedi.

— Vi occorre un qualcosa — disse Tanajin.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Vi faccio vedere. — Tanajin si alzò ed entrò nella tenda. Uscì con un oggetto delle dimensioni di una palla da baseball. — Questo.

Presi l’oggetto. Era giallo e sembrava oleoso. — Non abbiamo niente del genere — dissi.

— Non c’è da stupirsi se siete sporchi e puzzate.

Derek disse: — Non abbiamo niente del genere con noi. Ce l’abbiamo a casa. E lo usiamo.

— Bene, usatelo adesso — ribatté Tanajin.

Ci dirigemmo verso monte lungo il fiume finché non arrivammo in un punto che non si vedeva dalla tenda, ci spogliammo ed entrammo con i piedi nel fiume. L’acqua era tiepida, più o meno della stessa temperatura della birra locale di Tanajin. Anche vicino a riva riuscivo a sentire la corrente. Mi abbassai finché l’acqua non mi coprì, poi mi alzai e mi fregai con quella specie di palla gialla. Faceva la schiuma. Meraviglioso!

Derek allungò la mano. — Anche a me.

— Solo un minuto. — Mi coprii di schiuma e mi fregai con la schiuma anche i capelli. Derek restò a guardare, nell’acqua fino alla vita, le mani sui fianchi. — L’impazienza su un monumento — dissi.

— Che cosa?

— È una citazione, ma non me la ricordo esattamente.

— Shakespeare. La Dodicesima Notte. "Sedeva come la Pazienza su un monumento, sorridendo al dolore." Non ricordo l’atto o la scena, ma è Viola che parla al duca. Di sé, naturalmente, sebbene il duca non lo sappia. Dammi il sapone.

Glielo porsi. Lui s’insaponò. Mi risciacquai. C’era qualcosa di uguale al pulirsi? Soprattutto dopo aver viaggiato a lungo. Mi feci ridare il sapone e mi ricoprii di schiuma una seconda volta.

Derek disse: — Credo che dovremmo servirci di questa roba per lavare i nostri indumenti. Sono arrivato al punto di non voler più stare controvento a me stesso.

Passò un tronco galleggiante. Sopra c’era una lucertola. Una piccola, non più lunga di un metro. Girò la testa e ci osservò, poi gonfiò la sacca nella gola. Ca-roak!

— Altrettanto a te — dissi.

Tornammo a riva, lavammo i nostri vestiti e li stendemmo sulla sabbia ad asciugare. L’aria era quasi immobile. La giornata si stava facendo molto calda. Ci sedemmo fianco a fianco. Lanciai un’occhiata a Derek. I suoi capelli erano di nuovo biondi. La sua pelle era tornata del suo consueto colore: bruna e bruna rossiccia. Era attraente.

— Gli antichi santi avevano ragione — disse. — Quelli che non si facevano il bagno. Essere sporchi ostacola il sesso. Non sono sicuro di quale sia il nesso esatto, e non funziona per tutti, naturalmente. Ma di certo funziona per me. — Fece il gesto della domanda.

Risposi con il gesto dell’approvazione e quello dell’assenso.

Facemmo l’amore sulla sabbia, poi entrammo nuovamente nel fiume e ci lavammo. Ci sedemmo di nuovo. Lui si protese verso di me e mi baciò l’orecchio. — Aristotele non aveva ragione. "Tutti gli animali sono tristi dopo il sesso." Io tendo a sentirmi dolce e sentimentale dopo essermi calmato. — Sorrise. — E compiacente, come se avessi realizzato qualcosa fuori dall’ordinario. Un gioco di prestigio con le carte migliore della media o un saggio davvero intelligente.

— Non sapevo che facessi giochi di prestigio con le carte.

— Non al momento. Ho lasciato lassù le carte.

Guardai verso valle. Una colonna di fumo denso si levava nel cielo. Il fuoco di segnalazione.

— Ma posso dimostrare di essere abile — disse Derek.

— Oh, davvero?

— C’era qualcuno nella tenda quando siamo arrivati ieri sera. Si nascondeva. Credo che fosse un uomo.

— Come fai a saperlo?

— Impronte di passi. Grandi. Che entravano e uscivano. Quelle vicine alla tenda erano confuse, ma ne ho trovate altre più lontano. Impronte ben distinte. Una serie era fresca. Quelle che si allontanavano. Scommetto che se ne è andato dopo che ci siamo messi a dormire. — Derek fece una pausa. — Non dall’ingresso principale. Mi avrebbe svegliato. Ha separato due pelli sul retro.

Riflettei un momento. — Pensi che si tratti dell’uomo al quale sta facendo segnalazioni?

— Assai probabile. Non voleva che sapessimo che era amica di un uomo. Sebbene io sia un uomo, e anche l’oracolo. Queste persone sono guardinghe.

Controllai i vestiti. Erano ancora umidi. — Mi sono resa conto solo stamattina che c’è una possibilità che il nostro viaggio sia quasi finito. Ancora un giorno o due e non vedremo più Nia né l’oracolo.

Derek fece il gesto dell’approvazione.

— Non mi è rincresciuto lasciare quel villaggio del New Jersey. Quelle persone erano odiose. Ne sono uscita viva a stento. Ma tutte le altre volte in cui ho terminato uno studio, è stato doloroso. Almeno un po’. Entrare e uscire dalla vita di altri individui.

— Di solito io sono pronto ad andarmene — disse Derek. — Incomincio a pensare alla mia casa di Berkeley. Ai miei libri. L’impianto idraulico interno. La cucina con tutto quello che mi serve per cucinare. E tutte le donne avvenenti che si trovato in giro per l’università. — Esitò. — In seguito, quando sono tornato, sento la mancanza delle persone che stavo studiando. — Sorrise. — Fra le comodità della mia casa.

Controllai di nuovo i vestiti. Parlammo delle persone che avevamo studiato e delle persone che avevamo conosciuto come amici e colleghi sulla Terra. Una conversazione divagante, piena di pause. Facemmo l’amore una seconda volta e ci lavammo di nuovo nel tiepido fiume. La giornata diventava sempre più calda. A ovest comparvero delle nuvole.

Intorno a mezzogiorno Nia venne a cercarci. — L’uomo è arrivato. Deve vivere qui vicino. È disposto ad accompagnarci fino al lago, ma vuole partire subito. Dice che ci sarà un temporale nel pomeriggio. Prima di allora vuole aver disceso un bel tratto di fiume.

Ci infilammo la biancheria e scuotemmo via la sabbia dagli altri indumenti, li arrotolammo e li riportamo al nostro bivacco.

C’era una canoa tirata in secca sulla riva. Ricavata da un tronco scavato e piuttosto grossa. Era sorprendente che un uomo solo avesse bisogno di un’imbarcazione così grande. La prua era alta e la parte superiore era costituita da una testa di animale scolpita in modo elaborato. Gli occhi erano intarsiati di conchiglie. La bocca era aperta e aveva denti veri: triangolari e bianchi. Erano tutti delle stesse dimensioni. Generici. Con ogni probabilità i denti di un pesce o di un rettile o di un uccello molto grosso. Il proprietario della canoa non si vedeva da nessuna parte.

— È dentro la tenda — disse l’oracolo. — Sta parlando con Tanajin. Sono una strana coppia.

— Faremmo meglio a infilarci le camicie — disse Derek. — La giornata è radiosa. Ci scotteremo sull’acqua.

— Okay.

Infilammo negli zaini i jeans e il resto delle nostre cose.

Nia disse: — Ho parlato con Tanajin questa mattina e le ho spiegato che sono una lavoratrice del ferro. Lei ha qui degli utensili, lasciatile da una viaggiatrice. Dice che c’è un buco sul fondo della sua migliore pentola per cucinare, e Ulzai, l’uomo, ha un coltello che non ha più filo. E c’è altro lavoro da fare.

— Io non sono di grande utilità a una fucina — aggiunse l’oracolo. — Ma conosco storie, e i miei sogni sono utili.

Reciprocità. Un dono dev’essere sempre ricambiato. Che cosa avremmo potuto dare a Nia e all’oracolo in cambio del loro aiuto?

Tanajin uscì dalla tenda, portando una sacca di cuoio e una grossa anfora di metallo. — Cibo — disse.

L’uomo la seguiva. Non era alto, ma aveva il corpo ampio e pesante. La sua pelliccia era lunga e ispida e lo faceva sembrare ancora più grosso di quanto fosse in realtà. Zoppicava in modo evidente. Aveva una chiazza di pelame bianco su una gamba. Era forse segno di tessuto cicatrizzato? L’uomo volse il capo e ci osservò con attenzione. Sul lato della faccia c’erano due linee verticali di pelo bianco. La linea interna arrivava all’angolo della bocca e il labbro era girato all’infuori. Riuscivo a vedere la rossa membrana mucosa.

Gli occhi erano rossi, le pupille contratte e così strette che non riuscivo a vederle. Lo sguardo era assente. Strano!

— Non c’è dubbio che siate diversi — disse. La sua voce era profonda e aspra. — Tanajin dice che non siete stati ammalati.

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Io sono Ulzai.

Portava un gonnellino di tessuto marrone. La cintura era di cuoio con una fibbia di metallo giallo. Ottone, con ogni probabilità. Appeso a un fianco portava un coltello in un fodero di cuoio e ottone o bronzo. L’impugnatura era d’argento annerito. Era a piedi nudi e non portava nessun gioiello. Era l’uomo dall’aspetto più trasandato che avessi visto su questo pianeta. Trasandato e brutto.

— Mettete tutto quel che avete nella canoa. Qualcuno di voi è capace di pagaiare?

— Io — risposi.

— Io starò a poppa. Tu siederai a prua. Gli altri staranno nel mezzo. — Fissò Derek, Nia e l’oracolo. — L’imbarcazione avrà un carico pesante. Forse sono uno sciocco a trasportare tanta gente. Ma so quello che faccio sull’acqua e lì sono sempre stato fortunato. Ascoltatemi! Restate tranquilli! Se vi muovete, la barca potrebbe capovolgersi.

— Okay — disse Derek.

— Che cosa? — chiese Ulzai.

— Quella parola significa "sì" — spiegò l’oracolo.

Caricammo la canoa e la spingemmo nell’acqua. Nia e l’oracolo salirono in modo goffo.

— Fate attenzione! — disse Ulzai.

Derek se la cavò un po’ meglio.

Ulzai e io girammo l’imbarcazione, poi vi salimmo. — Tu, almeno, sai salire su una canoa — osservò l’uomo peloso. — Dimmi il tuo nome.

— Lixia.

— Li-zha — ripeté lui.

Tanajin disse: — Addio.

Trovai la mia pagaia. Era quasi uguale alle pagaie che avevo usato nel Minnesota settentrionale.

— Al lavoro — disse Ulzai.

Tuffai la pagaia nell’acqua. La mia prima vogata fu troppo superficiale.

— È questo il meglio che riesci a fare?

— Dammi tempo — ribattei. — Non lo faccio da parecchi anni e non mi ricorderò come fare se mi farai agitare.

Lui emise un suono iroso. — D’accordo.

La canoa si allontanò verso il centro del fiume. Mi voltai una volta a guardare indietro e vidi Tanajin ritta sulla riva: una figura scura, immobile. Dietro di lei c’era la tenda e dal suo fuoco saliva il fumo. Era ancora denso e scuro.

— Non guardare indietro — disse Ulzai.

Volsi il capo e mi concentrai sul lavoro di pagaiare.

Ulzai

Dopo un po’ di tempo Ulzai disse: — Incominci a vacillare. Da’ la pagaia all’uomo senza pelo. Lo sorveglierò e gli dirò dove sbaglia. Tu tieni d’occhio il fiume in cerca di tronchi galleggianti.

Derek prese la pagaia. Mi massaggiai la spalla ferita e mi guardai attorno.

Eravamo nel letto principale del fiume: una vasta distesa d’acqua, sgombra a eccezione di qualche sporadico detrito galleggiante: un ramo, una foglia, un groviglio di vegetazione, un albero.

Sulla mia sinistra c’era la riva orientale, ricoperta dalla foresta. La parete della valle s’innalzava in lontananza. Non era mutata: una fila di scogliere alte e ripide, fatte di una roccia tenera e profondamente erosa, di un giallo chiaro alla luce del sole.

Alla mia destra c’erano isolotti, banchi di sabbia e acquitrini. Le isole erano per lo più coperte di alberi. Non riuscivo a scorgere la costa. Non c’era una linea netta fra il terreno solido e l’acqua, né c’era modo di distinguere una grossa isola dalla riva del fiume.

Oltre gli acquitrini e la foresta s’innalzava un’altra fila di scogliere che segnavano l’estremità occidentale della valle. In un qualche periodo del passato doveva essere scorsa parecchia acqua lungo quella valle. Era forse un segno di glaciazione? Un interrogativo per i planetologi. Mi chiesi se sarebbero mai scesi quaggiù, se sarebbero mai arrivati a vedere questa valle.

All’incirca a metà pomeriggio, Nia aprì la sacca del cibo e distribuì pezzi di pane. Bevemmo la birra asprigna.

— Ecco laggiù il nostro temporale — disse Derek.

Guardai verso ovest. Le nuvole si gonfiavano sopra le scogliere: cumulonembi, alti e di un bianco grigiastro. Altre nuvole, alte e sottili, si estendevano verso la metà del cielo, velando il sole che risplendeva di un fulgore appena attenuato.

Ulzai disse: — Riprendi tu la pagaia, o donna senzapelo. Avremo bisogno di tutta la tua abilità.

Ubbidii ai suoi ordini. Incominciò a soffiare il vento e l’acqua del fiume s’increspò. — Gira in dentro — mi ordinò Ulzai.

— Dove? — chiesi.

— L’isola di fronte. Quella grande.

Vogammo in quella direzione. Sul lato verso monte era ammucchiata legna galleggiante: radici e rami grigi, tronchi levigati dall’acqua. La rasentammo e approdammo su una piccola spiaggia sabbiosa. Saltai giù dalla canoa. Si udì il cupo brontolio del tuono a occidente.

— Tirate a terra l’imbarcazione — ordinò Ulzai.

Scaricammo la canoa e la tirammo fuori dall’acqua, poi la trasportammo fino al limitare della foresta.

Ormai il cielo si era oscurato. Ulzai fece il gesto che significava "muoviamoci". Raccogliemmo le nostre provviste e lo seguimmo nella foresta. Un sentiero serpeggiava fra gli alberi. Sopra di noi le foglie stormivano al vento. L’aria aveva l’odore della terra umida e della pioggia in arrivo.

Arrivammo a una radura. Al centro c’era uno stagno, largo un tre metri, limpido e poco profondo. Riuscivo a vedere delle foglie sul fondo. Dell’anno precedente, forse. Erano grigie e di un giallo spento. Sui bordi dello stagno cresceva una pianta simile a muschio di un azzurro scuro, e insetti color arancione svolazzavano sulla superficie.

Ai margini della pianura c’era una tenda, grande e fatta di cuoio, tesa fra due alberi. Il suolo sottostante era stato ripulito di tutto il sottobosco e i detriti della foresta. Al centro del terreno nudo c’era una catasta di legna.

— Questa è la mia casa — ci disse Ulzai.

— Spartana — fece Derek in inglese.

Ci fu uno scoppio di tuono. Sobbalzai. Attraverso la volta della foresta incominciarono a schizzare gocce di pioggia.

Ulzai fece un gesto.

Ci ammassammo sotto la tenda e la pioggia prese a scrosciare. Tamburellava sulla tenda, grondava dal cuoio e cadeva nella radura come… che cosa? Una cortina grigia. Un torrente di montagna. Mi raggomitolai con le braccia attorno alle gambe. Il vento mi soffiava addosso l’acqua. Un lampo guizzò. Ci furono altri tuoni.

— Non durerà — disse Derek.

— Spero di no — ribattei.

Ancora lampi. Ancora tuoni. Non c’erano pause. Il lampo era vicino. Rabbrividii, non per la paura. L’aria era fredda e mi stavo bagnando. Nia era più vicina al bordo della tenda di me. La tunica le si appiccicava già al corpo. La sua pelliccia era schiacciata. Aveva un’espressione di cupa sopportazione.

— C’è stata parecchia pioggia quest’estate — osservò l’oracolo. — Mi chiedo chi ne sia responsabile.

Ulzai disse: — Una cosa ho imparato da quando ho risalito il fiume. Il tempo da queste parti non è mai affidabile. A me sembra che ci siano un sacco di spiriti diversi che mettono le mani nel fare il tempo. Non vanno d’accordo fra di loro. Rifiutano di lavorare insieme e questo spiega perché ci sono tante specie di tempo da queste parti e perché il tempo cambia continuamente.

Guardai Nia. Era accigliata. — Tu sei cresciuta sulla pianura, Nia. Ha ragione riguardo al tempo?

— Non so che cosa regoli il tempo da queste parti, ma solo nella terra del mio popolo. — Tacque un momento.

Cadeva grandine insieme a pioggia. La grandine rimbalzava e rotolava. Ne finì un po’ sotto la tenda. Era grossa come palline di gomma.

— Tutto proviene dalla Madre delle Madri — ricominciò Nia. — Tutti gli spiriti sono figli suoi, e lei si è accoppiata con parecchi di loro. Questo genere di comportamento sarebbe assolutamente scorretto se a farlo fossero le persone. Se un uomo incontra sua madre durante il periodo dell’accoppiamento, si allontanano l’uno dall’altra il più in fretta possibile. Ma gli spiriti sono diversi. E chi altri aveva con cui accoppiarsi, la Grande? Ogni spirito esce dal suo corpo. — Nia si strofinò la pelliccia sulla fronte, togliendosi un po’ dell’acqua. — Si accoppiò con lo Spirito del Cielo. Ebbero quattro figlie in un solo parto. Erano tutte femmine. Ciascuna era di un diverso colore. Quando crebbero si allontanarono dalla loro madre e divennero le quattro direzioni. La figlia color giallo chiaro si stabilì a est. La figlia color arancione scuro si stabilì a ovest. La figlia nera divenne il nord. L’ultima figlia era color verdeazzurro come il padre. Essa divenne il sud.

— Questa è una storia che non ho mai sentito — disse Ulzai.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

La grandine si ammucchiava, rendendo bianco il terreno. Nia proseguì.

— Lo Spirito del Cielo fece visita a ciascuna figlia a turno e ciascuna delle donne diede alla luce un figlio maschio. Erano i quattro venti. Costoro crebbero e diventarono violenti e litigiosi. Tutti loro rivendicavano la terra fra le quattro direzioni e nessuno voleva cedere. Combatterono per la terra, senza mai smettere, e la vita divenne impossibile per tutti. Perfino i demoni incominciarono a lamentarsi. Costoro vivevano sottoterra, ma di quando in quando amavano venire fuori e causare guai. Ora come potevano farlo? Non avevano la minima idea di quello che avrebbero trovato. Un’inondazione che spegnesse i loro fuochi. La neve alta nel cuore dell’estate. Grandine come questa o pioggia violenta.

"Infine la Madre delle Madri intervenne. Chiamò i quattro cugini. Loro vennero e stettero attorno a lei. Doveva essere davvero uno spettacolo! Ciascuno era di un diverso colore e ciascuno era alto come una nube temporalesca. Il vento dell’est era giallo come sua madre. Il vento dell’ovest era rosso-arancione come il fuoco. Il vento del sud era del colore del cielo, e il vento del nord era nero come il ferro…

"Torreggiavano sulla loro nonna e si guardavano in cagnesco.

"’Voi, ragazzacci cattivi’ disse lei. ’Perché non potete smetterla di litigare?’

"Le rispose il vento del nord. La sua voce era profonda e rimbombante. Il fiato che usciva dalla sua bocca era freddo. ’Siamo tutti uomini grandi. Nessuno di noi è disposto a cedere. Come possiamo permettere che un altro uomo abbia la terra di mezzo? Ciascuno di noi vuole le donne. Ciascuno di noi vuole gli animali.’

"’Guardatevi attorno!’ disse la Madre delle Madri. ’Avete distrutto ogni cosa che avete rivendicato. Le vostre inondazioni hanno spazzato via i villaggi. Le vostre gelate improvvise hanno ucciso la vegetazione. Gli animali sono fuggiti. I demoni parlano di andarsene. Che cosa è rimasto per cui valga la pena di combattere?’

"I quattro cugini si guardarono attorno. La loro nonna stava dicendo la verità. La pianura era nera e bruna. Non ci viveva niente. Né persone, né animali, né vegetazione.

"’E lasciate che vi dica qualcos’altro’ continuò la donna, la Grande. ’Mentre voi stavate qui a combattere, altri spiriti hanno fatto visita alle vostre madri. Adesso avete sorelle che sono quasi cresciute.’

"’È così? Allora me ne andrò a casa’ disse il vento del sud. Il suo fiato era secco e infuocato. Odorava come la pianura nel cuore dell’estate. Aiya! Che profumo! Così dolce e piacevole!

"’No’ disse la Madre delle Madri. ’Non permetterò che vi accoppiate con le vostre sorelle.’

"’Perché no?’ chiese il vento dell’est.

"’Ci sono state troppe cose del genere. Se continua così, ben presto i bambini che nasceranno somiglieranno a mostri o demoni.’

"’Ma che cosa faremo?’ chiese il vento dell’ovest. ’Non penserai che vivremo senza sesso.’

"’No’ disse la Madre delle Madri. ’Nel periodo dell’accoppiamento, ciascuno di voi lascerà il proprio territorio d’origine e andrà in un’altra direzione, il nord a sud e l’ovest a est, finché non incontrerà le proprie cugine o altre donne o perfino demoni femmine. Accoppiatevi con loro! Ma ricordatevi di questo! Parlo per la terra di mezzo. Non appartiene a nessuno di voi. Quando l’attraversate, viaggiate con prudenza. Trattate ogni cosa con rispetto. Non causate problemi. Non fate danni.’

"I quattro cugini si accigliarono e lanciarono occhiate furiose.

"’E se non accetteremo?’ chiese il vento del nord.

"’Allora mi occuperò io di voi, e non pensate che non sia in grado di farlo.’ Tutt’a un tratto la vecchia aumentò di dimensioni. S’innalzò fino a toccare quasi il cielo con la testa. Il sole splendeva sopra la sua spalla sinistra.

"I quattro cugini guardarono in su, restando a bocca aperta. Si ripararono gli occhi con la mano. Videro il loro padre, lo Spirito del Cielo, che si librava al di sopra della vecchia. Il sole era la fibbia della sua cintura. Le sue ali si estendevano da un orizzonte all’altro. Il padre li guardò dall’alto in basso. Il suo volto era verdeazzurro. Gli occhi mandavano bagliori furiosi.

"I quattro ebbero paura. ’D’accordo’ dissero. ’Faremo come suggerisci.’

"’Bene’ disse lo Spirito del Cielo.

"Così termina la storia" disse Nia. "I quattro venti smisero di azzuffarsi. Il tempo divenne meno violento. Le persone che se ne erano andate fecero ritorno nella terra di mezzo, e altrettanto fecero gli animali.

"Ma in primavera, nel periodo dell’accoppiamento, i quattro cugini viaggiano per la terra in cerca di donne, ed è per questo che il tempo è brutto in quella stagione."

Fece una pausa. Guardai la radura. Aveva smesso di grandinare, ma la pioggia cadeva ancora con forza.

— Ora non siamo in primavera — osservò Ulzai. — La tua storia non spiega questo tempo.

— I cugini sono irrequieti e turbolenti — rispose Nia. — Si aggirano furtivamente attorno ai confini della terra di mezzo. Cercano di essere prudenti, ma ogni tanto capita che si incontrino. Allora sbraitano e gesticolano. Guizzano lampi. Ci sono tuoni e grandine. Ma non combattono più come facevano una volta. Invece desistono e se ne vanno ciascuno per la propria strada. Non provocano veri danni.

Ulzai emise un suono secco. — Ho visto nuvole nere che s’innalzavano verso il cielo. Balzavano sulla pianura come danzatori vestiti di tuniche nere. Ne ho viste due e tre e quattro, tutte nello stesso momento, ciascuna in ogni direzione, che danzavano all’orizzonte. Penso che quelle nuvole siano in grado di fare danni. E che ne dici della grandine che abbatte la vegetazione? Dei venti che sradicano alberi? Delle tempeste di ghiaccio? Perfino la calura dell’estate può fare danni. Sono stato all’aperto e ho sentito il caldo come un colpo in testa e un pugno nello stomaco. Quegli uomini non hanno mantenuto la promessa. Stanno ancora combattendo, e questa terra è ancora un luogo poco adatto alle persone.

Nia aveva un’aria furiosa.

— Perché sei qui? — chiese l’oracolo.

— La pioggia sta diminuendo d’intensità — disse Ulzai. — E io incomincio a sentirmi nervoso. Forse voi sarete abituati a stare insieme ad altra gente. Io no. — Si alzò e si allontanò dalla tenda. — Restate qui! Sarò di ritorno! — Si addentrò nella foresta. Sembrava zoppicare più di prima. Il tempo, con ogni probabilità.

— Si è trovato in qualche genere di guaio — disse l’oracolo. — E lo stesso vale per la donna. Altrimenti perché avrebbero lasciato la loro terra?

— Le persone non se ne vanno mai per altre ragioni? — domandò Derek.

— Non comportarti da stupido — saltò su Nia. — Lo sai che ci sono viaggiatrici che portano doni da un villaggio all’altro. E uomini che amano vagabondare. E donne come Inahooli, che si allontanano da casa per motivi religiosi. Ma l’oracolo ha ragione. Quei due hanno fatto qualcosa di scorretto. Lo so. La pioggia sta cessando.

Si alzò e s’incamminò verso la radura, si fermò e guardò il cielo. — Si rischiarerà. Uh! Sono tutta bagnata. — Si passò la mano sul braccio, cercando di strizzare via l’acqua dalla pelliccia.

Quasi sempre i nativi mi facevano pensare a degli orsi, ma ora c’era qualcosa di felino in Nia. Fece una smorfia e si strofinò l’altro braccio. — Aiya! - Si tolse la tunica e la strizzò, restando nuda nella radura. — Non ho intenzione di starmene in questo posto. È troppo umido. Che l’uomo venga a cercarmi, se ritiene che sia importante. — Si allontanò, portando con sé la sua tunica.

Ulzai si era diretto verso l’interno. Nia tornò verso la riva.

L’oracolo aprì la sacca che ci aveva dato Tanajin. — Io non vado da nessuna parte. — Tirò fuori un frutto giallo grande come una palla. Ero abbastanza certa che si trattasse di un frutto. L’addentò e ne schizzò del succo. L’oracolo si asciugò il mento e si leccò le dita, masticando per tutto il tempo.

Derek tirò fuori la sua radio. — Nia ha ragione. Ci dovrebbe essere un po’ di vento vicino al fiume, e un po’ di sole, se le nuvole si diradano. Penso che farò una chiacchierata con Eddie. E quando avrò finito, ho intenzione di pescare.

Se ne andò. L’oracolo continuò a mangiare. Un raggio di sole raggiunse lo stagno, che luccicò.

— Farà di nuovo molto caldo — osservò l’oracolo.

Feci il gesto dell’assenso. L’aria era umida. Comparvero nugoli di minuscoli insetti. Brillavano come granellini di polvere alla luce del sole che inondava lo stagno. Nell’ombra della foresta erano invisibili. Ma me li sentivo sulla faccia. Sbuffai e agitai le mani.

L’oracolo disse: — Va’ pure. Vedo che ti stai innervosendo. Se l’uomo ritorna e vuole sapere dove siete tutti quanti, glielo dirò.

— Okay. — Mi diressi verso il fiume, camminando lentamente e guardandomi attorno. Gli alberi erano alti, con il tronco sottile e diritto e la corteccia grigia. Il fogliame, molto al di sopra di me, era azzurro. Qua e là alcune foglie, sfiorate dalla luce del sole, luccicavano come pezzi di vetro azzurro in una finestra.

Doveva esserci più di un sentiero. Quello che avevo seguito mi condusse in un luogo che non ricordavo. C’erano degli alberi morti fra macchie di una pianta senza foglie. Fusti verdi e nodosi si muovevano rigidi al vento.

Potevo tornare indietro e cercare di ritrovare il sentiero che avrei dovuto seguire, ma come l’avrei riconosciuto? Guardai a terra. La mia ombra si allungava sul sentiero. Stavo dirigendomi verso est. Eravamo approdati sulla riva orientale dell’isola. Meglio andare avanti.

Il sentiero diventava melmoso. Le piante crescevano alte: un metro e mezzo, due metri. L’acqua luccicava fra la vegetazione. Mi trovavo in una palude. Era venuto il momento di arrendersi. Mi voltai.

C’era una lucertola sul sentiero a dieci metri di distanza. Non una veramente grossa. Calcolai che dovesse essere lunga due metri, coda e tutto. L’animale sollevò la testa, la girò e mi osservò con un vivace occhio nero.

Oh, all’inferno.

Aprì la bocca. Vidi dei denti frastagliati. Uscì una lingua, grossa e nera.

Rimasi immobile.

La pelle dell’animale era bruna con solo qualche ruga e gli aculei lungo il dorso erano in buone condizioni. Questo esemplare era relativamente giovane. Non aveva sofferto per il tempo e la violenza. Era pericoloso?

Aprì ancora di più la bocca e protese maggiormente la lingua. Che cosa stava facendo? Assaggiando l’aria? Sentendo il mio odore? Voleva scoprire se ero commestibile?

Non volevo andare verso l’animale, e non volevo neppure voltargli le spalle. Su entrambi i lati avevo acquitrini. Incominciai a sudare.

Il lungo corpo si girò di colpo. Un istante dopo l’animale era sparito, lontano dal sentiero e fuori dalla vista fra le canne.

Emisi un profondo respiro. Proprio allora comparve Ulzai, zoppicando lungo il sentiero fangoso con in mano una lancia. — Vi avevo detto di stare fermi. Torno indietro e non c’è nessuno, a parte il piccolo uomo. Vengo a cercarvi. Che cosa scopro? Le tue tracce che vanno nella direzione sbagliata! Sei pazza? O soltanto una sciocca?

— Una sciocca — dissi.

Lui sbraitò. — È un bene che tu sappia quello che sei. Molti non lo sanno. Questo sentiero conduce in un acquitrino. Ci sono le lucertole.

— Lo so. Ne ho vista una appena prima che arrivassi tu. Sul sentiero dove ti trovi ora.

Ulzai abbassò lo sguardo sul fango davanti a lui. — Vedo. Non era grossa. Un animale di quelle dimensioni non attacca una persona adulta. Non hai corso alcun pericolo. Muoviamoci.

Quando arrivammo al fiume, la metà occidentale del cielo era serena. Il sole splendeva luminoso. Nia aveva disteso la sua tunica sulla canoa. Stava sdraiata di schiena sulla sabbia, un braccio sugli occhi. Derek le era seduto accanto. — Stavo osservando il fiume. Ci sono dei grossi pesci là fuori. Credo che mi fabbricherò una canna da pesca.

— Una che cosa? — domandò Ulzai.

La parola che aveva usato Derek significava, nell’uso comune, un palo da tenda o l’asta di uno stendardo.

— Che cosa credi che abbia detto? — chiese Derek.

— Che volevi fabbricare una tenda per i pesci. O altrimenti… — Ulzai aggrottò la fronte. — Che volevi innalzare uno stendardo con in cima un pesce. È quello l’animale della tua stirpe?

— Il mio animale vive nell’acqua salata — rispose Derek. — Assomiglia a un pesce, ma non lo è. Il suo nome è "balena".

Ulzai emise un grugnito.

— Quello che intendevo dire è che voglio andare a pescare. Io adopero una canna.

Nia disse: — È vero. L’ho visto io.

Ulzai sembrò interessato. — Nelle paludi le donne usano reti per catturare i pesci. Gli uomini usano lance. E quando ho risalito il fiume, ho incontrato persone che usavano canestri e barriere fatte di rami intrecciati. Le barriere guidano i pesci dentro una trappola. I canestri sono le trappole. Ma non ho mai sentito parlare di nessuno che usasse un palo da tenda.

Derek si alzò. — Mi serve un ramo. Dev’essere lungo, diritto e flessibile. Puoi trovarmi qualcosa del genere?

Ulzai fece il gesto dell’affermazione.

— Abbi cura della radio, per favore — mi disse Derek

— Sì. Che cosa ha detto Eddie?

— L’aeroplano verrà giù dopodomani. Eddie prevede che saremo al lago fra tre giorni. È riuscito a ritardare la grande discussione fino ad allora. Vuole che vi prendiamo parte anche noi, non in carne e ossa, naturalmente. Saremo in quarantena. Ma potremo rivolgerci alle moltitudini via olovisione. Dà per scontato che lo sosterremo. Dovremo fare una scelta, Lixia. Da che parte stiamo?

Feci il gesto dell’incertezza.

— Voi parlate troppo — s’intromise Ulzai. — E troppe delle parole che usate sono incomprensibili. Muoviamoci.

— A Ulzai piace certamente dire alla gente che cosa fare — intervenne Nia. Sbadigliò. — Aiya! È piacevole stare al sole. Credo che mi metterò a dormire.

Guardai il fiume. Nia incominciò a russare. Le nuvole continuavano a muoversi verso est finché il cielo non fu quasi del tutto sereno.

I due uomini tornarono. Derek aveva il suo ramo e un rotolo di lenza.

— Come sta l’oracolo? — m’informai.

— È stanco. Gli fa male il braccio. Ha mangiato tutta la frutta.

— Uh!

— Già. — Derek legò la lenza alla canna, poi vi legò un amo. Staccò con i denti il pezzo di polipropilene in eccesso, lo piegò e lo raccolse. — Non possiamo lasciare ricordi di una cultura superiore. — Si ficcò il polipropilene in una tasca della camicia, poi rovistò in un’altra tasca, dalla quale tirò fuori un bruco. Era grasso e giallo. Infilò l’amo nell’animale. Questo si contorse. Distolsi lo sguardo.

Notai che Ulzai osservava tutto con interesse. Nia continuava a russare.

Derek si mise di nuovo la mano in tasca e tirò fuori un piombino, che sistemò e schiacciò sulla lenza. — Per fortuna questo è un pianeta ricco di metallo. Se perdessi il piombino, non è probabile che influenzi il corso della storia. Ma è meglio che non perda la lenza. L’Unità sa che cosa succederebbe se questi selvaggi scoprissero il polipropilene.

Ulzai si accigliò. — Capisco solo metà di quello che state dicendo.

— Parlano sempre così — disse Nia. Si drizzò a sedere. La sua pelliccia era asciutta. Riluceva bruna con riflessi rame e rossicci. — Questo mi fa infuriare. Gliel’ho detto. Ma continuano nello stesso modo di prima.

— Vado giù alla spiaggia — dichiarò Derek. — C’è un vortice che sembra interessante in prossimità della riva. Alla portata di questo dannato attrezzo, credo. Vorrei aver portato con me una canna da pesca pieghevole e un buon mulinello. Avrei potuto escogitare un modo di portarlo giù di nascosto. — Guardò Ulzai. — Forse dovrò entrare con i piedi nell’acqua. Sarà pericoloso?

— No. Le lucertole non vengono su questo lato dell’isola. Non spesso, comunque. Amano l’acqua lenta. Il fondo del fiume scende troppo ripidamente in questo punto e la corrente è rapida. Sii prudente. Se catturi qualcosa con il tuo palo da tenda, seppellisci a terra le interiora. Mai mettere qualcosa di sanguinolento nell’acqua. Le lucertole sentiranno il gusto del sangue e arriveranno.

— Okay — disse Derek.

— E la mia lucertola allora? — chiesi. — Quella che ho visto? Era su questo lato dell’isola.

— Era sulla terra — rispose Ulzai. — Quando tornerà nell’acqua, si troverà un posto dove il fondo è basso e la corrente si muove appena. Conosco questi animali. Non hanno il coraggio degli umazi.

Derek ci lasciò e si allontanò lungo la riva. Si fermò a guardare il fiume, inclinando il capo e meditando su qualcosa che io non potevo vedere: il vortice. Poi entrò nell’acqua, facendo roteare la lunga canna. La lenza cadde in acqua. Lui sollevò un poco la canna, poi rimase immobile. Noi restammo a guardarlo. Non successe niente.

— Sa come restare fermo — osservò alla fine Ulzai. — Come tutti i buoni cacciatori.

Nia fece il gesto dell’approvazione, poi si alzò e si infilò la tunica, quella che era appartenuta a Inahooli. Era spiegazzata e piena di macchie. Avevamo tutti un aspetto piuttosto trasandato.

Atcba - esclamò Ulzai.

La canna si stava piegando. Derek aveva cambiato presa. Ora teneva strettamente la canna, che si piegò di più. Derek fece qualche passo più al largo.

— Sta’ attento — gli disse Ulzai.

Il pesce scendeva in profondità.

No! Uscì dall’acqua di fronte a Derek: un corpo lungo e scuro che si dimenò a mezz’aria e ricadde del fiume. Splash! La canna si piegò di nuovo.

— Un pesce piuttosto grosso — commentò Ulzai. — Ma non vale la pena catturarlo. Quella specie è piena di lische. E il sapore… — Fece il gesto che significava "potrebbe essere peggiore".

Derek sollevò la canna. Il pesce stava probabilmente risalendo. Sì! Saltò di nuovo, guizzando alla luce del sole, e ricadde. Derek abbassò la canna. Il pesce correva verso il centro del fiume. La lenza balenò, visibile per un istante. Notai che era tesa. Derek si voltò, costringendo il pesce a muoversi in tondo e guidandolo di nuovo verso riva.

— È interessante — disse Ulzai. — Ma non credo che sia un buon modo di catturare pesci. Ci vuole un sacco di tempo, questo è evidente. E il pesce potrebbe fuggire… anche ora, dopo tutti gli sforzi che ha fatto per prenderlo.

Dissi: — Mmm.

Ora il pesce era nell’acqua bassa. Derek sorrise. Un istante dopo esclamò: — Maledizione!

La lenza era invisibile al momento, e così il pesce. Ma scorgevo delle increspature zigzaganti sulla superficie dell’acqua, fatte dalla lenza dove entrava nell’acqua. Le increspature si allontanavano dalla riva. Il pesce aveva cambiato di nuovo direzione.

Derek lo lasciò correre finché non arrivò alla fine della lenza, poi incominciò a tirarlo una seconda volta. Sudava. Il suo viso luccicava e c’erano chiazze scure sulla sua camicia.

— L’ho già visto su alcuni animali — osservò Ulzai. — Dalla loro pelle esce acqua quando il tempo è molto caldo o quando hanno fatto qualche grosso sforzo.

— Sì — dissi.

— Non c’è dubbio che siate degli individui singolari. Che cosa significa? Che sta faticando?

— Sì.

— Quando un uomo usa una lancia, sa immediatamente se ha il pesce oppure no. Può darsi che debba aspettare molto prima di avere una possibilità di colpire, ma non deve faticare tanto quanto quest’uomo.

Stavo ascoltando un tipico pescatore dei ghiacci. Che cosa potevo dire a una persona così? Non avrebbe mai compreso il piacere che Derek traeva dalla lotta con il pesce. Sebbene in quel momento non sembrasse affatto un piacere.

Il pesce risalì in superficie. La schiena scura luccicò. Intravidi una pinna dorsale frastagliata. Si tuffò e riemerse di nuovo.

— Avanti, piccolo — disse Derek. Sollevò la canna e fece un passo indietro. — Ci siamo! Te lo prometto, ti sarò grato. Canterò le tue lodi. Non rimpiangerai di essere venuto da me.

Il pesce si dimenò. Derek fece un altro passo verso la riva. — Ci siamo — ripeté.

Il pesce si lasciava portare dalla corrente appena sotto la superficie dell’acqua. Riuscivo a vederlo: una forma lunga e affusolata, simile a un sigaro o a un siluro. Era quasi immobile.

Derek cambiò la presa, muovendo una mano dopo l’altra lungo la canna finché non arrivò alla punta. L’estremità posteriore cadde nella sabbia dietro di lui. Ora afferrò la lenza. Il pesce si dibatteva debolmente. Derek lo tirò su e l’afferrò, serrando le dita dietro le branchie. Lo sollevò. L’animale si contorse. Era lungo mezzo metro con il ventre marrone chiaro e il dorso di un bruno scuro. Le pinne erano spinose e la bocca piena di denti. Derek estrasse l’amo. Stava sorridendo.

— Un altro capitolo per il libro che sto progettando di scrivere. Pesca sportiva della Galassia. Credo che mentirò riguardo al peso della lenza.

— Ulzai sostiene che quella specie non è molto gustosa. E ha un sacco di lische.

— Dannazione. — Sollevò più in alto il pesce. — Prometto che ti coprirò di lodi.

— Potresti gettarlo di nuovo in acqua — dissi.

— È sfinito. Gli ho appena causato un grosso danno alle branchie. Se lo lasciassi andare, morirebbe. Avrò accresciuto il mio fardello karmico e resterò senza cena. — Scosse il capo. — Se proprio non è velenoso, lo mangerò.

— Non è velenoso — disse Ulzai.

— Bene. Vuoi occuparti tu della canna da pesca, Lixia? Devo uccidere questo amico.

— Okay.

S’incamminò su per la spiaggia. Io andai a recuperare la canna. Quando l’ebbi presa, il pesce era già morto.

Facemmo ritorno alla radura. Derek arrostì il pesce. Aveva più lische di un luccio del nord e ancor meno sapore. Lo mangiò quasi tutto Derek. Noi quattro ci accontentammo del pane e della carne essiccata.

Finito di mangiare, Derek disse: — Ho promesso al pesce che l’avrei celebrato. È una promessa che va mantenuta. Era bellissimo. Si è battuto bene. Mi ha salvato dalla fame. Ricorderò il suo aspetto mentre balzava fuori dall’acqua. E col tempo — sorrise — dimenticherò il suo sapore.

Ulzai fece il gesto dell’approvazione.

— È stata un’ottima celebrazione — commentò l’oracolo. — E più di quanto mi sarei aspettato da te. Quasi sempre sembra che tu manchi di rispetto.

— Sono una persona complessa — ribatté Derek. Usò un aggettivo che di solito si riferiva alla lavorazione del metallo o al ricamo. Per quanto fossi in grado di capire, aveva due significati impliciti. Si riferiva o a una notevole realizzazione tecnica o a qualcosa di riccamente ornato ed eccessivo.

L’indomani Nia mi svegliò al’alba. Quando il sole sorse eravamo già sull’acqua.

Derek e Ulzai vogavano. Io osservavo il fiume. Passavamo accanto a isolotti, banchi di sabbia e un sacco di detriti galleggianti. Poco dopo mezzogiorno comparvero delle nuvole. Cumuli. Si profilarono in lontananza attraverso la foschia estiva.

— Un altro temporale — disse Ulzai. — Conosco un posto sulla sponda orientale. C’è un torrente che si getta nel fiume. E c’è una grotta.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Ci sono spiriti nella grotta? — s’informò Nia.

— Io non ne ho mai visti. Mi ci sono accampato parecchie volte.

— Okay — disse Derek.

Il fiume serpeggiava verso la parte orientale della valle e il letto principale scorreva quasi direttamente sotto le scogliere orientali. Qui la sponda del fiume era scoscesa, ricoperta di arbusti verdi e gialli. Al di sopra del fogliame s’innalzava un’alta parete rocciosa.

Ulzai puntò il dito. Vidi un incavo nella scogliera. Dai cespugli che crescevano sotto l’incavo scendeva un torrente: un sottile velo lucente d’acqua che scorreva su rocce gialle per poi sparire nel fiume.

Approdammo a sud del torrente, scaricammo la canoa e la tirammo sulla riva.

Alcuni uccelli volteggiavano sopra di noi, lanciando grida.

— Quanta fatica — dissi.

Derek fece il gesto dell’assenso. — Una delle molte ragioni per cui non amo pienamente la tecnologia preindustriale. Sebbene ci sia un sacco di gente sulla Terra che saprebbe fabbricare una canoa migliore usando metodi tradizionali. Forse il problema qui è la mancanza dei materiali adatti. Forse dovremmo introdurre la betulla.

— L’alluminio — dissi. — Le piante mi spaventano più delle fabbriche.

— Lo state facendo di nuovo — protestò l’oracolo. — Usare parole che noi non conosciamo.

Feci il gesto che significava "mi dispiace".

Ulzai disse: — Muoviamoci.

Raccogliemmo le nostre sacche e lo seguimmo su per la riva. Il torrente scorreva accanto a noi in un burrone pieno di arbusti. Non riuscivo a vedere l’acqua. La sentivo: un debole gorgoglio. Gli uccelli continuavano a gridare. Alzai lo sguardo. Uno stormo stava inseguendo un singolo uccello che era evidentemente di una specie diversa. L’uccello che fuggiva era delle dimensioni di un gabbiano. Quelli dello stormo erano, relativamente parlando, minuscoli.

Il grosso uccello volava verso la scogliera. Gli uccelli più piccoli lo seguirono, scendendo a capofitto e lanciando strida.

Inciampai.

— Guarda dove vai — disse Derek alle mie spalle. — O finirai in quel burrone.

Arrivammo alla scogliera. Sulla sua superficie crescevano piante rampicanti che sporgevano sopra l’entrata della grotta, così non la vidi finché Ulzai non si aprì un varco in una macchia di vegetazione e sparì. Lo seguimmo in uno spazio poco profondo, cinque metri al massimo. Mi guardai attorno. Non c’erano buchi neri, nessuna traccia di una caverna interna. Misi giù le sacche che stavo portando.

— Ci procureremo della legna — disse Ulzai. — Prima che incominci a piovere.

Nia aveva ragione. A Ulzai piaceva dare ordini. Un vero peccato che vivesse su questo pianeta dove gli uomini non avevano l’opportunità di organizzare alcunché. Sarebbe stato la persona adatta per i soccorsi in caso di disastri.

Uscimmo. Il sole era sparito dietro una barriera di nuvole. La valle era buia e il cielo si andava oscurando rapidamente con il diffondersi delle nubi.

Raccolsi una bracciata di legna e feci ritorno alla grotta. Ulzai era già tornato. Aveva acceso un fuoco, appena dentro l’accesso. Il fumo saliva lento fra le foglie dei rampicanti, che ondeggiavano. Si stava alzando il vento.

— Questo sarà peggiore di quello di ieri — disse Ulzai. — Guardate il cielo a occidente. È di un colore fra il nero e il verde. — Mise un altro ramo sul fuoco, poi alzò lo sguardo, aggrottando la fronte. — Il tempo peggiore è in primavera. Su questo Nia ha ragione. In questo periodo dell’anno è improbabile che si vedano i danzatori neri. Le nuvole che saltellano e fanno giravolte.

Trombe d’aria. Ne avevo vista una il primo anno che avevo vissuto nel Minnesota. Avevo ancora incubi su quella dannata cosa. Mi terrorizzavano più delle onde di maremoto o dei vulcani. Forse perché erano imprevedibili.

Arrivarono Derek e l’oracolo. Lasciarono cadere la loro legna accanto alla mia sul fondo della grotta. L’oracolo disse: — Ha un aspetto terribile là fuori. — Si massaggiò il collo. — Aiya! Sono stanco.

— Come va il tuo braccio? — m’informai.

— Non è quello il problema. Adesso è la mia pancia. Ha brontolato tutta la notte. Non sono riuscito a dormire e mi sento ancora nauseato.

— La frutta — disse Derek. — Mi chiedevo se non ti avrebbe fatto male.

Tornò anche Nia. — È iniziato a piovere. Grosse gocce. Quando colpiscono la roccia, fanno un segno grande come la mia mano.

Aggiunse la sua legna al mucchio e si sedette. — È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stata sulla pianura. E di norma in questo periodo dell’anno mi troverei a nord di qui con la mandria e il villaggio. Credo… non sono certa… che i temporali siano peggiori lungo il fiume.

— Non credo — disse Ulzai. — Ma non ne sono sicuro neppure io. Non ho passato molto tempo sulla pianura. — Fece una pausa. — C’è una domanda che voglio farti da un po’ di tempo.

— Sì? — disse Derek.

— Non voglio farla a te. — Ulzai guardò Nia. — Tanajin mi ha detto che sei una lavoratrice del ferro.

Nia esitò, poi fece il gesto dell’affermazione.

— Ha detto che appartieni al Popolo del Ferro.

— Sì. — Ebbe una breve esitazione. — Vi appartenevo.

— Sei tu la donna di cui abbiamo sentito parlare.

Nia non disse niente.

— Era una lavoratrice del ferro e apparteneva al Popolo del Ferro. Non ricordo il suo nome. Non sono sicuro che Tanajin me l’abbia mai detto. Ma mi ha raccontato la sua storia.

— Quale storia? — chiese Nia.

— La donna che amava un uomo. La racconta il Popolo del Ferro. E anche il Popolo dell’Ambra e il Popolo della Pelliccia e dello Stagno. È una donna famosa! Sei tu quella donna?

— Hai intenzione di causare guai? — domandò Nia.

— No. Perché credi che abbia accettato di aiutarvi? Tanajin è la donna del traghetto. Non io. — S’interruppe un momento. — Credi che sia facile per me passare tre giorni insieme ad altre persone? Siete così tanti! E quei due sono strani. — Lanciò un’occhiata a me e a Derek.

Nia fece un verso iroso. — C’è una donna a est di qui. Pensava di conoscermi. Ha cercato di ucciderci.

— La prima volta che Tanajin ha sentito la tua storia mi ha detto: "Non siamo soli. Non siamo le prime persone ad aver fatto questa cosa". — Ulzai aggrottò la fronte. — Non sono pienamente d’accordo con lei. Nella storia che raccontano su di te, tu hai scelto di trattare un uomo come una sorella o una cugina. Non è stato un caso. Sei andata volutamente a fare qualcosa di sconveniente.

Ormai la grotta era buia salvo per la luce emanata dal fuoco. Guizzava sulle pareti. Gli occhi delle persone attorno a me luccicavano: rossi, arancioni, gialli e, cosa più sorprendente, azzurri. Fuori brontolava il tuono e cadeva la pioggia.

Nia disse: — Non mi metterò a discutere su una storia che è stata raccontata più e più volte. Che la gente creda pure ciò che vuole credere.

— Nel nostro caso è stato diverso — disse Ulzai. Si guardò attorno. — Ho portato una brocca di birra.

Derek la trovò e gliela porse. Ulzai bevve. — Non ho mai raccontato a nessuno la storia. Non voglio essere famoso sulla pianura.

Nia fece un altro verso iroso. Ulzai le porse la brocca. Lei bevve.

Ulzai si piegò in avanti, fissandola e ignorando noialtri. — Non è vero che gli uomini amano stare zitti. Impariamo a tacere. Con chi possiamo parlare nelle paludi? Con gli spiriti. Con le lucertole. Con i morti che vagano di notte. È possibile vederli. Sono luci fioche sopra gli stagni. Non parlano mai. E neppure gli spiriti. O se lo fanno… — Lanciò un’occhiata all’oracolo. — Io non riesco a sentirli. Non sono santo.

— Io sì — disse l’oracolo.

— Me l’ha detto Tanajin. — Guardò il fuoco. Dopo un momento si massaggiò un lato della faccia, passandosi la mano sulle strisce di pelo bianco. — Inverno dopo inverno ho tenuto dentro di me questa storia. È come una pietra nel mio ventre. È come un cattivo sapore in bocca. Duole come una vecchia ferita nel periodo delle piogge. Non la capisco. Non vedo che cos’altro avremmo potuto fare.

Nia sospirò. — Allora raccontala. Ma ti avverto. Non ti aiuterà. Le parole servono meno di quanto credi.

— Può darsi — disse Ulzai.

L’oracolo s’intromise. — Posso avere un po’ di birra?

— E il tuo stomaco? — gli domandò Derek.

— La birra fa bene per la digestione.

Nia gli diede la brocca.

Ulzai si grattò la testa. — È una lunga storia.

— Abbiamo tempo — disse Derek. — Quel temporale non finirà tanto presto.

— Voi due. — Ulzai rivolse un’occhiata furiosa a Derek e a me. — Non parlate di ciò che sentirete. E anche tu, o uomo santo.

Facemmo il gesto dell’assenso, tutti e tre.

— Per prima cosa, devo parlarvi del Popolo del Cuoio. Un tempo appartenevo a quel popolo. E così Tanajin. Vivevano negli acquitrini dove il Grande Fiume entra nella pianura di acqua salata. Le loro case non somigliano a nessun’altra casa che abbia visto in altri luoghi. La regione paludosa è piatta e quando il fiume sale, la terra viene inondata. Tutta quanta. La gente costruisce le proprie case in cima a strutture fatte di legno. Non so come descriverle. Assomigliano un po’ alle strutture che la gente usa per far asciugare il tessuto o essicare il pesce. Ma sono molto più grandi e più solide. Sopra ogni struttura c’è una piattaforma, e sopra la piattaforma c’è una casa. Le pareti sono fatte di canne e di rami intrecciati fra loro. Il tetto è fatto di fasci di canne. I fasci sono spessi. Neppure la pioggia più forte riesce a passarvi. — Tacque un momento, gli occhi socchiusi, mentre ricordava. — Non ci sono alberi nella palude, solo canne, benché possano crescere più alte di un uomo. Le case s’innalzano sopra le canne. Sono più alte di tutto. Un uomo può alzare lo sguardo e vederle, anche da molto lontano. Di notte può vedere i fuochi per cucinare sulle piattaforme.

Derek si protese in avanti. — Se non ci sono alberi, dove vi procurate il legno per le case?

— Lo porta il fiume. Quando il fiume arriva nelle paludi, si allarga. Allora l’acqua scorre lentamente. Il fiume si lascia dietro tutto quello che stava portando con sé. Ci sono banchi di sabbia all’entrata delle paludi e una grande zattera di legno. La zattera riempie gran parte del fiume ed è così lunga che un uomo può vogare per giorni, risalendo la corrente, senza mai vedere la fine di tutto quel legno. Ci sono più alberi aggrovigliati fra loro di quanti chiunque potrebbe contarne. Sono quasi tutti corrosi dall’acqua. Hanno perso la corteccia. Sono grigi come la sabbia. Sono bianchi come ossa. Ma non sono marci. Possono venire utilizzati.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

Ulzai guardò accigliato il fuoco. — Adesso ho dimenticato quello che stavo per dire.

— Parlavi della tua gente — dissi.

Lui fece il gesto dell’assenso. — Le donne vivono nelle case, alte sopra i canneti. Gli uomini vivono nelle imbarcazioni. È questo che ogni ragazzo riceve quando viene il momento per lui di lasciare la casa di sua madre: una barca con una prua scolpita e una serie di lance, un coltello per scuoiare e un mantello di pelle di lucertola. Questi quattro doni sono sempre gli stessi.

"Il ragazzo li prende. Dice addio a sua madre e alle altre parenti. Se ne va pagaiando. Non torna finché non ha ucciso una lucertola. Una grossa. Un umazi."

— Che cosa intendi quando dici che ritorna? — domandò Nia.

— So che le persone qui sulla pianura non approverebbero il nostro comportamento. Il nostro dono è il cuoio. Gli uomini cacciano gli umazi e li scuoiano per ricavarne la pelle.

"Ma la pelle non serve a niente se non viene conciata, e sono le donne a fare la conciatura. Sono loro che hanno le grosse tinozze fatte di legno e di ferro. Sono loro che hanno l’urina. Un uomo dove mai potrebbe procurarsi abbastanza urina da riempire una tinozza per la concia? E dove terrebbe la tinozza? Non nella sua canoa e non sulle isole, che sono spesso coperte d’acqua.

"Quando un uomo uccide un umazi, porta la pelle a sua madre, o a una sorella, se la madre è morta,"

— Non ho mai sentito una cosa del genere — disse l’oracolo.

— Tutto questo viene fatto con discrezione. L’uomo aspetta che la grande luna sia piena. Allora, durante la notte, si reca a casa della madre. Lega la sua imbarcazione e si arrampica sulla piattaforma. Lei è all’interno. Le finestre sono schermate. La porta è chiusa. La donna non fa alcun rumore.

"Lui mette giù il proprio dono. La pelle grezza dell’umazi. Raccoglie i doni che lei gli ha lasciato fuori della porta. Lui se ne va. Non viene scambiata una parola. I due non si vedono nemmeno.

"È necessario fare così. Altrimenti non avremmo il cuoio, e siamo il Popolo del Cuoio."

— Uh! — esclamò Nia.

— È questo che facevi? — s’informò l’oracolo.

Ulzai fece il gesto dell’affermazione. — Fino alla morte di mia madre. Le mie sorelle erano già morte. Non avevo cugine. È così che è incominciato tutto.

— Incominciato cosa? — chiese Derek.

— Io sono un buon cacciatore. Nessun uomo ha ucciso più umazi di me. Mia madre aveva più pelli di quante gliene servissero. Regalava metà di ciò che le portavo.

"A volte, durante la notte, conducevo la mia imbarcazione nel canale di casa e mi spostavo lentamente sotto le abitazioni nell’oscurità. Sentivo cantare le donne. Lodavano la mia abilità e la sua generosità. Dovete capire, era bello stare ad ascoltare."

— Non avresti dovuto stare là — disse Nia.

— Mi piacciono le lodi — ribatté Ulzai. — Lei morì. Non avevo parenti strette al villaggio. Non c’era nessuno a cui portare le mie pelli. Per me erano inutilizzabili. Tutta la mia abilità di cacciatore era inutile.

Aiya! - esclamò Derek.

— Prendi altra legna — gli ordinò Ulzai.

Derek ubbidì. Ulzai mise due rami sulle fiamme e restò a guardare finché non presero fuoco. Io ascoltavo. La pioggia continuava a cadere.

Lui sollevò la testa. — A volte, quando succede una cosa del genere, l’uomo, il cacciatore, rinuncia a cacciare. Si addentra nella palude e vive pescando. Diventa uno straccione. Dimentica come si fa a parlare. Ho visto uomini così nel periodo dell’accoppiamento. Cercano di tornare con la forza nella zona vicina al villaggio. Ne ho affrontati due o tre. Costoro non lanciano insulti come gli uomini normali. Ringhiano ed emettono brontolii. Tirano indietro le labbra e mostrano i denti. Uno sollevò la lancia, come se avesse intenzione di usarla contro di me. Alla fine non lo fece. Emise uno strano suono, una specie di lamento, e fuggì via. — Ulzai mise altri rami sul fuoco. — Altri uomini si cercano un’altra donna. Può darsi che ci sia una lontana cugina che non ha fratelli. O una vecchia che è sopravvissuta a tutti i suoi parenti.

"Ma non è facile raggiungere un accordo. Le due persone non possono parlare. Non possono guardarsi. La donna non sa chi le fa visita, lasciando le pelli di lucertola. Non ha la minima idea riguardo ai doni giusti da dargli. Una madre l’avrebbe, e anche una sorella.

"Spesso la donna ha paura. Le donne del villaggio fanno pettegolezzi quando una che non ha parenti prepara una tinozza per la concia. Fanno domande. Si fanno delle idee. Non è mai un bene attirare l’interesse delle proprie vicine."

— Questo è vero — disse Nia.

— Io non ero disposto a smettere di cacciare. Non volevo diventare un folle. Entravo nel villaggio nelle notti scure. Fermavo la mia imbarcazione sotto le case. Ascoltavo le donne che parlavano. Nessuna mi sentiva. Nessuna mi vedeva. Sono abile in ciò che faccio.

"Venni a sapere che era successo qualcosa ai fratelli di Tanajin. Avevano cessato di venire a casa sua. Lei non aveva niente da conciare. Così decisi di farle visita." Ulzai si alzò in piedi e sollevò i rampicanti dall’ingresso della grotta. L’acqua gocciolò dalle foglie. Guardai fuori e vidi la pioggia.

— Comincio a essere stanco di raccontare questa storia. Va avanti ancora a lungo. Forse il silenzio è meglio.

— Smettila se vuoi — disse Nia.

Tenni la bocca chiusa, sebbene volessi sentire il resto della storia. Derek aggrottò la fronte.

— La terminerò — disse Ulzai. — Lasciai una pelle. Quando la luna fu di nuovo piena, tornai. Lei aveva lasciato dei doni fuori dalla porta. Cibo, una brocca di birra e un coltello. Il manico era di legno nero intarsiato d’argento. Ma non era della grandezza giusta per la mia mano.

Feci il gesto che indicava comprensione o rammarico.

— In seguito tornai a ogni luna piena. Le portai molte pelli. Erano grandi e in eccellenti condizioni. Lei ne regalò parecchie. Ma non sentii le donne cantare in sua lode. E non sempre i doni che mi lasciava erano di mio gradimento.

"Mi diede sandali fatti di pelle di lucertola. Erano troppo piccoli. Mi diede tessuto per un gonnellino. Era verde scuro ricoperto di ricami rossi e gialli. La maggior parte degli uomini l’avrebbe gradito. Ma a me piacciono le cose semplici."

— Perché? — chiese l’oracolo.

— Sono fatto così. — Esitò. — Non c’è niente di bello in me. Non c’è mai stato. Mi sono procurata questa quando ero bambino. — Si toccò il pelame bianco sulla faccia. — Caddi dalla piattaforma della casa di mia madre. Una lucertola mi prese. Di solito ce ne sono alcune sotto le case del villaggio. Non sono mai grosse. Gli umazi non vivono di rifiuti. Ma a quel tempo la lucertola mi sembrò abbastanza grossa. Gridai quando mi azzannò. Mia madre si tuffò con un coltello. Uccise la lucertola, e a me rimase questa. — Si toccò la faccia una seconda volta. — E questa. — Si toccò il pelo bianco sulla gamba.

Nia disse: — Dev’essere stata davvero un’esperienza.

Ulzai fece il gesto dell’assenso. — Dammi la birra.

Gli porsi la brocca. Lui bevve. — Decisi di parlare con Tanajin. Ma non nel villaggio. Temevo che le donne anziane lo scoprissero. Le sentivo parlare sulle loro piattaforme. Erano come madri alla ricerca di parassiti fra i capelli dei loro figli. Erano alla ricerca di opinioni cattive. Volevano scoprire qualcosa di cattivo su Tanajin. Non sapevo perché.

"Attesi che arrivasse il periodo dell’accoppiamento Mi nascosi fra le canne in prossimità della sua casa. Quando lei partì per andare nelle paludi, la seguii.

"La trovai, ma non ero il primo. C’era un uomo insieme a lei. Lo affrontai. Lui s’infuriò. Ci battemmo. Lo sconfissi, anche se non fu facile. Fuggì nelle paludi e io parlai con Tanajin. Le mostrai la grandezza dei miei piedi e delle mie mani. Le spiegai che genere di stoffa mi piacesse. Le dissi che usavo sempre il tipo di lancia che ha la punta munita di barbigli."

— Ti accoppiasti con lei? — gli chiese Derek.

Ulzai fece il gesto dell’affermazione. — Ma l’accoppiamento non diede alcun frutto. Lei non ebbe nessun figlio. Quello fu il primo errore che commisi.

— Quale? — domandò Derek. — L’accoppiamento?

Ulzai si accigliò. — No. Averla seguita. Aver parlato con lei. Prima di allora, lei non era niente. Solo un’ombra fra le ombre della casa. Adesso era diventata qualcosa. Una persona. Sapevo che aspetto aveva. Conoscevo il suono della sua voce. A volte, quando ero nella palude e stavo seduto sulla piattaforma di fronte alla sua casa, mi trovavo a pensare a lei. Aprivo la bocca. Pensavo di parlare. Poi mi mordevo la lingua. — Si alzò di nuovo in piedi. — La pioggia è cessata. Vado fuori. — Si aprì un varco fra i rampicanti.

— Interessante — osservò Derek in inglese. — Com’è difficile mantenere le barriere fra gli individui.

— Lo credi? — chiesi.

— Forse mi riferisco al contrario. Ulzai ha ragione. È ora di fare una camminata.

Se ne andò. Guardai Nia. La sua faccia scura era inespressiva.

— Il mondo è pieno di persone strane — disse l’oracolo. — E di storie che non mi sarei mai aspettato di sentire. Forse è per questo che il mio spirito mi ha ordinato di viaggiare. Berrò ancora un po’ di birra.

Decisi di uscire anch’io.

Ulzai aveva ragione sulla pioggia. Era cessata. A occidente, oltre il fiume, le nuvole incominciavano ad aprirsi. Mi guardai attorno. Derek e Ulzai erano spariti. M’incamminai lungo la scogliera finché non trovai un punto dove potevo arrampicarmi. Salii finché non arrivai abbastanza in alto da vedere da una parte all’altra della valle.

Canali serpeggianti. Isole. Paludi. La foresta sull’altra sponda del fiume. Raggi di sole penetravano obliqui fra le nubi. Dove raggiungevano la foresta, questa era di un verde e di un giallo accesi.

Il vento era fresco e odorava di vegetazione bagnata. Mi sedetti e mi appoggiai contro una roccia. Uno stormo di uccelli volteggiava sopra il fiume. Ce ne dovevano essere due o trecento. Erano troppo lontani perché potessi vedere più che dei puntini. Mi chiesi che cosa stessero facendo. Si preparavano forse a volare verso sud. Avevo visto uccelli comportarsi così sulla Terra. Si radunavano in stormo e svolazzavano in tondo, allenandosi per la migrazione. Poi un giorno, in ottobre o novembre, ci si accorgeva che erano spariti.

Be’, diavolo, non poteva essere tanto facile volare verso sud. Capivo perché dovessero allenarsi. Gli uccelli di fronte a me volarono via. Restai seduta ancora per un po’, quindi ridiscesi lungo la scogliera.

Derek arrivò su dal fiume. Portava una canna da pesca e una filza di pesci. Erano piccoli, almeno paragonati al pesce che aveva pescato il giorno precedente, con il corpo grasso e rotondo e il ventre di un giallo acceso.

— Spero che siano commestibili — disse.

Tornammo nella grotta e Derek tenne sollevata la filza di pesci. — Come sono questi?

— Deliziosi — disse Nia. — Ma non sono facili da pulire. Lo farò io. Tu potresti rovinarli.

— Accomodati pure — fece Derek.

Nia aggrottò la fronte. — Che cosa significa?

— Forza!

Nia pulì i pesci e noi li arrostimmo. Ulzai tornò. Quando sollevò i rampicanti, entrò la luce del sole. Il cielo alle sue spalle era sereno e luminoso.

— Hai intenzione di terminare la tua storia? — gli chiese Derek.

— Sì. — Lasciò cadere i rampicanti. Ripiombammo nell’oscurità. — Ma prima voglio mangiare. Li hai presi tu questi?

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Il tuo palo serve a qualcosa.

Derek fece il gesto della gratitudine.

Ulzai mangiò e bevve quel che restava della birra. Poi ruttò. — Non è rimasto più molto da raccontare. Portai altre pelli a Tanajin. I doni che lei mi lasciava erano migliori di prima. Cacciai per lei tutta l’estate e lei regalò parecchie pelli. Ma le donne non celebravano la sua generosità. O se lo facevano, era malvolentieri. Le sentivo. Dicevano: "Che diritto ha di essere agiata, una donna senza parenti?".

"Venne l’inverno. Era più caldo del solito. Poche lucertole scesero il fiume da nord. Gli umazi erano affamati. La fame li rendeva irritabili ed erano più pronti a lottare. Morirono alcuni uomini, e altri uomini rinunciarono. Catturarono pesci invece degli umazi. Io invece continuai. Portavo molte pelli al villaggio quando la luna era piena. Non fallivo mai." Sollevò il capo. Riuscii a vedere il suo orgoglio.

— Tanajin era generosa. Questo l’ho già detto prima. Continuava a regalare pelli. Di notte, quando la luna era scura, mi recavo nel villaggio per ascoltare.

Nia si accigliò. — Continuo a dire che era sbagliato.

— Tu non hai fatto niente di peggio, o donna del Popolo del Ferro?

— Ho fatto molte cose che sono peggiori. — La voce di Nia era tranquilla.

— Sentii le donne del villaggio. Stavano sedute di fronte alle loro case e parlavano fra loro. Ma non lodavano Tanajin. Dicevano: "Chi la sta aiutando, questa donna senza fratelli? Chi le porta delle pelli pregevoli quando tutte noi non riceviamo niente?".

"Dicevano: ’Neppure Ulzai era in grado di uccidere tutti questi umazi. Ed era il miglior cacciatore. Tanajin ha ottenuto un aiuto che è fuori dell’ordinario. Forse uno spirito ruba la fortuna ai nostri figli e ai nostri fratelli’.

"Volevo gridare loro: ’Stupide, sono io quello che sta aiutando Tanajin. Ulzai il cacciatore! Non sono uno spirito!’. Ma non potevo dire nulla."

Nia fece il gesto dell’assenso. — Questo è ciò che capita quando si ascolta di nascosto. Si sentono cose che non si vogliono sentire. Ci si deve mordere la lingua.

Ulzai assunse un’aria furiosa. — Non criticarmi.

Per un istante o due Nia restò immobile. Poi fece il gesto dell’assenso, seguito da quello delle scuse.

Ulzai fece il gesto del riconoscimento. — Me ne andai e tornai di nuovo. Sentii altri pettegolezzi maligni. Dicevano che era pericoloso avvicinarsi alla casa di Tanajin di notte. Un umazi gigantesco stava in agguato nell’acqua scura sotto la piattaforma. Un uccello bianco stava appollaiato sulla sommità del tetto.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Sentii parlare un ragazzo. Non era molto grande. Lo capii dal suono della sua voce. Disse di aver guardato di sotto dalla casa di sua madre una notte in cui la luna era piena. C’era un uomo nel canale di casa, ritto in una barca che spingeva con una pertica verso la casa di Tanajin. La barca era piena delle pelli delle lucertole. L’uomo aveva guardato in su, disse il ragazzo. I suoi occhi splendevano come scintille di fuoco. Aveva aperto la bocca. La bocca era vuota. L’uomo non aveva lingua. Era Ulzai, disse il ragazzo. Ero io, ed ero morto. Tanajin aveva operato una magia e mi aveva fatto tornare dal luogo dove giacevo nell’acqua fredda della palude. Adesso lavoravo per lei.

"Stava mentendo" disse Ulzai. "Avrei voluto dargli del bugiardo. ’Sono Ulzai’ volevo gridare. ’Sono vivo e uso una pagaia e non una pertica.’"

— Uh! — esclamò Derek.

— Non so perché sia successo tutto questo. Perché lodavano mia madre? Perché dicevano cose malvagie sul conto di Tanajin? Tu lo sai? — domandò a Nia.

— No.

— Ero furioso. Decisi che non avrei più ucciso altri umazi. Me ne andai nelle paludi lontane e vissi di pesce. Il tempo si fece freddo. Cadde la pioggia. Mi presi la malattia che dà il tremito. L’avevo già avuta prima. Molti uomini se la prendono dopo che sono vissuti per un po’ di tempo nelle paludi. — Fece una pausa. — Questa volta era grave. Prima stetti troppo male per pescare. Poi stetti troppo male per mangiare. Restavo sdraiato nella mia imbarcazione sotto il mio mantello di pelle di umazi ben conciata. Cadeva la pioggia. Io tremavo e sognavo.

"Vennero le grandi lucertole, uscendo dalle paludi. Formarono un cerchio attorno a me. Parlarono. ’Perché hai smesso di cacciarci? C’è qualcosa di più magnifico di un umazi? Guarda i nostri denti aguzzi. Guarda i nostri artigli! Siamo enormi e terrificanti. Troverai mai una preda che meriti di più?’

"Cercai di rispondere. Mi battevano i denti e non riuscivo a parlare.

"’Sei diventato un codardo, Ulzai. Usi la tua lancia sui piccoli pesci. Temi le voci delle donne. Te ne resti sdraiato qui ad aspettare di morire della malattia del tremito.’

"’Siamo noi la tua morte. Non questa miserabile malattia. Ti prenderemo un giorno, ma solo se ci darai la caccia. Adesso alzati! Voga fino al villaggio. Va’ da Tanajin. Lei ti aiuterà. E quando starai bene, vieni a darci la caccia.’

"Si allontanarono nuotando e io mi alzai. Riuscivo a stento a stare seduto. Il mondo si muoveva in tondo attorno a me e volevo sdraiarmi di nuovo, ma non potevo. Gli umazi mi avevano detto che cosa fare.

"Vogai fino al villaggio. Arrivai durante il giorno, benché non me ne rendessi conto. Il mondo mi sembrava buio. Raggiunsi la casa di Tanajin. Legai la mia imbarcazione, ma non riuscii ad arrampicarmi.

"Fu lei a scendere. Le spiegai che le lucertole avevano detto che dovevo venire da lei. Erano loro la mia morte. Non potevo morire di nient’altro. Me l’avevano detto loro.

"Lei mi aiutò a salire la scala. Mi aiutò a entrare in casa e mi preparò un letto, lì, dentro le pareti della sua casa. Mi curò finché non ebbi superato la malattia.

"Questa è la conclusione della storia. Non potevamo restare al villaggio. Adesso lo sapevano, le vecchie, chi aveva aiutato Tanajin. Ulzai il cacciatore! Non c’era nessuna magia. Nessuno spirito maligno." Allargò le mani. "Soltanto Ulzai. Ulzai che non sarebbe morto. Che era venuto nel villaggio.

"Adesso erano furiose a causa di ciò. Sarei dovuto morire nelle paludi. Tanajin avrebbe dovuto lasciarmi nella barca."

Allungò la mano verso la brocca dove c’era stata la birra.

— È vuota — disse Derek.

Ulzai fece il gesto del rincrescimento. — Tanajin impacchettò le sue cose. Caricammo la mia imbarcazione. Ce ne andammo insieme.

— Perché? — domandò Nia.

— Tanajin aveva bisogno di aiuto. Non sapeva nulla della vita lontano dal villaggio. E io ero furioso. Non mi importava più niente delle opinioni dell’altra gente. Avevo tentato di tutto per guadagnarmi le lodi di quelle donne. Ero perfino stato disposto a morire da solo nelle paludi prima che gli umazi mi parlassero.

"Decisi che da quel momento in avanti avrei aiutato quelle persone che aiutavano me. E non avrei dato ascolto a nessuno." Fece una pausa. "Tanajin ha composto una poesia:


"Lascio

queste paludi.

Me ne vado lontano.


"Non vi sentirò

mai più,

o donne del villaggio,


"Fare rumori

come gli uccelli

fra le alte canne".


Fece il gesto che significava "così sia" oppure "è finita".

Restammo tutti in silenzio.

Ulzai si alzò in piedi. — Me ne vado fuori di nuovo. Forse tornerò questa notte. Forse no. — Uscì dalla grotta.

Derek cambiò posizione, sollevando un ginocchio e appoggiandovi il braccio. I suoi lunghi capelli erano sciolti in quel momento. Gli cadevano sulle spalle e aveva una ciocca negli occhi. Se la tirò indietro, poi si grattò il mento. — La prima cosa che farò quando saremo tornati sarà di sbarazzarmi di un po’ di questo pelame.

— Ma ne hai così poco! — disse Nia.

Avevo un’unghia seghettata e me la mordicchiai. — Non capisco la storia.

— Non devi capire niente — disse Derek.

— Perché le donne del villaggio provavano antipatia per Tanajin?

— Ci sono donne così — disse Nia. — Non vanno d’accordo con le altre. Forse amano litigare o forse si tengono in disparte dalle altre persone.

"Avevo un’amica quando ero giovane. Angai. Era la figlia della sciamana e aveva la lingua tagliente. Non piaceva quasi a nessuno. Parlavano di lei, sebbene non abitualmente quando io mi trovavo nei dintorni."

— Che cosa le è successo? — chiesi. — Ha fatto la fine di Tanajin?

Nia fece il gesto che significava "no". — Sua madre è morta e lei è diventata la nuova sciamana. Ti ho parlato di lei. Ne sono sicura.

— Non mi ricordo. Tu eri una persona come Tanajin?

— No — rispose Nia. — Io ero una persona comune. La gente non parlava di me. — Aggrottò la fronte. — Non credo che lo facessero. Non prima che scoprissero di me e di Enshi. Dopo è stato tutto diverso.

Sembrava a disagio. Cambiai argomento. Parlammo del tempo e poi del fiume. Ulzai non tornò. Il fuoco si consumò e divenne un mucchio di braci da cui saliva ancora un sottile filo di fumo che si avvolgeva a spirale fra le foglie. Mi coricai, restando ad ascoltare gli altri. Le loro voci si fecero più sommesse e lontane finché le loro parole persero significato.

Derek mi svegliò il mattino dopo. — Muoviti. Ulzai dice che sarà una lunga giornata.

Mi rigirai e gemetti. L’aria era umida e mi dolevano le braccia. Andai fuori a orinare.

La nebbia copriva la valle e il fiume era invisibile. Gli arbusti, anche quelli proprio davanti a me, erano indistinti e scoloriti. Non era certo la giornata per il saluto solare. Feci qualche esercizio di stretching, poi tornai nella grotta. Nessuno si era preoccupato di riaccendere il fuoco. La grotta era buia e tiepida e odorava di corpi pelosi. Un odore confortante.

Facemmo i bagagli.

— Come facciamo a viaggiare? — domandò Nia. — Sono stata fuori. L’aria è come la pelliccia del ventre di un cornacurve. Non riusciremo a vedere niente.

— Conosco il fiume — disse Ulzai. — Possiamo viaggiare mezza giornata prima di imbatterci in qualcosa di insolito o pericoloso. E allora la nebbia sarà già sparita. L’aria sarà limpida quando arriveremo nel punto dove l’acqua cade.

— Ne sei sicuro? — chiese l’oracolo.

— Sì — rispose Ulzai. — Muoviamoci. E fate attenzione.

Incominciammo a scendere fra la nebbia, Ulzai in testa. La roccia che superammo era scivolosa. Non vedevo quasi niente: la figura indistinta di Ulzai, qualche arbusto confuso. Ne sfiorai uno. Le foglie erano orlate di goccioline di umidità. Da qualche parte lì vicino il torrente gorgogliava.

— Ahi! — gridò qualcuno.

Mi voltai e vidi Nia e Derek. L’oracolo era sparito.

— Che cosa è successo?

Nia fece il gesto del dubbio.

— Quel maledetto sciocco è finito nel burrone — disse Derek.

— Aiuto — gridò l’oracolo. La sua voce sembrava lontana sebbene dovesse essere abbastanza vicina.

Derek scrutò nel burrone. — Non riesco a vederlo. Oracolo! Grida di nuovo!

— Aiuto — fece l’oracolo.

— Proprio qui sotto. — Derek depose le sacche che portava, si tolse gli stivali e i calzini e si calò nel burrone.

— Che cosa sta succedendo? — chiese Ulzai alle mie spalle.

— L’oracolo è caduto nel burrone.

— Un uomo maldestro!

Feci il gesto dell’affermazione.

— L’ho preso — disse Derek. — Riesci a tenerti in piedi?

— Non lo so — rispose l’oracolo.

— Provaci.

Ci fu un minuto di silenzio.

Aiya! Mi fa male la caviglia!

Ulzai sbuffò. Mi avvicinai al ciglio del burrone e guardai giù. C’erano delle forme indistinte sotto di me: rocce e rami, appena visibili attraverso la nebbia.

— Andiamo — disse Derek. — Ti aiuto a salire.

I rami si mossero. Comparvero due figure: una pallida e umana, l’altra scura, massiccia e aliena. Mi inginocchiai e allungai una mano. L’oracolo l’afferrò. Tirai. Derek lo sollevò. Insieme lo tirammo fuori.

— Com’è potuta accadere una cosa simile? — domandò l’oracolo.

— Non chiederlo a noi — ribatté Derek. Si inginocchiò accanto all’oracolo, che si era seduto, e gli tastò la caviglia. L’oracolo emise un gemito.

— Non sento niente che sia fuori posto, e non sembra che tu soffra molto.

— Ecco che lo fai di nuovo — protestò l’oracolo. — Misuri il dolore che prova un’altra persona. Come puoi riuscirci? Che specie di magia possiedi?

— Non gridi quando faccio così — disse Derek. Strinse la caviglia.

L’oracolo emise un gemito strozzato. — Griderò, se è questo che vuoi. Ma prima lasciami tirare un bel respiro.

— Stiamo sprecando il tempo — intervenne Ulzai. — Se la caviglia è rotta, l’uomo lo scoprirà. Il dolore peggiorerà e la caviglia si ingrosserà. Se invece è tutto a posto, si accorgerà anche di quello. Muoviamoci!

Derek aiutò l’oracolo ad alzarsi. L’omino gemette, ma riuscì a reggersi sul piede ferito. Scese zoppicando il pendio, appoggiandosi a Derek. Io e Nia portammo le sacche.

La nebbia si andava sollevando un poco. Riuscii a scorgere la riva del fiume. L’acqua grigia sciabordava dolcemente contro una spiaggia grigia. Il centro del fiume era di un biancore impenetrabile.

Spingemmo in acqua l’imbarcazione. L’oracolo vi salì e si sedette, lamentandosi. Noi lo seguimmo: Derek a prua e Nia dietro di lui. Io mi ritrovai fra l’oracolo e Ulzai. Non era un posto particolarmente comodo. Sentivo la presenza di Ulzai alle mie spalle: enorme, peloso e formidabile. C’era qualcosa di duro e acuminato che mi premeva contro la coscia. Mi spostai e guardai. Era la lama di una lancia, lunga e uncinata, fatta di ferro. Era posata sul fondo della barca insieme a un’altra lancia e alla canna da pesca di Derek. Per poco non mi ero seduta sulla punta.

La barca si allontanò dalla riva.

Mi spostai all’indietro, cercando di allontanarmi dalla lama della lancia.

— Non fare così — mi disse Ulzai. — Ho bisogno di spazio per vogare.

Mi spostai di nuovo in avanti.

— Bene.

Viaggiammo nella nebbia per tutta la mattinata. L’aria era immobile e non c’era alcun suono, a parte il tonfo delle pagaie. Il silenzio aveva effetto su tutti noi. Parlavamo appena e ci muovevamo con prudenza, cercando di fare il minimo rumore possibile. L’oracolo faceva eccezione. Di quando in quando si lamentava e cambiava posizione. Mi sembrava che cercasse di sostenere il braccio ferito.

La nebbia si diradò un poco e dal biancore affiorarono delle isole. La corrente si fece più rapida e la superficie del fiume cambiò. C’erano increspature e vortici.

— Ci stiamo avvicinando al punto in cui il fiume precipita — disse Ulzai. — La nebbia è durata più di quanto mi aspettassi. Sto cercando di decidere se voglio proseguire oppure no. La barca è troppo carica. Potrebbero esserci problemi e non voglio trovarmi ad affrontarli all’improvviso.

L’oracolo si mosse di nuovo nel tentativo di trovare una posizione comoda. Il braccio ferito era appoggiato sul bordo della canoa. Lo sollevò. Vidi del sangue che gocciolava nell’acqua.

Mi protesi in avanti e gli afferrai il braccio. Lui si girò di colpo. La barca oscillò.

— Sta’ fermo — dissi.

La fasciatura si era strappata. Il bordo della schiuma era arrossato dal sangue. Anche la pelliccia era impregnata di sangue e una linea scura di sangue scendeva lungo il lato interno della canoa. Mi sporsi all’esterno. La barca oscillò di nuovo.

— Che cosa stai combinando? — chiese Ulzai.

Una seconda striscia di sangue scendeva lungo il lato esterno della canoa, finendo nell’acqua.

— Sangue! — esclamai. — Non avevi detto che era pericoloso lasciare tracce di sangue nell’acqua?

— Sì.

— L’oracolo sta sanguinando.

— Spostati qui dietro — ordinò subito Ulzai. — Prendi la mia pagaia.

Ubbidii. Lui si alzò e mi scavalcò. Mi sistemai a poppa. Ulzai raccolse una lancia. Si raddrizzò e si guardò attorno.

— Niente, per il momento. Ma tu, o uomo santo, tieni il tuo braccio dentro la barca. Non voglio altro sangue nell’acqua.

L’oracolo si tenne il braccio contro il torace. Aveva le spalle curve. Ebbi l’impressione che fosse terrorizzato. Be’, lo ero anch’io.

Ulzai parlò di nuovo. — Loro non amano questa parte del fiume. L’acqua si muove troppo rapidamente. Non vengono qui se non nel periodo della migrazione, e quello non è ancora iniziato.

— Bene — disse Derek.

— Se ce n’è qualcuno qui attorno, se qualche esemplare ha deciso di andare a sud più presto, prima della grande ondata, è probabile che sia vicino alla riva. Oppure dietro di noi. A monte. Andremo avanti. Fate attenzione alla corrente. È forte e lo diventerà ancora di più. Seguitela. Ci sono rocce a ovest. Fate attenzione a quelle e guardate a est ogni tanto. Se vedete qualcosa di scuro nell’acqua da quella parte, gridate. Sarà una lucertola.

— Okay — dissi.

Aveva ragione. La corrente era forte. Sentivo la forza dell’acqua ogni volta che immergevo la pagaia. La barca prese velocità. Ulzai, ritto di fronte a me, non aveva alcuna difficoltà a tenersi in equilibrio. Il braccio era sollevato, la lancia in equilibrio a mezz’aria. Lanciava occhiate attorno, facendo particolare attenzione all’acqua dietro di noi. Doveva essere quella la zona di vero pericolo.

— Rocce — disse Nia. — Davanti a noi.

— Andate a est — ordinò Ulzai. — Siete troppo al largo.

Spostai la pagaia e spinsi in acqua la pala, cercando di far girare la barca. Quello di cui avevo bisogno, davvero bisogno, era il genere di imbarcazione che avevo usato sulla Terra. Oh, cos’avrei dato per l’alluminio!

La canoa incominciò a girare. Provai un senso di sollievo.

Ulzai espirò. Guardai in su. Teneva lo sguardo fisso oltre la mia testa. Mi voltai a dare un’occhiata. C’era qualcosa nell’acqua. Una testa scura. Enorme. Doveva essere grande il doppio dell’animale che avevo visto nella laguna.

Umazi - disse l’oracolo.

— Non guardare indietro — ordinò Ulzai. — Continua a vogare. E sta’ all’erta qualora ci fossero problemi davanti a noi. Mi occuperò io di questo.

Pagaiai. Dopo un po’ lui disse: — Non è un umazi. La forma della testa è diversa. E non è abbastanza grande.

Aiya! - esclamò l’oracolo.

La corrente era più turbolenta. C’era schiuma sull’acqua davanti a noi. A una certa distanza verso ovest una sagoma scura si profilava nella nebbia. Una roccia, non un’isola. Eravamo arrivati alle rapide e ci trovavamo ancora troppo al largo.

— Ora la lucertola si fermerà — disse Ulzai. — Odiano l’acqua rapida.

Anch’io, il che mi dava qualcosa in comune con la lucertola. Non sufficiente, però, a costituire la base di un’amicizia.

Ulzai disse: — Deve essere affamata. O pazza. Si sarebbe dovuta fermare.

— Non l’ha fatto? — chiesi.

— Si sta avvicinando.

— Merda! — esclamai in inglese.

Ulzai scagliò la lancia.

Ci fu un urlo e mi guardai attorno. L’animale era dietro di noi. Mio Dio, quasi dentro la barca! Il corpo enorme si contorse. Vidi un ventre chiaro e una schiena scura e coperta di aculei. La lancia di Ulzai sporgeva dalla schiena come un altro aculeo, lungo e sottile. L’animale aprì la bocca. Denti e ancora denti. Lanciò un altro urlo.

Dovevo aver smesso di vogare, sebbene non me ne fossi resa conto. La barca ondeggiò, poi si girò, presa in un vortice, e proseguì di traverso nella corrente.

— Stupida! — sbraitò Ulzai. — Ti avevo detto…

La barca si capovolse. Caddi nell’acqua fredda e impetuosa. Un istante dopo il fiume precipitò oltre un dislivello.

Caddi a testa in giù. La bocca mi si riempì d’acqua mentre il fiume mi risucchiava giù. Non lottai. Questo mi avrebbe uccisa. La regola era farsi portare dalla risacca. Alla fine si risaliva in superficie. Ma la regola valeva per il nuoto nell’oceano.

Cielo, se era difficile non dimenarsi! Mi facevano male i polmoni e stava accadendo qualcosa al mio cervello. Un senso di pressione. Un offuscamento.

Il fiume superò un altro dislivello. Continuavo a girare su me stessa. Aiya! Maledizione!

La corrente rallentò. Ora riuscivo a nuotare. Su. Su. Emersi in superficie, sputai fuori acqua e inspirai.

Ah!

Galleggiai, lasciando che il fiume mi portasse. Inspiravo ed espiravo. Mi dolevano le braccia, la spalla e i polmoni.

Ma ero viva. Sollevai la testa e vidi la nebbia. L’acqua attorno a me era grigia e leggermente increspata. Di fronte a me si profilavano degli alberi: ombre, appena visibili. Un’isola. Ero troppo sfinita per nuotare ancora. Lasciai che la corrente mi portasse verso gli alberi.

C’era della legna galleggiante sulla riva a monte. Un enorme groviglio. Rami e radici si protendevano nell’acqua. Stavo per passarvi accanto. Feci qualche bracciata, quattro o cinque, non sarei riuscita a farne di più, poi mi aggrappai a una radice e rimasi lì appesa. La corrente mi tirava. Respirai. Dentro. Fuori. So. Hum. Pian piano il mio cuore rallentò i suoi battiti. I polmoni non mi facevano più tanto male.

Ma il dolore al braccio stava peggiorando. Stavo per perdere la presa sulla radice. Chiusi gli occhi e pregai Guan Yin, la dea della misericordia, il Bodhisattva della compassione. Fammi uscire viva da qui.

Ritta sul suo fiore di loto, lei sorrise e fece un gesto rassicurante.

Mi tirai su, una mano sopra l’altra, fra il groviglio di legna e mi incuneai lì in mezzo. I rami mi tenevano per metà fuori dall’acqua. Aiya! Mi rilassai. Mi caddero le braccia e le mani entrarono nel fiume. Mi riposai così forse un’ora.

La nebbia si dissolse. Di fronte a me il fiume risplendeva bruno e verdeazzurro. Un grosso uccello sguazzava nell’acqua. Si tuffò e riemerse, poi si tuffò e riemerse di nuovo. Non riuscivo a vedere se aveva catturato qualcosa.

Infine mi tirai fuori completamente dall’acqua e incominciai a inerpicarmi fra l’intrico di rami e di radici, dirigendomi verso la sponda dell’isola.

Lixia

Quando raggiunsi la riva ero nuovamente stremata. Mi sedetti sulla spiaggia di sabbia di un grigio tenue. Di fronte a me c’era il legname galleggiante: una barriera bianca e grigia che nascondeva il fiume. Alle mie spalle… Mi guardai attorno: alberi e cespugli.

Dopo un po’ pensai agli altri. Che fine avevano fatto?

Avevo visto Derek fare vasche nella grande piscina della nave. Se la cavava bene in acqua, quasi quanto me, e io ero cresciuta presso l’oceano. Probabilmente ne sapeva meno di me sull’acqua burrascosa, ma era sopravvissuto a un sacco di situazioni veramente difficili.

Quanto ai nativi, non avevo la minima idea se sapessero nuotare. Forse il fiume li aveva uccisi. Un’idea spaventosa. Rabbrividii, a dispetto del sole infocato e dei vestiti ormai quasi asciutti.

Decisi di fare un inventario. Che cosa avevo? Una camicia di denim. Jeans. Biancheria. Avevo perso i miei stivali e mi restava un solo calzino. Mi frugai nelle tasche e trovai un accendino che non funzionava. Doveva esservi entrata l’acqua. L’avrei provato più tardi. Un coltello pieghevole. Una pietra rotonda e grigia con dentro un fossile. Della garza.

Era tutto qui, a parte il registratore audiovisivo sulla sua catena che avevo al collo. Lo toccai. Era caldo al tatto. Lì dentro c’era un trasmettitore, molto piccolo, che trasmetteva un segnale che consentiva di rintracciare chi lo portava. Non aveva una lunga portata, ma quelli sulla nave sapevano già approssimativamente dove mi trovavo. Se avessero deciso di cercarmi, mi avrebbero trovata. Tutto quello che dovevo fare era restare in vita e sperare che venissero a cercarmi.

Per trovarmi rapidamente, avrebbero dovuto usare delle macchine: motobarche o aeroplani. Provai a immaginare Eddie che dava il suo consenso a una ricerca del genere. Era poco probabile. Ma non c’era solo lui sulla nave.

Mi tolsi il calzino che mi restava, lo piegai e me lo ficcai in una tasca, poi mi alzai e mi tolsi la sabbia dai vestiti. Era ora di andare in esplorazione.

Girai attorno al perimetro dell’isola, tenendomi il più possibile vicina alla riva. Non trovai alcuna impronta: un buon segno. Significava che non c’erano grossi animali sull’isola. Significava anche che dovevo aprirmi un varco nella vegetazione. Scavalcai tronchi e passai sotto rami di alberi. Ovunque crescevano rampicanti, formando liane che erano quasi tropicali. Gli insetti mi ronzavano attorno, ma non mordevano.

Un paio di volte mi trovai di fronte del fogliame troppo fitto per addentrarvisi. Seguii quindi il fiume, sguazzando nell’acqua bassa. Minuscoli pesci guizzavano davanti a me.

Quando ebbi fatto un mezzo giro dell’isola, mi tagliai un piede. Non avrei saputo dire con certezza su che cosa: una pietra aguzza o la conchiglia di un animale di fiume. Il taglio non era profondo, ma sanguinava. Dopo di che mi tenni fuori dall’acqua.

Quando tornai al punto di partenza era ormai pomeriggio inoltrato. Le ombre si allungavano sulla spiaggia, raggiungendo il groviglio di legname galleggiante.

Mi sedetti. Che cosa avevo scoperto?

L’isola si trovava sotto le rapide. Le avevo intraviste mentre mi inerpicavo fra i cespugli all’estremità settentrionale.

A ovest c’erano altre isole. In quel punto l’acqua era tranquilla e la riva del fiume era lontana. Non ero neppure certa che fosse quella che vedevo. La linea indistinta poteva essere una palude o un’altra serie di isole con i contorni che si confondevano nella foschia della tarda estate.

A est c’era il letto principale del fiume. L’acqua era profonda e la corrente rapida. Aveva intaccato l’isola, formando una riva scoscesa, quasi verticale. Lungo la sommità crescevano alberi e le loro radici si allungavano nel vuoto, in cerca del terriccio che era sparito. Molti si sporgevano sopra l’acqua e qualcuno vi era caduto. Il fiume vi scorreva accanto veloce, dando strattoni alle foglie gialle.

Il letto non era particolarmente ampio. Avrei potuto raggiungere a nuoto la terraferma. Non oggi, però. Ero stanca e il taglio nel piede non aveva smesso di sanguinare. Non volevo incontrare un’altra lucertola. Una buona notte di riposo e avrei potuto attraversare il fiume. Forse avrei trovato qualcuno. Nia. Derek. L’oracolo. Ulzai.

O Bodhisattva, o Compassionevole, salva quelle persone.

Mi avvicinai alla riva del fiume, tirai su acqua con le mani e bevvi. Aveva un gusto strano, ma era improbabile che mi uccidesse, e ne avevo già inghiottita parecchia. Ne bevvi ancora un po’, poi tornai verso la foresta e mi sedetti, appoggiandomi contro un albero.

Mi svegliarono gli insetti. Mi ronzavano nelle orecchie e mi camminavano sulla faccia. Un paio mi morsicarono. Li scacciai con la mano, ma non servì a niente. Tornarono e mi morsicarono di nuovo. Mi alzai e mi misi a camminare lungo la spiaggia. Il cielo risplendeva di stelle. Riuscivo a vedere chiaramente la Via Lattea: un ampio e brillante nastro di luce. Una meteora cadde più a est. Una splendida notte!

Fatta eccezione per gli insetti. Mi seguivano. Erano assai peggiori di quanto fossero mai stati in precedenza. Perché? Finalmente ne avevo trovato una specie che amava l’odore degli umani? O avevo incominciato a odorare come i nativi? Mangiavo il loro cibo da più di 60 giorni ormai.

Raggiunsi la sponda del fiume e guardai verso il largo. Potevo entrare nell’acqua. Gli insetti non sarebbero stati in grado di morsicarmi sott’acqua. Ma lì c’erano le lucertole.

Mi voltai e tornai da dove ero venuta. Doveva pur esserci qualcosa da fare. Coprirmi con qualosa. Trovare un modo di accendere un fuoco.

Mi tornarono alla mente le parole di un insegnante al college: "Ricordatevi sempre, in una società con una tecnologia preindustriale ogni cosa impiega molto più tempo di quanto pensiate. Ogni cosa comporta molto più lavoro. E ci sono quasi sempre un sacco di insetti".

Cadde un’altra meteora: una grande, verso sud. Aveva una punta bianca e una lunga coda rossastra. Incominciai ad accorgermi di una strana sensazione all’epigastrio. O era all’inguine? Un po’ di male. No. Qualcosa di più intenso. Un dolore ben definito.

Spasmi mestruali! Non potevo crederci. Avevo una capsula inserita nel braccio che avrebbe dovuto rilasciare ormoni a un determinato ritmo per 180 giorni. Ero al sicuro per sei mesi. Nessuna mestruazione. Nessuno spasmo. Niente sangue. Be’, forse qualche piccola macchia. Ci avevano avvertito di questa possibilità. Il livello ormonale era stato ridotto il più possibile.

Che cosa era andato storto? La capsula era difettosa? Forse era stato lo stress. Ne avevo passate parecchie in quegli ultimi giorni. E lo stress poteva avere notevoli effetti sul sistema endocrino.

Continuai a camminare. Il dolore peggiorò e gli insetti continuavano a seguirmi e a morsicarmi.

Sapevo qual era la cosa migliore da fare. Prendere una coperta elettrica e un recipiente di tè corretto con whiskey. Infilarmi nel letto nella mia cabina. Accendere la coperta e bere il tè. Ascoltare musica. Dormire. Purroppo però…

All’alba incominciò il flusso. Gli spasmi si fecero meno forti. Gli insetti divennero meno attivi. Mi sedetti. Il sole sorse e gli ultimi insetti se ne andarono. Mi coricai e mi coprii la faccia con il braccio.

Sognai. C’era una torre che somigliava a quella di Inahooli. Si trovava nelle Hawaii, nel cortile sul davanti della mia casa, circondata da alberi di plumeria in fiore.

Ero seduta vicino alla torre all’ombra di un albero e parlavo con qualcuno. Stavamo discutendo. All’inizio non avevo idea di chi fosse la persona. Poi mi resi conto che era piccolissima, mi arrivava più o meno al ginocchio. Continuava a mutare mentre parlava, rimpicciolendosi, poi ingrandendosi, poi rimpicciolendosi di nuovo. Oltre alle dimensioni, cambiava anche forma. A volte pareva essere un minuscolo umano. Altre volte era una minuscola persona pelosa. La cosa più strana era che a volte sembrava un insetto, ritto su sei zampe, che agitava verso di me un paio di avambracci. Era sempre bruno e lucente, del colore di una blatta. Non avrei saputo dire di che sesso fosse.

Aveva una voce acuta e stridula.

— Io sono il Piccolo Spirito Insetto. Appaio alle persone quando incominciano a prendersi troppo seriamente. Loro credono di essere grandi. Io le riduco alla giusta misura.

Questo mi mandò in collera. Cercai di parlare, ma non riuscivo a rimettere ordine nei miei pensieri.

La creatura proseguì: — Io sono la pietra sotto i tuoi piedi. Sono l’insetto che ti morde nel sedere. Sono la scoreggia che ti viene quando ti presentano a un importante professore in visita. Sono gli spasmi mestruali e la diarrea.

Mi stavo infuriando ancora di più.

— I miei strumenti sono inganni e menzogne, malintesi e infortuni. Tutto ciò che è stupido e poco dignitoso capita a causa mia. Hola! Sono importante!

Cercai di afferrare l’individuo, ma mi scappò via e rimasi sola, sentendomi felice.

Una voce disse: — Non serve a niente.

Guardai in su. Il tipo era sopra di me, seduto su un ramo, circondato da fiori di plumeria color panna. Agitava le sue antenne. Il suo corpo scuro luccicava.

— L’oracolo penserà che sia accaduto a causa degli spiriti della grotta. Ulzai penserà che sia accaduto a causa degli umazi. Nia si sentirà colpevole e furiosa, come se fosse lei la responsabile. E tu penserai che la barca si sia capovolta senza alcun motivo.

"Te l’assicuro, sono stato io. Hola! Sono speciale, anche se sono piccolo!" Distese le ali e volò via, facendo un suono ronzante. Oltrepassò la torre e sparì nel cielo verdeazzurro.

Mi svegliai. Era metà mattina e giacevo al sole sotto un cielo terso dello stesso colore del cielo del mio sogno. Per un po’ mi sentii confusa. Dove mi trovavo? Non nelle Hawaii. E neppure nel Minnesota. Mi tirai su a sedere e ricordai. Ero a 18 anni luce da casa. La pelle mi prudeva. Mi guardai le braccia. Erano coperte di bernoccoli.

— Non farti prendere dal panico — mi dissi dopo un momento di terrore. — Sono morsicature di insetti, e le zanzare del Minnesota ti hanno conciata anche peggio.

La mia voce risuonò calma. Era confortante. Mi alzai. Avevo i vestiti appiccicati addosso. Sudore, per lo più. C’era una chiazza scura al cavallo dei miei jeans. Sudore e sangue.

La prima cosa da fare era un bagno, poi lavare i miei indumenti e fare il mio yoga.

Scesi lungo la spiaggia finché non fui oltre la barriera di legname. Quindi scavai un buco nella sabbia vicino all’acqua. Fu un lavoro lento. Non avevo nessun attrezzo a parte le mani e un pezzo di legno.

Quando la buca fu abbastanza grande, scavai un canale fino al fiume. L’acqua si riversò dentro. Mi svestii, mi inginocchiai nella piccola pozza sabbiosa e mi lavai, usando come strofinaccio il solo calzino rimastomi.

Dopo di che vi misi a mollo i miei indumenti e feci lo yoga. Terminai con la meditazione, fissando il fiume con gli occhi semichiusi. La luce scintillava sull’acqua verde e bruna. O gioiello del loto.

Strizzai i miei vestiti e li stesi sulla sabbia ad asciugare, mi sedetti ed esaminai la mia attrezzatura. Questa volta l’accendino si accese. Lo provai su un pezzo di legna, che prese subito fuoco. Questo mi risolveva due problemi: gli insetti e il modo di mandare segnali ad altre persone.

Misi da parte l’accendino ed esaminai il coltello. La lama era lunga dieci centimetri, fatta di acciaio inossidabile. Tagliente. Potevo usarla per tagliare a pezzi il cibo.

Non avevo intenzione di provare ad attraversare il fiume finché non avessi finito di mestruare, il che significava rimanere bloccata sull’isola per almeno quattro giorni. Che cosa avrei mangiato?

Potevo digiunare, naturalmente. L’avevo già fatto in precedenza. Ma probabilmente avrei finito con l’essere troppo debole per nuotare; inoltre, cercare cibo era un’occupazione. Una volta avevo letto un libro di Leona Field, una dei capi della seconda rivoluzione americana. Capo era la parola sbagliata. Leona era un’anarchica; non credeva nei capi. Aveva passato buona parte della sua vita aspettando, in prigione e fuori. Il suo consiglio era: programmate la prossima mossa, siate pazienti, tenetevi occupati. Decisi di seguire il suo consiglio.

Che cosa avevo a disposizione? Pesci nel fiume. Gli alberi erano pieni di uccelli e avevo visto un animaletto grande all’incirca come uno scoiattolo. Era peloso e arboricolo con una lunga coda che sembrava prensile. L’animale era comune sull’isola.

Non avevo modo di catturare gli uccelli o gli animaletti pelosi. Forse sarei riuscita a fabbricare una trappola per i pesci. Avevo osservato Nia.

E c’erano le piante. Nutrivo qualche preoccupazione su queste. Gli organismi che non erano in grado di fuggire ricorrevano spesso al veleno come protezione.

Avrei potuto raccogliere qualche esemplare adatto e provarlo mangiandone piccole quantità.

C’erano anche gli insetti. I bruchi erano una fonte di proteine. Non pensavo che potessero essere velenosi.

E animali diversi dai pesci? Esistevano cose come molluschi o gamberi? C’erano parecchie cose che non sapevo di questo pianeta.

Era ora di andare ancora in esplorazione. Usai il calzino bagnato per lavarmi le gambe e intanto pensavo che avrei dovuto trovare qualcosa da usare come assorbente igienico. Era un maledetto pasticcio e forse pericoloso. Non mi andava l’idea di lasciare una traccia di sangue. Risciacquai il calzino e lo stesi ad asciugare, poi indossai la biancheria e la camicia e mi diressi verso la foresta.

Durante le due ore successive sollevai rami caduti e capovolsi pietre, raccolsi foglie ed estirpai radici. Faceva un caldo terribile fra gli alberi. Dopo un po’ mi tolsi la camicia e la usai come sporta. Il sudore mi scorreva lungo la schiena e fra i seni. Gli insetti mi ronzavano attorno. Soltanto alcuni morsicavano, ma non sapevo perché. Forse c’era soltanto una specie che pensava che fossi commestibile, e quella specie usciva di notte. Forse… Al diavolo. Non avevo intenzione di teorizzare.

Trovai un arbusto pieno di bacche rotonde e violacee. Quando mi avvicinai gli uccelli si levarono in volo. Il terreno era coperto di escrementi di un bianco violaceo. Sembrava indicare che le bacche erano commestibili.

Un ramo morto si rivelò essere il rifugio di parecchi bruchi gialli. Misi anche questi nella mia sporta. Si contorcevano fra le bacche.

Su un altro ramo morto non trovai vita animale, ma la scorza interna era morbida e veniva via facilmente in lunghi fogli. Dovevo essere in grado di ricavarne un pannolino. La corteccia andò a far compagnia ai bruchi e alle bacche.

Passai una buona mezz’ora a osservare gli animali arboricoli. Zufolavano e stridevano e mi lanciavano oggetti. Per lo più ramoscelli. Restai dov’ero a fissarli, sperando che mi gettassero qualcosa di utile. Uno alla fine lo fece. Un frutto mangiato a metà. Lo raccolsi.

In qualche parte dell’isola c’era un albero che produceva frutti ovali, color blu indaco e commestibili. Misi il frutto nella sacca, vi aggiunsi qualche esemplare di vita vegetale e tornai alla spiaggia.

I miei vestiti erano quasi asciutti. Mi lavai di nuovo, poi fabbricai un pannolino con la corteccia. Il risultato non era particolarmente bello e non avevo modo di fissarlo ai pantaloni. Uno dei membri anziani della mia famiglia mi aveva ripetuto più volte: "Non andare mai da nessuna parte senza almeno un paio di spille da balia".

Eccomi qui, anni e anni luce da casa, su un pianeta di un altro sistema solare, a dimostrare che Perdita aveva ragione.

Indossai i jeans e vi infilai dentro il pannolino. Con un po’ di fortuna, sarebbe rimasto al suo posto.

Tirai fuori il frutto color indaco — i bruchi erano ancora vivi — e tagliai via la parte che era stata rosicchiata dall’animale arboricolo. Mangiai il resto. Era dolce e pastoso. Non male, sebbene preferissi frutta un po’ meno matura.

E poi? Incominciavo a sentirmi affamata, ma non abbastanza da mangiare i bruchi. Avrei dovuto trovare un uso per loro. Sarebbe stato uno spreco lasciarli morire. Se non potevano costituire la cena, sarebbero serviti da esca.

Lanciai un’occhiata al cielo. Era ancora pieno di luce. Avrei dovuto avere il tempo di fabbricare una trappola per i pesci. Avevo visto una pianta al centro dell’isola che probabilmente sarei riuscita a utilizzare.

Portai all’ombra la mia sporta piena di larve, la lasciai lì e tornai nella foresta.

C’era una leggera depressione al centro dell’isola. Il terreno era paludoso e la principale forma di vegetazione era qualcosa che somigliava a una canna. Ogni pianta consisteva di un unico stelo violaceo alto poco più di due metri. In cima a ogni stelo c’era una cresta fatta di fibre color magenta, simili a fili di ragnatela, tanto erano sottili e delicati.

Tagliai una dozzina di steli. Mentre segavo, le piante tremolavano e le fibre color magenta si staccavano.

Quando ebbi quasi finito, notai che tutte le piante perdevano le loro fibre, anche quelle che non avevo toccato affatto e alle quali non mi ero neppure avvicinata. Alcune delle fibre caddero lentamente al suolo e finirono nel fango. La maggior parte si allontanò fluttuando, attorcigliandosi e avvolgendosi, portata da correnti che non riuscivo a sentire. Qualcuna mi cadde addosso. Erano comuni, come filo. Me le spazzolai via con la mano e finii di tagliare. Quando ebbi terminato, l’intera pianta era spoglia.

Non ero in grado di stabilire quanto avesse visto il mio registratore, che penzolava e oscillava all’estremità della sua catena. Descrissi ad alta voce quello che era successo. — Ritengo che le fibre siano fiori o forse stoloni che viaggiano nell’aria. Le piante li liberano quando vengono ferite. In qualche modo le piante sono collegate. Una ferita inferta a una è una ferita a tutte. Se mi sbaglio e le fibre sono un sistema di protezione, forse questo messaggio servirà da avvertimento. — Riportai alla spiaggia i miei steli.

Ora, della corda. Decisi di usare il mio calzino. Era fatto di un filato veramente eccezionale, un misto di cotone e fibra sintetica, non assorbente come il cotone ma di gran lunga più resistente. Il calzino non aveva un buco, neppure dopo tutto il viaggiare che avevo fatto.

Fabbricai la mia trappola, fermandomi di quando in quando a chiudere gli occhi e a cercare d’immaginare Nia al lavoro, mentre piegava e fissava i rami. Aveva dita abili, il dorso coperto di pelliccia bruna. Il palmo nudo e scuro. Avambracci muscolosi. E la voce, profonda e lenta, spiegava quello che stava facendo.

Quanto mi mancavano quelle persone!

Vi misi anche una pietra come peso, come mi aveva detto lei, e poi i bruchi. Questi stavano diventando meno vivaci. Entrai con i piedi nel fiume. In quel tratto, di fronte alla mia spiaggia, era poco profondo. C’era un’insenatura protetta da un groviglio di detriti di legna. Dove questi finivano, il fondo del fiume scendeva. Da trasparente l’acqua diventava di un bruno verdognolo scuro e opaco. Un salto. Sistemai lì la mia trappola, proprio accanto al salto e vicino al groviglio di legna.

Tornai a riva e guardai giù nell’acqua. C’erano tracce nella sabbia. Ne seguii una. Scavai dove finiva. Aiya! Qualcosa di duro! Lo tirai fuori. Un cono grigio, pieno di tentacoli rosa. I tentacoli si agitavano freneticamente.

Gettai la creatura sulla riva e continuai la mia caccia. Trovai una mezza dozzina di quegli animali. Decisi di chiamarli calamari. I gusci andavano dai cinque ai dieci centimetri di lunghezza e gli animali mi sembravano commestibili. Più dei bruchi o delle diverse piante che avevo raccolto.

Il sole ormai era basso. La mia spiaggia era in ombra. Raccolsi della legna e accesi un fuoco. Spuntarono le stelle. Avvolsi un calamaro con delle foglie e l’arrostii nella brace. Sfrigolò ma non lanciò strida, cosa di cui fui grata. Ero disposta a uccidere animali e a mangiarli, accettavo quell’aggiunta al mio fardello karmico, ma non mi andava che le mie vittime fossero chiassose.

Tolsi dal fuoco l’involto di foglie e lo scartocciai. Il guscio era ancora grigio, i tentacoli avevano preso un bel color rosso ciliegia. Aprii il coltello ed estrassi l’animale dal guscio. Il corpo era a forma di cono e screziato di rosso e arancione. L’annusai. Non aveva alcun odore particolare. Lo aprii. Dentro non c’era niente di ripugnante. Non c’erano visceri pieni di sostanza nera, né alcuna sacca di inchiostro o veleno. Non c’erano lische né aculei.

— Avanti. — Lo mangiai. Era gommoso e aveva un gusto piccante. Mi piaceva.

Pensai di cuocere un altro animale, ma decisi di aspettare e vedere se il primo non mi avrebbe uccisa.

Una decisione difficile. Il mio stomaco brontolava. Potevo mangiare delle bacche. No. Un cibo alla volta. Se mi sentivo male, volevo poter stabilire quale evitare in futuro.

Gli insetti emersero dall’oscurità. Misi altra legna sul fuoco e cambiai posizione. Ora ero circondata dal fumo e gli insetti mi lasciarono in pace.

Dopo un’ora circa guardai i rimanenti animali. I loro tentacoli si muovevano debolmente. Stavano morendo. Se erano come i molluschi sulla Terra, sarebbero andati rapidamente a male. E io incominciavo ad avere davvero fame. Decisi di correre il rischio. Li avvolsi nelle foglie e li misi nella brace. Sfrigolarono.

Come potevo chiedere compassione al Bodhisattva quando io non provavo niente per quei piccoli esseri all’infuori di un inutile senso di colpa? E che cosa diavolo c’era che non andava in me? Stavo forse tornando indietro? Ero una persona moderna, una nativa delle Hawaii. Non sapevo niente delle credenze religiose degli antichi cinesi, a parte quello che avevo letto nei libri o sentito dire quando avevo fatto uno studio sulla comunità cinese di Melbourne. Perché dunque pregavo il Bodhisattva? E perché mi preoccupavo di ciò che succedeva a quegli sventurati animaletti? Misi altra legna sul fuoco.

Mangiai i calamari rimasti, poi raccontai al registratore quello che avevo fatto e mi misi a dormire. Mi svegliai la mattina dopo, sentendomi perfettamente bene.

Un’altra giornata radiosa. Feci visita a un tronco nella foresta e intanto pensai bramosamente ai bagni della nave. Mi lavai sulla riva del fiume, mangiai delle bacche, mi procurai della corteccia e mi feci un nuovo pannolino, mi misi quella dannata cosa e seppellii quella precedente. Infine entrai nell’acqua e andai a controllare la mia trappola per i pesci. La tirai su.

Avevo preso qualcosa, ma non era un pesce.

Se ne stava rannicchiato al centro della trappola, le zampe ripiegate. Contai dieci zampe. Ciascuna era lunga e sottile, piegata tre volte. Il corpo era rotondo e duro, con strisce e macchie marrone scuro e chiaro. A un’estremità c’era una testa, che consisteva in mandibole e occhi. Le mandibole scattarono. Gli occhi mi guardarono con astio. Li contai. L’animale aveva sei occhi, quattro grandi e due piccoli. Erano tutti sfaccettati. Avevo catturato un grosso ragno in un guscio duro. Un ragno con troppe zampe.

Clic. Clic.

Avevo desiderato un piccolo pesce gustoso.

— Okay — dissi. — Sei commestibile? Come ti cucino?

Clic.

Forse era delizioso, almeno quanto il calamaro. Le zampe ripiegate si mossero leggermente. Gli occhi mi guardavano furiosi. Naturalmente ero io a leggere un’espressione negli occhi, che apparivano come perline nere e, in realtà, non esprimevano nulla. Le mandibole scattarono. Aprii la trappola e la scossi.

L’animale cadde nell’acqua e sparì. Riportai a riva la trappola e la misi giù. Poi tornai verso l’insenatura. Sguazzai qua e là nell’acqua, cercando tracce nella sabbia, e trovai tre calamari. Furono la mia colazione.

Quando ebbi finito, andai nuovamente a esplorare la foresta. Trovai altre larve e una pianta che aveva un aspetto familiare. Aveva foglie azzurre arricciate e una radice grassa. Ero quasi certa che Nia avesse raccolto piante come quella. Ricordavo che aveva arrostito la radice. Era amidacea e insipida, ma saziava. Ne cavai nove o dieci.

Gli animali arboricoli facevano rumori sopra di me. Mi lanciarono altri ramoscelli. Aspettai, sperando in un altro frutto, ma non fui più così fortunata. Alla fine rinunciai e tornai sulla riva, misi altre esche nella trappola e raccolsi legna. Incominciavo a provare una certa noia. Sarei rimasta bloccata su quell’isola per altri tre o quattro giorni. Non sarei morta di fame e non avevo bisogno di un rifugio. Che cosa avrei fatto?

Mi grattai distrattamente. Potevo cercare un insettifugo naturale. Potevo esercitare la mia calligrafia nella sabbia. Potevo dormire quanto volevo o trattare con gli spiriti: Guan Yin e la Madre delle Madri o il curioso spiritello che mi era apparso in sogno.

Per domandare loro che cosa? Di salvare me e i miei amici.

Potevo pensare a quello che avrei fatto dopo aver attraversato il fiume. Laggiù c’era la foresta. Tanajin aveva accennato a un animale chiamato assassino-delle-foreste. Non sembrava affatto qualcosa che avrei voluto incontrare. E le lucertole? Erano animali migratori. Non amavano l’acqua veloce. Forse viaggiavano via terra quando arrivavano alle rapide. Le immaginai, enormi, scure e pericolose, che si aggiravano fra le ombre della foresta.

Quanto erano veloci sulla terra? Ero in grado di correre più veloce di loro?

Potevo accendere un falò di segnalazione. Se i miei amici erano vivi, l’avrebbero visto.

Decisi di accendere il falò. Non oggi. Il sole era già a occidente. Quando avessi raccolto legna a sufficienza sarebbe stata ormai notte. Quello doveva essere il programma per l’indomani.

Controllai di nuovo la trappola. Era vuota. Cercai altri calamari, ma non ne trovai nessuno. Per cena mi restavano le radici. Le lavai nel fiume e le arrostii sul fuoco.

Il sole tramontò. Mangiai le radici. Non sapevano di niente in particolare. Descrissi al mio registratore le radici e la creatura che avevo trovato nella trappola. Poi mi misi a dormire.

Mi svegliai con un attacco di indigestione. Il fuoco non era che un mucchio di braci. Il cielo era pieno di stelle. E io soffrivo di un terribile caso di gas intestinale.

Quelle maledette radici! Dovevo essermi sbagliata. Non erano della specie che aveva trovato Nia. Riaccesi il fuoco e mi sedetti lì accanto, aspettando che il dolore passasse o peggiorasse.

Se ne fossi uscita viva, avrei dato un nome a quel luogo. Se necessario, avrei controllato i membri del team cartografico mentre inserivano l’informazione. Con ogni probabilità l’avrei chiamato Isola del Piccolo Insetto, benché mi piacesse anche Isola delle Piccole Seccature. Suonava bene. Immaginai le persone del futuro che leggevano il nome e dicevano: "Qui dev’esserci una storia. Quali erano le seccature? E chi era la persona seccata?".

Finalmente il dolore cessò. Tornai a dormire.

La mattina seguente era soleggiata con una leggera foschia, fresca per il momento. Andai a vedere la mia trappola.

Ah! C’era un pesce. Era grosso e arancione con una pinna dorsale blu scuro. Attorno alla bocca aveva lunghi filamenti sottili color azzurro chiaro. Si muovevano lentamente, tastando l’aria o forse assaporandola.

— Come sei brutto — dissi.

Il pesce aprì la bocca e gracidò.

— Lo stesso vale per me, eh?

Il pesce gracidò di nuovo.

Non avevo particolarmente fame, non dopo una notte di indigestione. Il pesce si sarebbe conservato. Rimisi nell’acqua la trappola e tornai a riva.

Trascorsi la mattinata raccogliendo legna. Entro mezzogiorno ero in un bagno di sudore e provavo un po’ di nausa a causa della calura. Il cielo era pieno di nuvole alte, appena visibili attraverso la foschia. Gli alberi lungo la mia spiaggia erano immobili. Ci sarebbe stato un temporale, ma non subito. Accesi il falò di segnalazione.

Prese lentamente. Aggiunsi foglie secche e frammenti di corteccia. Le fiamme lambirono i bianchi rami contorti. Si levò il fumo. Il calore era intenso. Arretrai e mi guardai attorno. Il cielo era sgombro all’infuori delle nuvole e della foschia.

Non c’era nessun altro che faceva segnalazioni.

Abbi pazienza, mi dissi. Aggiunsi altra legna.

Tenni il fuoco acceso per buona parte del pomeriggio. Si ammassarono altre nuvole e incominciò a soffiare il vento. Invece di salire verso l’alto, la mia scia di fumo si allungava di lato. Andai a prendere il mio pesce e lo uccisi, lo pulii e lo arrostii fra le braci ai margini del fuoco.

Ora c’erano creste spumeggianti sul fiume e il tuono brontolava verso ovest. Mangiai il pesce. Sapeva di fango. Avrei dovuto tenerlo vivo per tre giorni in acqua corrente pulita o altrimenti affumicarlo. Era quello che si faceva con la carpa. Mi leccai le dita. Inominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, sibilando nel fuoco. Mi misi al riparo degli alberi.

Guizzavano i fulmini e i tuoni facevano rumori assordanti. La pioggia veniva giù a torrenti che spazzavano il fiume, gonfiandosi di fronte al vento. Mi raggomitolai sotto un cespuglio mentre l’acqua grondava fra le foglie sovrastanti, formando pozze sul terreno.

Finalmente il temporale si spostò verso est. La pioggia cessò. Uscii strisciando da sotto il mio cespuglio, mi tolsi i vestiti e li strizzai, poi andai a controllare il mio fuoco. La legna era fradicia. Non c’era modo di riaccenderlo. Forse l’indomani.

Ma il giorno seguente era tutto ancora bagnato e trascorsi la giornata a cercare provviste. I calamari erano spariti. Trovai nuovi bruchi e l’albero dai frutti color blu indaco. L’albero aveva il tronco diritto e i frutti si trovavano molto in alto. Non era un problema. I rami erano pieni di animali. Restai lì in attesa. Gli animali incominciarono ad agitarsi. Stridevano e fischiavano.

— Altrettanto a voi — dissi.

Lanciarono frutta e io la raccolsi. Loro fecero versi ancora più furiosi.

— Idem.

Misi altre esche nella mia trappola e riaccesi il fuoco per cucinare, poi mi feci un nuovo pannolino. Il flusso era quasi cessato. Ancora un giorno o due e sarei stata in grado di lasciare l’isola.

Mangiai pesce freddo e un frutto come dessert, quindi passai il pomeriggio riposando. Verso il tramonto controllai la trappola. Niente. La calai di nuovo nell’acqua e sentii un rumore. Guardai in su. Uccelli. Erano così in alto che non riuscivo a distinguere alcun particolare. Senza dubbio erano numerosi. Lo stormo si estendeva da nord a sud in ogni direzione fin dove riuscivo a vedere. Era un branco che ondeggiava in continuazione, allargandosi, poi restringendosi, a volte frantumandosi per poi riformarsi. C’erano migliaia di uccelli lassù. Forse milioni. Si lanciavano richiami mentre volavano e le loro grida erano acute e stridule e si udivano chiaramente nonostante la distanza. Andarono avanti così. Non avevo mai visto tanti uccelli in una volta sola.

Finalmente si vide la fine dello stormo. Alcuni sbandati, gruppetti secondari, che seguivano tutti gli altri. Un centinaio qui, duecento là. Volavano a sud, gridando: — Ehi, aspettateci.

Poi il cielo tornò a essere vuoto. Risalii sulla riva.

Una migrazione autunnale. Le lucertole andavano a sud via acqua. Gli uccelli andavano a sud in volo. Ma così tanti! Mi tornò alla mente quanto avevo letto sull’America prima dell’arrivo della civilizzazione. Branchi di bisonti che coprivano la prateria. Stormi di uccelli che oscuravano il cielo a mezzogiorno.

Mi grattai la testa. Mi prudeva. Avevo bisogno di sapone e di una doccia.

Il giorno seguente era limpido e luminoso. Accesi di nuovo il falò di segnalazione. Questa volta prese. A mezzogiorno controllai la mia trappola. Le larve erano sparite. Qualche animale se le era mangiate e se ne era andato. Andai di nuovo in cerca di viveri lungo le sponde dell’isola. Trovai alcuni pesci morti. Lo erano da un po’ di tempo e non avevano un aspetto invitante. All’estremità meridionale dell’isola trovai un animale. Un bipede. Giaceva sulla spiaggia, per metà dentro nell’acqua. Morto, ma non da molto. Era lungo meno di un metro. Le sue penne erano verdeazzurre, lo stesso colore del cielo, e aveva una lunga cresta rossa. Le zampe anteriori finivano in fragili artigli. Le zampe posteriori erano fatte per correre. La bocca aperta era piena di denti. Un grazioso piccolo predatore. Di che cosa si cibava? Grossi insetti volanti? O forse piccole creature pelose.

Lo portai fino al mio fuoco e lo tagliai a pezzi. Ne seppellii la maggior parte e usai un paio di frammenti come esca per la mia trappola.

Dopo di che mi sedetti a osservare il fiume, cercando eventuali lucertole. Non ne vidi. Non dovevano esserci rischi ad attraversare a nuoto.

Verso sera scorsi una scia di fumo più a est di dove mi trovavo. Verso valle. Mi alzai e sorrisi a quella linea sottile, simile a un tratto di matita. Avevo compagnia. Avrei aspettato un altro giorno e tenuto il fuoco acceso. Se non fosse venuto nessuno da me, avrei disceso il fiume.

Mi chiesi brevemente chi avesse fatto quel fuoco. Uno dei miei compagni o qualcun altro? Un cacciatore solitario. Un gruppo di donne in viaggio. Mercanti del Popolo dell’Ambra.

Era inutile fare congetture. Non avevo nessuna reale informazione. Feci il mio yoga, poi meditai, fissando il fumo.

Per cena mangiai un frutto. Dormii male, afflitta dalla cattiva digestione.

L’indomani il cielo era nuvoloso. Sentivo la pioggia nell’aria. Maledizione! Guardai verso est. Non c’era alcun segno dell’altro fuoco. Forse l’avevano lasciato spegnere durante la notte. Forse il fumo era invisibile contro il basso cielo grigio.

Controllai la mia trappola. Era di nuovo vuota. Così dissotterrai il bipede e ne usai un altro pezzo come esca. Poi esaminai anche il mio pannolino. Nessuna traccia di sangue. Dovevo essere in grado di attraversare a nuoto il fiume. Tolsi il pannolino e lo seppellii, poi riaccesi il fuoco.

All’incirca a metà mattina incominciò a piovere. Una pioggia sottile e brumosa. Il mio falò continuava ad ardere, ma chi l’avrebbe visto? La sponda orientale del fiume era indistinta. Imprecai contro chiunque fosse responsabile del tempo. I quattro venti. Quegli uomini turbolenti! Pregai Guan Yin, anche se non ricordavo se avesse qualcosa a che fare con la meteorologia, e chiesi alla Madre delle Madri di mettere in riga i suoi nipoti.

— E fa’ qualcosa riguardo al Piccolo Spirito Insetto, se puoi.

Forse stavo diventando un po’ pazza. Di norma non parlavo con gli spiriti. Il mio stomaco brontolò. Conclusi che il problema era la frutta. Avevo bisogno di carne o di verdura. Bevvi un po’ d’acqua e controllai la mia trappola. L’esca era ancora lì.

A mezzogiorno comparve un’imbarcazione: una lancia con una cabina e un motore abbastanza grosso. Risaliva lentamente il fiume sotto la pioggia.

Indossai i miei jeans e raccolsi le mie cose: il coltello, l’accendino, il calzino mezzo disfatto. Avrei dovuto spegnere il fuoco, ma come? Era piuttosto grosso. Avrei lasciato che fossero altri a occuparsene. Scesi fino alla riva e gridai e agitai le braccia.

La persona a poppa fece un cenno in risposta. La barca virò nella mia direzione. Entrai con i piedi nell’acqua.

La persona era vestita di verde oliva. Un membro dell’equipaggio. In teoria non c’erano uniformi sulla nave, ma i membri dell’equipaggio tendevano a vestirsi nello stesso modo: pantaloni di denim verde oliva e pullover verde oliva, soffici berretti con l’ala, verde oliva o neri.

Mi spinsi più al largo, fino al bordo del dislivello. La barca si avvicinò, muovendosi sempre più lentamente. La Ivanova. Riconobbi il suo corpo largo e tozzo. A salvarmi era il primo pilota della nave interstellare Number One.

Dalla cabina uscì qualcun altro, più alto della Ivanova e più massiccio, con indosso un paio di jeans e una giacca di denim blu. La camicia era rossa, i capelli lunghi e neri, portati sciolti. Gli cadevano sulle spalle. Il dottor Edward Antoine Turbine di Vento.

La barca si fermò accanto a me. Eddie si sporse in fuori e mi tirò a bordo. Mi abbracciò. — Lixia! Stai bene?

— Sì. — Mi tenni stretta a lui. Tremavo e avevo la sensazione che mi cedessero le ginocchia.

— Portala dentro — disse la Ivanova. Come sempre, la sua voce mi colse di sorpresa. Era una profonda voce di contralto che sarebbe dovuta appartenere a un’attrice o a una cantante. — Di’ ad Agopian di venire qua fuori. È necessario fare qualcosa riguardo a quel fuoco.

Un minuto dopo ero nella cabina. C’era un tappeto sotto i miei piedi nudi. Eddie mi aiutò a sedermi in una poltroncina. Mi appoggiai allo schienale e sentii la stoffa attraverso la camicia: un tessuto ruvido, molto probabilmente fatto a mano.

Tenevo le braccia appoggiate sui braccioli della poltroncina. Piegai le dita al di sotto e sentii il tubo di metallo. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che ero stata seduta così, in alto, lontano dal suolo, in una poltrona con uno schienale? Non me lo ricordavo.

Eddie si chinò su di me, l’espressione preoccupata. C’erano altre persone alle sue spalle. Una donna, membro dell’equipaggio, con un viso centroasiatico. Un uomo che sembrava vagamente mediorientale. Un uomo alto e biondo con una tuta azzurro chiaro.

L’uomo biondo mi sorrise e fece il gesto che significava "benvenuta".

Derek.

Eddie disse qualcosa alle persone dell’equipaggio, che uscirono.

Derek domandò: — Stai bene?

— Sì. Eddie, mi sei addosso.

— Scusa.

Si sedettero entrambi. Guardai Derek. — Tu come stai? Che cosa è successo? Sai che cosa sia successo agli altri?

Lui fece il gesto che significava che non sapeva. — Mi sono ritrovato da solo. Dev’essere stato lo stesso per te.

— Sì.

— Ho perso la barca non appena si è capovolta e mi sono aggrappato a un albero che era rimasto impigliato nelle rapide. — Sorrise. — Ero lì, nel bel mezzo delle rapide, che mi tenevo a quel dannato tronco d’albero e mi chiedevo che cosa fare in seguito. Non vedevo nessuno. Non avevo idea di cosa fosse capitato agli altri.

— Che cosa hai fatto?

— Non era il posto adatto per nuotare, ne ero abbastanza sicuro. E non ho mai fatto nessuna esperienza di nuoto nell’acqua turbolenta. Mi sono dato da fare per liberare il tronco e uscire galleggiando dalle rapide.

Feci il gesto che significava "bravo" o "ingegnoso".

— È quello che ho pensato anch’io prima di scoprire come sia difficile manovrare un albero. Soprattutto questo. Era progettato molto male, almeno per la navigazione. Può darsi che avesse fatto bene la sua parte nella precedente attività. — Derek lanciò un’occhiata a Eddie. — Ti racconterò il resto più tardi.

Eddie si protese in avanti. — Sei sicura di sentirti bene, Lixia?

— Non mi fa male niente. Non ho ferite. Sono stanca, e quanto prima avrò voglia di mangiare, ma non adesso.

— Okay. — Si alzò in piedi. — Devo parlare con la Ivanova. Ci sono decisioni da prendere e lei le prenderà da sola se non andrò subito là fuori. Derek, occupati tu di Lixia.

— Le tue parole sono ordini per me.

— Piantala con le fesserie.

Eddie uscì dalla cabina. Mi guardai attorno, vedendo pareti curve e finestre ovali. Il tappeto sul pavimento era di un colore neutro: grigio o marrone chiaro. Tutto l’arredamento dava l’impressione di poter essere piegato o smontato o trasformato in qualcos’altro. I divani lungo le pareti, per esempio. Era evidente che diventavano letti. E i tavolini fra di essi si piegavano dentro le pareti. Le nostre poltroncine avevano cerniere. Era una dimora da nomadi. Mi venne in mente che stavo passando tutta la mia vita viaggiando.

— Ho i miei ordini — disse Derek. — Che cosa ti serve? O che cosa vuoi?

— Ancora niente. Dammi un minuto.

Fece il gesto del tacito consenso.

Chiusi gli occhi. Il tempo passò. Il rumore del motore cambiò. Aprii gli occhi e mi alzai. L’imbarcazione si stava allontanando dalla mia isola. La spiaggia, la mia spiaggia, era deserta. C’erano state delle persone, vedevo le loro orme nella sabbia, e il mio fuoco era coperto di schiuma gialla. La schiuma si stava sciogliendo sotto la pioggia e grondava dai rami, formando una pozza di acqua giallognola. Nella pozza galleggiavano chiazze di schiuma.

Orribile!

Oltrepassammo il groviglio di tronchi galleggianti e risalimmo il fiume verso le rapide.

— Dove stiamo andando?

Derek fece il gesto che significava che non sapeva.

L’uomo basso, Agopian, entrò nella cabina. Chiuse la porta. — La Ivanova mi ha chiesto di prendermi cura di te. È impegnata in una discussione con Eddie.

— Riguardo a che cosa?

— Se cercare o no i tuoi compagni. Eddie dice di no, com’era prevedibile. La Ivanova sostiene che un cosmonauta non si rifiuta mai di cercare persone che potrebbero essere vive e in difficoltà. Nello spazio possiamo solo contare gli uni sugli altri. Che cosa posso fare per te?

Presi una decisione. — Qualcosa da mangiare.

— Non abbiamo una cucina vera e propria. Posso offrirti un sandwich.

— Okay.

Attraversò la cabina, da poppa a prua, e uscì da un’altra porta. Si accese una luce e lo vidi chinarsi e guardare dentro qualcosa: un elemento per cucina. — Abbiamo insalata di uova, caviale, cipolla e pomodoro, e qualcosa che pretende di essere fegato di pollo tritato su pane nero russo.

Feci il gesto della domanda. Lui parve perplesso. Dissi: — Che cosa intendi con "pretende"?

— Io sono armeno e gli armeni hanno la memoria lunga. Ricordo il gusto del pane nero russo. Abbiamo rinunciato a un sacco di cose per andare sulle stelle.

Abbastanza vero. Feci il gesto dell’approvazione.

— Che cosa vuoi? — domandò Agopian.

— Insalata di uova, se non è su pane nero.

— Segale. Non eccezionale, ma accettabile. Vuoi acqua minerale o birra? Abbiamo anche acqua del luogo, distillata ed esente da qualunque cosa che possa essere nociva.

— Acqua minerale.

Tornò portando il cibo. Il sandwich era avvolto nella carta, l’acqua era in una bottiglia di vetro. Su un lato c’era la stampigliatura "Si prega di restituire per il riciclaggio". C’era una scheggiatura sul fondo.

Aprii la bottiglia. L’acqua spumeggiò. Ne bevvi un po’, poi tolsi il sandwich dalla carta e ne mangiai un boccone. Era delizioso. Mi sforzai di mangiare adagio, fermandomi dopo ogni boccone a bere l’acqua, che aveva un leggerissimo gusto di agrumi.

— Derek? — disse Agopian.

— Per me niente.

L’uomo tornò nella cambusa e ne uscì con un’altra bottiglia. Questa era ambrata più che trasparente. Con ogni probabilità conteneva della birra. Si sedette e aprì la bottiglia. Dopo di che ci fu un momento di silenzio. Io mangiavo. Derek appariva stanco, soddisfatto di non fare niente. Agopian beveva la sua birra.

— Certo, ci sono anche dei vantaggi — disse alla fine.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Nell’andare fra le stelle. Quando ero ragazzo, avevo due ambizioni. Prendere parte a una rivoluzione e camminare su un altro pianeta alla luce di un altro sole. Una l’ho realizzata, e a seconda del significato che si dà alla parola rivoluzione, può darsi che realizzi anche l’altra. L’incontro con questi individui, i nativi di qui, cambierà la nostra storia.

Finii il sandwich e mi leccai le dita, poi feci il gesto dell’assenso.

— Che cosa significa? — domandò Agopian.

— Sì. Okay. Sono d’accordo con te — rispose Derek.

— Il tuo inglese è eccellente — osservai.

Lui annuì. — Sono stato a Detroit per due anni, quasi tre, a studiare alla Scuola di Storia del Lavoro.

— Sei uno storico? E fai parte dell’equipaggio?

— Ho una laurea in… quale sarebbe la traduzione esatta? Scienza dei computer? Teoria dei computer? Non ingegneria dei computer. So lavorare con le macchine e so parecchio sul modo in cui interagiscono con gli umani. Ma non so affatto che cosa succeda al loro interno.

"Ho anche una laurea in storia e un certificato che dichiara che sono idoneo a navigare nello spazio."

— È un funzionario politico — disse Derek.

— Non c’è una carica simile sulla nave interstellare Number One. Sono un membro del team di navigazione spaziale.

Derek fece il gesto della cortese mancanza di convinzione.

— Posso immaginare che cosa significhi — disse Agopian. Mi diede una breve occhiata. — Sono stato funzionario politico. Per tre anni a bordo dell’Alexandra Kollontai. È un apparecchio per il trasporto merci che fa servizio fra la Stazione di Trasferimento Uno e le colonie L-5. Farei meglio a usare il passato. Era un apparecchio per il trasporto merci. Ormai dev’essere stato riciclato. — Fece una breve pausa. Stava pensando al trascorrere del tempo, una cosa che facevamo tutti in quella spedizione. — Ma non sono più un funzionario politico.

— Tiene lezioni di teoria marxista — disse Derek. — E di storia della lotta di classe.

— Nel tempo libero — precisò Agopian. — Nessuno è tenuto a seguirle.

— Parecchi membri dell’equipaggio lo fanno.

— Perché non dovrebbero? Non è un crimine studiare le idee di Carlo Marx. Non in questo secolo e su questa nave.

Cercai di pensare a un modo di cambiare argomento. Subito non mi venne in mente niente. L’imbarcazione incominciò a oscillare. Agopian si alzò e andò a guardare fuori da un finestrino. — Stiamo girando attorno all’estremità settentrionale della tua isola, Lixia. Stiamo attraversando la corrente e forse ci stiamo avvicinando un po’ troppo alle rapide. A me piacciono le navi che viaggiano nello spazio. Questi piccoli oggetti che viaggiano sull’acqua mi rendono nervoso. Ma la Ivanova è in gamba.

Entrò Eddie, chinando il capo per passare dalla porta della cabina. Era troppo bassa per lui e quasi troppo stretta. — Andremo in cerca di Nia e dell’oracolo.

— Bene — disse Derek.

Eddie si strinse nelle spalle. — Mi sto abituando a perdere nelle dispute. Mi sento come quei vecchi capi e uomini di medicina che dicevano agli europei: "State facendo un errore. Non potete trattare in questo modo la Terra". Avevano ragione loro. Solo che ci sono voluti duecento anni perché se ne accorgessero tutti.

— È in collera — disse Derek.

— Certo che lo sono. — Andò nella cucina e prese una bottiglia di acqua minerale. — Attraverseremo il fiume e discenderemo lungo la sponda occidentale, lentamente. Non arriveremo al nostro campo prima di sera. — Aprì la bottiglia e si sedette, allungando le gambe. L’acqua minerale finì in un paio di sorsi. Mise giù la bottiglia.

Non volevo aver niente a che fare con la sua collera né con qualunque gioco Derek stesse facendo con Agopian. Mi prudeva la testa. — Ho bisogno di una doccia.

— Abbiamo una doccia portatile — disse Agopian. — Ma non possiamo installarla a bordo della nave.

— Barca — lo corresse Derek.

Dissi: — Avete un bagno? E una spugna?

— Dall’altro lato della cucina. Dovresti trovare tutto quello che ti serve.

Feci il gesto della gratitudine, mi alzai e andai nel bagno.

Metà dello spazio era occupato dal gabinetto. Nella parete di fronte era inserito un armadietto. Lo aprii e, come promesso, trovai tutto quello che mi occorreva: sapone in bottiglia, uno spazzolino da denti, un pettine, una pila di tute piegate con cura, una spugna. La spugna era naturale e un tempo era stata viva, molto probabilmente sulla nave.

Il sapone era alla menta. L’etichetta diceva che lo si poteva usare per corpo, capelli, denti e indumenti, ma non si doveva inghiottire né mangiare in altro modo.

Mi spogliai e mi lavai completamente, un compito non facile in uno spazio così ristretto. Quando ebbi finito, c’era acqua ovunque. Mi lavai i denti e mi spazzolai i capelli bagnati, asciugai me stessa e la stanza, poi sorrisi alla mia immagine riflessa. Non male, benché apparissi un po’ smagrita e un po’ troppo pallida. Avevo bisogno di un po’ di trucco e di un paio di orecchini.

Ah, sì! E di indumenti. Indossai una tuta, taglia piccola, azzurra, il colore della pace e dell’unità. Non era il mio colore preferito, ma la sola alternativa era quel monotono verde oliva.

Avevo finito, a parte sollevare di nuovo il lavabo nella parete sopra il gabinetto, spegnere il ventilatore e tornare nella cabina principale. I tre uomini mi lanciarono un’occhiata. Curioso, sentire di nuovo la tensione fra uomini e donne. — Che ne faccio dei miei vecchi vestiti?

— Vuoi riaverli indietro? — mi chiese Agopian.

— Mai.

— C’è un piccolo riciclatore in cucina. Mettili lì dentro.

Lo feci e dissi: — Me ne vado fuori sul ponte. È troppo… — esitai.

— Stretto qui dentro — terminò al mio posto Derek.

Feci il gesto dell’assenso e aprii la porta.

Stava ancora piovendo. Il ponte era riparato da una tettoia sporgente. La Ivanova era seduta su un alto sedile che le consentiva di vedere oltre il tetto della cabina. Teneva le mani appoggiate sulla ruota del timone. Erano mani grandi e dalle dita tozze, dall’aspetto forte perfino in posizione di riposo. Un tergicristallo era in funzione sul finestrino di fronte a lei. Ciac. Pausa. Ciac.

La Ivanova mi rivolse un’occhiata, annuì col capo, poi guardò la donna dell’equipaggio. — Questa è Li Lixia del team sociologico. Lixia, questa è Tatiana Valikhanova.

— Della squadra di manutenzione mezzi di trasporto ausiliari — disse la donna.

Ci stringemmo la mano. Mi guardai attorno. L’imbarcazione aveva virato e si stava dirigendo a sud. La sponda occidentale si estendeva alla mia destra, bassa e grigia, un miscuglio di foresta e acquitrino. Alla mia sinistra c’erano le isole: fitti gruppi di alberi che s’innalzavano dall’acqua.

— Fa’ attenzione se vedi del fumo — disse la Ivanova. — È stato così che abbiamo localizzato te e Derek.

— Con questo tempo?

— Il tempo è sfavorevole.

Feci il gesto dell’intesa.

La barca continuava a discendere il fiume. Dopo un po’ Tatiana parlò in russo. La Ivanova girò la ruota del timone. La barca virò verso una lunga isola coperta di cespugli. C’erano macchie bianche sui cespugli, che risultarono essere uno stormo di uccelli. Si levarono in volo al nostro avvicinarsi. Tatiana scrutò l’isola col binocolo. — Niente — disse in inglese. La barca virò di nuovo verso il letto principale. La pioggia si andava facendo più intensa. Le gocce di pioggia punteggiavano la superficie dell’acqua e la riva si vedeva a stento.

— È veramente brutto — dissi.

— Tenteremo di nuovo fra due o tre giorni — disse la Ivanova. — Viaggeremo in questa direzione. Il villaggio più vicino si trova a nord di qui, su un affluente di questo fiume.

La fissai a occhi sgranati. — Intendete visitare un villaggio?

— Sì.

— Dovete aver fatto la riunione.

— Sul problema dell’intervento? Sì.

— Che cosa è successo?

La Ivanova rise. — Che cosa pensi? Tu e Derek eravate spariti. Non potevamo raggiungervi via radio. Le persone sulla nave volevano cercarvi. Eddie diceva di no. Era troppo rischioso. Era troppo pericoloso stabilire un precedente. Dovevamo forse seguire la sua ridicola… come la chiamate?

Aggrottai la fronte, guardando verso la riva. Adesso era una linea grigia. — Ti riferisci alla politica di non intervento?

— No. È un termine inventato dagli scrittori. Scrittori americani, credo. Qualcosa di primario.

Sorrisi. — Le Direttive Primarie.

— Agopian me ne ha parlato. È una miniera di informazioni sull’America e sulla fantascienza.

— Così avete deciso di venire a cercarci. Credimi, ne sono grata. Ma perché il villaggio? Perché avete deciso di andarci?

— Eddie era contrario. Io ho detto… l’equipaggio ha detto… che è una pazzia. Non possiamo lasciare nei guai le persone. Non possiamo lasciar morire altri umani. Eddie ha continuato a battere sul pericolo di creare il precedente. Non lo capisco. Io vengo dal Distretto Nazionale di Chukotka. Sai dove si trova?

— No.

— In Siberia, più a est e a nord di quanto si possa arrivare restando sul continente asiatico. La maggior parte dei miei antenati erano di etnia russa. Ma nessuno in Siberia è totalmente una cosa sola. Io ho antenati che erano Chukchi e Inuit. So che cosa è accaduto ai Piccoli Popoli, i nativi del luogo, per il bene e per il male. L’abbiamo imparato a scuola.

"È passato. Non possiamo cambiare le cose e non possiamo fermare la storia. Possiamo soltanto agire in modo più attento, più meditato, con maggior rispetto e minore avidità." Fece una pausa. "Possiamo solo agire come socialisti."

Riflettei un momento. — Non capisco che cosa abbia a che fare tutto questo con l’essere qui.

— Eravamo a un punto morto — disse Tatiana. — Nessuno voleva abbandonarvi sul pianeta. Ma sulla nave ci sono parecchi individui che vengono dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Ricordano le storie che hanno imparato a scuola. La compagna Ivanova viene dalla Siberia. Io dal Kazakhstan. Dalla Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Kazakha. So quello che è successo alla nostra ottima terra da pascolo quando sono arrivati i russi, i russi sovietici.

— Che cosa? — chiesi.

— Completamente arata. Sparita. Dovevamo far pascolare le nostre mandrie nelle terre aride, il deserto, o sulle montagne. — La donna sollevò il binocolo. — Compagna, potresti portarci più vicino alla riva?

— Sì. — La Ivanova girò la ruota del timone. L’imbarcazione virò verso la palude piovosa: canne grigie, chine sotto il peso dell’acqua. Si muovevano dolcemente al vento. — Come ha detto Tatiana, eravamo a un punto morto. Stavamo seduti a scambiarci occhiate astiose. Finché i cinesi non hanno detto che non era un problema nostro.

Guardai la Ivanova, sorpresa.

— Hanno detto che il pianeta non appartiene a noi. E non è la nostra storia che abbiamo paura di cambiare. Hanno suggerito… il signor Fang ha suggerito… di consultare i nativi. Di chiedere loro se vogliono averci qui. — La Ivanova fece una pausa. — È per questo che andremo al villaggio.

— Un solo villaggio dovrà decidere questo problema per l’intero pianeta?

— No. Naturalmente no. Andremo nel villaggio più vicino a spiegare chi siamo e perché siamo giunti nel loro territorio. A chiedere se possiamo restare. Se diranno di no, ci scuseremo e ce ne andremo. Se diranno di sì…

Tatiana intervenne: — C’è qualcosa sulla riva.

La barca rallentò. Scorsi la cosa. Giaceva su un banco di fango, interamente fuori dall’acqua. Un oggetto lungo, sottile e scuro. Una lucertola?

Tatiana disse: — Una canoa.

— Che cosa? — Tesi la mano e lei mi diede il binocolo. Aveva ragione. — Ci siamo ribaltati in prossimità della riva orientale. Com’è possibile che sia finita qui?

— Di certo non può averla portata la corrente — disse la Ivanova.

La barca rallentò ancora, avvicinandosi alla riva. La Ivanova parlò in russo. Tatiana entrò nella cabina. L’imbarcazione si fermò. Eddie uscì sul ponte, seguito da Agopian.

— Quanto è profondo? — s’informò Eddie.

La Ivanova diede un’occhiata agli strumenti che aveva davanti. — Un po’ più di un metro.

Eddie scavalcò la fiancata e si diresse sguazzando verso la riva.

— Compagna? — chiese Agopian.

— Resta qui. A meno che tu non voglia andare.

— Certo che voglio. È chiaramente un manufatto, costruito da alieni. Mi piacerebbe toccarlo. Sono già bagnato.

Lei rise. Agopian seguì Eddie. Sollevai di nuovo il binocolo. Eddie era accanto alla canoa. Ora riuscivo a valutarne le dimensioni. Era troppo piccola. Eddie toccò il legno. Si avvicinò anche Agopian, le spalle curve contro la pioggia, i pantaloni inzuppati fino alla vita. Parlarono. Se fossero stati dei nativi, li avrei capiti, ma i gesti che facevano non avevano alcun significato chiaro. Agopian puntò il dito. Eddie scosse il capo. Si guardarono attorno. Agopian tirò fuori una macchina fotografica. Scattò fotografie della canoa. Eddie tornò verso di noi.

— Non è la nostra canoa — dissi alla Ivanova.

— No?

— Troppo piccola. E c’è qualcos’altro. La forma della prua.

Eddie risalì a bordo. — È vecchia. Il legno è marcio. Ci sono piante che crescono all’interno. — Lanciò un’occhiata ad Agopian. L’uomo basso stava ancora facendo fotografie. — Non ci sono orme sulla riva. Direi che è stata trascinata dalla corrente, forse in primavera. Questo fiume deve straripare. Non credo che fosse nuova neppure allora. Ha l’aria di essere in acqua da anni.

— Non ci sono molte probabilità di trovarli, vero? — dissi.

— No.

— Dovrebbero trovarsi sulla riva orientale del fiume — disse la Ivanova. — Vicino al letto principale, come Derek e te. — Esitò, poi gridò: — Compagno! Sobbalzai.

Eddie sorrise. — Vedi com’è sulla nave. Ha questo dannato modo di urlare.

— Non ho quasi mai gridato con te — ribatté la Ivanova.

Agopian tornò alla barca. Eddie lo aiutò a salire a bordo.

— Non è un gran che da guardare — disse. — Ma è davvero un manufatto. — Avvertii uno strano tono nella sua voce. — Non sono frutto della nostra immaginazione.

— Chi? — chiese Eddie.

— Gli alieni. I nativi. Altre persone. Vita consapevole. — Rise. — E io sono qui. — Si guardò i pantaloni. — Dovrò cambiarmi i vestiti.

Eddie annuì. La barca incominciò a muoversi, tornando verso l’acqua più profonda. Gli uomini entrarono nella cabina.

Io restai accanto alla Ivanova. L’imbarcazione riprese velocità. La pioggia s’intensificò ancora di più e le isole e la riva divennero solo ombre indistinte. L’acqua scorreva lungo il parabrezza e batteva sulla parte del ponte non riparata alle nostre spalle. Il vento la spingeva sotto la tettoia. Mi raggiunse. Rabbrividii.

— Va’ dentro, compagna. Non so che malattie sia possibile prendersi su questo pianeta ma, quali che siano, te le stai andando a cercare. Sei stremata. Non mangi in modo adeguato da giorni e adesso stai qui a prenderti freddo e umidità. Da’ il binocolo a Tatiana. Non credo che riuscirà a vedere alcunché, ma non si rinuncia quando ci sono in gioco delle vite.

Andai dentro. Derek se ne stava disteso in una poltroncina, le gambe allungate, le spalle contro lo schienale. Non era il modo in cui si sedeva di solito. Aveva l’aria stremata. Gli altri sedevano attorno a lui, bevendo tè e parlando sommessamente. Le luci mandavano una tenue luce gialla.

Tatiana alzò lo sguardo. — Lei mi vuole?

— Sì. — Le porsi il binocolo. Uscì. Mi sedetti su un divano, sentendomi disorientata. Forse era la luce. Così tenue e uniforme. Tutt’altra cosa della luce del fuoco. Mi massaggiai il collo. Gli altri mi lanciarono un’occhiata, poi continuarono la loro conversazione. Aveva qualcosa a che fare con un concerto sulla nave. Un compositore che usava elementi di musica indigena tratti dai nostri rapporti. Eddie pensava che il lavoro fosse superficiale, Agopian lo riteneva interessante. Derek faceva domande di quando in quando.

Mi distesi e chiusi gli occhi. Qualcuno mi mise addosso una coperta.

Derek disse: — Siamo quasi al campo.

Mi sollevai a sedere. Le luci erano spente. La cabina era deserta, fatta eccezione per noi due.

— Ha smesso di piovere — disse. — Andiamo fuori.

Mi alzai, stiracchiandomi, e lo seguii sul ponte. Tatiana era al timone. Gli altri tre se ne stavano appoggiati al parapetto di poppa. I lunghi capelli di Eddie ondeggiavano al vento. Alle loro spalle c’era la valle del fiume che la foresta faceva apparire scura. Sopra di loro il cielo era grigio ferro. A ovest, sulla mia destra, si stava rasserenando. Raggi di sole penetravano fra le nuvole e raggiungevano il fiume. No. Il lago. Si estendeva attorno a noi, ampio e di un grigio argento. Gli uccelli si libravano in volo sopra l’acqua increspata. Guardai alla mia sinistra. Distinguevo a stento la riva orientale. — È più grande di quanto mi aspettassi.

— Probabilmente stavi pensando a qualcosa sulla Terra — disse Eddie. — L’ho notato nei tuoi rapporti, continuavi a cercare di fare di questo mondo una seconda Terra. Non solo tu. Tutti i ricercatori sul campo. Tutto veniva paragonato a qualcosa sul nostro pianeta. La maggior parte dei paragoni risulteranno falsi o errati. Questo posto è alieno. Non è il nostro mondo.

— Questo non è stato ancora stabilito — disse la Ivanova.

L’imbarcazione virò verso la sponda occidentale. Era vicina e si distinguevano facilmente le scogliere. Erano alte ed erose, coperte di foresta e incise da profonde gole.

— È davvero un bellissimo pianeta — osservò Agopian. — La Terra doveva apparire così prima che i capitalisti ne prendessero il controllo.

— Mmm — disse Eddie.

C’erano cupole sulla riva: color marrone chiaro e azzurro tenue, bianco panna sporco, verde celadon. Di fronte alle cupole c’era una banchina che si estendeva nel lago. Galleggiava, lunga e snodata, muovendosi su e giù pezzo dopo pezzo con il frangersi delle onde.

Dagli edifici uscirono persone che corsero verso la banchina. Quante erano!

— Eddie — disse Derek.

— Sì.

— Non credo che avremo l’energia per qualunque genere di festeggiamento.

— Lascia che me ne occupi io. — La barca si fermò. Eddie scese sulla banchina e corse verso le persone.

Il motore si fermò. Sentii l’acqua e il vento. Gli uccelli lanciavano grida. Voci umane parlavano. Non le capivo. Eddie gesticolava. Le persone si voltarono e tornarono verso il campo.

Scendemmo anche noi e Agopian ormeggiò l’imbarcazione. Eddie tornò. C’era una persona con lui, una donna alta e snella. La sua pelle era color bruno scuro; i capelli ondulati le arrivavano alle spalle. La sua tuta era di un rosso terracotta.

— Questa è Liberation Minh. Fa parte del team medico.

— Piacere. — Ci strinse la mano. — Dovremo fare un esame preliminare. Non ci vorrà molto. Vi analizzeremo accuratamente quando sarete sulla nave. Per il momento tutto ciò che ci occorre sono alcuni campioni. Alcuni esami. — Si voltò e fece strada. Derek e io la seguimmo.

— Abbiamo trovato dei parassiti nei vostri colleghi. Alcuni vermi o creature vermiformi. Un certo numero di microbi. Nessuno che se la cavi molto bene, ma ci provano. Se fossero più grandi, parleremmo di coraggio e intraprendenza. — Il suo accento era africano. La cosa mi sorprese. Avrei scommesso che provenisse dalle Americhe. Quel nome e quel colore. Forse i suoi genitori erano stati americani.

— Inoltre, abbiamo trovato sintomi di malnutrizione. I nostri microbi, quelli che avrebbero dovuto aiutarvi a metabolizzare la flora e la fauna locale, non hanno funzionato bene quanto avevamo sperato.

Arrivammo alla fine della banchina. Sul terreno fangoso erano passati veicoli che avevano schiacciato la vegetazione, lasciando profondi solchi. Vidi una macchina: un fuoristrada dalle ruote enormi. Era parcheggiato accanto a una delle cupole.

Liberation Minh disse: — È tutto, a parte un leggero avvelenamento da metallo. La crosta di questo pianeta è ricca.

Oh, bene, pensai. I nostri microbi erano inadeguati, nel nostro organismo si erano insediati altri microbi e venivamo avvelenati da chissà che cosa. Zinco. Rame. Manganese. Piombo.

La seguimmo in una cupola grigioazzurra. All’interno c’era un tappeto grigio tenue. Finestre esagonali guardavano sul lago della sera. C’erano stanze piene di attrezzature mediche. Entrai in una di queste e subito arrivò un tecnico, alto e con un viso da falco. — Sei pregata di svestirti, a meno che la nudità o gli uomini non ti mettano a disagio.

— No. — Indossai un camicione. Lui mi attaccò delle macchine. Facevano i consueti rumori delle macchine e lui faceva il genere di rumori umani che erano consueti durante un esame medico.

— Nessun problema lì. Né lì. Sembra che tu sia in perfetta forma… come si dice… come un bocciolo di rosa. Non so se si riferisca al colorito degli europei in buona salute. In questo caso, sarebbe un altro esempio di razzismo. Com’è difficile eliminare queste espressioni dal linguaggio!

Ci furono altri rumori, di macchinari e umani. Alla fine disse: — Non vedo alcun problema. A parte il tuo peso. È un po’ scarso, e non è mai una buona idea essere troppo magri. Cerca di mangiare un po’ di più finché il tuo peso non sarà tornato quello che dovrebbe essere.

— Okay.

— Quanto al problema delle mestruazioni, è molto interessante. Lo riferirò al comitato competente, insieme ai risultati delle tue analisi. Il bagno è alla porta accanto. Sei pregata di leggere le istruzioni sul monitor e di seguirle alla lettera. Grazie per la tua pazienza. — Mi rivolse un sorriso smagliante. — E bentornata. Dio è grande!

Se ne andò. Trovai il bagno, seguii le istruzioni, mi vestii e m’incamminai lungo il corridoio. Ormai era notte. Quando guardai fuori dalle finestre vidi solo la mia immagine riflessa e il luccichio delle luci del corridoio. Arrivai in una stanza dove c’erano delle poltroncine. Derek ed Eddie se ne stavano lì seduti. Apparivano entrambi stanchi.

— E tu come stai? — chiesi a Derek.

— Qualche graffio e qualche livido. Una brutta morsicatura. Ma per il resto benissimo.

— Una brutta morsicatura?

— Te ne parlerò più tardi.

Lanciai un’occhiata a Eddie. — E adesso?

— Siete stati assegnati alla cupola numero cinque. Vi accompagno. La cupola numero tre, quella grande, comprende i locali comuni e la sala da pranzo.

— Non questa sera. Voglio soltanto dormire.

— Sì — disse Derek.

— Okay. — Derek si alzò.

Uscimmo. Il cielo si era rasserenato. Brillavano le stelle. A est vidi un pianeta. Era giallo e così luminoso che gettava un riflesso sull’acqua: una linea gialla che ondeggiava appena. L’acqua doveva essere calma. Non c’era un alito di vento. Passammo accanto a costruzioni e macchinari. Il metallo luccicava debolmente alla luce che usciva dalle finestre.

Eddie si fermò e aprì una porta. Lo seguimmo in un corridoio fatto di lucidi pannelli gialli. Alle pareti erano appese lampade a forma di fiore. I loro gambi erano di ceramica, i petali di vetro smerigliato. Un tappeto azzurro chiaro copriva il pavimento. Ne sentii il tessuto sotto le pantofole. Soffice. I nostri piedi non facevano alcun rumore mentre seguivamo Eddie.

— Eccoci qui. — Aprì un’altra porta. Si acese una luce. Vidi una camera da letto: pareti azzurre e un tappeto beige. C’era una finestra esagonale sopra il letto. Era ad angolo, posta in una parete che si curvava.

— Questa è la tua, Lixia.

Feci il gesto della gratitudine.

— Derek sarà nella camera accanto. Il bagno è in fondo al corridoio. Posso portarvi qualcosa da mangiare, se avete fame.

— No. — Il letto aveva una coperta: un disegno floreale in bianco, blu scuro e beige. Sembrava confortante. Era la parola giusta? Confortevole. Come a casa.

— Buonanotte — disse Eddie.

Mi lasciarono. Abbassai la luce, mi svestii e mi coricai. Il letto era soffice, la coperta fresca e liscia. Pensai di infilarmici sotto, ma era uno sforzo troppo grande per me. Chiusi gli occhi.

Mi svegliai nel buio. Sopra di me c’era la finestra. Fuori brillavano le stelle. C’era qualcuno nella stanza. Non sapevo come fossi in grado di stabilirlo, ma ne ero certa. Dov’era la luce? Non ricordavo di averla spenta. Allungai il braccio con cautela, tastando la parete. Senza dubbio doveva esserci un interruttore.

— Rilassati — disse Derek. — Sono soltanto io. — La sua voce veniva dal pavimento.

— Che cosa diavolo…?

— Il letto era troppo soffice e mi sentivo solo. Volevo qualcosa di familiare.

— Oh.

— Hanno un odore buffo, Lixia. Credo che dipenda dalla dieta diversa. E dalla mancanza di pelliccia.

— È possibile.

— E c’è qualcosa nell’aria di queste costruzioni. Non sembra giusta. Si muove appena.

— Se vuoi dormire sul pavimento, per me va bene.

— Grazie.

— Che cosa ti è successo, Derek? Dopo che sei finito su quel banco di sabbia.

Lui rise. — Non molto. La terra più vicina era una palude. Ci andai a nuoto. Pensavo che forse avrei potuto trovare una pista. Sono stato morsicato.

— È quello di cui stavi parlando?

— Più o meno. È stata una specie di lucertola. Era meno lunga del mio avambraccio, ma dai vivaci colori e senza paura. Ho pensato che quei colori dovevano significare qualcosa, e doveva esserci una ragione per cui quell’animale non aveva paura. O terrorizzava gli altri animali, o sapeva di merda.

"Ho pensato che fosse meglio non correre rischi. Dovevo aprire la ferita e farla sanguinare. Non avevo con me nessun coltello. L’avevo perso. Non volevo perdere tempo a cercare qualcosa di tagliente." Esitò. "Ho aperto la ferita con i denti."

— Che cosa?

— Sono stato fortunato che fosse in un punto che potevo raggiungere. Se quell’animale mi avesse morso nel sedere, probabilmente sarei morto. L’ho fatta sanguinare abbondantemente e ho succhiato fuori tutto quello che ho potuto. Ma stavo ancora maledettamente male. L’animale era velenoso.

— Dov’era?

— La ferita? Sul braccio, proprio sopra il braccialetto. Mi sono chiesto se forse fosse stata la lucentezza ad attirare l’animale, o a farlo infuriare.

— Il braccialetto?

— Quello che apparteneva all’Imbroglione. Ho seguito le tracce dell’oracolo e l’ho trovato dove l’aveva gettato nel lago.

— Hai preso il braccialetto una seconda volta?

— Uuh!

— Ce l’hai ancora?

— Non più. Non mi va di essere tiranneggiato da nessuno, neppure da uno spirito. Ma sono accadute troppe brutte cose. L’ho gettato nel fiume. Ho chiesto scusa all’Imbroglione. Gli ho detto che avrei trovato un modo per rimediare a tutto. — Fece una pausa. — Quando ho smesso di sentirmi male, ho deciso di rimanere dov’ero. Il braccio mi faceva male. Non ero sicuro di poter percorrere a nuoto una qualunque distanza. E non volevo tornare nella palude. Ho deciso che avrei aspettato che qualcuno venisse a salvarmi, o almeno di sentirmi un po’ meglio. Ho raccolto legna e ho acceso un fuoco. Sono stanco, Lixia.

Dissi: — Buonanotte.

Il suo respirò mutò quasi subito, divenendo profondo, lento e regolare. Si era addormentato.

Seguii il suo esempio.

Sognai che mi trovavo di nuovo sulla nave, in un corridoio. Le pareti erano fatte di piastrelle di ceramica, di un lucido rosso sangue di bue. Nel corridoio c’era Derek. Stava danzando. Aveva al polso il braccialetto d’oro, che risplendeva luminoso. Derek cantava nel linguaggio dei doni:


"Sono l’Imbroglione

O stupida donna.

Ciò che voglio, prendo.

Ciò che prendo, tengo".

Eddie

La luce del sole penetrava dalla finestra. Gemetti e mi tirai su a sedere. Derek era sparito. Aveva lasciato un cuscino sul pavimento. La federa era grigia e marrone: un disegno di rondini in volo.

Trovai i miei vestiti e andai in cerca del bagno, che era già stato usato. C’era vapore sullo specchio, e c’erano due asciugamani umidi. Erano stati appesi in modo non particolarmente ordinato. Li raddrizzai, aprii la doccia e vi entrai. Ah! I semplici piaceri della civiltà! Lo spruzzo bollente mi batteva sulla testa e la schiena. Il sapone odorava di limone. C’era una spugna appesa a un gancio nella cabina. La bagnai e mi strofinai energicamente.

L’acqua smise di scendere. Premetti il pulsante che l’apriva di nuovo.

Una voce disse: — Se volete ottenere altra acqua, aspettate un minuto, poi premete il pulsante "aperto". Ma ricordate, avete già utilizzato la vostra razione giornaliera.

— C’è un intero lago là fuori. Un fiume grande quanto il Mississippi. E l’acqua è pulita.

La doccia non rispose. Premetti di nuovo il pulsante, benché mi sentissi in colpa per questo, com’era previsto. L’acqua scese di nuovo e mi lavai i capelli.

Quando ebbi finito, mi vestii e gironzolai per la cupola. Trovai segni di occupazione quasi in ogni stanza: letti sgualciti e indumenti. Su un tavolo c’era una collana. Era in argento antico e corallo. Luccicava, illuminata dalla luce del sole.

In un’altra stanza c’era un libro che accesi. Il titolo apparve sullo schermo: À la recherche du temps perdu di Marcel Proust. Il mio francese era quasi inesistente. Spensi il libro e lo rimisi dove l’avevo trovato, poi uscii dalla cupola.

La giornata era luminosa e ventilata. Il lago luccicava. Le nuvole si spostavano nel cielo. Eddie mi aspettava. Indossava una camicia stampata a fiori, rossa e verde scuro. I capelli erano legati in trecce. I jeans erano infilati in alti stivali fatti di vero cuoio. E portava occhiali da sole. Le lenti erano verdeoro e a specchio. Non riuscivo a vedere i suoi occhi.

— Buongiorno, Lixia. Ho pensato di assicurarmi che trovassi la sala da pranzo.

— Grazie.

S’incamminò verso la cupola più grande.

— Come hai dormito?

— Bene. Dove trovo dei nuovi vestiti?

— Nella cupola numero uno. È tutta fornitura standard. Mi dispiace. Nessuno ha pensato di prendere qualcosa dalla tua cabina.

— Non vi aspettavate di trovarmi.

Lui rise. — Forse è così. Siamo andati a cercarci un sacco di maledetti problemi, e abbiamo creato un pericoloso precedente, e può darsi che tu abbia ragione. Forse non credevamo che tu e Derek foste vivi.

— In ogni caso, è stata una fortuna per noi che siate scesi.

Eddie non rispose. Gli rivolsi un’occhiata. Aveva un’espressione accigliata. Sapevo che cosa stava pensando. Non era una fortuna per gli abitanti del pianeta.

La sala da pranzo era quasi deserta. Un membro dell’equipaggio era seduto e leggeva, con un bicchiere di tè sul tavolo davanti a lui. Una donna raccoglieva piatti, accatastandoli con ordine. Era grande, con un colorito bruno rossiccio. Il suo abbigliamento, un paio di jeans e una blusa bianca, non mi disse nulla sulla sua occupazione.

Eddie mi fece strada verso il tavolo di servizio. Un uomo di bassa statura stava mettendo qualcosa su un piatto. Aveva i capelli lunghi e biondi, coperti da una retina, e il suo abbigliamento era bianco-cucina.

— Siete in ritardo — disse. — Le uova sono finite.

— Che cosa è rimasto? — domandò Eddie.

— Fettuccine e salsiccia. Abbiamo tre tipi di salsiccia. — Diede un colpetto su un elemento per riscaldare. — Queste sono fatte di pollo e sono relativamente piccanti. Quelle nell’elemento accanto sono fatte di iguana. Sono più delicate. Quelle là in fondo sono di soia. Non le consiglio, a meno che non nutriate preoccupazioni per il vostro karma. Per farle non è stato ucciso nessun animale, e questa è la cosa migliore che possa dire. — S’interruppe e diede un’occhiata al tavolo. — Questo è tutto, a parte i panini, che sono venuti molto bene oggi.

Mi servii di salsiccia di pollo, un panino e una caffettiera piena di caffè. Eddie prese fettuccine e del tè.

Ci sedemmo a un tavolo accanto a una parete fatta di finestre esagonali. All’esterno c’era il lago. Socchiusi gli occhi. C’erano due oggetti che galleggiavano in lontananza. Era difficile distinguerli fra il luccichio dell’acqua. Mi riparai gli occhi con la mano. Erano lunghi e scuri, bassi nell’acqua.

— Gli aeroplani a razzo — disse Eddie.

Mi versai il caffè e bevvi. — La Ivanova mi ha accennato qualcosa di quanto è successo alla riunione. Ma non posso dire di averlo capito.

— Vorrei tanto che tu e Derek foste riusciti a tornare in tempo. Vorrei che non foste spariti. Stavo cercando di dimostrare un principio mentre la Ivanova declamava il Codice dello Spazio. Non si abbandona un compagno nei guai. Ha avuto un impatto decisivo. — Fece una pausa e arrotolò le fettuccine su una forchetta. — Sapevi che durante il secolo successivo alla conquista del Messico è morto il 90 per cento della popolazione indigena? La popolazione del Perù si è ridotta del 95 per cento. Tre milioni di persone scomparse dalle Isole Caraibiche. — Mangiò le fettuccine, masticandole con cura. — Sono morti nelle miniere e nelle piantagioni. Sono stati mandati come schiavi in Europa. Li hanno uccisi le malattie. La guerra e le esecuzioni. La fame. C’è una citazione di uno scrittore spagnolo del tempo che ho imparato a memoria.

"’Quanti fra coloro che nasceranno nelle future generazioni ci crederanno? Io stesso che l’ho visto stento a credere che una cosa del genere sia stata possibile.’"

Mangiai mentre lui parlava. La salsiccia non era realmente piccante. Il panino era eccellente.

— Eddie, è avvenuto centinaia di anni fa. Non penserai seriamente che succeda di nuovo qualcosa del genere?

Lui esitò un momento, poi sospirò. — Non lo so. Ma ho ascoltato le conversazioni sulla nave. — Mangiò un’altra forchettata di fettuccine, poi allungò una mano per prendere una bottiglia di olio piccante dello Sichuan, che si trovava sul tavolo insieme ad altri condimenti. Spruzzò l’olio su tutto il piatto. — Vogliono scendere tutti sulla superficie del pianeta. No. Questo non è del tutto vero. Ci sono astronomi a cui non importa niente, e alcuni planetoiogi che vogliono osservare gli altri pianeti del sistema. Ma costituiscono le eccezioni. I biologi stanno impazzendo.

— Che cosa ti aspetti? Questa gente ha percorso 18,2 anni luce per studiare la vita su questo pianeta.

— Lo so. — Mangiò altre fettuccine. — Così va meglio. Ti sto riferendo quello che ho senito. La maggior parte delle persone sulla nave parlano delle ricerche che intendono fare una volta che saranno scesi quaggiù.

Bevvi altro caffè. Eddie non aveva un modo di pensare lineare, che andasse da A a B, a C. A volte, quando lo ascoltavo, mi faceva pensare alla tessitura, al modo in cui il disegno si formava pezzo dopo pezzo mentre la spola andava avanti e indietro. Se avessi aspettato abbastanza a lungo, avrei capito il suo ragionamento.

Eddie disse: — Non è questo che mi preoccupa, anche se mi chiedo che cosa faranno tutte queste persone se i nativi diranno: "No. Non vi vogliamo. Tornatevene a casa".

"Quello che mi preoccupa è la speculazione. È particolarmente grave fra i membri dell’equipaggio.

"Ci sono un sacco di discussioni sulla fattibilità del commercio interstellare. Che cosa può essere così prezioso, e così straordinario, che varrebbe la pena trasportare da una stella all’altra? E che cosa conserverebbe il proprio valore per 120 anni? Quasi tutti ritengono che siano la vita e l’arte."

— Eddie, è una cosa di cui si discute da secoli.

— Ci sono persone sulla nave che stanno sviluppando modelli economici. Gli economisti, naturalmente. Non avremmo mai dovuto portarli con noi. Presentano attraverso modelli tutto quello a cui riescono a pensare. Vale la pena di spedire l’iridio? O il platino? O il rame? E se presupponiamo miglioramenti nella nostra tecnologia? Navi che si spostino molto più velocemente o consumino energia in quantità assai minore?

"E le altre persone? Pensa alla conoscenza e alla capacità contenute in quasi tutti i cervelli umani? Perché mandare l’arte sulla Terra? Mandiamo l’artista.

"E quando manderemo sulla Terra esemplari della vita di qui, o di qualunque altro luogo, dovremo mandare gli individui in grado di comprendere quella vita. Gli agricoltori e i cacciatori e i domatori di animali. Le donne anziane che sanno quali erbe sono medicinali.

"In quale altro modo potremo sapere che cosa abbiamo quando faremo crescere un organismo? In quale altro modo potremo prendercene cura? E servircene?"

Mi versai altro caffè. — La nave è piena di persone a cui piace trastullarsi con le idee. E come hai fatto notare prima, ì’quipaggio non ha molto da fare in questo momento. E neppure gli esperti di scienze sociali. Penso che tu stia prendendo la cosa troppo seriamente.

— Può darsi. — Finì di mangiare. — Ci sono problemi con tutti i modelli. Per esempio, come potremo mandare delle persone in un viaggio che durerà 120 anni? Non umani. Nativi, che probabilmente non capiranno la natura del viaggio.

"Nessuno ha una risposta a questo interrogativo, sebbene alcuni membri dell’equipaggio stiano ponendo come ipotesi nativi a cui piaccia viaggiare e che non si preoccupino se non torneranno mai a casa loro."

— Mmm.

Lui fece il gesto dell’assenso.

— Eddie! Stai imparando.

Lui ripeté il gesto, poi proseguì.

— Supponiamo che sia davvero economico spedire l’iridio o il platino. Chi lo estrarrà? E chi lo raffinerà? Dovremo prendere in considerazione la possibilità di una colonia di discrete dimensioni. Forse i nativi ci aiuteranno. Forse insegneremo loro la nostra tecnologia.

"Ci sono persone che sostengono che è una follia pensare di trasportare materie prime, anche materie prime che siano state almeno parzialmente lavorate, come lingotti di metallo. Costoro dicono: ’Perché non costruire qui le fabbriche e ottenere il prodotto finito? Per esempio, perché non costruire navi? Potremmo riempirle di belle cose, di vita e arte, e rimandarle sulla Terra. O altrimenti potremmo proseguire da qui e trovare altri pianeti in altri sistemi’.

"Come potrai immaginare, questo progetto richiederebbe una colonia veramente grande. E un notevole aiuto da parte dei nativi. Dovremmo farli entrare nell’era industriale." Spinse da parte il piatto. "E questo ci porta alla compagna Lu Jiang. Ti ricordi di lei?"

Feci il gesto dell’indecisione, poi aggiunsi: — Non ne sono sicura.

— È la donna che pensa che i nativi siano imprigionati nella loro presente fase storica. Le donne hanno bisogno degli uomini durante la stagione degli accoppiamenti e forse in altri periodi. Nella maggior parte delle società che abbiamo studiato, gli uomini sono importanti economicamente. Almeno fino a un certo punto. — Fece una pausa e aggrottò la fronte mentre cercava evidentemente di riordinare le proprie idee.

"Non è probabile che loro sviluppino il genere di commercio e produzione che porta al capitalismo industriale. Senza capitalismo industriale, non può esserci nessuna rivoluzione. Questi individui saranno per sempre tribali. Se non li aiuteremo, non potranno mai costruire una società socialista.

"Secondo la compagna Jiang, è nostro dovere aiutarli."

— Mi sta venendo mal di testa — dissi.

— Io ce l’ho da giorni. — Si alzò in piedi. — Andiamo.

Portammo i nostri piatti al tavolo riciclante e li accatastammo, poi uscimmo e ci dirigemmo verso il lago. La spiaggia era di ghaia. Sulla spiaggia correvano piccoli uccelli, fermandosi di quando in quando a beccare. Che cosa trovavano, se trovavano qualcosa? Piccoli animaletti? Frammenti di detriti?

— Capisci perché sono convinto che fosse pericoloso venire giù, anche per trovarvi?

— Credo di sì.

— L’ho detto alla riunione. Se l’avessimo fatto questa volta, se fossimo venuti a cercarvi, l’avremmo fatto di nuovo. Ci sarebbe stata un’altra buona ragione e un’altra ancora.

"Ho detto che dovevamo tracciare una linea di demarcazione. Dovevamo stabilire una norma invalicabile."

Naturalmente, ero furiosa con Eddie. Chiunque lo sarebbe stato. Sarebbe stato disposto a lasciarci morire in nome di una teoria, per difendere un mucchio di persone che non conosceva da un pericolo che poteva essere immaginario. Era troppo maledettamente astratto per me. Pensai a me sull’isola e a Derek sul suo banco di sabbia. Potevamo morire. Con tutta probabilità.

— L’assemblea non ti ha ascoltato.

— No. Erano bramosi, e hanno sentito la Ivanova fare il suo discorso sul Codice dello Spazio.

— Perché hai partecipato a questa spedizione se non volevi incontrare degli alieni?

— Speravo che sarebbero stati così maledettamente diversi che non ci saremmo potuti danneggiare a vicenda. Ho pensato che se ci fossero state delle persone qui e fossero state vulnerabili, doveva esserci qualcuno sulla nave con una buona memoria. Qualcuno che fosse pronto a difenderli. — Guardò verso il lago scintillante. — Eddie l’Eroe Galattico. L’uomo che ha cercato di salvare il suo popolo… 400 anni dopo e a più di 18 anni luce da casa. — Mi lanciò un’occhiata. I suoi occhiali erano stati trasparenti nella sala da pranzo, ora erano nuovamente come metallo lucidato.

Restai in silenzio.

— Mi sono infuriato. Credo che farò una passeggiata.

— Okay.

S’incamminò lungo la spiaggia. Io andai in cerca della cupola numero uno.

Era deserta: nessun altro acquirente e nessun consulente di moda volontario, niente all’infuori di un computer su un tavolo accanto alla porta. Schiacciai un tasto per la richiesta di indumenti e il computer rispose con una mappa. CORRIDOIO NUMERO DUE, SCAFFALI DALL’UNO AL NOVE. — PREGASI RICORDARE DI INSERIRE LE VOSTRE SCELTE — aggiunse in gialle lettere luminose. — SENZA QUESTA INFORMAZIONE NON POTREMO ADDEBITARE IL VOSTRO CONTO.

Presi i miei vestiti e tornai nella mia stanza. Il mio letto era rifatto. C’era un biglietto di Derek sul cuscino.

RICORDA SEMPRE: L’ORDINE E QUASI ZELO RIVOLUZIONARIO.

Accartocciai il biglietto e lo gettai nel bidone riciclante, poi indossai un paio di jeans, una camicia di un rosa vivace, alti stivali, una cintura di pelle di lucertola. Mi serviva qualche gioiello. Il computer non ne aveva, il che non era affatto sorprendente. Se volevo dei gioielli sulla nave, non schiacciavo il tasto del reparto approvvigionamenti, ma quello relativo ad arti e manufatti, oppure mi rivolgevo agli scambi personali.

Misi il resto degli indumenti in un armadietto, quindi decisi di fare una passeggiata. Non a sud, dov’era andato Eddie. A nord, lungo la riva.

La spiaggia era stretta in quella direzione e i cespugli crescevano quasi vicino all’acqua. C’erano affioramenti di roccia.

Dopo un po’ mi voltai a guardare indietro. Riuscivo a vedere la banchina e gli aeroplani a razzo, ma non le cupole. Erano nascoste dalla vegetazione. Trovai un masso di calcare e mi ci sedetti sopra. C’erano uccelli che guizzavano lungo la riva. Erano uguali a quelli che avevo visto prima: piccoli e bruni. Corridori, non volatili. Uno si fermò e distese le ali. Aveva artigli sulle punte e alle giunture.

— Li-sa? — fece una voce.

Mi girai.

Lì in piedi c’era Nia. La sua tunica era strappata, la pelliccia arruffata. Nel complesso aveva un’aria miserabile.

Balzai giù dalla roccia e l’afferrai, abbracciandola stretta. Lei s’irrigidì, poi ricambiò il mio abbraccio.

— Sei viva!

— Lo siamo tutti e due.

La lasciai andare e feci un passo indietro. — Chi?

— Io — rispose l’oracolo.

Il suo gonnellino era in condizioni peggiori della tunica di Nia. Era uno straccio grigio che gli copriva a mala pena la zona pubica.

— Ulzai?

Nia fece il gesto che indicava che non sapeva. — Ci siamo aggrappati alla barca dopo che si è capovolta. Ha galleggiato capovolta e ci ha portati attraverso le rapide. Aiya! Che esperienza!

— Io non so nuotare — disse l’oracolo. — Ma il mio spirito si è preso cura di me, come sempre. E anche di Nia.

Nia fece il gesto della gratitudine. L’oracolo rispose con il gesto dell’accettazione.

Io feci il gesto che chiedeva ulteriori informazioni.

Nia disse: — La barca ha disceso la corrente. Ci siamo tenuti aggrappati. Tutto il giorno. Tutta la notte. Alla fine la corrente l’ha portata dove l’acqua era bassa. Eravamo in grado di stare in piedi.

— A stento — disse l’oracolo. — Le mie gambe erano come corde. Aiya!

Nia gli lanciò un’occhiata, aggrottando appena la fronte. — Abbiamo tirato sulla riva la barca e ci siamo riposati, poi io mi sono guardata attorno. Eravamo su un’isola. Era grande e coperta di arbusti. Non c’era acqua, a parte quella del fiume, che per me sapeva di fango. E non molto cibo.

"Abbiamo deciso di discendere ancora il fiume. Ho trovato dei rami che servissero da pagaie. Adesso mi siedo."

Feci il gesto dell’assenso. I due nativi si sedettero per terra. Seguii il loro esempio.

— Non è stato un viaggio facile — disse l’oracolo. — I rami non valevano molto come pagaie.

— Forse saremmo dovuti restare dov’eravamo — disse Nia. — Ma ho pensato che i vostri amici sarebbero stati al lago. Avremmo potuto riferire a loro quello che era successo. Forse avrebbero saputo come trovarvi. — Fece una pausa e si grattò il naso. — Abbiamo trascorso tre giorni viaggiando sul fiume. Il primo giorno siamo rimasti in prossimità della riva. Poi, nel tardo pomeriggio, abbiamo visto una lucertola. Una grossa, che stava distesa sull’argine. Non ha mostrato nessun interesse per noi, ma ci siamo spaventati. Ci siamo spostati verso il centro del fiume.

"Abbiamo trovato un’isola con alcuni alberi e ci siamo accampati. Ero abbastanza sicura che le lucertole non sapessero arrampicarsi.

"Il giorno dopo abbiamo proseguito. Nel pomeriggio siamo arrivati al lago. Ci siamo accampati sulla sponda orientale. C’era qualcosa nell’acqua molto al largo. Era bassa e scura. Abbiamo pensato che fosse un’isola.

"Di notte c’erano delle luci che brillavano là sopra, e c’erano altre luci sulla riva. Ho pensato: questa è la gente di Li-sa. Dovremo attraversare il lago.

"La mattina seguente è successo qualcosa di inaspettato." Nia fece una pausa.

— È caduto qualcosa dal cielo — continuò l’oracolo. — C’è stato un gran baccano. Siamo corsi a nasconderci. Quando il rumore è cessato, siamo tornati indietro. C’erano due isole nel lago.

— Ho sentito raccontare di pietre che cadono dal cielo — disse Nia. — Ma le pietre non galleggiano. Ho pensato fra me e me: questa cosa è nuova. Ed è grossa.

Nia mi guardò. Il suo sguardo era fermo. — Non mi è piaciuto, Li-sa. Ho incominciato a sentirmi inquieta. Ho pensato: qui sta succedendo qualcosa che non capisco, ed è qualcosa di grosso.

L’oracolo aggiunse: — In seguito siamo stati attenti.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — Eravamo nel punto in cui il fiume entra nel lago. Abbiamo aspettato fino all’imbrunire e abbiamo attraversato. Non è stato facile. Vogavamo di traverso alla corrente. Ma ce l’abbiamo fatta. Abbiamo nascosto la barca. Poi abbiamo proseguito attraverso la foresta sotto la scogliera del fiume. Non c’era nessuna pista. Abbiamo dovuto salire e scendere fra le rocce. Ci siamo dovuti aprire la strada fra la vegetazione. Aiya!

"Siamo arrivati al villaggio. Quello che appartiene alla tua gente. Ci siamo nascosti." Tacque per un momento. "Questa è la parte più difficile della storia."

— Abbiamo deciso di non entrare — disse l’oracolo. — Non subito. Volevamo essere sicuri che il villaggio appartenesse davvero alla tua gente. Siamo rimasti nella foresta e abbiamo osservato. Abbiamo visto. — L’oracolo esitò. — C’erano barche sul lago che si muovevano da sole. Andavano avanti e indietro fra le isole e la riva. C’erano altre cose. Carri. Gente che ci viaggiava dentro. I carri si muovevano nello stesso modo delle barche, senza che nessuno facesse alcun lavoro. E i carri facevano rumori. Ruggivano come assassini-delle-foreste. Lanciavano grida come osubai. Siamo riusciti a vedere che erano fatti di metallo. Sapevamo che non erano vivi. Ma in che modo si muovevano? E perché facevano tanto rumore?

— Saremmo dovuti entrare nell’accampamento — disse Nia. — Sapevamo che costoro erano tuoi parenti. Portavano indumenti simili ai tuoi e non avevano pelliccia. Avevo la responsabilità di riferire loro quello che era accaduto a te e a Deragu. — Raddrizzò le spalle e mi guardò dritto in faccia. — Non ci sono riuscita, Li-sa. Anche se tu potevi essere in pericolo. Anche se queste persone avrebbero potuto aiutarti. Avevo paura.

— Per quanto tempo avete osservato? — domandai.

— Un giorno — rispose l’oracolo. — E parte di un altro. Poi tu sei arrivata con Deraku, viaggiando su una delle barche che si muovevano anche se le persone che c’erano sopra non facevano niente. Vi abbiamo visti scendere. Abbiamo visto i vostri parenti che vi salutavano.

— È stato un sollievo — aggiunse Nia.

— Questa mattina ti abbiamo vista allontanarti da sola. Ti abbiamo seguita. — L’oracolo fece il gesto che significava "è finita" o "la storia è terminata".

— Probabilmente io avrei fatto la stessa cosa — dissi. — Mi sarei nascosta e sarei stata a osservare. So che la mia gente è strana. Ma non c’è niente nell’accampamento di cui preoccuparsi. Siete disposti a venire con me?

— Sì — disse l’oracolo. — Non ho sentito niente di nuovo dal mio spirito. Ed è per questo che sono venuto. Per incontrare la tua gente che non ha pelo.

Nia fece il gesto del dubbioso assenso.

Tornammo verso il campo.

— Sono preoccupata per Ulzai — dissi.

— Se la caverà — ribatté l’oracolo. — Gli umazi gli hanno promesso che l’avrebbero ucciso loro, e lui ci ha detto che non ci sono umazi qui a nord. Perciò è sano e salvo.

Ottimo ragionamento, se uno credeva nei messaggi degli spiriti.

— Perché l’accampamento vi ha spaventati? — chiesi. — Non vi siete fatti spaventare dalla mia scatola con le voci.

— La tua radio — disse Nia, pronunciando la parola con cura e quasi correttamente. — Quella cosa è piccola. Te l’ho detto, non ho paura delle cose nuove se sono piccole. E se non sono troppo numerose. — Tacque per un momento. — E tu sei mia amica. Io non conosco queste persone.

Arrivammo alla banchina. C’era una barca ormeggiata lì, forse la stessa sulla quale eravamo arrivati. Accanto alla barca c’erano un paio di persone. Guardarono me e i nativi, poi restarono immobili a osservarci.

Entrammo nel campo.

— Avete fame? — chiesi.

— Sì — rispose l’oracolo.

— Vi procurerò del cibo. — Mi diressi verso la cupola grande. Loro mi seguirono, tenendosi vicini a me.

C’era un fuoristrada parcheggiato accanto all’entrata della cupola. Non era lo stesso che avevo visto in precedenza. Avrei riconosciuto la grossa ammaccatura nel fianco. Com’erano riusciti a fare tutto questo solo in pochi giorni? Un uomo stava sollevando dalla parte posteriore una cassa con su scritto "fragile". Si arrestò, con la cassa a mezz’aria, e ci fissò a bocca aperta.

— Brian! — esclamai. — Come stai?

— Quelli sono alieni — disse.

— Sarebbe più giusto dire che gli alieni siamo noi. Questi individui sono nativi.

Lui sorrise a Nia.

— Questa persona sta mostrando i denti come fa sempre Deragu.

— Significa che è amichevole.

— Questo è un uomo? — s’informò Nia.

Feci il gesto dell’affermazione.

— Quali sono i segni per distinguerlo? Non è più grosso di te, e non riesco a giudicare se il suo pelame è diverso dal tuo. Ne avete entrambi così poco.

— Non conta la struttura del pelame, ma la collocazione. Soltanto gli uomini hanno il pelo sulla parte inferiore del viso, ma non tutti gli uomini. La sua voce è più profonda della mia, e le sue spalle sono più larghe. Sono questi i segni.

Nia aggrottò la fronte. — Non sento una grande differenza nelle vostre voci, e mi sembrate snelli tutti e due. — Fece il gesto che significava "così sia". — Di’ all’uomo che è mio desiderio essere amichevole.

— Okay. Se Nia sapesse sorridere, lo farebbe — dissi in inglese. — Ma fra la sua gente sorridere non è un gesto di amicizia. E, da quanto sono riuscita a capire, loro non hanno un’espressione paragonabile.

— Merda — disse Brian. — Questo significa che ho fatto qualcosa di sbagliato?

— No. Lei è stata insieme a me e a Derek che, come ricorderai, sorride parecchio.

— Già. Ricordo. Il famoso sorriso merdoso del Guerriero del Mare. Dille che sono felice di fare la sua conoscenza. Dille che questo è un gran giorno.

— Lo farò.

Entrammo nella cupola. La zona dell’ingresso era coperta da un tappeto: marrone chiaro dal tesuto compatto. L’oracolo si fermò e sfregò il piede nudo sul tappeto. — Questo è un dono offerto dalla tua gente? Oppure proviene da un altro villaggio?

Con ogni probabilità il tappeto veniva dalla Terra. Dissi: — Viene da un altro villaggio molto lontano da qui.

— Gli abitanti della pianura, il mio popolo e quello di Nia, fanno tappeti che sono più soffici e hanno disegni dai molti bei colori. Questo non è niente di particolare da vedere.

Nia disse: — Lo so che sei pazzo, ma dovresti ricordarti le buone maniere. Non è giusto criticare le cose che appartengono ad altre persone.

— Sarei stato zitto se questo tappeto fosse stato fatto dalla gente di Lixia.

Ci incamminammo lungo il corridoio. La sala da pranzo era deserta. Condussi i miei compagni in cucina; anche questa era vuota. La luce del sole penetrava dalle alte finestre e tutto luccicava, perfino il tavolo di legno per tagliare, che era stato appena lavato. Gli addetti alla cucina dovevano essersene andati da pochi minuti.

Mi guardai attorno. — Dev’esserci del cibo qui da qualche parte.

Derek entrò con una spinta dalla porta. — Hanno detto… lo speravo. Nia, posso abbracciarti?

Nia parve sorpresa, poi fece il gesto dell’assenso.

Derek le diede un rapido abbraccio.

— A me no, però — disse l’oracolo. — Io sono un uomo, anche se sono pazzo. Non mi piace essere toccato.

— Okay. — Derek mi guardò. — Là fuori corrono tutti qua e là gridando: "Arrivano i nativi, arrivano i nativi". Ho detto ad Agopian di trovare gli addetti alla cucina.

— Bene. Ed Eddie?

— Lo stiamo cercando.

— Che cosa state dicendo? — chiese Nia.

Arrivò Agopian insieme all’ometto biondo. Adesso era vestito di denim e i lunghi capelli non erano più fermati dalla retina. Li portava legati da un fermaglio sulla nuca. Da lì gli scendevano sciolti quasi fino alla vita.

— Sia gloria al cielo — esclamò.

Dissi: — Sono affamati.

Lui annuì col capo. — Ci sono dei sandwich. E abbiamo una minestra di lenticchie abbastanza buona.

Lanciai un’occhiata a Derek. — Pensi che sia prudente per loro mangiare il nostro cibo?

— Una domanda interessante e alla quale non voglio dare una risposta da solo. È meglio andare a cercare un biologo.

— Mi piacerebbe sapere di che cosa state parlando — fece Nia.

— Stiamo cercando di decidere se potete mangiare il nostro cibo.

— Perché no?

L’uomo biondo disse: — Potreste uscire tutti quanti dalla mia cucina? Abbiamo regole severe riguardo all’igiene.

— Quell’osservazione rivela forse dei pregiudizi? — chiesi.

— Certamente. Ho forti pregiudizi nei confronti dello sporco e di molti microorganismi. Adesso, per favore, uscite.

Tornammo nella sala da pranzo. Derek se ne andò con Agopian e io mi sedetti a un tavolo. Nia e l’oracolo seguirono il mio esempio. Sembravano nervosi. Non riuscivo a ricordare di aver visto una sedia in nessuna casa indigena.

— Siete della gente rumorosa — osservò Nia.

Feci il gesto dell’approvazione.

L’oracolo guardò fuori dalla finestra. — E corrono parecchio di qua e di là.

— Solo quando arrivano degli stranieri o quando succede qualcosa che è fuori dall’ordinario.

— Uh!

Arrivò l’uomo biondo, portando una brocca e due bicchieri. — Questa è acqua locale. È stata analizzata e poi distillata. Dovrebbe essere sicura per tutti.

Posò i bicchieri sul tavolo e li riempì. — Eccovi. — Ne porse uno a Nia e l’altro all’oracolo.

Loro aggrottarono la fronte. Nia mise giù il suo bicchiere. Lo toccò leggermente. — Che cos’è? Sembra ghiaccio, ma non è freddo.

— Si chiama "vetro". Non si scioglie e non si può mangiare. Si rompe facilmente. Se si rompe, i bordi sono taglienti.

C’era del ghiaccio che galleggiava nel bicchiere. Un cubetto. Lei lo spinse. — Questo è altro vee… altro della stessa cosa?

Feci il gesto del dissenso. — Quello è ghiaccio.

— Perché ha la forma di una scatola? Perché ha un buco nel mezzo?

— E perché si trova nella nostra acqua? — aggiunse l’oracolo.

— Alla mia gente piace che la propria acqua sia fredda ed è per questo che vi mette dentro del ghiaccio. Il ghiaccio è a forma di scatola perché… — Esitai. — Lo facciamo noi. Lo fondiamo come metallo in uno stampo, e lo stampo è quadrato su tutti i lati.

Aiya! - Nia sollevò il bicchiere e lo inclinò. L’acqua le scorse sul mento e le gocciolò sulla tunica lacera. — Questa tazza non è fatta bene!

— È possibile — dissi.

Provò anche l’oracolo. Come Nia, rovesciò una discreta quantità d’acqua. Erano nervosi, tutti e due. Il perché non era difficile immaginarlo. Erano lì seduti, circondati da maghi senza pelo, cercando di fare conversazione mentre il loro stomaco emetteva brontolii affamati.

Finirono di bere l’acqua. L’oracolo tirò fuori un cubetto di ghiaccio dal suo bicchiere. Lo tenne sul palmo della mano, guardandolo. Poi vi cacciò dentro il dito. — È ghiaccio. — Se lo mise in bocca. Sentii uno scricchiolio.

— Questo puoi farlo con il ghiaccio — dissi. — Ma non con il vetro.

L’oracolo fece il gesto che indicava che capiva. Derek tornò accompagnato da una donna alta come lui e nera come carbone. Portava una tuta di un giallo intenso e un paio di orecchini davvero stupefacenti. Due enormi dischi, fatti di metallo martellato. Quando si avvicinò, notai i suoi occhi. L’iride era d’argento, lo stesso colore degli orecchini. Non c’erano pupille.

Lenti a contatto, naturalmente. Non era una moda della Terra. La donna veniva da una delle colonie L-5 oppure dalla Luna o da Marte.

Aveva in mano un sacchetto. Un attimo dopo mi accorsi che il sacchetto si muoveva. Dentro c’era qualcosa di vivo. Guardò Nia e l’oracolo. — Bene, sono sicuramente alieni. Su questo non può esserci alcun dubbio.

Derek disse: — Secondo Marina, loro dovrebbero poter mangiare il nostro cibo.

— Il problema non è che siamo velenosi gli uni per gli altri — spiegò la donna. — Il problema è che i membri di un sistema non sono in grado di metabolizzare il cibo che viene dall’altro sistema. Se queste persone mangiano il nostro cibo per un certo periodo di tempo, finiranno con qualche malanno da carenza veramente terribile. Ma uno o due pasti non dovrebbero arrecare loro alcun danno.

"Tuttavia." Fece una pausa. "Detto questo, sconsiglio di dare loro il nostro cibo. Invece…" Infilò la mano nel sacchetto e tirò fuori un pesce, che si dibatté nella sua mano. "Chiedi ai tuoi amici se questo è commestibile."

Lo feci. Nia fece il gesto dell’affermazione. Marina consegnò il pesce all’uomo biondo. — Cuocilo ai ferri. Non aggiungerci niente. Né burro, né sale.

— D’accordo — disse l’uomo, e se ne andò in cucina.

Marina si sedette. — Ci sono sempre allergie, e reazioni imprevedibili di un tipo o dell’altro. Non vogliamo uccidere i primi alieni che ci capita di incontrare.

— No — dissi.

— Che cosa sta succedendo? — chiese Nia.

— Quell’uomo piccolo cucinerà il pesce — dissi. — La donna che è appena entrata sostiene che c’è la possibilità che il nostro cibo vi faccia male.

Aiya! - esclamò l’oracolo. — Questa è una strana esperienza.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

La donna nera si presentò. Il suo nome era Marina In-vista-dell’Olimpo e veniva da Marte. Era una biologa. La sua specialità era la tassonomia. Aveva passato anni a classificare, la vita fossile del proprio pianeta d’origine.

— Dev’essere deprimente. Tutte quelle meravigliose piccole creature! Stranissime come quelle che avevamo sulla Terra durante il Precambriano. Tutto sparito. Il pianeta era morto, a parte noi. Capite perché mi sono precipitata quando si è presentata l’occasione di partecipare alla spedizione.

Nia aveva l’aria irritata. — È faticoso stare con delle persone che non capiscono il linguaggio dei doni.

Feci il gesto dell’assenso. L’uomo biondo tornò con due piatti di pesce ai ferri.

— Non è stato facile — disse. — Non ho potuto aggiungere nemmeno un contorno.

Nia e l’oracolo mangiarono in fretta e agilmente con le mani. Tutti noi ci sforzammo di non stare a fissarli.

Quando ebbero finito, Nia disse: — Me ne vado nella foresta. Se riuscirò a trovare il tipo di legno giusto, fabbricherò una trappola. Finora avevo paura di scendere lungo il lago perché sembrava che la tua gente fosse ovunque. Ma adesso ho meno paura. E se non posso mangiare il vostro cibo, dovrò trovarne da me.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Quante cose nuove! Come faccio a uscire da questa casa?

L’accompagnai fino alla porta.

— Tornerò all’imbrunire. — Si voltò e attraversò il campo, diretta verso la foresta. La gente l’osservava. Tornai nella sala da pranzo.

L’oracolo disse: — Vorrei dormire.

— Okay — rispose Derek.

Uscirono. L’uomo biondo accatastò i piatti e i bicchieri. — Dovranno imparare a riordinare da soli le proprie cose.

— È improbabile che usino molto la sala da pranzo — ribattei.

— Può darsi di no. — Tornò in cucina.

Guardai Marina, che disse: — Devo dar da mangiare a un brutto-cattivo.

— Che cosa?

— Sto raccogliendo degli esemplari e non ho ancora incominciato a dare loro dei nomi in latino. È stata una giornata stupefacente. Ci vediamo più tardi.

Se ne andò. Io restai seduta ancora un po’, da sola, pensando: loro sono vivi. Poi uscii.

Il vento soffiava verso sud-est, scacciando le nuvole. Entro la metà del pomeriggio il cielo era sereno. Trovai la cupola di biologia. Era color giallo chiaro e piena di gabbie. La maggior parte delle gabbie erano occupate. C’erano uccelli che zufolavano, bipedi che facevano versi striduli. Il brutto-cattivo grugniva e tirava su col naso.

— Che cos’è? — chiesi.

— Immagino che sia un principe, vittima di qualche genere di maledizione — rispose Marina. — Guarda quelle verruche! Guarda quelle setole!

La creatura camminava, gli artigli che si muovevano a scatti. Era creato per scavare e aveva una specie di muso a proboscide lungo e sottile. Non come un formichiere. Questa creatura aveva un sacco di denti.

— Vedo che cos’ha di brutto.

— Ma in che cosa è cattivo? Rigetta quando si innervosisce. Credo che sia un meccanismo di difesa. Certamente a me dà fastidio.

— Che cos’è?

— Questa è una domanda interessante. — Marina si sedette su un angolo del tavolo. Accanto a lei c’era una gabbia piena di piccole lucertole a strisce gialle e rosa intenso. Le lucertole si precipitarono su per i lati della gabbia e restarono appese al soffitto. — Su, su, tesorini. Non intendevo spaventarvi.

Le lucertole smisero di muoversi. Restarono appese a testa in giù, immobili. Avevo la sensazione che credessero di essere invisibili.

— Ti ricordi la caverna che avete trovato subito prima di arrivare nella valle del fiume?

La guardai, sorpresa. — Sì.

Lei sorrise. — Ho visto le relazioni. Ci sono pitture sulle pareti. Persone e bipedi e alcune lucertole molto grosse, ma nessun… non sono sicura di come chiamarli… pseudo-mammiferi. O mammiferoidi. Nessuna creatura coperta di pelliccia.

"Pensiamo che esista una possibilità che i due continenti quaggiù siano separati da moltissimo tempo e abbiano sviluppato sistemi ecologici veramente diversi.

"Ci sono uccelli sul continente grande. Potrebbero esserci arrivati in volo. E un sacco di animali che ricordano i mammiferi. Ma nessun bipede.

"Questo continente è pieno di uccelli, di bipedi e di animali che ricordano le lucertole. Ma non ci sono molti animali con la pelliccia. Per lo più sono piccoli o, in caso contrario, sono addomesticati."

— Sono arrivati con le persone — dissi. — E le persone sono arrivate dal continente grande.

— Giusto. È quello che pensiamo. Ma stiamo lavorando senza quasi nessun dato.

"Crediamo che le pitture che avete visto siano state fatte dopo l’arrivo delle prime persone, ma prima che queste avessero avuto grosse conseguenze sulla fauna locale. Forse i primi abitanti sono arrivati in epoca anteriore all’addomesticamento degli animali. O forse avevano imbarcazioni troppo piccole per trasportare parecchio di qualunque cosa. Come ho detto, siamo quasi privi di dati.

"Il che mi riporta al brutto-cattivo." Lo indicò con un cenno della mano.

Quello tirò su col naso, poi sbadigliò, mostrando file di denti appuntiti. Una lingua nera si arricciò. Chissà che cosa mangiava?

— Carne cruda e foglie — disse Marina. — È onnivoro.

— Sai leggere nel pensiero?

— So fare deduzioni logiche. — Fece un altro cenno con la mano. — È troppo grosso per essersi nascosto su un’imbarcazione, o una zattera, o qualunque cosa questa gente abbia usato per arrivare qui. E non riesco a pensare a una ragione qualsiasi perché qualcuno avrebbe voluto portare una cosa del genere in un viaggio oceanico. E non è poi tanto somigliante ai mammiferoidi che ho visto.

Feci il gesto della domanda.

— Faresti meglio a parlare in inglese.

— Non lo è?

— No. Per prima cosa, non ha capezzoli. Non riesco a trovare alcuna prova che allatti. Gli animali sul continente grande lo fanno. Altra cosa, ha squame rudimentali. Sono nascoste fra le verruche e le setole.

— Davvero? — Diedi un’altra occhiata all’animale. Era difficile capire a che cosa assomigliasse. Un bradipo? Non proprio. Un formichiere coperto di aculei? No. E una lucertola pelosa? Forse. E che cosa dire di un incrocio fra un tasso e un rospo?

Niente di appropriato. Era una creatura di una specie a sé.

— Pensi che deponga uova?

— Può darsi. Non lo saprò finché non l’avrò aperto.

Decisi di non pensare a quello. — Da dove credi che provenga?

— Non ne ho la minima idea. Forse si è evoluto qui. Forse è arrivato da una delle isole. Forse è originario del continente grande. Potrebbe essere mutato dopo essere arrivato qui, aver trovato una nicchia ecologica vuota ed essersi evoluto in modo da riempirla.

"È stato un vero inferno sulla nave. Avevamo troppi interrogativi e troppo poche informazioni. Ce ne stavamo seduti lassù a tessere folli teorie, come un mucchio di ragni ai quali è stato dato un allucinogeno." Marina si alzò in piedi. "Be’, ho finito. Vado fuori a controllare le mie trappole." Sorrise. "È semplicemente sorprendente. Non ho la minima idea di quello che troverò."

Rimasi lì e osservai gli animali. Avevano tutti l’aspetto vagamente miserabile delle creature in gabbia. Forse ero io a volerlo vedere. Non mi sarebbe piaciuto essere al loro posto, ma forse a loro non importava.

Il brutto-cattivo mi guardò, poi fece qualche altro passo. Si stava innervosendo? Decisi di andarmene.

Adesso c’erano due imbarcazioni ormeggiate alla banchina, e alcune persone stavano scaricando casse. Andai ad aiutare.

Finimmo all’incirca all’ora in cui il sole tramontava. Le scogliere del fiume gettavano lunghe ombre sul campo. Il lago luccicava ancora, riflettendo il cielo verdeazzurro. Le persone che avevo aiutato mi ringraziarono. Tornai alla mia cupola e trovai Derek nel corridoio fuori dalla mia stanza. Portava un paio di pantaloni di denim bianco. Erano inzuppati. Non aveva nient’altro addosso. — Ho appena iniziato l’oracolo all’acqua corrente calda e fredda. È meglio che torni da lui. Potrebbe annegare. Va’ alla cupola degli approvvigionamenti. Procurati dei pantaloni corti taglia media e una camicia. Non può più indossare quello straccio.

— Okay. — Mi voltai e tornai da dove ero venuta.

Quando feci ritorno, l’oracolo era già uscito dal bagno e gironzolava per il corridoio con indosso un asciugamano stampato a fiori. Una delle nostre compagne di cupola, una donna asiatica, lo osservava con aria perplessa.

— Dov’è Derek? — chiesi.

— Nella stanza dell’acqua. Mi hai portato qualcosa da indossare?

— Sì. Andiamo qui dentro. — Gli feci strada verso la mia stanza. La donna scosse il capo e tornò alle sue faccende.

Lo aiutai a infilarsi i pantaloncini corti. Erano blu terrestre con un sacco di tasche. La camicia era di cotone a maniche corte, del tipo che s’infilava dalla testa, gialla con il nome della spedizione in caratteri cinesi di un rosso acceso. Dovetti aiutarlo anche con quella.

Terminato tutto quell’affannarsi, feci un passo indietro e l’osservai. La pattina era chiusa, la pelliccia solo un po’ arruffata.

Entrò Derek.

— Come sto? — s’informò l’oracolo. — Sono solenne? È così che un uomo dovrebbe vestirsi fra la vostra gente?

— Sì — rispose Derek.

— Guarda dietro di te — dissi.

L’oracolo si girò e si trovò di fronte a uno specchio. — Aiya! Se è grande! Neppure mia madre la sciamana aveva qualcosa di così grosso. — Osservò con attenzione la propria immagine riflessa, aggrottando la fronte, poi scoprendo i denti. Si tolse un granello di qualcosa fra gli incisivi superiori. — Spero che Nia ritorni presto. Sono affamato. È una fatica fare un bagno nel modo che usate voi.

— Ripetilo ancora — fece Derek.

— No — disse l’oracolo. — Una volta è sufficiente. Adesso voglio uscire. Le vostre case sono troppo piccole. Ho la sensazione che le pareti mi schiaccino. — Serrò fra loro le mani come esempio.

— Accompagnalo tu — mi disse Derek. — Io voglio cambiarmi i vestiti e fare un sonnellino.

— Okay.

Le luci del campo si erano accese. Brillavano sopra le porte e dalla sommità di pali metallici. Un fuoristrada ci passò accanto sobbalzando sul terreno pieno di solchi. Qualcuno mi chiamò. Sorrisi e agitai la mano, non riconoscendo la voce.

Arrivammo sulla banchina. C’erano luci anche qui: piccole luci gialle che illuminavano i nostri piedi e la superficie della banchina. Non ero del tutto certa di che cosa fosse fatta. Cermet? Fibra di vetro? Qualcosa di grigio e di ruvido. Dondolava sotto il nostro peso. I segmenti andavano su e giù ogni volta che arrivava un’onda.

C’era un brulicare di insetti attorno alle luci. Erano tutti della stessa specie: sottili corpi verdi e grandi ali trasparenti. Le ali luccicavano.

— Sono quasi disposto a mangiare quelli — dichiarò l’oracolo.

Guardai lungo la spiaggia. Una persona emerse dall’oscurità portando una filza di pesci. La chiamai: — Nia?

— Li-sa! Mi serve un coltello.

Cercai nella mia tasca. — Ne ho uno.

— Ho trovato un posto per accamparci. Una grotta. — Si voltò e fece un cenno della mano in direzione della scogliera, visibile solo come una zona buia fra le luci del campo e le stelle. — Ci sono acqua e legna secca.

— Potete benissimo restare con noi — dissi.

Lei fece il gesto che significava "grazie, ma no grazie".

— Allora posso venire io con voi?

— Perché?

Esitai. Come spiegarlo? La giornata era stata troppo intensa. Avevo ricevuto troppe informazioni e avevo bisogno di pace e di silenzio. Di un ambiente che fosse familiare.

— Vieni pure con noi — disse l’oracolo. — Non è necessario che sappiamo il perché.

Attraversammo il campo, tenendoci nell’ombra, e ci inerpicammo su per la scogliera. Doveva esserci un sentiero, ma non riuscivo a vederlo. Seguii il rumore che faceva Nia, sfiorando rami nel passare e arrampicandosi fra le rocce. Dietro di me l’oracolo boccheggiava. Ansimavo anch’io.

Nia disse: — È questo il posto.

Mi fermai.

— Resta dove sei, Li-sa. Lo so che i tuoi occhi sono quasi inutili nel buio.

Ubbidii.

Aiya! - esclamò l’oracolo. — Che salita! Non mi piace il modo in cui calzano questi indumenti. Sono troppo stretti.

Comparve una fiamma. Scorsi Nia, che soffiava stando accoccolata. La fiamma si ravvivò. Nia si dondolò all’indietro sui calcagni e allungò la mano per prendere una manciata di ramoscelli. Con cura, uno dopo l’altro, li mise nel fuoco che ardeva al centro della radura. Su un lato c’era la scogliera del fiume, che s’innalzava perpendicolare e quasi priva di vegetazione. Scorsi la grotta. Era assai poco profonda, solo una sporgenza rocciosa in realtà.

Il resto della radura era fiancheggiato da alberelli stentati. Sui tronchi e sui rami crescevano rampicanti. Interi alberi ne erano avvolti o ammantati. Le foglie dei rampicanti erano color rosso porpora.

Nia disse: — Dammi il tuo coltello.

L’aprii e glielo porsi. Lei pulì i pesci e li avvolse nelle foglie, appoggiandoli fra la brace ai margini del fuoco.

— C’è dell’acqua qui vicino. Ho dimenticati di chiederti qualcosa in cui metterla.

— Non ho sete — dissi, e mi sedetti.

— Che cosa succederà adesso, Li-sa? La tua gente se ne andrà e ti porterà con sé?

— Non ancora. — Mi cinsi le ginocchia con le braccia. Guardai il fuoco e pensai che doveva essere riuscita a salvare la sua attrezzatura per accendere il fuoco dopo che la canoa si è capovolta. Oppure era riuscita a trovare delle pietre che funzionassero altrettanto bene quanto il suo acciarino e la sua pietra focaia? — Loro vogliono scambiare doni. Dicono che c’è un villaggio a nord-ovest di qui, su un piccolo fiume che sfocia nel grande fiume. Hanno intenzione di andarci e di chiedere alle abitanti se possono rimanere in questo territorio, almeno per un po’ di tempo.

Nia restò in silenzio. Le lanciai un’occhiata.

— Credi che diranno di no?

— Non so che cosa faranno.

L’oracolo intervenne: — Mi sembra che tu abbia detto che la tua gente vive sulla sponda occidentale del fiume.

— Sì.

La guardai di nuovo. La fronte ampia e bassa era increspata e le arcate sopracciliari sembravano più prominenti del solito. I suo occhi erano nascosti nell’ombra.

— Il villaggio appartiene al Popolo del Ferro, Nia? — chiesi.

— Credo di sì. Dovrebbe. Questo è il loro territorio.

— Che cosa sccederà si ti troveranno qui?

— Te l’ho già detto in precedenza. Mi tratteranno nel modo in cui vengono trattati tutti gli stranieri.

— Non c’è la possibilità che tu venga… — Esitai, poi usai una parola che significava essere danneggiati accidentalmente. Non sembrava esserci una parola che significasse essere danneggiati o feriti volontariamente, a meno di non ricorrere alle parole che descrivevano le liti degli uomini.

Nia sembrò sorpresa. — No. Non sono pazzi. Non sono il Popolo il cui dono è la follia.

— Che cosa?

— Conosci quella storia? — domandò l’oracolo. — Mi è sempre piaciuta.

Lo guardai. — Di che cosa tratta?

Nia raccolse un bastoncino e lo usò per togliere i pesci dal fuoco. Si sputò sulle dita, poi scartocciò le foglie. — Uh! Se scotta!

— Il pesce è cotto? — s’informò l’oracolo.

Nia fece il gesto dell’affermazione.

— Bene. — L’oracolo si avvicinò di più al fuoco.

Mangiarono.

Avevano finito e si stavano leccando le dita quando dissi: — Raccontami la storia.

Nia fece il gesto della domanda.

— La storia del Popolo il cui dono è la follia.

— Sì — disse l’oracolo. — Raccontala.

— Nell’estremo nord vive un popolo — incominciò Nia.

— No — la corresse l’oracolo. — Vive a ovest.

Nia sembrò adirata.

— Te la lascerò raccontare come vuoi — disse l’oracolo. — Anche se ti sbagli.

Nia fece il gesto che significava "così sia".

— Nell’estremo nord vive un popolo. Costoro fanno tutto a rovescio. Gli uomini restano a casa. Si prendono cura dei figli. Le donne conducono la mandria e vanno a caccia.

— Questo è giusto — commentò l’oracolo.

— Le persone sono stupide e maldestre. Legano i loro animali all’interno delle tende e loro vivono fuori sotto il cielo. La pioggia si abbatte su di loro. La neve si ammucchia attorno a loro. Il vento geme e urla nelle loro orecchie.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione, seguito dal gesto della soddisfazione.

— Quando cercano di cucinare un pasto, accendono il fuoco dentro la pentola, e quando brucia bene, ammucchiano la carne attorno alla pentola, contro il metallo rovente. Tutto viene fatto in modo stupido. Ci sono parecchie storie su come si accoppiano in modo sbagliato. Sembra che non riescano a ricordare che cosa vada dove.

L’oracolo si protese in avanti. — C’è una storia su un uomo. Arrivò il periodo dell’accoppiamento e lui lasciò il villaggio. Trovò una pentola abbandonata sulla pianura. Qualcuno, qualche altro sciocco, l’aveva lasciata lì. Era bella e ben fatta. Brillava alla luce del sole.

"’Come sei avvenente’ disse alla pentola. ’Non andrò in cerca di nessun’altra.’

"Si accoppiò con la pentola, poi fece ritorno al villaggio.

"In seguito si infuriò perché la pentola non veniva nel villaggio a portargli i figli da allevare. Andò sulla pianura e la trovò, là dove l’aveva lasciata. ’Dove sono i miei figli, stupida cosa? Dove sono le mie figlie belle e forti?’

"Prese a calci la pentola e la capovolse. All’interno era rossa di ruggine.

"L’uomo cadde in ginocchio. ’O pentola! O pentola! Hai abortito! È stata colpa mia? Sono stato io a uccidere i miei figli?’"

L’oracolo tacque.

— È così che finisce la storia? — chiesi.

— Non ne so altro.

— Non ho mai sentito quella storia — disse Nia.

— Fino a ora — ribatté l’oracolo.

Nia fece il gesto dell’assenso. — La storia che conosco io parla della donna che si confuse nel periodo dell’accoppiamento. Invece di aspettare che un uomo uscisse dal villaggio e si recasse nel territorio da lei controllato, questa donna trovò un osupa. Si accoppiò con quello. Non so perché l’animale avesse acconsentito. Forse anche gli animali sono stupidi in quel territorio.

"Passò del tempo. La donna ebbe un figlio. Il bambino era coperto di penne e aveva una coda.

"’Che bel bambino’ disse la donna. ’Non è affatto ordinario.’

"Il bambino crebbe. Si rifiutava di imparare i mestieri degli uomini. Invece voleva cacciare sulla pianura. Correva più veloce di qualsiasi persona normale. Catturava piccoli animali con gli artigli e i denti.

"’Mio figlio è speciale’ diceva la donna. ’Nessuno ha mai visto un bambino così.’ Si vantava con le altre donne quando le incontrava. Quelle si adiravano perché avevano figli normali, che facevano quello che ci si aspettava da loro.

"’Vogliamo tutte dei figli speciali’ dissero.

"Quando venne di nuovo il periodo dell’accoppiamento, si accoppiarono tutte con animali."

— Non conosco questa storia — disse l’oracolo. — Penso che sia disgustosa.

Nia sembrò turbata.

— Se non ti piace, va’ dove non puoi sentire — dissi. — Io voglio sentire la fine.

L’oracolo si alzò, poi si sedette di nuovo. — La storia è disgustosa, ma sono curioso.

— Non ci pensavo — disse Nia. — Ho trascorso troppo tempo insieme a persone strane. Questa non è una storia per un uomo.

— Nia, non puoi interromperti adesso.

— Sì che posso.

Guardai l’oracolo. — Va’.

Lui si accigliò. — Devo proprio?

Feci il gesto dell’affermazione.

Si alzò con evidente riluttanza e si diresse verso il limitare della radura, si sedette dandoci le spalle e fissando l’oscurità. Guardai Nia.

— Non c’è più molto. Tutte le donne ebbero figli strani. Alcuni erano uccelli terrestri. Altri somigliavano a cornacurve. Una donna si accoppiò con un assassino-della-pianura. Non so come ci sia riuscita. Sua figlia era fatta interamente di denti e di artigli.

"Nessuno dei figli voleva andare a vivere nel villaggio. Restarono sulla pianura e si diedero la caccia a vicenda. Non impararono i mestieri delle persone.

"In un primo tempo le donne erano felici. ’Tutti i nostri figli sono speciali. Abbiamo fatto qualcosa che non è mai stato fatto prima.’

"Poi si accorsero che non avevano nessuno che le aiutasse. E gli uomini al villaggio si accorsero della stessa cosa. Andarono sulla pianura, sia gli uomini che le donne, e supplicarono i figli. ’Lasciate la pianura. Imparate i mestieri delle persone. Abbiamo bisogno di lavoratori del ferro e tessitori. Abbiamo bisogno di mandriane e donne che sappiano fare bei ricami.’

"Ma i figli non ascoltarono. Invece fuggirono via. Divennero interamente animali.

"I membri del Popolo il cui dono è la follia dovettero ricorrere gli uni agli altri. Si accoppiarono nel modo giusto. Le donne ebbero figli normali. Gli uomini li allevarono. Erano come i loro genitori. Stupidi, sì. Maldestri e sciocchi. Ma persone." Fece il gesto che significava "è finita".

— Torna pure — dissi all’oracolo.

Lui tornò. Restammo seduti in silenzio. Nia appariva depressa e l’oracolo aveva un’aria imbronciata. Mi sentivo confusa.

Che cosa significavano quelle storie? Trattavano entrambe della perdita di figli. Era forse un problema quaggiù? Costoro si preoccupavano degli aborti e dei figli malformati come facevamo noi sulla Terra?

Non sembrava probabile. Questo pianeta era pulito. Questi individui non avevano riempito di tossine il loro ambiente.

C’era un’altra spiegazione. Queste storie trattavano di persone che facevano tutto a rovescio. Forse il messaggio era sociologico, non biologico. Se volete figli sani, siate normali.

Un ottimo messaggio. Pertinente e autentico. Guardate me. Guardate tutti quanti sulla nave. Noi non eravamo normali. La maggior parte di noi non aveva figli e coloro che ne avevano, si erano separati da loro 120 anni addietro.

Mi faceva male il collo. Lo massaggiai. — Torno giù al villaggio. Abbiamo bisogno di coperte, se intendiamo passare la notte qui, e qualcosa in cui conservare l’acqua. Devo dire a Derek dove sono.

Nia fece il gesto dell’assenso, poi puntò il dito. — Il sentiero inizia lì.

Mi alzai e mi stiracchiai, feci il gesto dell’intesa e mi incamminai nella direzione che mi aveva indicata.

Persi il sentiero nell’oscurità e dovetti scendere carponi fra le rocce. I rami mi s’impigliarono nei vestiti, le spine mi graffiarono e cascai un paio di volte. Finalmente raggiunsi il terreno pianeggiante; davanti a me brillavano le luci del campo.

Il corridoio principale della mia cupola era deserto. Da dietro una porta chiusa provenivano delle voci: un paio di donne che chiacchieravano. Più avanti qualcuno suonava un flauto cinese. L’esecuzione era dal vivo. Lo capivo dagli errori.

Accesi la luce della mia stanza e aprii l’armadietto sotto il mio letto. Come speravo, conteneva una coperta.

Sentii la voce di Derek. — Dove sei stata? — Entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si era cambiato e ora indossava blue jeans e una camicia di cotone azzurro chiaro. Non aveva più la barba. La pelle del suo viso era multicolore: di un bruno rossiccio nella parte superiore, bianca in quella inferiore. Un aspetto stravagante. I capelli biondi erano molto corti.

— Hai trovato un barbiere?

Fece il gesto che significava "non ha importanza" o "parliamo di qualcos’altro". — Ho girato tutto il campo cercandoti.

— Ero sulla scogliera. Mi serve una coperta.

— Perché?

— Nia e l’oracolo si sono accampati per loro conto. Non hanno niente su cui dormire.

— Perché non vengono quaggiù?

— Non gliel’ho chiesto. Forse provano quello che provo io. C’è troppa gente qui. È tutto troppo complicato.

— E non sai che una parte delle cose. Vado a prendere la mia coperta. — Se ne andò e tornò dopo un paio di minuti. — Che altro ti serve?

— Niente cuscini. Sarà già un’impresa portare le coperte su per la scogliera. E gli indigeni non usano cuscini. Quanto a me, cercherò di decidere se voglio restare con Nia.

Gettò verso di me la coperta. Si spiegò a mezz’aria e cadde in un mucchio.

— Dannazione a te.

— Torno subito.

Raccolsi la coperta e la ripiegai. Derek tornò con un’altra coperta, che mise sul mucchio. — A Janos questa non servirà.

— Pensi di no?

— Fa perfino troppo caldo nella cupola. Ti accompagnerò fino ai margini del campo. Non mi sento del tutto a mio agio qui dentro.

Ricordai le storie che si raccontavano su Derék. Aveva una casa a Berkeley, piena di manufatti e di libri. Un sacco di libri. La maggior parte erano fatti di carta. Alcuni erano nuovi e venivano da speciali tipografie. Altri erano vecchi e fragili.

Lui lavorava in casa. Dentro ci stavano gli ospiti. Se una delle ospiti era una sua amante, restava all’interno con lei. Ma quando era solo, dormiva sotto una tettoia nel cortile. Il tetto era un pezzo di tela grossa disteso su due bambù vivi e il pavimento era costituito dall’erba. Non usava un sacco a pelo né alcun tipo di materasso. Quando faceva molto caldo, dormiva sull’erba. Con il tempo freddo, con la pioggia e la nebbia dell’inverno della California settentrionale, usava una coperta lacera.

Questa era la storia. Non sapevo se crederci oppure no.

Lasciammo la cupola e ci incamminammo nell’oscurità sotto la scogliera. Io portavo le coperte.

— Okay. — Derek si fermò. — Siamo abbastanza lontani. — Si voltò a guardare le luci del campo. — Hai consegnato il tuo registratore?

— Sì. Maledizione!

— Che cosa?

— Nia e l’oracolo stavano raccontando delle storie questa sera. Ho dimenticato che non avevo addosso un registratore.

— Non dovrebbe essere un problema per te. Conosco la tua reputazione. Se qualcosa ti interessa, te ne ricorderai.

— Uh! — dissi. — Preferisco sempre avere un sostegno.

— Anche questo fa parte della tua reputazione. — Mi toccò il braccio. — Ho qualcosa da dirti.

— Che cosa?

— Ho avuto un colloquio con Eddie questa sera. E arrivato dopo che te ne sei andata via con l’oracolo.

— Sì?

— Vuole che risaliamo il fiume con lui e la Ivanova. Vuole che traduciamo per loro.

— Andrà Eddie? Un uomo?

— Questo faceva parte del compromesso. Si è stabilito di mandare rappresentanti di ciascuna delle tre fazioni. A favore dell’intervento. Contro l’intervento. E la posizione di compromesso.

— Perché?

— Per spiegare il nostro problema ai nativi. Sottoporre ai nativi il nostro problema e chiedere a loro la soluzione. Visto che si tratta del loro pianeta. — Mi sembrò di avvertire del sarcasmo nella voce di Derek.

— La cosa potrebbe sembrare logica, anche se non dico che sia così. Ma perché mandare un uomo?

— Eddie è il principale sostenitore del non intervento. E si ritiene che dovremmo essere onesti con i nativi. Dobbiamo spiegare loro… mostrare loro… come siamo.

— È una follia.

— Uuh. E non è questa la cosa di cui voglio parlarti. — Derek fece una pausa. — Eddie vuole che noi mentiamo.

— Che cosa?

— Vuole che cambiamo quello che dice la Ivanova quando parla con i nativi. Vuole che ci assicuriamo che i nativi non gradiscano le sue argomentazioni.

— No! Ci scoprirebbero certamente. L’incontro sarà registrato e qualcuno controllerà la nostra traduzione. Forse non subito, ma presto.

— Gliel’ho detto. Ma lui sostiene che potremmo farlo in modo non evidente. Potremmo travisare le parole. Deformarle un po’. Cambiare l’intonazione.

— Non posso credere questo di Eddie. Lavoro con lui da anni.

— Credi che io ti stia mentendo?

Lo guardai, ma non vidi quasi niente. — No — risposi alla fine. — Che cosa gli hai detto?

— Ho detto che il rischio era troppo grande e tutto quello che ci avremmo guadagnato sarebbe stato solo un po’ di tempo. La Ivanova e i suoi non hanno alcuna intenzione di fare i bagagli e tornarsene a casa. Vogliono restare su questo pianeta. Proseguiranno fino al villaggio successivo e chiederanno il permesso di sbarcare. Dovremo mentire di nuovo.

"E che cosa conta di fare, gli ho chiesto, quando verrà giù il resto del team sociologico? Chiedere a tutti quanti di mentire? Quanto tempo passerà prima che qualcuno dica di no e si rivolga al consiglio dell’intera nave?"

— Per te questa non è una questione etica — dissi.

— Sono disposto a mentire. Ma soltanto per ragioni mie e solo se sarò sicuro di non essere scoperto. Non mentirò per Eddie. — Fece una pausa. Quando parlò di nuovo, la sua voce era cambiata. Il tono beffardo era sparito. — Non sono certo che l’intervento sia una cattiva idea. Eddie non viene da una cultura con una tecnologia preindustriale. Quando lui va sul campo, si porta una moderna cassetta di pronto soccorso e una radio. Se si trova in difficoltà, può chiedere aiuto. Non si è mai trovato a fare il genere di esperienze che abbiamo fatto noi, qui su questo pianeta. E non ha mai dovuto passare quello che ho passato io, quando stavo crescendo.

— Gli hai risposto di no.

— Gli ho detto forse. Nel modo più prudente possibile, nel caso ci fosse stato un registratore acceso. Ma lui pensa di avere una possibilità di trascinarmi dentro.

— Perché l’hai fatto?

— Non prendo mai una decisione in modo frettoloso, amor mio. E non limito mai le mie possibilità di scelta finché non sono costretto.

— Non ti capisco.

Lui scoppiò a ridere.

Aspettai.

— Eddie riconosce che il suo piano servirà soltanto a guadagnare tempo. Interessante, vero, come le metafore sul guadagnare e vendere siano rimaste nel linguaggio? Noi guadagnamo tempo. Vendiamo il nostro onore. Lui sostiene di non sapere realmente che cosa ne farà del tempo, ma non vuole lasciare che queste persone facciano la stessa fine del suo popolo nelle Americhe. È disposto a rischiare ogni cosa nella speranza di impedirlo.

— Uh.

— Va’ su da Nia e dall’oracolo. Io penso che andrò in cerca di una bottiglia di vino. È passato parecchio tempo dall’ultima volta che mi sono ubriacato.

Mi inerpicai su per la scogliera, perdendomi di nuovo. Non saprei dire per quanto tempo mi aggirai alla cieca, impigliandomi nei cespugli, inciampando nelle radici e scivolando lungo pendii di pietre e terriccio per poi arrampicarmi di nuovo, imprecando.

Alla fine trovai il bivacco. Entrai nel cerchio di luce del fuoco. L’oracolo alzò lo sguardo. — Hai i capelli pieni di foglie, e hai della terra sulla faccia.

— Non mi sorprende. — Lasciai cadere le coperte. — Eccole. Maledizione! Ho dimenticato qualcosa in cui mettere l’acqua!

Nia fece il gesto che significava "non ha importanza". L’oracolo prese una coperta e la strofinò con la mano. — Mi piace il tessuto, anche se non è soffice come la lana che si ricava dalle schieneargentate. — Si avvolse nella coperta.

Presi anch’io una coperta e mi coricai nella grotta. Restai qualche tempo a osservare la luce del fuoco che guizzava sulla parete e sul soffitto di roccia.

Mi svegliai con la luce del sole. L’oracolo era seduto nella radura accanto al fuoco ed era occupato ad aggiungere rami. I suoi vestiti, i pantaloncini blu e la camicia di cotone giallo, erano già un po’ sporchi.

— Dov’è Nia?

— È scesa a controllare le sue trappole per i pesci.

Mi alzai e presi il coltello dalla mia tasca. — Avrà bisogno di questo. Vado giù al villaggio a mangiare.

— Sei fortunata! Vorrei avere un posto dove mangiare. Mi sto stancando del pesce.

— Forse posso rimediare qualcosa.

Questa volta il tragitto fu agevole. Il sentiero per scendere era ben visibile. Mi chiesi chi l’avesse tracciato. Era venuto qui qualcuno?

Andai nella mia cupola e mi feci una doccia, poi indossai nuovi vestiti: una tuta di un rosso borgogna, una cintura bianca, calzini bianchi e sandali giapponesi. Mi fissai i capelli alla base del collo e guardai con espressione corrucciata la mia immagine riflessa. Decisamente avevo bisogno di tagliarmi i capelli, ma in quale stile? Forse avrei dovuto aspettare finché non fossi tornata sulla nave. Meiling sapeva sempre che cosa andava di moda. Andai in sala da pranzo.

Eddie e Derek erano seduti insieme. Oggi se ne stavano all’ombra, ed Eddie non portava occhiali. Presi del caffè e una focaccina e mi avvicinai.

— È un bene che ti sia fatta vedere — disse Derek. — Eddie ha deciso che dobbiamo tenere una riunione.

Mi sedetti e mi versai il caffè. Che aroma! Come avevo fatto a sopravvivere senza?

— Stavo dicendo a Derek — cominciò Eddie — che dovresti iniziare a lavorare sui tuoi rapporti. Sei in un nuovo ambiente adesso. Ricevi un nuovo genere di informazioni che incominceranno a interferire.

— La Legge della Memoria di Gresham — osservò Derek.

— Che cosa?

— Le nuove informazioni scacciano quelle vecchie. Le informazioni sbagliate scacciano quelle giuste.

Imburrai la focaccina, che era di crusca, noce e banana. — Non credo che quella formulazione sia esatta.

— È superficiale e inutile — disse Eddie. — Tale quale l’umore di Derek stamattina, a quanto sembra. — Lanciò un’occhiata al taccuino che aveva di fronte. Era aperto e c’erano dei caratteri sullo schermo. — Incomincerai a lavorare sul tuo rapporto, Lixia?

— Sì.

— Oggi?

— Sì.

Eddie premette un tasto del taccuino. Una fila di caratteri sparì. — Il team medico dice di volervi tenere sotto osservazione ancora per un giorno.

— Non noi personalmente — precisò Derek. — Stanno tenendo sotto osservazione le nostre colture. Se entro domani sera non accadrà niente di strano o di terribile, potremo tornare a lavorare.

Eddie sembrava impaziente, ma lasciò che Derek finisse di parlare. Poi si protese in avanti. — La Ivanova e io vogliamo che tu venga con noi quando risaliremo il fiume.

Feci il gesto che significava "lo so".

— Ci verrai?

— Sì.

Premette di nuovo il tasto. Un’altra riga di caratteri sparì. — Derek ha suggerito di chiedere a Nia e all’oracolo di venire con noi.

— Non so se sia una buona idea. Nia viene da quel villaggio. Loro l’hanno mandata in esilio. Non le faranno del male se tornerà, ma è probabile che non le riservino un’accoglienza particolarmente calorosa.

— Chiediglielo — fece Derek.

— Perché vuoi che venga?

— Lei e l’oracolo ne sanno di più sugli umani di chiunque altro su questo pianeta. Potrebbero avere qualcosa di utile da dire sul problema che abbiamo per le mani. E non voglio lasciare loro due da soli in mezzo a un posto estraneo. Non possiamo dare loro viveri, e non so come la penseranno le persone riguardo al problema di fornire loro utensili e armi. Dio solo sa che cosa accadrà se questi selvaggi si procureranno ami da pesca o coltelli con la lama di acciaio inossidabile. E… — Sorrise. — Mi preoccupa l’idea di lasciarli qui indifesi. Quelli del team medico vogliono esaminarli. E così i biologi e gli psicologi e…

— Che cosa ne pensi? — domandò Eddie.

Finii la focaccina, mandandola giù con il caffè. — Tanto vale chiederglielo. Derek ha ragione. Nia ha una certa esperienza dell’umanità. Non possiamo lasciarla sola sulla pianura. E non vorrei proprio tornare e scoprire che se ne è andata a causa di quelli del team medico. Non mi stupirei se lo facesse. Non è del tutto a suo agio con noi, e un esame medico può essere abbastanza disumanizzante, perfino quando si sa che cosa sta succedendo.

Eddie annuì. Altri caratteri sparirono dal taccuino. Vi diedi un’occhiata. Lo schermo era vuoto fatta eccezione per due caratteri. Strizzai gli occhi. Il numero quattro e un punto interrogativo. — È tutto?

Lui mi guardò con aria malinconica, gli occhi non riparati dalle lenti. Indossava una camicia azzurra questa mattina: semplice chambray, aperta sul collo a rivelare una collana d’osso e conchiglie. I capelli erano trattenuti da un fermaglio sulla nuca. Il fermaglio era guarnito di perline: un disegno geometrico. Lavorazione Dakota come la collana. La maggior parte dei suoi antenati erano Anishinabe, ma alcuni provenivano dai Sette Fuochi del Consiglio. Altri erano francesi o inglesi.

— C’è ancora una cosa. — Esitò.

— Gliene ho parlato — disse Derek.

— Che ne pensi, Lixia?

— Credo che sia un’idea disgustosa.

Eddie sospirò. La riga numero quattro sparì. Lui spense il taccuino e lo chiuse, ripiegando lo schermo sulla tastiera. Il taccuino era ancora troppo grande per entrare in una normale tasca. Il problema era costituito dalle dita umane. Non erano state miniaturizzate. La tastiera doveva essere larga almeno venti centimetri perché la maggior parte delle persone potessero usarla.

— È quello che temevo — disse Eddie. — Ti parlerò più tardi. Per favore, incomincia con il rapporto. — Si allontanò, portando il taccuino in una mano.

— Sarà una conversazione spiacevole — osservai.

Derek fece il gesto dell’assenso.

— Se tu gli avessi detto di no, avrei potuto evitarla.

— Uuh.

— Se tu gli avessi detto di no, sarebbe in collera con te. Ora si arrabbierà con me.

— Forse.

— Avevi programmato tutto?

— Io non programmo affatto quanto credi.

— Mmm. — Portai i miei piatti al tavolo riciclante, poi mi recai nella cupola degli approvvigionamenti e mi procurai un taccuino con una memoria di 256 K.

Trascorsi la mattinata nella mia stanza. Per prima cosa buttai giù le storie che avevo sentito la sera prima: il Popolo il cui dono è la follia.

Dopo di che feci un abbozzo del mio rapporto.

Smisi a mezzogiorno e andai a prendermi un sandwich. Mi stavo perdendo una splendida giornata. Grosse nuvole viaggiavano nel cielo. Il lago scintillava. C’erano persone sulla banchina, che scaricavano altre casse. Mi riportai il sandwich nella mia stanza e lo mangiai mentre scrivevo.

Alla fine mi accorsi che mi faceva male la schiena. Dalla finestra non entrava più la luce del sole e il cielo era più verde che azzurro. Il colore del pomeriggio inoltrato. Salvai il mio lavoro e spensi il taccuino, poi mi alzai e mi stiracchiai.

Era troppo presto per la cena. In ogni caso, non avevo fame. Decisi di fare una passeggiata.

Mi diressi a sud lungo il lago. La spiaggia era piatta e relativamente larga. Ci si camminava agevolmente. Qui e là un torrente scendeva dalla scogliera. Erano piccoli e quasi asciutti. Li superai.

La spiaggia si restringeva. La vegetazione incombeva sulla mia destra e sentivo l’odore umido e opprimente di una foresta. Mi voltai a guardare. Il campo era nascosto alla vista.

Ha-runh - fece qualcosa.

Guardai davanti a me. Una creatura era spuntata dalla vegetazione. Era ferma sulla spiaggia, a quasi dieci metri di distanza, e mi osservava con un piccolo occhio scuro. Non sembrava preoccupata. Perché avrebbe dovuto? Era grossa come un rinoceronte.

Restai immobile, terrorizzata ma anche interessata.

Era un quadrupede. Niente di simile a un cornacurve. La pelle era bruna e senza pelo. Le zampe erano grosse. Aveva una lunga coda che teneva curva in modo aggraziato. La punta si muoveva lievemente avanti e indietro. Che cosa significava? Era un segno di buon umore?

Dalla testa dell’animale spuntavano delle strane corna piatte. Ce n’erano due paia. Mi facevano pensare ai tetti a sbalzo di certi moderni edifici. O a una specie di fungo. Erano rivestite da una lanugine o una pelliccia corta e sottile.

Funghi di velluto marrone. Tetti a sbalzo di velluto marrone.

L’animale restò a osservarmi per uno o due minuti. Poi si diresse elegantemente verso il lago, le grosse zampe che non facevano quasi nessun rumore, ed entrò nell’acqua bassa. Aveva un labbro superiore flessibile, quasi prensile, che sollevò mentre beveva, mettendo in mostra i denti. Erano lunghi, piatti e simili a pale.

Quasi certamente un erbivoro. Sospettai che fosse un brucatore.

Sollevò il capo e mi guardò di nuovo, poi si rimise a bere.

Era ora che me ne andassi. Arretrai lungo la spiaggia. L’animale continuò a bere, ma incominciò ad agitare la coda. Un movimento rapido e nervoso. Ebbi la sensazione che indicasse irritazione.

Smisi di muovermi.

L’animale tornò a riva.

Dove potevo scappare? Sarei stata più al sicuro nell’acqua o nella foresta?

L’animale indugiò un momento e mi fissò, poi si voltò e se ne andò trottando verso sud lungo la spiaggia. Restai a guardarlo allontanarsi, l’ampio posteriore che ondeggiava, la coda che si muoveva su e giù. Da questa prospettiva l’animale appariva stupido, ma non credo che mi sarebbe parso tale se fosse venuto verso di me.

Feci ritorno al campo, lanciando un’occhiata da sopra la spalla di quando in quando per assicurarmi che non mi stesse arrivando niente alle spalle. La spiaggia rimase deserta.

Marina era nella sua cupola e stava dando da mangiare delle foglie a un bipede. — Non vuole niente di quello che gli do. Dovrò lasciarlo andare, a meno che non decida di sezionarlo.

— Devo parlarti di quello che ho visto.

Mi lanciò un’occhiata. Oggi portava lenti a contatto dorate. Si intonavano con gli orecchini, che erano intricati e pendenti e tintinnavano ogni volta che si muoveva. — Mi serve un registratore?

— Sì.

Ne trovò uno e l’accese. — Okay.

Feci una descrizione dell’animale.

— Così grande?

— Non sono particolarmente brava a giudicare le dimensioni. Ma aveva zampe come quelle di un elefante. Questo particolare quanto lo renderebbe grosso?

— Non piccolo. Potrebbe trattarsi di un animale domestico?

— Non lo so. Ma non ho visto niente di simile in alcun villaggio.

— Se non lo è. — Si tirò il labbro inferiore. — Altri problemi. Altri interrogativi. Vorrei sapere quale divinità ringraziare. Spense il registratore. — Domani andrò laggiù a dare un’occhiata alle impronte. Se sarò fortunata, troverò degli escrementi. Questo ci dirà che cosa mangia quella creatura.

— Probabilmente Nia sa che cos’è.

Marina annuì. — Dovrei passare veramente un po’ di tempo con lei. Che ne diresti di domani? Presentaci. Potrebbe venire con me a cercare mucchi di merda.

— Sembra fantastico.

La lasciai lì che cercava ancora di alimentare il bipede, che era un grazioso esemplare. Le penne sulla schiena erano di un grigio tenue, il ventre color bianco panna. Le zampe anteriori finivano in artigli rosa e le zampe posteriori artigliate avevano lo stesso colore delicato. L’animale si muoveva irrequieto avanti e indietro nella gabbia. Le zampe anteriori artigliate prendevano il cibo di Marina e lo lasciavano cadere; quelle posteriori allonanavano a calci le foglie.

Mi recai nella cupola grande. Questa volta seguii un’insegna che mi condusse nello spazio comune, una vasta sala piena di bassi tavoli e comode poltroncine. Era quasi deserta. Vidi Brian, seduto con un paio di cinesi. Sollevò una mano in un cenno di saluto. Gli feci un cenno in risposta e mi avvicinai al bar.

Il barista era un uomo tarchiato dai lineamenti maya. Di norma i suoi occhi erano di un comune marrone scuro. Ogni tanto, però, quando la luce li raggiungeva con la giusta angolazione, l’iride diventava verde, uno scintillante colore metallico, sorprendente e inquietante.

— Li Lixia. — Mi tese la mano. — Gustavo Isidis Planitia. Faccio parte del team medico.

Ci stringemmo la mano. Mi chiese di nominare la mia tossina. Dissi chablis.

Riempì un bicchiere. — Sei ancora in quarantena?

— Che cosa vuoi dire?

— Eddie ha detto in giro di lasciarti in pace. Dovremmo concederti un sacco di tempo per riprenderti da chissà che.

Assaggiai il vino. Era giovane e aspro. Non c’era stato alcun modo pratico di mantenere in funzione la cantina durante il lungo viaggio di allontanamento dal nostro sistema, e nessuna buona ragione per farlo. Le persone dormivano. I computer non bevevano. Tutto il nostro vino era stato fatto più o meno nell’ultimo anno, e aveva tutto questo stesso sapore, se non peggiore.

— Probabilmente Eddie ha ragione — dissi. — Abbiamo qualche problema a riadattarci.

— Credo che sia una macchinazione — disse Gustavo. — Conosciamo la posizione di Eddie. Credo che stia cercando di controllare le informazioni, da voi a noi e da noi a voi.

Lo guardai. I suoi occhi erano verdi in quel momento e brillavano come il piumaggio di una qualche specie di uccello tropicale.

— Questa mi sembra paranoia — dissi.

— È un termine tecnico, e superato. Quello che intendi dire è che pensi che io nutra un sospetto infondato. Quello che hai detto è che pensi che io sia pazzo.

— Okay. Ritiro la paranoia. Ma credo che tu abbia torto. Grazie per il vino.

— È stato un piacere. E sono contento di averti incontrata.

Mi sedetti da sola. C’era una ciotola di salatini assortiti per aperitivo sul tavolo: noci e frutta secca e altre cose che non riuscii a identificare. Piuttosto gustose. Ne mangiai una manciata e sorseggiai il mio vino.

Poteva anche essere vero. Forse Eddie stava cercando di isolarci. D’altra parte non ero dell’umore adatto ai giochetti politici. Forse lui lo sapeva e mi stava semplicemente proteggendo.

Brian si fermò nell’uscire e mi presentò i suoi compagni. Erano giovani e dall’aria zelante, del team di planetologia. S’inchinarono, mi strinsero la mano e dissero che era un piacere.

— Dovremo parlare — disse Brian.

— Okay.

— Non vediamo l’ora — disse uno dei cinesi.

— Siamo impazienti — aggiunse l’altro.

Se ne andarono. Bevvi ancora un po’ di vino e guardai la finestra sopra di me. Era esagonale, sistemata nel soffitto curvo. Nel cielo c’era una nuvola, che si muoveva portata dal vento e si andava oscurando man mano che gli ultimi raggi di sole l’abbandonavano.

— Posso farti compagnia? — chiese Eddie.

Feci il gesto dell’assenso.

Lui si sedette in una poltroncina. — Derek ha parlato con Nia e con l’oracolo. Lui è disposto a venire con noi. Lei dice che ci deve pensare.

Feci il gesto dell’intesa.

Eddie bevve un lungo sorso dalla bottiglia che teneva in mano — era acqua minerale — e mise la bottiglia sul tavolo, poi prese una grossa manciata di salatini per aperitivo. Guardò verso di me. — C’è della noce di cocco qui in mezzo?

— No.

— Non mi piace la noce di cocco. — Mangiò i suoi salatini, mandandoli giù con altra acqua minerale. — Pensi davvero che la mia idea sia cattiva?

— Non funzionerà. Ci cacceremo nei guai. Ed è immorale. Le persone di qui hanno il diritto di prendere le loro decisioni basandosi su informazioni fondate.

Lui aggrottò la fronte. — Io credo che la Ivanova abbia un vantaggio. Sto cercando di fare qualcosa a questo riguardo.

— E come? — Mangiai altri salatini.

— Questi individui sanno cosa significano termini come stranieri e commercio. Quando la Ivanova parlerà di scambi culturali, loro la capiranno. Ma non sanno niente della moderna tecnologia. E non hanno la minima idea di ciò che succede quando una società industriale viene in contatto con una società che ha a mala pena una cultura agricola.

— Io non direi "a mala pena". Mi sembra che abbiano un’agricoltura alquanto sviluppata. E allevano animali. Quello che non hanno è un apparato statale, il che può essere segno di una società primitiva o di una altamente sviluppata.

— Tu stai scherzando, Lixia. Questi individui sono tribali, pre-urbani e pre-industriali. Non hanno il genere di società che immaginano gli anarchici. Hanno quello che aveva la mia gente fino alla fine del Diciannovesimo Secolo. — Tacque un momento e mi guardò con espressione pensierosa. — Tu non hai intenzione di aiutarmi, vero?

— No.

— Intendi denunciarmi?

— Al comitato dell’intera nave? No. Non sono sicura di quale sarebbe l’accusa. Corruzione di un traduttore? Condotta non adatta a uno studioso?

— Dio, che casino. — Si alzò e uscì dalla sala.

Non avrei saputo dire dal tono della sua voce se fosse adirato o semplicemente depresso. Più probabilmente adirato. In quel momento non me ne importava niente. Mi sarebbe importato al mattino quando fossi stata sobria. Ma ora… Finii di bere il mio vino e mangiai un’altra manciata di salatini, poi mi alzai. Avevo perso la mia coordinazione e vacillavo leggermente.

— Stai bene? — s’informò Gustavo.

— Sì. — Decisi di saltare la cena. Non avevo fame e non mi andava di essere la sola persona ubriaca nella sala. Curioso che un solo bicchiere di vino dovesse fare un tale effetto. Andai nella mia stanza e mi misi a letto.

Quando mi svegliai, guardai in su e non vidi niente fuori dalla finestra. Un grigiore indistinto. C’erano goccioline d’acqua sul vetro. Avvertivo l’umidità nell’aria, perfino all’interno.

Mi alzai e mi feci una doccia, poi indossai una tuta, una giacca, pesanti calzini e scarpe.

Fuori faceva fresco, forse perfino freddo. La scogliera era invisibile. Scorgevo a stento gli alberi ai margini del campo. Le cupole attorno a me avevano perso gran parte del loro colore e della loro compattezza. Sembravano galleggiare nella nebbia: ombre e bolle.

Mi incamminai verso il lago. Riuscivo a vedere i primi metri d’acqua. Si muoveva appena e non faceva alcun rumore quando lambiva la spiaggia di ciottoli. Perché la nebbia era così affascinante? Era forse il mistero? Il senso di possibilità? C’era una vecchia storia che sosteneva l’esistenza di molti mondi alterni in stretta vicinanza. A volte i mondi si toccavano e, per un momento, si confondevano fra loro. Questo creava la nebbia. Era la fusione di diverse realtà. A volte, quando i mondi si separavano e la nebbia si diradava, le persone si trovavano in luoghi inaspettati. Erano passate dall’uno all’altro e si trovavano in una realtà alterna.

Decisi che non avevo alcun interesse per una realtà alterna. Non in quel momento. Benché mi piacesse l’idea che la vita fosse confusa e offuscata dalla possibilità. Niente era stabile. Niente era certo. Non c’erano margini netti, né corsi immutabili.

Mi diressi alla cupola grande e feci colazione con Marina e un terzetto di biologi. Mi posero domande sui nativi. Risposi come meglio potevo.

— Chia ha incontrato un nativo — disse Marina e indicò una piccola donna bruna.

— Davvero?

— Si. A nord del campo. Stavo cercando… — Esitò. — Non abbiamo ancora un nome per quelli. Assomigliano a centopiedi. Sono lunghi venti centimetri e vivono sotto le pietre nell’acqua. — Fece una pausa. — In gran parte sono blu.

— Parlaci del nativo — la sollecitò Marina.

— Stava togliendo trappole dall’acqua. Ci siamo guardati per un istante, poi lui è tornato al suo lavoro e io al mio. Non mi ero resa conto di quanto fossero grandi.

— Quella era Nia — dissi. — È una femmina e non è più alta di me.

— Tu sei alta, Lixia, in confronto alla gente del mio paese. E la nativa era molto… — Esitò di nuovo. — Molto grande e massiccia.

— È la pelliccia a fare la differenza. Non sembra tanto grande quando è bagnata.

— Ah — disse la piccola donna. — Come un gatto. — Poi aggiunse: — Ho incontrato tigri nella giungla. Loro amano nuotare. Sembrano grandi anche quando escono da un fiume.

Feci il gesto che significava "non lo so per esperienza personale, ma con ogni probabilità hai ragione".

Marina disse: — Mi mancano i gatti. Continuo a sostenere che dovremmo allevarne alcuni.

— Non ci sono topi — osservò uno degli altri biologi. — Salvo che nei laboratori, e non sono un problema.

— Lo diventeranno — disse Marina. — Qualcuno ne perderà qualche esemplare. Entreranno negli orti. Avremo una pestilenza, proprio come nella Bibbia. Ratti ed emorroidi.

— Che cosa? — saltò su il terzo biologo. Era grande e grosso e quasi sicuramente polinesiano.

— I Filistei rubarono l’Arca dell’Alleanza, qualunque cosa fosse, e l’Onnipotente li tormentò con ratti ed emorroidi. Non sto mentendo. È scritto nella Bibbia.

— Se accadrà, alleveremo qualche gatto — disse l’uomo. Sembrava un tipo calmo e pratico.

La piccola donna corrugò la fronte. — Non capisco di quale utilità possano essere i gatti nella cura delle emorroidi.

— Devo lavorare — dissi e me ne andai.

Entro mezzogiorno il cielo al di sopra della mia finestra si era fatto di un nebbioso verdeazzurro. Il mio rapporto era un pasticcio. Avevo un sacco di informazioni, ma nessuna struttura. Nessuna cornice ideologica.

Oh, essere una marxista! Soprattutto una volgare marxista. Loro avevano sempre una spiegazione. Di solito veniva dal Diciannovesimo Secolo. Engels sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Senza dubbio Fred sarebbe stato in grado di spiegarmi questo pianeta. Forse avrei dovuto trovare un computer biblioteca e richiamare antichi documenti sulla teoria sociale. Gettai sul letto il mio taccuino.

Si aprì la porta. Derek fece capolino e disse: — Hai visite.

Nia entrò nella stanza, vestita con pantaloncini grigio chiaro e una camicia rosso borgogna. La camicia portava stampate grosse lettere bianche. Dicevano: I MIGLIORI AUGURI DALLA CONFEDERAZIONE IROCHESE.

Una donazione. Avevano voluto contribuire tutti alla spedizione. La nave era piena di oggetti con su nomi dati da circoli e cooperative, città, associazioni, tribù e kibbutzim. La lampada nella mia cabina veniva dall’Associazione dei Lavoratori Aeronavali. Sul paralume c’era l’emblema dell’associazione: due mani strette davanti a un dirigibile.

Derek disse: — Ho cercato qualcosa senza scritte, ma è impossibile trovare una camicia di cotone a maniche corte senza un motto.

Nia protestò: — Parlate una lingua che io possa capire.

— Non ha detto niente di importante — le spiegai.

— Bene. Ho deciso di venire con voi.

— Perché?

Lei fece il gesto che significava "perché no?".

— È una buona risposta?

Entrò e si sedette sul pavimento, mettendosi accuratamente in una posizione a gambe incrociate. — No. Voglio scoprire che cosa ne è stato dei miei figli e delle mie cugine. Te ne ho già parlato. E devo andare in quella direzione. Ho promesso di fare del lavoro per Tanajin. — Tacque per un momento. — Qualcuno deve raccontarle quello che è successo alla barca. Qualcuno deve dirle che Ulzai è sparito. Questi vestiti sono stretti. Come può sentirsi a proprio agio la tua gente?

— Non facilmente — risposi.

— Mi procurerò vestiti nuovi al villaggio. E cibo. E utensili. Me li daranno anche se mi conoscono e possono essere quasi certi che io non sono l’Oscuro.

Avevo un registratore? Mi guardai attorno.

— Qui — disse Derek.

Lo lanciò e io lo afferrai. Era un registratore audio grande come una scatola di fiammiferi. Lo accesi. — Chi è l’Oscuro?

— Uno spirito. Giunge nei villaggi come uno straniero, di solito una donna, a volte un uomo. Spesso è una donna lacera e affamata. Può essere ammalata. Può avere un aspetto curioso.

"Hua, la donna che mi ha insegnato a lavorare il ferro, diceva che la sua vera forma è quella di una vecchia con la pelliccia nera, curva e tutta storta. Ha uno strano odore. Chiede aiuto, anche se non in modo simpatico. Il più delle volte è scorbutica.

"Se il villaggio è generoso, lei prosegue il suo cammino. Se il villaggio è avaro o scortese, allora…" Nia fece il gesto che significava "lo sai" o "che cosa ti aspetti?"

— Capitano cose spiacevoli — terminò Derek.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

— Che genere di cose spiacevoli? — chiesi.

— Le persone si ammalano. Gli animali muoiono. Non c’è abbastanza cibo. — Fece una pausa e mi guardò. Doveva essere evidente che volevo saperne di più. — La sciamana scopre quale spirito è adirato. Allora il villaggio esegue una cerimonia. È chiamata: "Benvenuto allo Straniero". Raccolgono tutte le cose che amano di più: buon cibo, coltelli dalle lame taglienti, vestiti coperti di ricami, doni che provengono dai luoghi più lontani. Accendono un fuoco. La gente canta:


"Vedi

come ti accogliamo bene.

Vedi

i bei preparativi.


"Il cibo finisce nel fuoco. I coltelli. I vestiti. Tutto viene bruciato. Se le persone sono fortunate, l’Oscuro sarà soddisfatto. Ma ci vuole molto. È meglio darle ciò di cui ha bisogno quando arriva sotto le sembianze di una vecchia."

— Che cosa succede se l’Oscuro arriva al villaggio del Popolo il cui dono è la follia?

— Non ho mai sentito una storia a questo proposito, e non mi aspetto di sentirla.

— Perché no?

— Le storie sull’Oscuro si raccontano in estate e in autunno. È allora che la maggior parte della gente viaggia. È allora che si incontrano gli stranieri.

"Le storie sul Popolo il cui dono è la follia si raccontano in inverno, quando la neve è alta ed è impossibile viaggiare. È allora che alla gente piace sentire parlare di un comportamento stupido che ha avuto luogo molto lontano."

— La neve è alta — disse Derek in inglese. — Il vento ulula. Sediamoci presso il fuoco e ridiamo dei forestieri.

Spensi il registratore.

Nia si alzò. — Se avete intenzione di parlare in quella lingua, me ne vado.

— Vuoi mangiare? — mi chiese Derek. Parlò nel linguaggio dei doni.

Feci il gesto dell’affermazione.

Nia disse: — Sto fabbricando un arco. Ho trovato del legno che non è male, e Deragu mi ha dato una corda.

— Davvero?

— Non dirlo a nessuno.

Ce ne andammo insieme, uscendo nella caliginosa luce del sole. Nia fece il gesto del commiato e si diresse verso l’interno e la scogliera. Io e Derek andammo verso la sala da pranzo.

Mangiammo con Agopian e un nero di corporatura snella. Cyril Johnson. Faceva parte del team idrologico e la sua attrezzatura non era arrivata. Tenne un discorso sulla maledetta incompetenza a bordo della nave e nel corso di tutta la storia umana.

Ascoltammo educatamente. Mangiai qualcosa che si sforzava di essere un’insalata greca. Il formaggio era di capra e c’erano troppo poche olive. La maggior parte degli olivi erano morti durante il viaggio. Ci sarebbero voluti anni prima che i nuovi alberi fossero abbastanza vecchi da produrre olive.

— Abbiamo fissato una riunione generale per questa sera — disse Agopian. — Queste persone hanno il diritto di sapere che cosa succede.

— Hai ragione — ribatté Derek. — Ce l’hanno. Purtroppo, noi non abbiamo alcuna idea.

— Sapete sui nativi più di chiunque altro.

— Pensate che ci lasceranno restare? — chiese Cyril.

— Non lo so — risposi.

Lui aggrottò la fronte e serrò le labbra. Un altro esempio di maledetta incompetenza.

Finii il mio caffè e portai il mio vassoio al tavolo riciclante. Agopian mi seguì. Uscimmo. Il cielo era sereno, l’aria calda e umida. Mi tolsi la giacca.

— Verrò con voi — disse Agopian.

— Su per il fiume?

Fece cenno di sì col capo.

— Sono certa che la Ivanova ha un buon motivo per portare un navigatore spaziale. — Guardai la banchina. Entrambe le imbarcazioni erano ormeggiate. C’erano persone che lavoravano a bordo, occupandosi della manutenzione o di qualche riparazione.

— Sono anche uno storico.

— Della storia del lavoro, mi sembra che tu abbia detto.

— Ogni società ha lavoro e lavoratori.

Gli lanciai un’occhiata. Oggi non portava l’uniforme dell’equipaggio. Al contrario aveva un aspetto quasi americano: jeans scoloriti e una camicia di cotone a sottili righe verticali bianche e blu. Huaraches ai piedi. La cintura aveva una grossa fibbia di metallo con su un aeroplano a razzo e dei caratteri in alfabeto cirillico.

— In Nordamerica l’avremmo chiamata una camicia da ferroviere.

Lui sorrise. — L’ho comprata a Detroit, nel negozio di articoli per regalo presso il Museo dela Cultura della Classe Lavoratrice.

Ci incamminammo verso il lago.

— La cintura viene dal negozio di articoli per regalo sulla Stazione di Trasferimento Numero Uno. L’ho presa quando mi sono aggregato alla Kollontai. Sono… ero… un gran collezionista di souvenir.

— Non lo sei più?

— Non proprio. Anche se non mi dispiacerebbe portarmi a casa qualcosa da qui. Se torneremo.

— Se?

— È un lungo viaggio, e non abbiamo idea di come sarà la Terra quando ci torneremo. Qui, forse, abbiamo un futuro. Laggiù saremo solo curiosi resti di un lontano passato, come i mammut che abbiamo ricostruito.

— Credevo che sarebbero diventati le nuove bestie da soma in Siberia.

— Sono più stupidi degli elefanti, e il loro carattere non è affidabile. Non è facile addomesticare una nuova specie. O, in questo caso, una specie molto antica.

Ci fermammo sul bordo dell’acqua. C’erano i soliti minuscoli uccelli bruni che correvano sui ciottoli, cacciando e beccando.

— Come diavolo ti sei ritrovato con una laurea in navigazione spaziale?

Lui rise. — Ti stai chiedendo se Derek non abbia ragione e io non sia… com’è quella parola?… un vegetale.

— Penso che tu ti riferisca a una pianta.

Annuì. — O a un topo campagnolo.

— Tutt’a un tratto il tuo inglese sta peggiorando.

— Ho qualche problema con il linguaggio della paranoia. Non mi viene naturale.

— Oh.

— Ho preso la laurea perché ero un fallimento come funzionario politico.

— Davvero?

Annuì di nuovo. — Devi capire, fin da quando ero un ragazzo avevo due sogni. Due passioni. Lo spazio e la teoria politica.

Una ben strana combinazione, pensai. Ma non c’erano spiegazioni per i gusti e le passioni.

— Sapevo dall’inizio di voler diventare un funzionario politico nella flotta sovietica. Ci sono riuscito, e ho scoperto che era inutile. — Spinse una pietra con la punta dello stivale. La pietra si capovolse, rivelando un insetto di un giallo vivace. L’insetto fuggì.

— La Kollontai era una nave da carico. Credo di avertelo detto. L’equipaggio era costituito dal genere di individui che si trovano nei magazzini e sulle navi. Ne hai mai incontrato qualcuno?

Feci il gesto dell’affermazione.

— C’è qualcosa nelle persone che trasportano merci. Sono uguali, in tutto il mondo e perfino nello spazio. Come potrei descriverle? Robuste? Coi piedi per terra? Sebbene sembri strano quando parlo di gente che viaggia nello spazio.

"Sono indubbiamente colletti blu. Il genere di individui che hanno fatto tutte e tre le nostre rivoluzioni. Non avevo la minima idea di come andare d’accordo con loro."

Tacque un momento, guardando il lago. — Io sono un intellettuale. Credo che sarebbe giusto dire così. Studio le idee. È questo che mi interessa. La teoria politica. La teoria della storia. La filosofia della scienza. Il rapporto fra persone e macchine.

"In realtà non mi importa molto delle comuni attività umane. Non gioco. Non ho nessun hobby. Non mi piace nessuno sport. Non guardo quasi mai Polovisione. Non mi sono mai sposato. Non ho figli. Bevo vino e birra, di solito con moderazione. Non bevo mai acquavite né vodka."

— Che cosa fai per divertirti?

— Leggo fantascienza, e penso.

— Sembra proprio uno spasso.

— Vedi? Riesci a immaginarmi circondato da lavoratori manuali?

Sorrisi. — No. Proprio no.

Lui annuì. — È stato terribile. Organizzavo corsi di teoria marxista. Non veniva nessuno. Cercavo di celebrare importanti eventi nella storia della lotta di classe. O mi ignoravano o usavano l’avvenimento come scusa per ubriacarsi. Passavo il tempo nelle aree di ricreazione, cercando di arrivare a conoscere l’equipaggio.

"Non riuscivo a comunicare con loro. Mi sembrava che parlassimo lingue diverse. Non avevo idea di cosa avvenisse nel loro intimo.

"Alcune cose venivano in superficie. Sapevo che amavano il sesso, l’alcol e il calcio. Conoscevo il nome dei loro spettacoli preferiti, e in buona parte li avevo visti almeno una volta. Guerra e pace. Attraversando gli Urali. Avventura in fondo all’oceano. I cosmonauti delle patate.

"Ma non comprendevo il loro modo di pensare. La struttura intellettuale. L’ideologia basilare. Per me non avevano alcun senso logico.

"Avrei dovuto piantare tutto e tornare sulla Terra. Mi sarei potuto trovare un lavoro nell’insegnamento. Mi sarei trovato bene in un’università o in un politecnico.

"Ma sono rimasto, anche dopo che avevo smesso di fare il funzionario politico." Mi rivolse un’occhiata e sorrise. "Ho rinunciato. Ho solo fatto finta."

Agopian mi ricordava qualcuno; era un po’ che cercavo di capire chi. Ora mi venne in mente. Eddie. Vivevano entrambi nella propria mente. Erano entrambi spinti alla passione dalla teoria.

E io che cosa amavo? mi chiesi. La luce del sole. Il cibo. Qualche corpo umano. Un paesaggio come quello che avevo davanti, abbastanza vasto da dare significato all’attività umana, e vivo.

— Diventava noioso — continuò Agopian. — Dovevo fare qualcosa. Così ho deciso di imparare un nuovo mestiere. Ho scelto navigazione spaziale.

— È così che hai preso la tua laurea?

Lui accennò di sì col capo. — Ed è stato così che finalmente sono arrivato a conoscere qualcuna delle persone sulla nave. Avevamo due navigatori spaziali. Facevo loro domande quando mi trovavo in difficoltà con il programma di apprendimento.

"Una di loro leggeva fantascienza. Mi ha detto che il cuoco aveva una notevole collezione personale. Veniva dalla Siberia. Un uomo enorme. Parlava a grugniti e non ero certo che fosse del tutto umano. Quando si è reso conto che leggevo anch’io fantascienza, ha incominciato a usare frasi complete.

"Mi prestava i suoi libri. Parlavamo di questi e della Siberia. Uno dei suoi fratelli è, o era, un addestratore di mammut. È per questo motivo che so qualcosa dei mammut."

Rigirò un’altra pietra col piede. Sotto non c’era niente all’infuori di ciottoli bagnati. — Questa è la fine della storia. Ho preso la mia laurea e non ho mai veramente imparato ad andare d’accordo con quelle persone. È andata meglio, ma c’era sempre qualcosa nel loro modo di pensare… — Scosse il capo. — O nel mio modo di pensare. Dopo tutto, loro sono la maggioranza.

Credevo davvero che quell’ometto sveglio fosse stato un fallimento? — Non hai lo stesso problema qui?

— No. Per prima cosa, non sono più un funzionario politico. Un navigatore spaziale non deve preoccuparsi di cose come l’agitazione e la propaganda. Tutto ciò che devo fare è stabilire dei numeri.

"In secondo luogo, ci vuole un genere di persona speciale per andare sulle stelle. Noi non siamo migliori del resto dell’umanità, ma siamo diversi. Riesco a capire la maggior parte delle persone qui."

— Chi altri risalirà il fiume? — chiesi.

— Tatiana. La Ivanova. Eddie. Tu e Derek. I nativi. Il signor Fang.

— È qui?

— Sì. È il rappresentante della posizione di maggioranza. È qui per osservare e assicurarsi che i nativi capiscano che la decisione spetta a loro.

Riflettei un momento. — Sembra proprio che saremo in tanti.

— Dovremo usare entrambe le imbarcazioni. Questo lascerà il campo in una situazione difficile. Credo che la Ivanova stia progettando di mandare su uno degli aeroplani a prendere altri rifornimenti, compresa un’altra imbarcazione.

— Non c’è dubbio che ci stiamo insediando.

— Solo provvisoriamente — disse Agopian.

Parlammo della riunione fissata per quella sera, poi ci separammo. Tornai nella mia stanza e mi misi qualcosa di più leggero, accesi il sistema di ventilazione e aprii il mio taccuino.

Fu un pomeriggio sgradevole. L’aria che entrava era calda e umida. Il mio lavoro andava male. Alla fine rinunciai. Non avevo alcuna disposizione per l’analisi, solo per l’osservazione. La realtà che vedevo era troppo complessa, mutevole e ambigua per adattarsi precisamente a una teoria.

Derek fece una capatina. — Marina vuole incontrare Nia. L’accompagno su per la scogliera.

Feci il gesto dell’intesa. Derek uscì e io andai a fare una passeggiata. Mi sentivo intrappolata, frustrata, scoraggiata. Avevo bisogno di lavorare, ma non con le idee. Mi fermai in cucina. Era piena di persone che preparavano la cena. — Posso essere di aiuto?

— Certamente — disse il biondino. — Porta queste scatole metalliche all’inceneritore e svuotale. Fa’ attenzione. Non rovesciare niente. Stiamo cercando di non contaminare l’ambiente. — Scosse il capo. — Odio distruggere quella roba. Ne verrebbe un mucchio di concime.

— Vuoi dire che non stiamo riciclando?

— Solo i piatti.

Provai qualcosa di simile all’orrore.

— Stiamo cercando di rendere completamente autonomo il campo. Niente che provenga dalla Terra finisce nel biosistema. In particolare niente di organico. O lo distruggiamo, o lo impacchettiamo e lo rimandiamo lassù. — Puntò il dito in direzione del soffitto. — È stato deciso di non impacchettare i fondi di caffè e le bucce d’arancia. È un vero peccato. Detesto assistere allo spreco.

Feci il gesto dell’approvazione, poi dissi: — Non ci siamo veramente presentati.

— Il mio nome è Pace-con-giustizia.

Restai in attesa.

— La mia gente non crede nei cognomi. Noi non apparteniamo a una linea di sangue o a un gruppo di parenti. Apparteniamo a noi stessi e a tutta l’umanità.

— Oh — esclamai e raccolsi una scatola.

Era un buon lavoro, faticoso. Le scatole erano pesanti e il portello dell’inceneritore era collocato male. Dovevo sollevare ogni scatola all’altezza della mia spalla per poterla svuotare.

Alla fine pulii le scatole e lavai il pavimento della stanza dell’inceneritore. Le scatole finirono in uno sterilizzatore. L’inceneritore andò avanti con un gran lampeggiare di spie luminose.

Mi facevano male le spalle e questa era una sensazione piacevole. Il mio rapporto sembrava un problema minore.

Cenai con il personale della cucina: tofu e verdure su un mucchio di riso scuro e colloso. Da una parte vi aggiunsi un po’ di salsa di soia con zenzero e aglio; dall’altra aggiunsi del succo di prugne fermentato. Delizioso!

Quando ebbi finito, Pace-con-giustizia disse: — Metteremo in ordine noi. Tu faresti meglio a prepararti per la riunione. Grazie, Lixia.

Tornai nella mia cupola, mi lavai e indossai dei vestiti puliti, poi mi recai nel salone. Soffiava un vento a raffiche e la maggior parte del cielo era coperta di nuvole. Ero quasi certa che sarebbe piovuto.

Tutt’a un tratto mi venne in mente una poesia. Era Anishinabe.


A volte vado in giro provando pena per me

e all’improvviso

un grande vento mi trasporta per il cielo.


Il salone era affollato. C’erano persone che portavano sedie dalla sala da pranzo. Eddie e Derek erano in piedi presso il bar.

— Com’è andata? — chiesi a Derek.

— Con Nia? Benissimo. Ha identificato l’animale. È raro e solitario. Depone uova.

— Un animale così grosso?

— I dinosauri deponevano uova. Marina è eccitata. Crede che stiamo osservando un biosistema in transizione. Animali che sono originari di questo continente vengono rimpiazzati da animali provenienti dalle isole o dall’altro continente.

— O dalla Terra — disse Eddie.

— No — ribatté Derek. — Il team medico sostiene che i nostri germi se la cavano molto male negli organismi indigeni. I batteri muoiono di fame. I virus non fanno niente. Non riescono a usare il materiale genetico locale. Non possono riprodursi. — Sorrise. — Gli organismi nativi se la stanno cavando un po’ meglio dentro di noi, soprattutto alcune specie di microscopici vermi parassiti. Liberation Minh è molto eccitata da questi. Hanno capacità che non ci aspettavamo affatto.

— La fai sembrare una buona notizia — osservò Eddie.

— Trovo la cosa interessante. E Liberation non pensa che i vermi costituiscano un vero pericolo.

— Uh!

Derek mi rivolse un’occhiata. — Il team medico dice che possiamo risalire il fiume.

— Bene.

Entrò la Ivanova, accompagnata da una dozzina circa di membri dell’equipaggio. Era uno spettacolo inquietante. Si muovevano come un solo elemento, sedendosi tutti insieme in poltroncine che erano state messe da parte da altri membri dell’equipaggio.

— È ora di incominciare — disse Derek. Si issò sul banco del bar.

Mi arrampicai al suo fianco, anche se in modo meno elegante.

Derek alzò una mano nel gesto nativo che chiedeva attenzione. Le persone tacquero. — Okay. Chi farà da moderatore?

— Qualcuno che sia neutrale — disse la Ivanova.

Un uomo domandò: — È qui il signor Fang?

Mi guardai attorno. C’era, seduto nella terza fila dal fondo. Era esile e asciutto, con un portamento eretto e un’espressione vigile. I capelli bianchi striati di grigio erano legati in una crocchia. Portava la sua solita divisa: camicia di cotone blu scolorito su pantaloni di cotone blu scolorito.

Sussurrò qualcosa alla giovane donna al suo fianco. Lei si alzò. — Il signor Fang non si sente in grado di fare da moderatore. La sua voce non è abbastanza forte.

— Allora fallo tu — ribatté l’uomo.

La giovane donna arrossì. — Io sono l’apprendista del signor Fang. Non so niente di come si parla in pubblico.

A quel punto smisi di ascoltare. Con ogni probabilità i cinesi avevano scelto qualcuno per presiedere, ma non volevano proporre la persona. Sarebbe stato presuntuoso e antidemocratico. Invece ci sarebbe stata una discussione. Mi guardai in giro per la stanza cercando di valutare il numero complessivo di persone presenti. Oltre un centinaio. Un terzo circa era costituito da membri dell’equipaggio. Dovevano aver fatto venire tutti dagli aerei a razzo. Sorrisi alle persone che conoscevo. Harrison Yee se ne stava in piedi sul fondo, appoggiato alla parete, a braccia conserte. Alzò una mano in un cenno di saluto. Strano, avrei dovuto vederlo prima di questa occasione.

Fu scelta la persona che doveva presiedere: una donna cinese di mezza età. Aveva una voce forte e ferma, con poco accento.

— Si sta facendo tardi. Queste persone dovranno alzarsi presto. Propongo un ordine del giorno molto limitato. Credo che due quesiti siano di particolare interesse per tutti i presenti.

"Anzitutto, che cosa è successo a Lixia e a Derek? Perché abbiamo perso i contatti con loro?

"E in secondo luogo, che cosa pensano che accadrà domani? Che cosa faranno i nativi?"

L’ordine del giorno venne approvato per alzata di mano. Derek fece un resoconto del nostro incidente. Fu conciso e chiaro. Io me ne stavo al suo fianco e mi sentivo a disagio. Non amavo particolarmente le riunioni e non mi andava di essere al centro dell’attenzione. Ero un’osservatrice e volevo trovarmi in mezzo al pubblico. Quando Derek ebbe concluso, la moderatrice mi chiese se avevo qualcosa da aggiungere.

— No.

— Vuoi rispondere tu alla domanda successiva?

— Che cosa faranno i nativi? Non ne ho la minima idea.

Derek aggiunse: — Sono abituati ai viaggiatori, e non hanno paura degli stranieri. Ma gli stranieri si limitano a passare. Per quanto siamo in grado di giudicare, le loro culture sono distinte le une dalle altre. Non si mescolano. Forse perché non hanno una tradizione di guerre. Non conquistano i loro vicini. Non si portano via a vicenda come schiavi. Non saccheggiano né stuprano. Non si rubano mogli.

— Questa è una tangente? — chiese la moderatrice.

— No. Se noi fossimo viaggiatori, ci farebbero una buona accoglienza. Ma noi intendiamo chiedere il permesso di restare. Non ho idea di come reagiranno.

Harrison Yee alzò la mano. La moderatrice puntò il dito verso di lui.

— Questa situazione non può essere del tutto nuova. Questo pianeta ha malattie e vulcani. Devono esserci stati villaggi che sono rimasti talmente danneggiati da qualche disastro naturale da non poter sopravvivere per proprio conto.

— Sì — ammise Derek. — Ma non ne abbiamo sentito parlare.

Un’altra persona disse: — Sei sicuro che non ci sia stato nessuno scambio di materiale genetico? Hai visto qualche prova di accoppiamento fra consanguinei?

— No — risposi. — E credo che Derek stia esagerando la situazione. Sappiamo che ci sono individui che si spostano da una cultura all’altra. Probabilmente c’è abbastanza di questo genere di movimento da impedire gravi forme di accoppiamento fra consanguinei. Ma per quanto siamo in grado di giudicare, non c’è quel genere di mescolanza di intere popolazioni che è stato frequente sulla Terra.

— In quel caso — osservò il tizio — dovrebbe esserci una diversità genetica assai maggiore. Credo che vi sbagliate. Credo che questi individui riescano a incrociarsi.

— Sto solo riferendo quello che ho visto. E la mia conclusione è che non sappiamo come reagiranno queste persone a un mucchio di stranieri intenzionati a stabilirsi in mezzo a loro.

— Non stiamo parlando di un soggiorno permanente — disse una donna. Aveva un accento delle Indie Orientali. — Non è vero?

— Siete pregati di alzare la mano prima di parlare — disse la moderatrice. — Non vogliamo che questa riunione diventi incontrollata.

Un uomo di colore alzò la mano. La moderatrice puntò il dito verso di lui. L’uomo disse: — So che è stato deciso di mandare gruppi misti. Uomini e donne. Penso che sia una follia. I nativi hanno scacciato… quanti uomini? Gregory. Derek. Harrison. Otterremo solo il risultato di farli infuriare.

— Sono assolutamente d’accordo con te — disse la Ivanova.

Eddie intervenne: — Non abbiamo intenzione di entrare in un villaggio finché non avremo spiegato la situazione e chiesto il permesso. Se diranno che gli uomini non possono entrare, non lo faremo. — Abbozzò un breve sorriso. — Il che potrebbe costituire un problema per la mia posizione. Se necessario, chiederò a Lixia di presentare le ragioni del non intervento, anche se preferirei farlo di persona.

— È probabile che vi dicano di andarvene tutti — ribatté l’uomo di colore. — Ciò che state facendo non ha niente a che vedere con l’onestà. Questa è una mancanza di rispetto per la cultura e le opinioni di un’altra popolazione.

La Ivanova annui. — Hai ragione. Ma tieni presente che abbiamo già ottenuto quello che volevamo in questa regione. Derek e Lixia sono stati salvati. Se i nativi ci diranno di andarcene, non avremo perso molto. Potremo mandare un gruppo di donne in un altro villaggio.

— Se l’onestà non funziona, potremo sempre tentare con una menzogna — intervenne una donna.

La moderatrice disse: — Per favore.

Le persone continuavano a parlare. Non dicevano niente di nuovo e nessuno tornò alla domanda fatta dalla donna indiana, né per rispondervi né per riproporla. Non stiamo parlando di un soggiorno permanente. Non è vero?

La riunione terminò. Saltai giù dal banco del bar. Harrison mi raggiunse e mi abbracciò.

— Dove sei stato?

— Su uno degli aerei. Eddie mi sta tenendo occupato, a inviare rapporti alla nave.

Dovevo aver assunto un’aria dubbiosa o forse ferita.

— Ha detto che avevi qualche problema a riadattarti al campo. Che avevi bisogno di stare da sola un po’ di tempo.

— Può darsi.

Le persone se ne stavano andando, portando via le sedie. Gustavo riprese il suo posto dietro il banco. I suoi occhi erano verdi e splendenti. Disse: — Sto riaprendo. Posso servirvi qualcosa?

Harrison e io ordinammo del vino.

Eddie disse: — Fa’ attenzione con quella roba. Vogliamo partire presto domattina.

— Quando? — chiesi.

— All’alba.

— Starò attenta. Sei sicuro di volere che sia io a esporre le ragioni del non intervento? Se non potrai farlo tu, voglio dire?

— Tu conosci le ragioni. Sai come parlare con i nativi. Credi nella democrazia. — Sorrise. — Forse più di me. Se i nativi dovranno prendere una decisione basata su informazioni, dovranno sapere quello che ho da dire. Tu farai in modo che ricevano l’informazione.

— Immagino di sì.

Esitò per un momento. — Come direbbe Derek, dobbiamo imparare a trattare con le persone come sono. Se non possiamo corromperle, dobbiamo trovare un modo di servirci della loro onestà.

— Stai parlando alla prima persona plurale, Eddie. È sempre un sintomo pericoloso.

— Hai ragione. — Fece il gesto del commiato.

Harrison restò a osservarlo allontanarsi, poi chiese: — Che cos’è questa faccenda?

— Eddie ha qualche problema ad affrontare l’attuale situazione.

Harrison annuì. — Se non mette un po’ d’ordine in se stesso, credo che dovremo trovare un altro coordinatore per il team.

— Basta con la politica! Dimmi che cosa sta succedendo sulla nave. I pettegolezzi. Non la lotta fra fazioni.

Lo fece. Io finii il mio vino.

Gustavo disse: — Nel mio ruolo di barista dovrei offrirvene un altro. Ma sono anche uno psicoterapista, e non vi serve altro alcol.

— Lo sei davvero?

— Certo. La mia area di competenza è la psicofarmacologia. — Prese il mio bicchiere, poi asciugò il cerchio di umidità dal banco. — Non devi preoccuparti. Ho fatto un corso per baristi. Sono in grado di mischiare quasi qualsiasi cosa ti venga in mente di bere.

Harrison sorrise. — E poi spiegarti che tipo di danno ti farà.

Gustavo annuì. Prese il bicchiere di Harrison. — All’alba, Lixia. Forse vorrai fare i bagagli questa sera.

Aveva ragione. Harrison e io lasciammo il salone. Fuori l’aria era fresca e umida e le nuvole sopra le scogliere del fiume si erano sparpagliate. Ora coprivano un terzo del cielo.

— Tempo diverso — osservò Harrison. — Ti invidio. Io devo tornare all’aeroplano.

— Davvero?

Fece cenno di sì col capo. — Eddie vuole che mi occupi delle comunicazioni fra voi e la nave, il che significa che sarò intrappolato laggiù. — Fece un cenno della mano in direzione del lago. — Non mi dispiace realmente. C’è il più bel giovanotto della squadra delle telecomunicazioni. L’hanno disgelato di recente. I suoi occhi sono come il cielo d’estate e i suoi capelli come il grano in autunno.

— Mmm — dissi.

Harrison mi rivolse un’occhiata e sorrise. — Suvvia, Lixia, lo sai che non mi innamoro di nessuno da molto, molto tempo. Da prima che ci addormentassimo. Credo che possa essere un effetto secondario dell’ibernazione. Gli orsi sono amorosi non appena si risvegliano?

— Non ne ho la più vaga idea. Ma certe persone lo sono. Ricordi com’era Derek quando stavamo entrando in questo sistema?

Harrison rise. — Forse le persone si riprendono dall’ibernazione a ritmi diversi. Forse alcuni orsi sono amorosi non appena si risvegliano. — Fece una pausa. — È meglio che mi informi quando parte l’ultima barca. Se la perdo, dovrò farla a nuoto.

Ci salutammo. Andai alla cupola degli approvvigionamenti e presi una borsa, poi tornai nella mia stanza e feci i bagagli.

Non dormii bene. Nei miei sogni il pianeta si mescolava con la nave. Camminavo lungo un corridoio fatto di cermet e ceramica. C’erano dei nativi lì che si aggiravano fra gli umani a bordo della nave. Voltai un angolo e mi trovai in un giardino. Un enorme quadrupede mangiava piante di lattuga. Mi osservò tranquillo con un minuscolo occhio scuro. Il brutto-cattivo scappava su un pavimento di mattonelle gialle. Sentii il ticchettio delle sue unghie.

Voltai un altro angolo. C’era un accampamento indigeno al centro di una sala per riunioni in ceramica. Da un fuoco saliva del fumo. Una donna indigena era china sopra una pentola di metallo. Un bambino indigeno giocava con un gatto. Era un comunissimo gatto terrestre, un gatto domestico dal pelo corto, poco più che un cucciolo. Il suo pelo era a macchie bianche e nere. La pelliccia del bambino era bruna.

Derek mi svegliò. Lo fissai, pensando al gatto. Marina aveva ragione. Dovevamo allevarne qualcuno.

— Sorgi e risplendi — disse Derek.

— Stavo facendo dei sogni maledettamente strani.

— Hai ricevuto troppe informazioni e stai cercando di elaborarle.

Mi alzai e andai in bagno.

Facemmo colazione nella sala da pranzo. Era deserta se si escludevano le persone che dovevano risalire il fiume e Pace-con-giustizia. Lui ci consigliò uova alla benedict.

— Le uova ti fanno venire il colesterolo, il prosciutto danneggia il tuo karma e la salsa contiene abbastanza calorie da…

— Abbiamo iniziato a uccidere i maiali?

Lui annuì. Provai un senso di disgusto. Erano una speciale razza in miniatura, prodotta in origine per le ricerche di laboratorio. Erano vivaci, puliti, ben educati e assai graziosi. Potevo mangiare i polli. Potevo mangiare le iguane. Ma non ero sicura per quanto riguardava i maiali.

— Sai che cosa ti dico? — fece Pace-con-giustizia. — Ti preparo un piatto senza prosciutto. Dalla tua espressione capisco che sei disposta a recarti danno solo in questa vita. Così… eccoti. — Mi porse un piatto. — Colesterolo e calorie, ma niente karma negativo.

— Grazie — dissi.

Mangiai. Sorse il sole. Il paesaggio all’esterno della cupola divenne visibile.

— È ora di andare — disse la Ivanova.

Tracannai la mia seconda tazza di caffè. Pace-con-giustizia disse: — Arrivederci. — Ci dirigemmo verso le barche.

Nia e l’oracolo erano già lì, ritti sulla banchina, e apparivano a disagio. Nia aveva un arco e mezza dozzina di frecce con penne di un grigio chiaro. Il colore mi ricordava il bipede di Marina, quello che non voleva mangiare.

— Cinque persone su ogni barca — disse la Ivanova. — Ho riflettuto su come dividerci. I nativi dovrebbero stare insieme. Lixia andrà con loro. E anche Agopian e Tatiana. Gli altri di noi prenderanno l’altra barca.

Eddie si accigliò.

— Stai mettendo tutti i politici sulla stessa barca — osservò Derek. — Sarà una cosa saggia?

— Ci daremo fastidio a vicenda — replicò la Ivanova. — Ma gli altri saranno al sicuro.

— Per me va bene — dissi.

— Anche per me — disse il signor Fang. Con lui c’era la sua apprendista. - Probabilmente sarà una sofferenza per la povera Yunqi. Lei non ha alcun interesse per la politica.

La giovane donna arrossì e annuì col capo.

— Ma è un bene per i giovani fare esperienza delle avversità.

Salii sull’imbarcazione e riposi la mia borsa, poi uscii sul ponte. La Ivanova aveva già avviato il motore. Agopian stava mollando gli ormeggi per lei. I due nativi se ne stavano sulla banchina e osservavano. Sembravano interessati e nervosi.

— Avanti — dissi. — Salite.

La barca della Ivanova si staccò dalla banchina e virò, allontanandosi dalla riva con un ampio cerchio. Tatiana avviò il motore della nostra barca. Agopian mollò gli ormeggi. Mi appoggiai al parapetto e per la prima volta da giorni mi sentii rilassata. Ero di nuovo in movimento. Non c’era niente che mi piacesse più che viaggiare.

Seguimmo la prima imbarcazione verso il centro del lago, virando a sud, poi a est, poi a nord. Di fronte a noi c’era la scura valle del fiume.

Angai

Soffiava un po’ di vento. Il lago era screziato di spuma. Davanti a noi e un po’ di lato la barca della Ivanova sobbalzava sulle onde. Ballavamo anche noi. Nia e l’oracolo si tenevano aggrappati al parapetto.

— Questa cosa va veloce — osservò l’oracolo.

— Che cosa la fa muovere? — domandò Nia.

Come spiegare il motore a combustione interna?

— Dentro c’è un fuoco — dissi alla fine.

Lei aggrottò la fronte. — Questo non ha senso. Il fuoco può muoversi, ma non fa muovere altre cose, a meno che non siano vive.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

Nia guardava l’acqua. — Ho visto la pianura in fiamme con tutto che correva davanti al fuoco. Cornacurve e osupai. Ogni specie di uccello e di insetto, quelli che volano e quelli che saltano, tutti che fuggivano davanti al fuoco. Perfino gli assassini scappavano e anche i piccoli animaletti che scavano gallerie sottoterra.

"Ma erano vivi. Il fuoco cambia, non trasporta."

— Forse Derek potrà spiegarlo.

Raggiungemmo l’estremità settentrionale del lago all’incirca a metà mattina. Il vento calò non appena arrivammo fra le piccole isole coperte di foreste. Il cielo si manteneva parzialmente nuvoloso. C’erano chiazze di luce del sole sul fiume e sugli alberi verdi e verdeazzurri.

La barca si muoveva lenta. Tatiana disse: — Sta’ attenta a eventuali detriti.

Dopo un po’ vidi una lucertola. Era in mezzo al fiume e nuotava in modo regolare, la testa fuori dall’acqua. Si riuscivano a vedere gli aculei lungo la schiena, ma nient’altro, e non era facile valutare le dimensioni dell’animale. Doveva essere lunga circa dieci metri.

Aiya! - esclamò l’oracolo. — Sono contento di non trovarmi nella barca di Ulzai.

— Sta andando a sud — osservò Agopian in inglese. — Mi chiedo se sia vero ciò che dicono sulla migrazione.

Entro mezzogiorno avevamo visto cinque lucertole. Erano tutte grosse, e tutte dirette a sud. Soltanto una era fuori dall’acqua e trascinava la sua enorme mole su un argine di fango, diretta a sud come tutte le altre.

La radio crepitò e parlò in russo.

Tatiana disse: — La Ivanova ha avvertito il campo. Se quegli animali decidono di uscire dall’acqua, potranno esserci dei problemi.

Facemmo colazione nella cabina: sandwich e tè. I nativi avevano un quarto di bipede.

— Sacrificato da Marina — disse Agopian. — E cucinato senza niente. Dovrebbe essere innocuo.

— Che gusto ha? — chiesi nel linguaggio dei doni.

L’oracolo fece il gesto che significava "potrebbe essere peggiore".

— Avrebbe bisogno di sale — disse Nia. — E di altre cose. Sarò lieta di trovarmi di nuovo in un villaggio.

Portai fuori del cibo per Tatiana. Lei rimase al timone, guidando la barca con una mano mentre mangiava un sandwich di pesce affumicato.

— Siamo quasi all’affluente. Se le immagini del satellite non mentono, dovremmo poterlo risalire.

Feci il gesto dell’intesa.

Gli altri uscirono sul ponte.

— È frustrante — disse Agopian. — Sono seduto insieme a individui di un altro sistema solare. Ho la mente piena di domande e tutto ciò che posso fare è puntare il dito e fare smorfie.

— Quello continua a fare gesti scorretti — protestò l’oracolo. — E a mostrare i denti.

— Abbiamo deciso che è ignorante, come la maggior parte della tua gente — disse Nia.

All’circa in quel momento notai gli insetti. Avevano ali di un giallo vivace. Ne vidi due svolazzare sopra l’acqua. Altri due erano appoggiati su un tronco che passò galleggiando accanto alla nostra barca.

Agopian indicò col dito un’isola. Gli alberi erano punteggiati di giallo. Altri insetti, posati sul fogliame.

— Sembra di essere in autunno — disse Tatiana. — A casa quando i pioppi incominciano a cambiare colore.

Passammo accanto ad altre isole dove il fogliame era parzialmente giallo. Nugoli di insetti si spostavano sul fiume come foglie al vento. Ma non c’era vento, almeno non sufficiente a spiegare tutto quel turbinare e danzare.

Alcuni insetti si posarono sul tetto della nostra imbarcazione, sul ponte e sul parapetto.

— Che cosa fanno? — chiesi.

— Vanno a sud come le lucertole — rispose Nia. Sembrava contenta. — Li vediamo sulla pianura. Portano fortuna.

Gli insetti si alzarono in volo uno dopo l’altro, riunendosi alla migrazione. Ormai eravamo quasi alla fine. Alcuni ritardatari danzavano nell’aria e la superficie del fiume era punteggiata di insetti, come un fiume sulla Terra cosparso di foglie di pioppi.

La barca della Ivanova virò verso la riva occidentale. La seguimmo, entrando in un nuovo alveo.

— Questo è l’affluente — disse Tatiana.

L’acqua cambiò colore, diventando di un bruno intenso e limpido. Scorreva veloce fra rive scoscese coperte di foreste. Al di sopra degli alberi c’erano scogliere calcaree, che incombevano su entrambi i lati. Stavamo viaggiando quasi in direzione ovest.

All’incirca a metà pomeriggio arrivammo alle rapide. Non erano niente di speciale: una serie di graduali dislivelli. Non si vedevano rocce, soltanto un po’ di schiuma. Ma sbarravano il fiume. Non potevamo proseguire. Sopra di noi una scia di fumo bianco si sollevava a spirale dalla sommità della parete della valle.

L’altra barca virò verso la riva. La seguimmo, avvicinandoci lentamente all’argine. Agopian avanzò carponi e legò la nostra prua a un albero che si sporgeva sul fiume. Avvolsi una seconda cima da ormeggio attorno a un alberello vicino alla poppa. Il motore si arrestò. Sentii lo stormire delle foglie, le grida degli uccelli. I muscoli del mio collo si rilassarono.

— Hai notato — dissi — come il rumore delle macchine sia irritante?

Lui parve sorpreso. — Se è così, siamo nei guai nello spazio.

Aveva ragione. Ogni nave e ogni stazione erano piene del rumore delle macchine.

Nia disse: — Stavo pensando.

Feci il gesto che significava "continua".

— Non è una buona idea mostrare a chiunque troppe cose strane tutte insieme. Tu vieni nel villaggio con me. Se c’è Angai, e dovrebbe esserci, le spiegheremo del tuo popolo. Lei è in grado di decidere che cosa fare. Forse permetterà agli uomini di entrare.

— Okay.

Scendemmo dalla barca.

Eddie venne verso di noi lungo la riva. — Ho parlato con la Ivanova e il signor Fang. Pensiamo che dovresti andare tu su al villaggio, da sola o con Nia. — Sorrise. — La Ivanova è preoccupata per Nia, visto che ha avuto un difficile rapporto con la sua gente. Ma io voglio che vada. Il signor Fang pensa che dovremmo lasciar decidere a te e a Nia.

Diedi un’occhiata a Nia. — Le persone sull’altra barca hanno avuto la stessa idea. Vogliono che andiamo noi due.

— È difficile capire la tua gente, Li-sa. Quando incomincio a pensare che siete normali, fate qualcosa di assolutamente insensato. Quando decido che siete davvero pazzi, prendete una decisione come questa, che è normale e giusta. Non so mai che cosa aspettarmi.

Feci il gesto che significava "forse è così".

Ci facemmo strada fra gli arbusti sull’argine del fiume. Al di là c’era una pista. Nia la prese e io la seguii su per la scogliera del fiume.

In cima c’era una pianura, quasi piatta in quel punto. Era spazzata da un vento irregolare che cambiava spesso direzione. La vegetazione mutava colore con il movimento delle foglie. Marrone chiaro. Giallo. Grigioverde. Grigio argento. I colori si muovevano per la pianura, attraverso luce e ombra, illuminandosi e offuscandosi.

Nia disse:


"Ora, finalmente,

c’è abbastanza spazio.


"Aiya!

C’è spazio!


"La mia persona interiore

può raddrizzarsi.


"La mia persona interiore

può espandersi."


Alla nostra sinistra, in lontananza, c’era un villaggio di tende e di carri. Il fumo saliva da molti fuochi. Oltre il villaggio, a nord e a ovest, la pianura era costellata di animali. Cornacurve. I margini della mandria. O questi erano semplicemente gli animali domestici?

— Muoviamoci — disse Nia. — Voglio che questo incontro finisca alla svelta.

C’erano bambini che giocavano ai margini del villaggio: una dozzina circa. Alcuni portavano gonnellini, altri erano nudi, fatta eccezione per alcuni ornamenti di diverso genere: cinture fatte di cuoio e ottone, braccialetti di rame, collane di perline dai vivaci colori.

I bambini erano organizzati in due file, che si fronteggiavano. Fra le file c’erano due bambini con in mano un bastone. I bambini delle file lanciavano avanti e indietro una palla; i bambini con i bastoni cercavano di buttarla giù.

Riuscii a capire solo questo prima che i bambini ci vedessero. Uno gridò. Altri due fuggirono. Gli altri si voltarono a fissarci.

Nia disse: — Questa persona ha un aspetto strano, ma è più o meno normale. Ce ne sono altre come lei più sotto, lungo il fiume. Sono venute in visita. Hanno bei doni e storie interessanti.

— Uh! — esclamò uno dei ragazzini. Non riuscii a capire se fosse un maschio o una femmina. Era alto e snello, con la pelliccia color castano dorato e un gonnellino giallo, ricamato con filo blu scuro. Il bambino, o bambina che fosse, portava un paio di braccialetti d’argento, uno per polso, e teneva in mano un bastone. — Sei sicura che non siano demoni?

— Ho viaggiato con questa persona per tutto il tragitto dalla foresta orientale. Non ha mai fatto niente che fosse minimamente demoniaco. È una buona amica.

— Uh! — ripeté quello. — È meglio che veniate con me. La mia madre adottiva è la sciamana.

— Come ti chiami? — chiese Nia.

— Hua.

— Io sono Nia.

La bambina — perché ora sapevo che era una femmina — si era voltata, pronta a guidarci. Ora si girò di nuovo, osservando Nia con i grandi e limpidi occhi gialli.

— Come sta tuo fratello? — s’informò Nia.

— Si sta facendo difficile. Angai dice che si sta avvicinando il cambiamento.

Nia aggrottò la fronte. — Non è troppo giovane?

— Avverrà presto. Ma non tanto presto. Sei stata lontana per molto tempo.

— Questo è vero — disse Nia.

La bambina ci condusse nel villaggio. Le tende ai margini erano piccole e molto distanti fra loro. Non vidi nessuno lì attorno.

— Che cosa sono? — chiesi.

Nia rispose. — Appartengono agli uomini. Quelli vecchi, che sono tornati nel villaggio.

— Non vedo nessuno. Dove sono?

— A caccia. O forse seduti dove nessuno li vede. Gli uomini alzano le loro tende in modo che l’entrata guardi verso la pianura. Se sono in casa, saranno… — Fece un ampio gesto circolare.

— Che cos’ha che non va questa persona? — domandò Hua. — Non sa niente?

— Non molto — rispose Nia.

Quando ci addentrammo di più nel villaggio, vidi che le tende erano più grandi e più vicine fra loro. Erano fatte di cuoio steso su una serie di pali. Ogni tenda aveva da sei a otto punte. Sebbene fossero spaziose, non erano particolarmente alte; somigliavano più a una catena montuosa che a un tipì.

I lembi erano aperti, sorretti da pali in modo da formare dei ripari che facevano ombra alle entrate. C’erano donne sedute sotto questi ripari, e bambini che giocavano nelle strade.

Le donne gridavano verso di noi in una lingua che non capivo. Hua rispondeva nella stessa lingua. Le donne si alzarono, abbandonando il loro lavoro. Radunarono i bambini e ci seguirono. Ben presto ci trovammo alla testa di una processione.

— Che cosa succede? — chiesi.

— Si stanno informando su di noi. Hua sta dicendo loro di venire ad ascoltare mentre Angai scopre che cosa sei.

— Oh.

Nia aggiunse: — Non mi piace essere seguita.

Feci il gesto dell’approvazione.

Appariva evidente che il villaggio si trovava da poco tempo in quel luogo. Fra le tende e sotto i carri crescevano piante e sbocciavano fiori. Gli insetti saltellavano e ronzavano. Un cornacurve legato mangiava le foglie di un arbusto in mezzo a quella che sembrava essere la strada principale.

Passammo accanto all’animale. Quello smise di mangiare e ci guardò, poi alzò la coda e defecò.

Un altro segno che il villaggio era recente. Avevo visto pochissimi rifiuti e sterco.

Osservai i carri. Erano dappertutto, sparpagliati fra le tende. Avevano una struttura principale rettangolare fatta di legno e la copertura curva fatta di cuoio steso su un’intelaiatura di legno. I lati erano intagliati in modo elaborato. La parte superiore era decorata con strisce di stoffa dai vivaci colori che pendevano sul davanti e sul retro, formando tende di nastri che ondeggiavano al vento: rossi, gialli, azzurri, verdi, arancione. Ogni carro aveva quattro ruote, tenute insieme con ferro. I raggi erano intagliati e dipinti.

Attraversammo uno spazio aperto, pieno di altre piante. Hua si fermò di fronte a una tenda. Era grande e c’erano pali tutt’attorno: insegne. Una rappresentava un albero di metallo, pieno di uccelli d’oro e d’argento. Dai rami inferiori pendevano campanelle che si muovevano al vento e suonavano.

— Quella la conosco — disse Nia. — L’ho fatta io. — Si guardò le mani. — È da troppo tempo che viaggio. Ho bisogno di avere di nuovo degli utensili.

Le altre insegne erano animali fatti di bronzo o di ottone: un cornacurve, un assassino-delle-pianure, un bipede.

— Le altre le ha fatte la mia madre di nome — disse Hua. — Sono molto vecchie.

La maestra di Nia. Adesso me ne ricordavo. — L’hai conosciuta? — domandai alla ragazzina.

Hua assunse un’aria scandalizzata. — No! Mai! Come puoi fare una domanda simile? Che cosa intendi dire con questo?

— Questa persona viene da molto lontano — spiegò Nia. — La prima volta che l’ho incontrata, non conosceva il linguaggio che stiamo parlando. A volte penso che non lo conosca ancora. Non preoccuparti troppo delle cose che dice.

Hua fece il gesto del tacito consenso, ma sembrava preoccupata.

Una donna uscì dalla tenda. Era alta e magra e indossava una veste lunga color arancione. Il suo pelame era di un bruno scuro screziato di grigio, anche se non mi sembrò che fosse vecchia. Aveva indosso almeno una dozzina di collane fatte in oro, argento e ambra. Braccialetti le coprivano le braccia dal polso al gomito. Come le collane, erano una mescolanza di oro, argento rame e avorio. Ce n’erano perfino un paio di legno intagliato. Aveva una borchia d’oro nel fianco del naso basso, piatto e peloso.

Ci osservò, poi si rivolse a Nia. — Non riesci mai a comportarti in modo accettabile? Perché sei tornata qui? E dove hai scovato una persona come quella?

— Questa è la mia madre adottiva — spiegò Hua.

— Il suo nome è Angai — disse Nia. Fece un cenno della mano nella mia direzione. — Questa persona si chiama Li-sa. L’ho incontrata nell’est, nel villaggio del Popolo del Rame della Foresta. Era là che vivevo.

— Questa non è una Persona del Rame — ribatté Angai.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Non so da dove venga. Da molto, molto lontano, mi ha detto. Ma l’ho incontrata nel villaggio del Popolo del Rame, nella casa della loro sciamana, Nahusai.

Alle mie spalle la gente mormorò. Un neonato si mise a piangere.

— Ci sono altre persone senza pelo a valle del villaggio su due imbarcazioni. Chiedono il permesso di venire quassù.

Angai si accigliò — Che cosa hai raccontato loro di noi, Nia? Hai mentito? Noi accogliamo sempre gli ospiti! Non c’è ragione perché aspettino giù a valle. — Fece una pausa. — A meno che non siano ammalati. È questo che è successo al loro pelo?

— Quattro di loro sono uomini.

— Sediamoci — disse Angai. — Qui sotto il lembo della tenda. Non c’è motivo di stare scomode mentre parliamo.

Ubbidimmo. Anche Hua. Angai le rivolse un’occhiata severa. — Non sono certa che questo sia un argomento per bambini.

— L’intero villaggio è qui. Stanno ascoltando tutti.

Angai fece il gesto che significava "molto bene". — Ma sta’ in silenzio! Fa’ attenzione! Impara quello che fa una sciamana!

Hua fece il gesto dell’assenso.

— Ora. — Angai guardò Nia. — Spiegami che cos’è tutta questa faccenda.

— Queste persone sono diverse. Non si tratta soltanto della mancanza di pelo. Guarda i suoi occhi. — Puntò il dito verso di me. — Sono bianchi e marroni come il terreno all’inizio della primavera, quando la neve incomincia a sciogliersi. Chi ha mai visto occhi come questi? Guarda le sue mani. Ha due dita in più, e non sono deformi. Tutta la sua gente ha due dita in più. Amica della mia infanzia, tira un respiro! Hai mai sentito una persona che odori così prima d’ora?

Angai annusò. — No.

Nia si protese in avanti. — Lei non è una persona nel modo in cui lo sei tu, Angai.

Aprii la bocca per protestare, poi la richiusi. Nia era tutt’altro che una stupida. Doveva avere un motivo per quello che faceva.

— Loro hanno utensili diversi dai nostri. La loro lingua ha il suono di un animale che soffia e cinguetta.

"Però…" Nia fece una pausa. "Hanno utensili e hanno una lingua. Non sono animali. E non sono neppure spiriti. Non credo che siano demoni. Sono persone assolutamente strane e sconosciute."

Angai fece il gesto che significava "questo è possibile".

— Fra queste persone gli uomini non sono solitari, ma vivono insieme alle donne.

Aiya! - esclamò una donna. Altre gridarono: — Uh!

Angai fece il gesto che esigeva silenzio. — Continua.

— È per questo motivo che stanno aspettando. Sanno che noi abbiamo usanze diverse. Non vogliono far arrabbiare il Popolo del Ferro. Non vogliono mostrare mancanza di rispetto né essere disonesti.

— Ma vogliono venire nel villaggio — disse Angai.

Nia mi rivolse un’occhiata.

— Sì — dissi. — Loro… noi… abbiamo una difficoltà. Una controversia che non siamo in grado di appianare. Vogliamo il vostro consiglio, il consiglio del tuo popolo.

— Non c’è da stupirsi che bisticcino — saltò su a dire una donna. — Uomini e donne insieme! Che perversione!

Un’altra donna aggiunse: — Salvo che nel periodo dell’accoppiamento.

— I cornacurve si accoppiano in autunno — disse Angai. — E ci sono animali che hanno due o tre figliate in un’estate. Siete così? È questo il vostro periodo dell’accoppiamento?

Esitai.

Nia disse: — Ho osservato con attenzione queste persone e le ho ascoltate. È mia opinione che siano sempre pronte ad accoppiarsi.

Dal pubblico si levò un’altra serie di esclamazioni. Angai fece il gesto che esigeva silenzio. Restammo tutti in attesa. Lei aggrottò la fronte. — Sei sicura che queste siano persone, Nia?

— Sei tu la sciamana. Questa ti sembra uno spirito? Un demonio? O uno spettro?

Angai mi toccò il braccio. — È solida. Siamo in pieno giorno. Non può essere uno spettro.

— E se fosse un demonio? — chiese una delle donne del villaggio. — Loro sono solidi. Possono uscire alla luce del sole.

Angai mi fissò. — Ho visto demoni nei miei sogni. I loro occhi ardono come fuoco. Le loro mani e i loro piedi hanno lunghi artigli ricurvi. Per il resto sono simili alle persone. Non ho mai sentito parlare di un demonio senza pelo. — Fece una pausa. — Sei sicura che non siano spiriti, Nia?

— Gli spiriti hanno molti travestimenti — disse Nia. — Perfino una donna esperta può non riuscire a scoprirli. Ma ho viaggiato con queste persone per tre cicli della grande luna. Non hanno mai cambiato forma. Non hanno mai cambiato dimensioni. Mangiano. Dormono. Producono sterco e urina. Il loro sterco e la loro urina sono comuni, sebbene non emanino esattamente lo stesso odore dei nostri. Anche quando sono adirati, anche quando sembrano essere in pericolo, non fanno niente di spiritico.

Angai fece un gesto che non conoscevo. — Non sono animali. Non sono spiriti. Non sono spettri né demoni. Dunque devono essere persone. Ci hanno chiesto aiuto. È mia opinione che dovremmo aiutarli. Hanno chiesto di venire nel nostro villaggio. È mia opinione che dovremmo dar loro il permesso.

Una donna parlò ad alta voce, ma non nel linguaggio dei doni.

Angai alzò una mano. — Loro non sono come noi. Non possiamo giudicarli nello stesso modo in cui giudichiamo noi stessi.

Parecchie donne parlarono nella lingua tribale. Mi voltai a guardare la folla.

Il sole ormai era basso. Raggi di luce, quasi orizzontali, risplendevano fra le tende, illuminando lo spiazzo, la vegetazione e le persone: robuste matrone, vecchie curve, ragazze flessuose, numerosi bambini. Le donne adulte sbraitavano e gesticolavano. I loro gioielli scintillavano.

Conoscevo la maggior parte dei gesti. "Sì." "No." "Hai torto o sei pazza." "Siamo d’accordo." "L’accordo è assolutamente impossibile."

Tornai a guardare Angai. Lei osservava e ascoltava, il volto inespressivo.

— Che cosa sta succedendo? — domandai a Nia.

— Alcune di loro sono d’accordo con Angai. Altre no. Grideranno tutte finché non si saranno stancate.

Mi voltai a guardare la folla. La discussione proseguì. I bambini, quelli più grandicelli, se ne andarono alla chetichella, evidentemente annoiati. I bambini più piccoli incominciarono a piangere. Le loro madri li presero in braccio, li abbracciarono e li cullarono.

Le altre donne continuarono la discussione, ma con meno impeto a questo punto. Le voci si erano fatte più sommesse, i gesti meno ampi.

La luce abbandonò gradualmente lo spiazo. Solo le sommità delle tende erano illuminate, e le punte delle insegne di metallo. L’oro, l’argento e il bronzo luccicavano contro il cielo, che era limpido e di un intenso verdeazzurro.

Alla fine regnò il silenzio rotto solo dal piagnucolio dei neonati e dalle voci acute e chiare di un gruppetto di bambini che avevano dato inizio a un nuovo gioco.

Hai! Hai! Ah-tsa-hai!

Le donne guardavano Angai, che parlò con voce alta e ferma.

Le donne risposero con gesti di dubbiosa approvazione.

Angai mi guardò. — La giornata è quasi finita. È una cattiva idea incominciare qualcosa di importante al buio. Pertanto, ti chiedo di fare ritorno presso le vostre barche. Torna domattina con tutti. Tutta la tua gente. Ascolteremo il vostro problema.

Feci il gesto della gratitudine e mi alzai in piedi.

— Tu, Nia. — Angai guardò la mia compagna. — Va’ con la persona senza pelo. La gente qui ti conosce da troppo tempo. Dimenticherà che ora sei una straniera e non ti tratterà con la cortesia dovuta a una viaggiatrice.

Nia fece il gesto dell’assenso.

Hua disse: — Voglio andare con loro.

Angai si accigliò.

— No — ribatté Nia. — Non voglio che la gente dica che sei uguale a me.

— Nia ha ragione — dichiarò Angai. Guardò la figlia adottiva. — Domani vedrai le persone senza pelo. Questa notte resterai qui.

Hua fece il gesto della riluttante acquiescenza. La folla si divise. Nia e io vi passammo in mezzo.

Aiya! - esclamò Nia. — Che giornata!

Scendemmo lungo la scogliera. Le luci sulla prima imbarcazione erano state accese. Tenui e regolari, illuminavano il ponte scoperto sulla parte posteriore della barca. L’oracolo se ne stava seduto lì, rosicchiando la zampa anteriore di un bipede. Alzò lo sguardo quando salimmo a bordo. — Che cosa è successo? Ti sei procurata del cibo?

— No — rispose Nia.

— È meglio che ti sbrighi. È finito tutto a parte questa e il cibo della gente di Lixia.

— Non mi hai lasciato niente?

— Credevo che avresti mangiato al villaggio.

Aiya!

Lui le porse l’osso.

Nia fece il gesto dell’espansiva gratitudine. Aprii la porta della cabina. Dentro c’erano Agopian e la Ivanova che giocavano a scacchi.

Agopian alzò lo sguardo. — Siete tornate?

— Uuh. È andato tutto bene. Possiamo recarci al villaggio domani. Tutti quanti.

— Congratulazioni. — La Ivanova rovesciò il proprio re. — Mi arrendo. Non posso fare niente con i miei pedoni.

Agopian sorrise. — Uno dei nostri pedoni è diventato un socialista rivoluzionario e ha convinto gli altri a costituire un soviet, il che significa, naturalmente, che al bianco non sono rimasti comuni soldati.

— E il rosso vince — disse la Ivanova in tono cupo.

— Di che cosa state parlando?

— Scacchi brechtiani. — Agopian incominciò a mettere via i pezzi. — Sono stati chiamati così in onore del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che sosteneva che il normale gioco degli scacchi fosse noioso. I pezzi dovrebbero cambiare a seconda di dove si trovano sulla scacchiera e del tempo da cui sono lì. È stato un pazzoide di nome Robik a inventare realmente il gioco agli inizi del Ventiduesimo Secolo.

— È un gioco assolutamente irritante — osservò la Ivanova.

— Carlo Marx odiava perdere agli scacchi. La cosa non infastidiva Lenin, almeno secondo Gorki. — Agopian ripiegò la scacchiera, poi la ripiegò una seconda volta. — Lenin era interessato al modo in cui perdeva e questo gli impediva di adirarsi per il fatto di avere perso. Sosteneva che gli scacchi gli insegnavano parecchio sulla strategia e la tattica. Ma dovette rinunciarvi. Interferiva con la sua attività rivoluzionaria.

— Dove sono tutti gli altri? — chiesi.

— Sull’altra barca. Il signor Fang sta preparando la cena. Iguana con peperoni rossi e cipolle verdi. Noi volevamo finire la nostra partita.

— Anche se non so perché — disse la Ivanova. Si alzò e si stiracchiò.

— Pensavi che avresti vinto, compagna, quando il mio commissario ha incominciato a manifestare preoccupanti tendenze revisioniste.

— Commissario? — dissi.

Agopian sorrise. — Robik voleva sbarazzarsi degli elementi feudali nel gioco degli scacchi. Ha trasformati i cavalli in commissari.

— Non dirmi altro.

— Non lo farò. Vieni a cena?

— No.

— C’è della birra nella cambusa e il necessario per fare dei sandwich. — Uscì sul ponte.

La Ivanova lo seguì, indugiando sulla porta. — Hai fatto un ottimo lavoro, Lixia.

Feci il gesto che indicava l’umile accettazione di una lode.

Se ne andò. Presi una birra e la bevvi, poi mi preparai un sandwich. Me lo portai fuori sul ponte insieme a un’altra birra.

Nia e l’oracolo erano ancora lì. — Avete avuto abbastanza da mangiare?

— Io sì — rispose l’oracolo. — Ma Nia sarà affamata quando si sveglierà.

Nia fece il gesto che significava "niente di grave".

Mi sedetti di fronte ai due nativi. — Nia, perché tua figlia era turbata quando le ho chiesto se aveva conosciuto la vecchia Hua?

— Ahi! — esclamò l’oracolo. — Le hai chiesto quello?

— Sì. Che cosa c’è di male in questa domanda?

— Nessuno dà mai a una bambina il nome di una donna ancora viva — mi spiegò Nia. — Se una donna incontra la propria madre di nome, significa che incontra un fantasma.

Dissi: — Uh! — e bevvi ancora un po’ di birra, poi chiesi: — Questo vale anche per gli uomini?

— No — rispose l’oracolo.

Nia aggiunse: — Ai figli maschi vengono dati nomi di uomini che hanno lasciato il villaggio. Di solito il nome di un fratello della madre. A mio figlio è stato messo il nome di mio fratello Anasu. Per quanto ne so, è ancora vivo. — Esitò. — Lo spero. — Guardò l’osso che teneva in mano. Era completamente ripulito. Non rimaneva nemmeno un frammento di carne. — Quando mio figlio lascerà il villaggio, potrà anche incontrare Anasu. Non sarà niente di particolarmente spaventoso.

— A meno che non cerchino di rivendicare lo stesso territorio — disse l’oracolo.

— È assai improbabile. — Nia gettò a terra l’osso, che sbatté sul ponte con un rumore secco. — Mi prenderò una coperta e dormirò lassù. — Indicò la prua dell’imbarcazione.

— Va bene — dissi.

Si alzò rigidamente, come se si fosse affaticata molto con qualche lavoro fisico. Be’, un giorno anch’io avrei scoperto che effetto faceva tornare a casa.

Finii la birra, andai nella cabina e aprii un letto.

— Mi serve una coperta — disse l’oracolo.

Ne presi una per lui. Se la portò fuori. Mi svestii e mi coricai. Restai per un po’ di tempo a pensare alla giornata: le tende e i carri, le persone, in particolare i bambini. Che cosa si doveva provare ad avere una figlia? Allungai la mano verso il pulsante sulla parete sopra di me, lo schiacciai e la luce si spense.

Udii la voce di Derek: — Non sei venuta a riferire ieri sera. Siamo rimasti delusi, Lixia.


Aprii gli occhi. La cabina era piena di persone: Derek, Ago-pian, Tatiana.

— Dovete stare tutti qui dentro? — domandai.

— Disponiamo di spazio limitato al momento — rispose Derek.

Agopian annuì col capo. — Due barche e un pianeta.

— Che cosa è successo al villaggio? — s’informò Tatiana.

— L’ho raccontato ad Agopian. La sciamana, il suo nome è Angai, ha accettato di aiutarci con il nostro problema. Scusatemi. — Andai nella stanza da bagno.

Quando tornai, la cabina era stata riordinata. I letti erano di nuovo divani. Le sedie e i tavoli erano stati aperti. Derek e Agopian stavano disponendo dei piatti.

Agopian mi lanciò un’occhiata. — Stiamo servendo una colazione all’americana su questa barca. Il solo cibo decente che ho mai mangiato in America era servito a colazione. Anche se l’hamburger ha un certo je ne sais quoi. Così come gli hot dog di Coney Island. Yunqui sta servendo una colazione cinese sull’altra barca. Ho sentito dire che è una pessima cuoca.

— Gli armeni sono tutti cibodipendenti?

— Questa è una domanda razzista. — Finì di apparecchiare la tavola. — Ci piace mangiare. Molti di noi sono morti di fame nel corso dei secoli.

— Forse vorrai andare fuori — mi disse Derek.

— Perché?

— Il figlio di Nia è qui.

Uscii sul ponte. Nia e l’oracolo erano seduti attorno a una pentola di metallo piena di stufato. Mangiavano, tirando fuori grossi pezzi di carne con le dita, e indossavano indumenti nuovi. Niente di straordinario. Nia aveva indosso una tunica verde scuro, priva di ornamenti a parte un’unica striscia di ricami gialli attorno al collo. L’oracolo portava un gonnellino arancione rossiccio totalmente privo di ricami.

— Dov’è Anasu? — chiesi.

Lei me lo indicò col dito.

Il ragazzo era seduto sul parapetto. Era alto quanto l’oracolo, ma era meno robusto di aspetto e aveva la pelliccia di un bruno molto scuro. I suoi occhi erano grigi. Non avevo mai visto quel colore in un nativo prima di allora.

Il suo gonnellino era grigioazzurro. Portava stivali fatti, ne ero quasi certa, per cavalcare, non per camminare. Erano alti fino al ginocchio, di un cuoio grigio sottile e flessibile che faceva borse alle caviglie. I talloni erano guarniti con borchie d’argento. La cintura aveva una fibbia d’argento. Infine portava quattro sottili braccialetti d’argento, due su ogni polso.

Nia disse: — È arrivato ieri sera, quando tutti dormivano già. Mi ha svegliata. Gli ho detto che ero affamata. È andato a procurarsi del cibo.

L’oracolo fece il gesto della gratitudine, senza smettere di masticare.

Il ragazzo disse: — Ieri ero via, fuori sulla pianura, a caccia. Quando sono tornato, Hua mi ha detto che nostra madre era tornata. Angai mi ha detto di lasciarla in pace. Non le ho dato ascolto. Sarò un uomo, se non quest’inverno, l’inverno successivo. Non sono le voci delle donne che mantengono in vita un uomo sulla pianura. È la propria voce. Quella che sente nella mente quando la sua lingua tace.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.

— Ci ha portato anche dei vestiti — disse Nia.

— Ho visto che aspetto aveva mia madre. Trasandato! E straniero! Non capisco proprio che cosa stia succedendo. E voi chi siete, in ogni caso? Perché avete bisogno dell’aiuto della nostra sciamana?

Aprii la bocca per spiegare. Il ragazzo sollevò una mano.

— Ma so che Nia c’entra qualcosa e mi sembra che dovrebbe essere vestita con abiti decenti.

— Quanti anni hai? — gli chiesi.

— Tredici. Tutti dicono che sono cresciuto in fretta. Non so se sia una buona cosa. La gente si aspetta che lasci presto il villaggio. Credo che non mi dispiaccia.

— Non deve dispiacerti — disse Nia. — Tuo padre si è messo nei pasticci perché non voleva lasciare il villaggio.

— Ne ho sentito parlare. — Il ragazzo s’interruppe e volse il capo, poi saltò giù dal parapetto.

Ci fu un movimento fra il fogliame. Eddie salì sull’imbarcazione. — Buongiorno, Lixia. — Rivolse un’occhiata al ragazzo. — Il figlio di Nia?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Presentami.

Lo feci.

Il ragazzo lo scrutò dalla testa ai piedi. — Questo è un uomo?

— Sì.

— È un uomo grande e grosso — commentò il ragazzo.

Eddie indossava jeans, una camicia color turchese e un gilè ricoperto di guarnizioni di perline. Il gilè era Anishinabe: un disegno ben delineato di fiori dai vivaci colori. Le perline erano minuscole, di vetro. Luccicavano alla luce del primo mattino. I capelli erano legati in due trecce. La fibbia della cintura era in oro e turchese. Naturalmente era un uomo grande e grosso. Feci il gesto dell’affermazione.

— C’è la probabilità che affronti qualcuno? — s’informò il ragazzo.

— No.

Il ragazzo fece il gesto che significava "bene".

Nia si alzò. — Non l’hai sentito dire al villaggio? Queste persone non sono come nessun altro popolo.

— L’ho sentito dire — rispose il ragazzo.

Agopian si sporse dall’uscio della cabina. — La colazione è pronta.

— Questo è un altro maschio — disse Nia.

— Sei veramente sicura che non si affronteranno? — chiese il ragazzo.

— Sì.

— Uh!

L’oracolo alzò lo sguardo. — Quello piccolo non recederà e non fuggirà, benché sia evidente che non potrebbe tenere testa a Eddie.

— Noi dobbiamo mangiare — dissi nel linguaggio dei doni.

L’oracolo fece il gesto che significava "andate".

Eddie e io entrammo nella cabina. Sul tavolo c’era già un piatto di panini, tostati e imburrati. Derek stava appoggiando un piatto di uova strapazzate. Tatiana uscì dalla cambusa portando una caffettiera piena.

— La Ivanova rimane sull’altra barca — disse Eddie. — Credo che stia cercando di guadagnare punti con i cinesi mangiando la loro colazione.

— Mai anteporre la politica alla digestione — osservò Agopian. Si sedette e allungò la mano per prendere un panino.

Mangiammo in silenzio, consapevoli, credo, della presenza degli alieni all’esterno. Le loro voci ci giungevano attraverso la porta aperta, basse e tranquille, mentre parlavano la lingua della loro tribù.

Tatiana sparecchiò la tavola. Eddie lavò i piatti e io li asciugai. Arrivò la Ivanova e parlò con Tatiana in russo. Guardai fuori dalla cambusa. Era evidente che discutevano, parlando in tono sommeso e attento, entrambe accigliate. Agopian ascoltava e non diceva niente.

Finimmo con i piatti.

La Ivanova disse: — Ci sono stati rumori nel bosco. Voci. Ho visto un paio di bambini fra gli alberi, che ci osservavano e non facevano niente. Ma non credo che sarebbe una buona idea lasciare le barche incustodite.

— Io devo rimanere — disse Tatiana. — E anche Yunqi. Voi altri dovete andare tutti al villaggio. Ho fatto un viaggio così lungo e adesso mi tocca fare il cane da guardia mentre a poche centinaia di metri di distanza si fa la storia.

— Potrebbe rimanere Agopian — suggerii.

Agopian disse: — Non ti perdonerò mai questa osservazione.

La Ivanova scosse il capo. — Lui è uno storico. Voglio che venga con noi.

Uscii sul ponte e guardai verso l’alto. Il cielo era sereno se si escludeva un gruppetto di nuvole. Avevano la forma di squame ed erano disposte in tante file.

— Nuvole a pelle di lucertola — disse Nia. Si alzò in piedi, poi si chinò e mise un coperchio sulla pentola dello stufato. L’impugnatura era fatta a forma di bipede, un carnivoro, chino e impegnato a mangiare un altro bipede che giaceva morto, un rilievo sul coperchio ricurvo.

Il ragazzo era sparito.

Feci il gesto della domanda.

— Gli ho detto che dovremmo essere presto al villaggio. È andato avanti.

La Ivanova uscì. — È meglio che andiamo.

La seguii sulla riva. I nativi mi vennero dietro. Il signor Fang era sulla pista, appoggiato a un bastone da passeggio. Gli altri ci raggiunsero: Agopian, Eddie, Derek, che si era cambiato. Adesso era vestito completamente di bianco: jeans aderenti e una camicia ampia e sottile. Le maniche erano a pieghe sciolte. Le spalle erano ricoperte di ricami, bianco su bianco.

— Dove te la sei procurata? — gli chiesi. — Non al reparto approvvigionamento.

— Un baratto.

Le sue scarpe erano di tela bianca assai riflettente, guarnite di cuoio bianco. Scintillavano e balenavano perfino nell’ombra della foresta.

— Mmm! — esclamò Eddie.

Salimmo su per la scogliera. Nia ci precedette nel villaggio. Era deserto. Il vento sollevava polvere e la spingeva attorno a noi. Le campanelle sulle insegne metalliche tintinnavano.

Agopian disse: — Dove sono tutti quanti?

Derek fece il gesto che significava che non lo sapeva.

Arrivammo nello spazio aperto: la piazza del villaggio. Era piena di persone: donne e bambini, tutti elegantemente vestiti. Ovunque guardassi, vedevo vivaci colori, ricami, gioielli.

Una donna gridò. Tutti si voltarono a guardarci.

Aiya! - disse l’oracolo. — Devo andare lì in mezzo?

— Puoi tornare indietro — gli rispose Derek.

— No. Il mio spirito mi ha ordinato di restare con voi.

La folla si divise. Vi passammo in mezzo. L’oracolo teneva il capo chino e non guardò nessuno finché non arrivammo di fronte ad Angai.

Lei era ritta davanti alla propria tenda, sotto il lembo che fungeva da riparo. C’erano tanti di quei ricami sulla sua veste che non riuscivo a distinguere il colore del tessuto sottostante.

I suoi gioielli erano meno solenni: una borchia d’oro nel naso e una collana che sembrava dover appartenere a una ragazza. Ogni maglia era un piccolissimo e delicato uccello d’argento. Non certo la cosa adatta a una sciamana di mezza età, abbigliata per un importante evento sociale.

— Sedetevi. — Parlò con voce alta in modo che tutti potessero sentire. — Riferitemi il vostro problema. Il villaggio ascolterà. Faremo quello che potremo.

C’erano coperte distese sotto il riparo. Angai fece un gesto e noi ci sedemmo.

Le abitanti del villaggio si avvicinarono. Le vecchie erano le più vicine. Si sedettero per terra. Dietro di loro c’erano le matrone. Non riuscivo a vedere le ragazze o i bambini. Ma sentivo le voci dei bambini, voci acute che gridavano: — Tsa! Tsa! Tsa!

Angai disse: — Cominciate.

Mi presentai, poi presentai gli altri umani.

— Di che sesso sono? — domandò Angai.

Glielo dissi.

— Quattro uomini — dichiarò Angai. — Uno di loro sembra vecchio. È esatto?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Ma gli altri tre?

— Non sono né vecchi né giovani.

— Due di loro — guardò di sfuggita Derek ed Eddie — hanno l’aspetto di uomini notevoli. Il modo in cui si vestono è notevole, così come il loro portamento.

— Sì.

— Ma sono capaci di stare seduti fianco a fianco, e anche accanto a donne e a un paio di uomini piccoli, senza fare nulla.

— Sì.

— Nia ha ragione. La tua gente è molto diversa. — Guardò l’oracolo. — Li-sa non mi ha detto il tuo nome. Chi sei e perché viaggi con la gente senza pelo? Perché sei venuto in questo villaggio? Sei un pervertito?

— No. Io sono santo e pazzo. Il mio nome è la Voce della Cascata. Appartengo al Popolo del Rame della Pianura. Sono un oracolo. Viaggio con la gente senza pelo perché me l’ha ordinato il mio spirito. Sono venuto in questo villagio, o sciamana, perché sono venute queste persone. Non le lascerò finché non riceverò indicazioni dal mio spirito.

Angai aggrottò la fronte. — Non ho mai sentito di uno spirito che usasse un uomo per parlare. Ma le vecchie sostengono che più un villaggio è lontano, più le cose vengono fatte in modo sbagliato. Il Popolo del Rame è molto lontano da qui. — Tornò a rivolgersi a me. — Qual è il vostro problema? Parlamene! Forse se saprò che genere di cose vi preoccupano, riuscirò a capirvi meglio. — Si volse verso Nia. — Tu!

Nia fece il gesto che significava che stava ascoltando con rispetto.

— Presta molta attenzione! Se la donna senza pelo dice qualcosa che a te non sembra giusto, parla francamente. Dimmelo!

— Sì.

— Okay — feci io in inglese. — È pronta ad ascoltare il problema.

— Parlerò io per primo — disse il signor Fang. — Ti prego di continuare a tradurre, Lixia.

Feci il gesto dell’assenso.

Lui sembrò perplesso. Annuii col capo e lui incominciò.

— Per prima cosa, ringrazia Angai per la sua accoglienza. "Spiegale che veniamo da molto, molto lontano.

"Dopo essere giunti su questo pianeta… in questo luogo… si è creata fra noi una divergenza di opinioni. Pertanto, abbiamo deciso di rivolgerci a persone al di fuori della nostra spedizione."

Tradussi.

Angai fece il gesto dell’approvazione. — Quando due donne non riescono a mettersi d’accordo, devono rivolgersi a una terza. Agire in modo diverso sarebbe agire come uomini. — Aggrottò la fronte, ricordando evidentemente che il signor Fang era un uomo. — Va’ avanti.

Il vecchio esitò. Puntini di luce riflessa danzavano sulla sua pelle bruna e sul suo vestito di cotone blu scolorito. La luce proveniva dalle decorazioni appese ai bordi del riparo: catene di bronzo che terminavano in piccoli pesci piatti e uccelli. Si muovevano al vento, emettendo un sommesso tintinnio. Oggi i capelli del vecchio erano sciolti e si muovevano a loro volta, sollevandosi quando il vento soffiava sotto il riparo: a ciuffi, disordinati, di un grigio biancastro. — Non è facile. Come si possono rimuovere le idee dal loro contesto? Come possiamo spiegare il nostro dilemma a individui la cui storia e la cui tecnologia sono diverse dalla nostra?

— Io sono disposto a provarci — intervenne Eddie.

— No — ribatté il signor Fang. — Il tuo turno verrà più tardi. Lixia, spiegale che veniamo da un pianeta… un luogo… dove ci sono molti differenti tipi di società. Queste società hanno differenti livelli di tecnologia e, di conseguenza, diverse forme di organizzazione sociale e diverse ideologie.

— Il vecchio dice che nel nostro paese ci sono molti popoli diversi fra loro. Hanno utensili diversi e idee diverse.

— Sarebbe difficile che avessero gli stessi utensili — disse Angai. — Ogni villaggio deve avere le proprie lavoratrici dei metalli e ciascuna di queste deve avere i propri utensili. Quanto alle idee, so che le persone non sono sempre d’accordo.

Il signor Fang proseguì. — In passato ci sono stati problemi quando popolazioni con diversi livelli di tecnologia sono venute in contatto fra loro. — Esitò. — Non voglio parlare di guerra e sfruttamento. Questi sono gli argomenti di Eddie.

"Spiega alla sciamana che quando società differenti si incontrano, si scambiano informazioni e ciò può provocare cambiamenti in una società o nell’altra. Questi cambiamenti non sono sempre piacevoli."

Feci il gesto che significava "lo farò". — Il vecchio dice che quando popoli diversi si riuniscono, si scambiano insegnamenti su nuovi modi di fare le cose, e ciò può essere scombussolante.

La parola che usai per "scombussolante" significava "mettere sottosopra", "rimescolare la pappa muovendo in tondo un cucchiaio", "vuotare una pentola rovesciandola".

Angai aveva un’aria perplessa.

— A causa di ciò — proseguì il signor Fang — le persone sono sempre state in disaccordo circa i vantaggi dei viaggi e dello scambio di informazioni. Secondo il Maestro Lao, in un paese che segue la Via, gli individui eviteranno i miglioramenti tecnologici. Trascorreranno tutta la loro vita in un solo villaggio anche se il villaggio successivo può essere così vicino da consentire loro di sentire l’abbaiare dei cani e il canto dei galli.

Dissi: — Ci sono persone nel nostro paese che ritengono che sia una cattiva idea imparare cose nuove. Queste persone non amano viaggiare.

Angai fece il gesto che significava "continua".

Il signor Fang disse: — Ma il Maestro Kong sostiene che i due grandi piaceri della vita sono acquisire conoscenze e ricevere la visita di amici che vengono da molto lontano.

"La letteratura della Cina è piena di viaggi, di amici che si separano e si incontrano di nuovo. È così che la nostra civiltà si è creata e si è tenuta insieme: grazie ai poeti a cavallo e ai soldati sulla frontiera, alle donne mandate come spose a stranieri, ai lavoratori comuni che hanno guidato carovane attraverso le montagne e barche attraverso le gole dello Yangtze." Alzò lo sguardo e si rese conto del luogo in cui si trovava. Per un attimo sembrò sbigottito.

Dissi: — Ci sono altre persone a cui piace imparare cose nuove. Queste persone amano viaggiare.

— Io vengo dallo Sichuan, dall’antica Shu. Senza viaggi e senza lo scambio di informazioni, noi non saremmo cinesi. D’altra parte, forse avremmo ancora la nostra cultura nativa e la nostra ecologia. Io sono l’erede di Kong e di Lao, di Du Fu e di Wang Anshi. Questo è evidentemente un bene. Ma abbiamo perso le nostre antiche tradizioni, quali che fossero. E abbiamo perso le nostre tigri, i nostri elefanti, i nostri panda e i nostri leopardi. È una perdita terribile.

— Tutto questo viaggiare comporta sia perdite che guadagni — dissi. — Si imparano nuove storie. Se ne dimenticano di vecchie. Nel paese arrivano cose nuove, e vecchie cose se ne vanno.

— Ancora nel Ventesimo Secolo era possibile trovare panda giganti nelle foreste dello Sichuan. Il leopardo delle nevi è, o era, straordinariamente inafferrabile, ma c’erano persone che vedevano le sue impronte nella neve delle alte montagne nel Ventesimo Secolo. Come compensiamo quella perdita di fronte alla poesia di Du Fu, alla filosofia del Maestro Kong, ai vantaggi del socialismo?

— Questo non è facile da spiegare — dissi ad Angai. — Sta parlando del suo paese. Tu non conosci i luoghi, né le persone, né gli animali.

— Fa’ del tuo meglio — ribatté Angai.

— D’accordo. — Riflettei un momento. — Il vecchio sta facendo una catasta delle cose che si sono guadagnate attraveso i viaggi. La sta confrontando con le cose che si sono perse. Quale delle due cataste è più grande? chiede. Non riesce a prendere una decisione.

Aiya! - esclamarono le donne del villaggio.

Il signor Fang sollevò il capo e guardò dritto in faccia Angai. — Non riusciamo a decidere se sia o no una buona idea farvi visita. Perciò chiediamo a voi di decidere.

Tradussi, poi aggiunsi: — Ora parleranno Eddie e Ivanova. Eddie è contrario a questa visita. Ivanova pensa che sia una buona idea.

— Tutto questo richiederà molto tempo — disse Angai. — La mia gente deve prendersi cura dei bambini. Le vecchie devono alzarsi e camminare un po’ qua e là. Ci fermeremo per un momento. Ci sono tante informazioni! Tante cose su cui riflettere! Tante domande da fare!

Fece un gesto. Le donne anziane si alzarono, lamentandosi. Alcune ebbero bisogno di aiuto per rimettersi in piedi. La folla di donne si disperse e noi restammo soli.

Angai guardò Nia. — Hai sentito qualcosa che ti sembra sbagliato?

— No. Ma ci sono un sacco di cose di queste persone che non so. — Nia si grattò la fronte. — Li-sa non parlava tanto quanto il vecchio. — Guardò Derek. — Che cosa non è stato detto?

— Ve l’ha spiegato — rispose Derek. — Il vecchio stava parlando del suo paese.

— Quello che ha detto è importante? — domandò Nia.

— Giudicatelo voi. — Derek fece una traduzione minuziosamente esatta.

I nativi aggrottarono la fronte e incominciarono a fare domande. Che cos’è un panda? Che cos’è un Wang Anshi?

Mi alzai in piedi e m’incamminai verso la luce del sole, mi stiracchiai e mi toccai la punta dei piedi. Le nuvole del mattino erano sparite. L’aria andava facendosi calda.

Lanciai un’occhiata al gruppetto al riparo del lembo della tenda, al quale si era unita anche Hua. Portava un vaso fatto d’argento, dal corpo rotondo e il collo lungo e sottile. Mi guardò e lo sollevò. Tornai indietro, mi sedetti per terra e bevvi un liquido fresco dal gusto amarognolo che mi lasciò intorpidita la bocca.

— Che cos’è? — chiesi.

— Rende felici le persone — rispose Hua. — Quando le vecchie lo bevono, dimenticano che il loro corpo duole e la forza le sta abbandonando. Danzano e cantano come ragazze.

— Mmm! — Ne presi un’altra sorsata, poi porsi il vaso a Derek.

— Eri dentro la tenda — dissi a Hua.

Lei fece il gesto dell’affermazione. — Se fossi rimasta qui fuori — indicò con un cenno della mano lo spazio aperto — le donne anziane si sarebbero messe davanti a me. Non avrei visto niente e non avrei sentito neppure molto. Io diventerò la prossima sciamana. È importante che veda e senta quello che fa la mia madre adottiva.

Eddie prese la brocca. — Che cos’è questa roba?

— Una sostanza che altera la mente — rispose Derek.

Eddie la porse alla Ivanova, che la porse ad Agopian — Sta’ attento, compagno — disse.

— Sì — rispose Agopian. Bevve, si strozzò, tossì e porse la brocca al signor Fang.

Guardai Hua. — Perché non potevi restare qui fuori con noi?

— Non c’è spazio sotto il riparo.

— Le ragazze non siedono con le donne quando queste prendono importanti decisioni — disse Angai.

E forse, pensai, non sarebbe una buona idea che Hua, Nia e Angai sedessero insieme di fronte all’intero villaggio. Le donne potrebbero ricordare quanto la loro sciamana fosse stata legata alla donna che avevano esiliato.

Ora le persone stavano tornando. Portavano oggetti: pali che conficcarono nel terreno e pezze di stoffa che stesero sopra i pali. La luce brillava attraverso la stoffa e prendeva il colore di ciascuna pezza: rosso, verde, azzurro, giallo e arancione.

Le persone stesero coperte e si sedettero. Fecero passare di mano in mano del cibo: pezzi di pane, ciotole di carne, vasi d’argento e di bronzo. I bambini più piccoli camminavano a quattro zampe fra le ombre colorate, quelli più grandicelli correvano.

Hua s’infilò di nuovo dentro la tenda. Un attimo dopo ricomparve, o meglio comparve la sua mano, bruna e pelosa, che teneva un grosso pezzo di pane piatto. Eddie lo prese. Lo facemmo passare.

Angai fece un gesto autorevole. Le persone nella piazza tacquero. Angai ci guardò. — Incominciate.

— Elizaveta e io abbiamo fatto a testa e croce — disse Eddie. — Ho perso e devo parlare per primo. Derek, vuoi tradurre tu?

— Sì.

Eddie inspirò, poi espirò lentamente. — Per prima cosa, ripeto quello che ha detto il signor Fang: quando persone diverse s’incontrano, si verificano dei cambiamenti.

"Con ogni pobabilità queste persone, il Popolo del Ferro, cambieranno più di noi, poiché hanno una tecnologia meno sviluppata. Forse non gradiranno i cambiamenti che subiranno. E forse troveranno impossibile tornare al modo in cui erano."

Derek rifletté un momento. — D’accordo. — Guardò Angai. — Eddie dice che quando le persone si incontrano, si modificano a vicenda.

Angai fece il gesto dell’approvazione con riserva.

— Se le persone hanno differenti tipi di utensili, le persone con utensili grandi e potenti cambieranno meno delle persone con utensili piccoli e deboli.

"Eddie sostiene che i nostri utensili sono grandi e potenti. I vostri utensili sono piccoli e deboli. Pertanto voi cambierete più di noi, e forse i cambiamenti non vi piaceranno."

Angai si accigliò. — Quest’uomo non si comporta in modo cortese. La nostra gente è abile. Gli attrezzi che fabbrichiamo sono buoni.

Le donne che le stavano attorno fecero gesti di approvazione incondizionata.

— Tuttavia, è vero che le nuove idee rendono inquiete le persone. Forse non apprezzeremo le storie che racconterete o il vostro modo di comportarvi.

Derek lo tradusse in inglese.

Eddie aggrottò la fronte, poi annuì. — Quindi, riferisci alla sciamana che noi abbiamo una lunga storia di pessimo comportamento nei confronti di popolazioni che sono diverse. Siamo migliorati negli ultimi due o tre secoli, ma non sappiamo se il cambiamento sia permanente. Potremmo tornare quelli di un tempo, soprattutto qui in questa regione che assomiglia tanto al Nord America.

— È proprio necessario? — domandò la Ivanova. — Dobbiamo tirare in ballo tutti gli antichi crimini del feudalesimo e del capitalismo? Noi non siamo quelle persone. E la maggior parte di noi non ha dovuto sopportare niente di simile a quei sistemi economici.

— Eddie non è un marxista — intervenne il signor Fang. — Non condivide la nostra analisi della natura umana o della storia dell’umanità. Per lui questa è una preoccupazione reale.

Derek disse: — Eddie sostiene che in passato la nostra gente si è comportata male con persone di altri villaggi. Teme che possa accadere di nuovo.

— Che cosa intendi dire con comportarsi male? — domandò Angai.

Derek tradusse.

— Parlale della guerra — disse Eddie.

— In passato i nostri uomini erano soliti andare in giro in gruppi. Combattevano contro uomini di altri villaggi. Gli uomini che vincevano rubavano cose agli uomini che avevano perso.

— Che genere di cose? — s’informò Angai.

— Oggetti, animali, terra. A volte portavano via persone: uomini, donne e bambini.

— Come si fa a rubare la terra? Non la si può portare via in una bisaccia da sella e neppure su un carro. E che scopo potrebbe esserci a portare via delle persone?

Una vecchia disse: — Ci sono storie di demoni che mangiano le persone.

Angai corrugò la fronte. — È questo che faceva la vostra gente?

— No — rispose Derek. — Lascia che sia Eddie a spiegarlo. — Tradusse le domande di Angai.

Eddie assunse un’aria corrucciata. — Questo è veramente difficile. Aspetta un minuto. — Fissò il cielo. — Ci sono due modi di rubare la terra.

"Nel primo caso, si scacciano le persone che si trovano sulla terra e la si prende per sé. Questo è stato fatto nel Nord America.

"Nel secondo caso, si assume la proprietà della terra. Non ci si sbarazza degli abitanti originari. Si tengono per lavorare la terra. Si posseggono al pari della terra. Questo è stato fatto nel Sud America e in Africa e, immagino, in Europa nel Medio Evo."

Derek tradusse.

Angai disse: — Perché le persone dovrebbero accettare di lavorare per degli stranieri? Quale vincolo li tiene insieme? Non sono parenti. Non possono avere nessun obbligo verso individui che sono ladri.

Eddie rispose: — Se non lavoravano, non ricevevano cibo. Spesso venivano picchiati o feriti in altri modi.

Derek tradusse, trovando qualche difficoltà con la parola "picchiati". Esitò, poi usò il termine che significava battere il metallo nella fucina.

— Questo è impossibile da capire — dichiarò Angai. — Perché le persone non se ne andavano?

— Non c’era alcun posto dove andare — ribatté Eddie. — Il mondo era pieno di persone che combattevano e rubavano. Tutto era posseduto.

— Uh! — esclamò Angai. Guardò Nia. — Questo ti sembra esatto?

— No. Non ho mai sentito niente del genere prima d’ora. So che quest’uomo non vuole che tu faccia una buona accoglienza alla sua gente. Forse sta mentendo.

Angai guardò me. — Sta mentendo?

— No. Ma quello che descrive è accaduto molto tempo fa.

— Quanto tempo fa?

Feci qualche calcolo. — Sono passate almeno dodici generazioni.

Angai si appoggiò all’indietro ed espirò. — Siete sicuri che queste cose siano successe davvero? Una storia può cambiare quando viene raccontata e raccontata di nuovo più volte.

— Siamo sicuri.

— Che cosa è successo? È più facile cambiare le parole che cambiare le persone. Se la storia è vera, se non è cambiata, allora che cosa è successo a voi? Perché ora siete diversi?

Esitai. Derek tradusse la nostra conversazione.

Eddie disse: — Non sono certo che siamo poi tanto diversi.

— Posso rispondere io alla domanda? — chiesi.

Il signor Fang e la Ivanova accennarono di sì col capo.

— Credo che tu stia cercando di cambiare il senso delle mie parole — protestò Eddie.

— Sto cercando di rispondere a una domanda fatta da Angai. Derek tradurrà tutto quello che dirò. Se vorrai fare delle osservazioni, avrai la possibilità.

Eddie fece il gesto del riluttante assenso.

Mi rivolsi ad Angai. — Eddie non crede che siamo cambiati. Ma io sì.

— Come? E perché? — domandò Angai.

Riflettei un momento, consapevole delle persone che ascoltavano, dei piccoli rumori, colpi di tosse e mormorii, un neonato che piangeva, bambini più grandi che giocavano all’altra estremità della piazza. Sentivo le loro voci, acute e chiare, non tanto diverse dalle voci dei bambini sulla Terra.

Ma quando guardai, vidi pelo scuro e occhi gialli, pupille simili a fessure, ampie facce piatte che non mi ricordavano nessuna specie umana.

— Eddie ha detto che queste persone, i nostri antenati, si derubavano a vicenda. Questo è vero. Rubavano anche all’intero mondo. Le persone trattano ogni cosa nel modo in cui si trattano a vicenda.

Una donna molto vecchia, grigia e curva, esclamò: — Uh! Sì! Lo so!

— Fecero a pezzi la terra, cercando svariati tipi di ricchezza: oro, argento, rame e altre cose. Abbatterono foreste. Levarono l’acqua dai fiumi così che i fiumi si prosciugarono. Misero veleno in altri fiumi così che l’acqua non poté più essere usata. Riuscirono perfino a recare danno al cielo. Incominciarono a cadere piogge ardenti e il calore del sole divenne più intenso.

— È terribile — osservò una donna. — Le vostre sciamane non erano in grado di fare niente? Non potevano supplicare gli spiriti? Non potevano eseguire cerimonie di propiziazione e prevenzione?

— Hanno provato. Ma niente funzionava. Non erano gli spiriti a fare quelle cose. Erano le persone.

— Uh! — esclamò la donna.

— Che cosa successe? — chiese Angai.

— Devi capire che la maggior parte dei nostri antenati non erano volutamente malvagi. Non intendevano distruggere il mondo. Ma non pensavano alle conseguenze di quello che stavano facendo. Erano convinti di poter prendere senza dare. Credevano che il mondo fosse come un pesce in una conchiglia. Potevano aprirla e mangiarlo e gettar via la conchiglia.

Feci una pausa. Derek tradusse.

— Un pesce in una conchiglia? — domandò il signor Fang.

Eddie disse: — Mi stupisce che Derek si sia lasciato sfuggire questo. I nostri antenati pensavano che il mondo fosse la loro ostrica.

Il signor Fang appariva ancora perplesso.

Angai disse: — Dovevano rendersi conto che stavano agendo in modo sbagliato. È sempre sbagliato rubare. È sempre sbagliato recare danno ad altre persone, a parte quando due uomini si battono in primavera.

— Mentivano gli uni con gli altri su quello che stavano facendo — le dissi. — All’inizio, nei primi tempi, dicevano: "Stiamo rendendo migliore il mondo. Quando arrivammo in questo posto non c’era nient’altro che foresta, animali selvatici e persone che correvano qua e là nude. Abbiamo messo fine a tutto ciò. Abbiamo abbattuto gli alberi e piantato giardini. Abbiamo creato pascoli dove possiamo allevare il genere di animali che desideriamo. Abbiamo insegnato alle persone nude a indossare indumenti. Tutto questo è bene! E guardate le altre cose che abbiamo fatto! Abbiamo scavato fiumi e portato l’acqua ai nostri giardini. Abbiamo trasformato in laghi aridi canyon. Adesso c’è più cibo. Adesso possono esserci più persone. Adesso i nostri villaggi possono diventare grandi e ricchi!".

"Dopo un po’ di tempo incominciarono a rendersi conto che il mondo non sembrava essere un luogo migliore. Tutto sembrava più piccolo e più sporco. Tutto si stava consumando: il suolo, le colline, i fiumi e i laghi. Le persone dissero: ’Non c’è niente di nuovo in questo. Ci sono sempre stati luoghi in cui la terra è povera e inutile. Ci sono sempre stati fiumi nei quali l’acqua non è buona da bere. Non c’è alcun problema’.

"Le cose continuarono a peggiorare. Ora le persone dissero: ’Per tutto ciò che si guadagna, qualcosa deve andare perduto. Guardate quello che abbiamo guadagnato! Guardate i nostri villaggi pieni di grandi case! Guardate le nostre case piene di molti doni! Le foreste che sono sparite ci sono tornate in oro. I fiumi che non possiamo bere sono diventati vasi pieni di bara’.

"Alla fine tutto divenne così brutto che nessuno riusciva a trovare qualcosa di consolante da dire. Allora le persone dissero: ’Cambiare è impossibile. È già troppo tardi. In ogni caso, non ci dispiace davvero il modo in cui sono le cose’." Feci una pausa. "Queste sono le quattro menzogne che le persone raccontavano: ’Stiamo rendendo migliori le cose’. ’Non c’è alcun problema.’ ’Non ci sono autentici doni.’ ’È troppo tardi per cambiare.’"

— Questa è la cosa peggiore che io abbia mai sentito — dichiarò una donna.

E Angai: — La storia non può finire così.

— Alla fine le persone si guardarono attorno e videro come il mondo era diventato orribile. Mentire non era più possibile. Videro dove li avevano condotti la collera e l’avidità: sull’orlo della distruzione. Dovevano fare una scelta. Se volevano vivere, dovevano rinunciare alla collera e all’avidità. Se volevano continuare a essere collerici e avidi, sarebbero sicuramente morti.

"La maggior parte delle persone decisero che volevano vivere. Erano come qualcuno che cammina nel sonno, tormentato da sogni spaventosi. All’improvviso si sveglia e vede dove si trova: sul ciglio di un dirupo. Un altro passo lo farà precipitare. Le rocce sottostanti sembrano dure."

Derek tradusse.

Agopian disse: — Che splendido discorso, Lixia. Sono impressionato. Ma hai tralasciato la lotta di classe e una grande quantità di importantissime lotte rivoluzionarie.

— E hai ignorato i vantaggi della tecnologia — disse la Ivanova. — La civiltà non è soltanto menzogna e furto organizzati, sebbene la menzogna e il furto siano stati indubbiamente importanti. Sei davvero convinta che staremmo meglio se dovessimo ancora procurarci il cibo scavando con le dita nella savana africana?

— Non posso inserire ogni cosa — ribattei. — E, come Eddie, non sono una marxista.

Angai chiese: — Questo è tutto? O devi aggiungere altro alla tua spiegazione?

— C’è ancora una cosa. Derek ti ha detto che gruppi di uomini erano soliti andarsene in giro e combattere fra di loro. È così che tutto è iniziato, quando un tipo di persone ha incominciato a rubare a un altro tipo di persone.

Angai fece il gesto che significava che capiva.

— I nostri uomini non se ne vanno più in girò da soli. Restano con le donne, e le donne non amano affrontarsi e combattere.

— Questo è vero — disse Angai. — Forse avete ragione a tenere i vostri uomini nei villaggi, se si mettono insieme e causano guai quando si trovano per loro conto.

Le altre donne fecero il gesto dell’approvazione.

— Come siamo fortunate — intervenne un’altra donna. — Ai nostri uomini non verrebbe mai in mente di mettersi insieme.

— Potrebbe accadere, se venissero a sapere di queste persone — fece un’altra ancora.

— Penso che tu ci abbia appena rovinati — disse Derek in inglese.

Angai fece il gesto del dissenso. — È evidente che queste persone sono diverse da noi. Credo che i loro uomini siano diversi dai nostri uomini. — Guardò verso di me. — I vostri uomini sono mai vissuti da soli così come fanno i nostri uomini?

— No. I nostri uomini hanno sempre fatto le cose in gruppo.

Angai fece il gesto che significava "vedete". Alzò lo sguardo. — Il sole si trova nella parte occidentale del cielo e stiamo arrivando al periodo più caldo del giorno. Abbiamo sentito parlare Eddie. Adesso dobbiamo sentire l’altra persona. Ifana.

Tradussi.

La Ivanova annuì. — Occupatene tu, Lixia. — Si raddrizzò. — Non ho molto da aggiungere. Ciò che ha descritto Eddie non è la natura dell’umanità, ma la natura del capitalismo, e i differenti sistemi politici ed economici sorti in risposta al capitalismo, alcuni dei quali, lo so, si sono definiti proletari. La questione relativa a che cosa fossero effettivamente queste società…

Agopian disse qualcosa in russo.

La Ivanova annuì col capo e continuò: — Non è rilevante in questa sede. Il sistema dominante era il capitalismo. Se ne stava acquattato come un drago al centro del Ventesimo Secolo. I suoi tentacoli arrivavano ovunque.

Una bellissima metafora, e la Ivanova non avrebbe potuto rinnegarla. Avevamo troppi registratori accesi.

— Quell’epoca è finita, almeno per la maggioranza della popolazione della Terra. — Fece una pausa.

Dissi: — Ivanova sostiene che i nostri antenati non erano cattive persone. Avevano brutte abitudini, e abbiamo abbandonato quelle abitudini.

— Abbiamo imparato nel modo più difficile, attraverso terribili sofferenze, che una società basata sull’avidità individuale è molto pericolosa. Per sopravvivere dobbiamo pensare in termini più ampi. Dobbiamo pensare alle specie e al pianeta. Se non lo facciamo, moriremo, o moriranno i nostri figli, o i loro figli. Non abbiamo scelta! Dobbiamo collaborare!

Dissi — Abbiamo imparato che non possiamo essere avidi o egoisti.

— Bene! — esclamò la vecchia dal pelame grigio, quella che aveva parlato prima.

— Una società proletaria si basa sulla collaborazione. Le persone non si sfruttano a vicenda, e non sfruttano neppure i loro vicini. Quando si incontrano con membri di altre società, lo fanno con rispetto per i diritti degli altri e preoccupazione per il vantaggio di tutti.

Dissi: — Adesso lavoriamo insieme. Non rubiamo. Quando incontriamo persone di altri villaggi, scambiamo doni.

La Ivanova guardò Angai. — Vorremmo trascorrere un po’ di tempo nel vostro paese per imparare qualcosa sulla tua gente e su questo pianeta. In cambio vi insegneremo qualcosa sulla nostra gente e sulla Terra. Credo francamente che questo scambio di informazioni non causerà alcun danno. Al contrario, tornerà a vantaggio di tutti.

— Lei sostiene che la nostra gente vuole venire a fare visita e a scambiare storie. È convinta che sarà un bene per tutti.

— Sta dicendo la verità? — domandò Angai.

— È convinta di quello che ti ha detto. E anche Eddie.

— Il vecchio ha qualcosa da aggiungere?

Tradussi la domanda.

— Soltanto questo — disse il signor Fang. Guardò la sciamana. — Questo è il vostro pianeta e la decisione spetta a voi. Lasceremo a voi la decisione. Se, in futuro, vorrete che ce ne andiamo, lo faremo.

— Lui sostiene che questo è il vostro paese. Potete dirci di restare. Potete dirci di andare, adesso o in qualsiasi momento.

Angai si accigliò. — Tutto questo lo so. Crede che sia una stupida? — Si alzò in piedi. — Adesso termineremo. Io andrò a riflettere su tutto ciò che ci hanno detto queste persone. Chiederò consiglio agli spiriti e alle donne anziane del villaggio. Domani vi riferirò la mia decisione. — Fece il gesto che significava "è finita" ed entrò nella propria tenda.

Le donne del villaggio incominciarono a smontare i loro ripari.

Io aiutai il signor Fang ad alzarsi in piedi.

— Non sono completamente d’accordo con i Taoisti — disse. — Ma forse ci addossiamo troppi compiti. Fare la storia è un’ardua impresa, e può essere pericoloso. Credo che prenderò una tazza di tè, guarderò il fiume e rifletterò sull’inazione.

Attraversammo il villaggio. Il vecchio si appoggiava al mio braccio. Mi resi conto di quanto fosse esile e fragile.

— D’altra parte — continuò il signor Fang — c’è la storia di Yu l’ingegnere. Stava viaggiando per affari di governo e doveva attraversare un fiume. Un grosso drago giallo urtò contro l’imbarcazione.

"I barcaioli erano terrorizzati. Yu si mantenne calmo. Disse: ’Sto facendo il massimo nell’interesse della gente, assolvendo i miei doveri in obbedienza al Cielo. Da vivo, sono un ospite. Da morto, vado a casa. Perché dovrei essere preoccupato? Il drago non è molto più di una lucertola’.

"Il drago appiattì le orecchie, lasciò cadere la coda e si allontanò nuotando. Yu proseguì il suo viaggio. Mi è sempre piaciuta quella storia."

Scendemmo lungo la scogliera del fiume. Lo aiutai a salire sulla barca della Ivanova e a sistemarsi in una poltroncina sul ponte. La cabina era vuota. Yunqi doveva essere andata a trovare Tatiana. Preparai il tè e lo portai fuori. Lapsang Souchong. Lo sorseggiammo e osservammo gli uccelli che pescavano nel fiume.

Yunqi tornò e preparò il pranzo. Fettuccine fredde e verdure sottaceto. Mangiammo insieme sul ponte. I sottaceti erano deliziosi.

Dopo un po’ Derek ci raggiunse e bevve una birra, con i piedi appoggiati sul parapetto, le scarpe nuove che luccicavano. — Molto meglio! Non mi piacciono i discorsi. Non hanno niente a che vedere con la vita. Se la vita ha a che vedere con qualche cosa.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Che cosa faranno? — s’informò Yunqi. — Ci permetteranno di restare?

— Non lo so — risposi.

Yunqi assunse un’aria corrucciata. — Il nostro lavoro è importante.

— Questo è il loro paese — disse il signor Fang.

Decisi che ero accaldata e appiccicosa e non mi sentivo affatto dell’umore adatto per ascoltare congetture sulla gente del villaggio. — Vado a fare una nuotata.

Derek fece il gesto che significava "è una buona idea".

Andai sull’altra barca.

Agopian e la Ivanova erano seduti sul ponte. Stavano chiacchierando in russo, in tono sommesso e attento. Mi rivolsero un’occhiata, poi tornarono alla loro conversazione.

Eddie era seduto su un divano nella cabina e leggeva.

— Dov’è Tatiana? — chiesi.

— Al villaggio. Voleva vedere le persone. Potrebbe essere la sua unica opportunità. Potrebbero dirci di andarcene. — C’era qualcosa nella sua voce. Speranza? Soddisfazione?

Presi un asciugamano e una bottiglia di sapone dal bagno. — Di che cosa stanno parlando i compagni?

— Non ne ho idea. Non mi è mai passato per la testa che mi sarebbe servito conoscere il russo. Il loro lavoro nelle scienze sociali non è niente di speciale, soprattutto nei campi che interessano a me.

— Non è probabilmente niente. — Presi una tuta nuova, di un giallo intenso. — Vado a nuotare nel fiume. Se non sarò di ritorno fra un’ora, tirate fuori le reti.

— Okay.

Mi lavai nell’acqua bassa in prossimità della riva, poi nuotai verso il centro del fiume. Era ormai metà pomeriggio. Le scogliere sopra di me erano ancora illuminate dalla luce del sole, ma la foresta lungo il fiume era in ombra. Galleggiai sulla schiena, lasciando che la corrente mi portasse verso sud-est.

Qualcosa fischiò. Sollevai la testa. C’era un bipede sulla riva. Era alto due metri, giallo a strisce blu e con una bella gola azzurra. Un predatore. Vidi le zampe anteriori munite di artigli e la bocca piena di denti aguzzi. Forse un osupa? Mi osservò, impavido, poi fischiò di nuovo. Altri animali emersero dalle ombre: un branco. I piccoli erano grandi la metà dei loro genitori e a chiazze invece che a strisce. Dieci in tutto. Sulla terra mi avrebbero fatto paura, ma non avevano l’aria di nuotatori. Mi rigirai e nuotai lentamente contro corrente in direzione della barca. La corrente era più forte di quanto mi fossi resa conto e quando mi issai a bordo ero stanca. Mi sedetti a prua, respirando affannosamente.

I predatori dominanti sembravano essere gli animali chiamati assassini. Erano a quattro zampe e avevano una certa somiglianza con i tassi o i leopardi, se l’arte dei nativi era precisa. I bipedi predatori stavano forse venendo espulsi? Oppure riempivano un’altra nicchia ecologica? Forse gli assassini predavano prevalentemente cornacurve, mentre questi animali predavano i loro cugini erbivori. Altre domande a cui Marina avrebbe dovuto trovare una risposta. Mi vestii e andai a poppa.

La Ivanova se ne era andata. Agopian era seduto al tavolo pieghevole sul quale stava disponendo delle carte da gioco. Un nativo lo osservava, in piedi all’altra estremità del tavolo e appoggiandosi in avanti sulle mani pelose.

Agopian alzò lo sguardo. — Credo che costui, o costei, voglia te. È davvero difficile cercare di stabilire rapporti con esseri totalmente estranei che non parlano una lingua che io capisca.

— Che cosa sta facendo? — domandò il nativo. Era il figlio di Nia.

— È un… — Esitai. Non conoscevo ancora la parola per definire un gioco. — Una cerimonia. O piuttosto, è il genere di cosa che i bambini fanno con un bastone e una palla.

— Uh! Lui mette rosso su nero e nero su rosso. Ma non capisco il resto. I colori sono importanti?

Tradussi.

Agopian disse: — Rosso come sangue e fuoco. Nero come notte e morte. — Mise giù una carta. — Nero come anarchia. Rosso come rivoluzione.

Guardai Anasu. — Lui dice che sono i colori del sangue e del fuoco, della notte e della morte, della confusione e del cambiamento.

— È un mucchio di roba! Che cerimonia che sta eseguendo questa persona! Vero? Non conosco la parola. È una sciamana maschio?

Tradussi.

— Io sono un marxista.

Feci il gesto che significava "sì".

Aiya! - Il ragazzo si raddrizzò, togliendo le mani dal tavolo. — C’è un posto dove possiamo andare? Non voglio disturbare uno sciamano. — Fece una pausa. — Una persona sciamano.

— Lui non vuole disturbarti — spiegai in inglese.

— Portalo via — disse Agopian. — Devo riflettere un po’. — Alzò lo sguardo. — Forse avrò voglia di raccontarti qualcosa più tardi.

— A proposito della conversazione che stavi facendo con la Ivanova?

— Sì. Credo di essermi ficcato in qualcosa di stupido e adesso devo tirarmene fuori. — Guardò la disposizione delle carte, aggrottando la fronte. — Così è la vita, come diceva Lenin. Un passo avanti. Due passi indietro. — Mise giù un’altra carta. — Preferirei che non accennassi alle mie osservazioni con la Ivanova.

— Okay.

Il ragazzo mi seguì verso la prua. Ci sedemo sul ponte di fibra di vetro. Lui si cinse le ginocchia pelose con le braccia pelose.

— Una della vostra gente si trova al villaggio, va in giro e guarda. Non capisce una parola di quello che le dice la gente. O è un maschio? Non lo so.

— Una donna. Si chiama Tatiana.

Lui fece il gesto dell’intesa: un rapido scatto della mano. — Hua è con lei, per assicurarsi che non si metta nei guai.

Una voce chiamò nella lingua del villaggio. Proveniva da un albero che si sporgeva sopra il fiume. Guardai in su e vidi delle foglie che si muovevano. — Quello è un tuo amico?

— Gerat. Fa sempre un sacco di baccano. Gli altri non li sentirai. Mi hanno detto che non avrei osato salire sulla barca.

— È per questo che siete venuti qui?

— Per la sfida? No. Volevamo vedere le barche, e nel villaggio sono tutte impegnate a discutere. — Si strinse le ginocchia con le braccia. — Uh! Che situazione! Non vogliono avere intorno i figli, soprattutto i maschi. Non vogliono lasciarci vedere che sono confuse.

— Sai che cosa decideranno?

— No. Dipende da Angai e dagli spiriti. E anche dalle donne anziane. Credo che le anziane diranno che dovete andarvene, ma non so che cosa farà Angai. — Inclinò il capo, riflettendo. I suoi strani occhi color grigio chiaro erano socchiusi. Infine fece il gesto del dubbio. — Hua potrebbe avere qualche idea. Lei capisce Angai meglio di me, e ne sa di più sugli spiriti. — Aprì gli occhi. — Ho qualcosa da chiederti.

Feci il gesto che significava "va’ avanti e chiedi".

— La gente dice che questa barca si muove da sola. Mi piacerebbe vederlo. È possibile?

Riflettei un momento. Era una richiesta ragionevole. Bisognava sempre aiutare i giovani ad acquisire conoscenza. E quel ragazzo mi piaceva. Era intelligente e affascinante. Strano che il fascino potesse attraversare i confini delle specie. E strano che il suo fascino dovesse avere una componente sessuale. Ma l’aveva.

— Okay. — Mi alzai. — Parlerò con la persona sciamano.

Anasu sollevò una mano. — Non voglio interrompere una cerimonia.

— Può darsi che ormai abbia finito.

Tornai a poppa. Agopian stava ancora facendo il suo solitario. — Sai condurre la barca?

— Naturalmente.

— Falla partire.

— Perché?

— Il ragazzo. Anasu. Vuole vedere una barca in movimento.

Agopian aggrottò la fronte.

— Non è poi una grande richiesta.

Agopian si alzò e raccolse le carte. — Okay.

Il ragazzo ci raggiunse. Appariva nervoso. — La persona sciamano aveva finito?

— Credo di sì.

Agopian si sedette al posto di guida, diede un colpetto a un interruttore e parlò in russo.

— Che cosa sta dicendo? — domandò il ragazzo.

— Non lo so. Noi abbiamo molte lingue e io ne conosco solo qualcuna.

— Allora non venite tutti dallo stesso villaggio?

— No.

La radio parlò in russo. Agopian avviò il motore. Accanto a me, il ragazzo serrò le mani. Agopian disse: — Prendi le funi di ormeggio, Lixia.

Ubbidii, inerpicandomi fra il sottobosco. Sentii una voce sopra di me. Non credo che fosse il bambino che aveva parlato prima. Salii di nuovo sulla barca, che si allontanò dalla riva. Eddie uscì dalla cabina.

— Che cosa sta succedendo?

Glielo dissi.

Lui si accigliò.

— Mettiamola così — dissi. — Potrebbe essere la sua ultima opportunità.

— Come Tatiana al villaggio? — Eddie sorrise. — Okay.

— L’uomo grande e grosso è arrabbiato? — domandò Anasu.

— No. — Guardai verso riva. Ora si vedevano un paio di bambini. Uno se ne stava silenzioso sulla riva e ci osservava. L’altro era appeso con una mano a un ramo come un gibbone. I suoi piedi scalciavano. Chissà se era un maschio o una femmina?

— Quello è Gerat — disse Anasu.

Un istante dopo Gerat perse la presa. Cadde nell’acqua e si mise a sguazzare, gridando. L’altro bambino non gli prestò la minima attenzione.

— Te l’ho detto — fece Anasu. — Fa sempre baccano.

Arrivammo al centro del fiume. Agopian invertì la rotta e diresse la barca contro corrente verso le rapide, poi ridusse la velocità. Il rumore del motore passò da un rombo a un brontolio.

— Perché la vostra barca fa tanto rumore? — s’informò Anasu. — È affamata?

— Non ci mangerà, se è questo che ti stai chiedendo.

— È viva?

Gerat si arrampicò sulla riva. La sua pelliccia era fradicia e arruffata. Il ragazzo aveva un’aria miserabile perfino da lontano.

— No — risposi. — È un utensile.

Il ragazzo fece tre passi avanti di corsa, saltò e si aggrappò al bordo del tetto della cabina, tirandosi su con una giravolta.

— Ehi! — esclamò Eddie.

Anasu si drizzò in piedi, a gambe divaricate.

— Scendi giù di lì! — gridò Eddie.

Il ragazzo agitò la mano.

Gli altri bambini lanciarono grida eccitate. Ne vidi cinque.

— Io diventerò un uomo grande e grosso! — gridò Anasu. — Sarò come mio zio. Voi piccoletti, ascoltate! Preparatevi a farvi indietro!

— Lo dici tu! — gridò una voce in risposta.

La barca si stava spostando molto lentamente verso valle. Anasu tentò un passo di danza: una scivolata e un saltello.


"Io sono sulla barca!

Sono sulla barca

che brontola!


"Io sono sulla barca!

Sono sulla barca

che RUGGISCE!


"Sto danzando!

Aiya! Danzando

sulla larga

e tremante groppa."


— Lingua lunga! — gridò uno dei ragazzini. Mi sembrò che fosse Gerat.

Anasu fece una piroetta.

Agopian disse: — Fallo scendere, Lixia.

— La persona sciamano si sta infuriando — dissi. — Scendi di lì.

Anasu lanciò un altro grido, poi si rotolò in avanti in un salto mortale che lo portò giù dal tetto. Si raddrizzò a mezz’aria e atterrò sui piedi.

— Ginnastica — disse Agopian. — Ecco di che cosa hanno bisogno questi ragazzi. Con l’allenamento giusto batterebbero i cinesi.

— Hanno bisogno di essere lasciati in pace — ribatté Eddie.

Agopian ruotò il timone. L’imbarcazione girò in tondo, tornando verso riva.

Anasu respirava affannosamente. Non per lo sforzo, ma per l’eccitazione e forse la paura. — La persona sciamano è arrabbiata sul serio?

— Non credo.

— E l’uomo grande e grosso? È stato lui a gridare soprattutto.

— No.

Anasu fece il gesto della felicità.

Gli altri bambini vennero incontro alla barca, gridando in direzione di Anasu nella loro lingua. Lui li ignorò, voltando loro le spalle.

Interessante. Il processo con cui si stabiliva il predominio doveva cominciare presto. Questo era tipico degli umani nelle società in cui le gerarchie erano importanti. Nel New Jersey, per esempio.

Era possibile che i bambini sapessero già, prima di subire il cambiamento, quale fosse la propria posizione nei rapporti reciproci.

Scesi dalla barca e la legai. Anasu mi seguì, aiutandomi alla meglio. Alla fine fece il gesto della gratitudine. — Di’ alla persona sciamano che gli sono grato. Spero che non sia in collera. Non è mai una buona idea litigare con le persone sante.

Si voltò e corse nella foresta. Gli altri bambini lo seguirono. Tornai alla barca.

— Sarebbe potuto cadere — disse Eddie. — E se fosse finito vicino all’elica?

— Credo che si chiami un’avvitata — osservò Agopian. — Anche se non ci giurerei.

Entrai nella cabina. Il libro di Eddie era sul pavimento. Il pulsante dell’avanti veloce brillava rosso e sullo schermo c’era il simbolo a tre lobi usato per contrassegnare la fine di qualcosa di prezioso: letteratura, arte, aria, acqua pulita, suolo non contaminato. Il simbolo era dipinto su camere di equilibrio esterne. Si trovava ai margini delle diverse terre distrutte. Concludeva olodrammi e brillava sopra le uscite dei musei.

Spensi il libro e lo gettai su un divano, poi mi recai nella cambusa a prendere una birra.

Tornò Tatiana.

— Ti è piaciuto il villaggio? — le chiesi.

— Dio è grande. — Rise. — È quello che continuo a pensare. Allah akbar.

— "O mirabile mondo nuovo, che ha in sé simili esseri" — declamò Eddie.

Agopian disse: — Miranda ne La Tempesta. Vi ha mai detto nessuno che Shakespeare è migliore in russo?

Eddie fece il gesto che significava "no".

— Ho sempre sentito dire che era migliore in tedesco — osservai.

— Quel verso non mi fa mai venire in mente Shakespeare — disse Eddie. — Lo conosco tramite Aldous Huxley. Il suo romanzo Il mondo nuovo.

— L’hai letto? — chiesi.

— L’ho insegnato, nel mio corso di studi sul crollo della civiltà occidentale.

Ah, sì. Come avevo potuto dimenticarlo?

Preparammo dei sandwich e li mangiammo sul ponte. C’erano insetti che saltellavano sopra la superficie del fiume. Il cielo si fece scuro.

Tatiana se ne andò a letto. Noi restammo sul ponte. Aprii un’altra birra.

— Fa’ attenzione — disse Eddie. — Quella roba può essere pericolosa.

— Sono di stirpe cinese, e i cinesi sono famosi per non avere problemi di ubriachezza.

Derek scelse quel momento per scavalcare il parapetto. — Per esempio — disse. — C’è il famoso poeta cinese Li Bo. La storia racconta che si trovava fuori in barca, bevendo vino di riso e gustandosi la serata. Vide il riflesso della luna sull’acqua e si sporse in fuori per abbracciarla. Cadde in acqua e annegò.

— Dove sei stato? — gli domandai.

— Su al villaggio.

Eddie aggrottò la fronte. — Ci è stato detto…

— Non ero dentro il vilaggio. Ero fuori, facevo una passeggiata, guardavo il cielo notturno, ascoltavo la musica.

— Musica? — chiesi.

Fece il gesto dell’affermazione. — Uno strumento aveva il suono di un flauto. Un altro era simile a uno xilofono, e ce n’era un terzo che faceva un suono simile a una sirena da nebbia.

"Volevo entrare, ma gli uomini anziani si aggiravano ai margini del villaggio. La musica doveva essere arrivata fino a loro. Non entravano, ma sembrava che non riuscissero a venire via. Continuavano a camminare su e giù, si fermavano, scrutavano il fuoco. C’era un grande fuoco al centro del villaggio. Poi si mettevano di nuovo a camminare. Non sono riuscito a escogitare un modo per superarli. Dannazione! Detesto lasciarmi scappare una cerimonia!"

Finii la mia birra e andai nella cabina. Tatiana dormiva già. Aprii uno dei divani, mi svestii e mi coricai. La finestra sopra di me era aperta. Sentivo lo stormire delle foglie e il lieve sciabordio del fiume contro la barca.

Mi svegliai di buon’ora. La cabina era buia e fresca. Qualcuno russava. Mi alzai e andai in bagno, poi uscii sul ponte, portando con me i miei vestiti. Dai finestrini dell’altra imbarcazione usciva luce. Una folata di vento mi portò l’aroma della cucina cinese e una musica: la versione al piano di "Quadri di un’esposizione".

Feci il mio yoga, mi vestii e risalii la scogliera del fiume.

Il sole era visibile dalla cima. Era sospeso appena sopra l’orizzonte: un disco di un arancione rossiccio, troppo luminoso per poterlo guardare direttamente. Seguii una pista fra la pseudo-erba. Le foglie mi sfioravano, bagnate di rugiada. Nel giro di un minuto o due avevo i pantaloni fradici.

Un fiore era sbocciato appena fuori dalla pista: grande e basso sul terreno. I petali erano di un giallo pallido, quasi dello stesso colore della pianura. Il centro era scuro. L’intera pianta era carnosa, come una pianta grassa terrestre.

Mi inginocchiai e toccai il bordo del fiore. Maledizione! Agitai in aria la mano. Il fiore si chiuse a palla. Guardai il mio dito. Sembrava che fosse stato punto da un’ape.

Un’ombra scese su di me. Alzai lo sguardo e vidi Nia.

— Quello è un fiore pungente.

— Non l’avrei mai immaginato.

— Vieni nell’accampamento. C’è una lozione che ti farà sentire meglio. Mia cugina deve averla sicuramente.

Mi alzai, con la mano che pulsava. Ci incamminammo in direzione del villaggio.

Nia disse: — Mangiano insetti e altri animali. Piccolissime lucertole. A volte un aipit.

— Un che cosa?

— È un animaletto a quattro zampe, coperto di pelliccia. Il corpo è lungo come la prima articolazione del mio pollice. Il veleno della pianta uccide qualcosa di così piccolo, ma la piante non causa alcun vero danno alle persone. Non riesce ad attraversare una buona pelliccia, come quella che abbiamo noi. Le persone vengono punte se toccano la pianta come hai fatto tu, o se sono abbastanza sciocche da camminare a piedi nudi sulla pianura. — Tacque un momento. — Un cornacurve può camminare attraverso una macchia di quelle piante e non sentire niente, a meno che non sia un cucciolo e non cerchi di mangiucchiarla. Lo fanno una volta soltanto.

Arrivammo al villaggio. Nia si fermò di fronte a una grossa tenda. C’era una donna seduta davanti all’entrata, grande e di bell’aspetto, vestita con una tunica color blu marino. La sua collana era d’argento e ambra. I braccialetti erano d’oro.

— Questa persona ha toccato un fiore pungente — disse Nia.

La donna parlò nella lingua del villaggio. Una bambina uscì portando una brocca.

— Siediti — disse la donna. — Il mio nome è Ti-antai. Nia ha detto che la tua gente assomiglia ai bambini, sempre a toccare e a capovolgere cose. Vedi che cosa è successo? Allunga la mano.

Seguii i suoi ordini. Lei osservò il mio dito, che ormai era gonfio e di un rosso acceso. — Aiya! Che strano.

— Che cosa? — domandai, provando un certo nervosismo.

— Il colore della tua pelle. — Infilò la mano nella brocca e tirò fuori una massa rotonda e gialla, afferrò saldamente la mia mano e unse il mio dito con quella roba. Il dolore diminuì subito.

— Che cos’è quel fiore? — domandai. — Una pianta o un animale?

— È difficile da dire. Quando è cresciuto del tutto, ha radici come una pianta. Ma caccia come un animale e ha una bocca, il buco scuro al centro. L’hai visto?

— Sì, ma non mi ero resa conto di che cosa fosse.

— Non stavi guardando attentamente — disse la donna. — Devi sempre guardare attentamente prima di toccare.

Feci il gesto della cortese accettazione di un buon consiglio.

Nia disse: — I fiori hanno piccoli che si muovono.

Riflettei un momento. — Come si riproducono i fiori?

Ti-antai guardò Nia. — Hai ragione a proposito di queste persone. Curiosano in cose di cui non sanno niente e fanno un sacco di domande. — Si volse verso di me. — I fiori avvizziscono al tempo della prima gelata. Non rimane niente all’infuori di un baccello nero. Quello rimane così tutto l’inverno. In primavera si apre e vengono fuori i piccoli. Sono verdi e simili a vermi con le zampe. Strisciano via fra la vegetazione. Non so che cosa facciano sotto le foglie. Ma col tempo mettono radici. Crescono. Diventano fiori. È tutto quello che so… a parte questo. La lozione che cura la puntura viene dai corpi dei piccoli. Li raccolgo in primavera e li lego su una rastrelliera per asciugare. Si muovono per uno, due o tre giorni, poi si essicano. Quando sono completamente secchi, li macino.

"Entrano altre cose nella lozione, ma quello che conta sono i corpi dei piccoli."

Strano, pensai. Ed ero la persona sbagliata per essere lì ad ascoltare. Ci sarebbe dovuta essere Marina In-vista-dell’Olimpo.

— Adesso vattene — mi disse la donna. — Mi fai sentire a disagio. Nia è sempre stata amica dei tipi di persone più strane.

Mi alzai e feci il gesto della gratitudine.

Nia disse: — Verrò con te fino alle barche. Ho un messaggio di Angai.

Lasciammo il villaggio, seguendo la pista che scendeva lungo la scogliera del fiume.

Nia disse: — Angai ha preso una decisione.

— Qual è?

— Ve la riferirà lei questo pomeriggio. Venite su al villaggio appena prima del tramonto. Tutti quanti. Le donne e gli uomini. — Mosse le spalle e si massaggiò il collo. — Aiya! È stata dura! Per tutto il giorno abbiamo parlato e discusso. Angai, io e l’oracolo. Le donne anziane. Il resto del villaggio. Mi è venuto mal di testa.

"Di notte c’è stata una festa. Angai ha mandato via l’oracolo. È dovuto restare in una tenda che era stata abbandonata da uno degli uomini anziani, un uomo che è impazzito all’improvviso e se ne è andato via sulla pianura. A me è stato permesso di restare.

"Organizziamo sempre una festa dopo un’importante discussione. Ci ricorda che siamo un solo popolo. Ma le discussioni non sono finite. Anhar ha raccontato una storia."

— Chi?

— È la migliore narratrice del villaggio. Piace alla maggior parte delle persone. A me no. È stata una delle donne che hanno parlato contro di me l’ultima volta che sono stata qui. Aveva molte ragioni per le quali non potevo restare con il Popolo del Ferro.

Eravamo a metà della discesa della scogliera e procedevamo nella foresta ombrosa. Il dito aveva smesso di farmi male.

— La storia non è una delle nostre, ma proviene dal Popolo dell’Ambra. Parla dell’Imbroglione.

— Te la ricordi? — chiesi.

Nia fece il gesto che significava "sì". — Arrivò in un villaggio, nascosto sotto i panni di una vecchia. Le donne del villaggio pensarono che fosse l’Oscuro. Tirò parecchi tiri mancini. Vuoi sentirli? Credo di riuscire a ricordarne la maggior parte.

— Non ora. Più tardi, quando avrò una delle piccole scatole che ricordano ciò che si dice.

Aiya! - esclamò Nia.

— Che cosa successe poi? — chiesi.

— Nella storia? Le donne del villaggio si resero conto che non poteva trattarsi dell’Oscuro. Era troppo malvagio. Perfino l’Oscuro pone dei limiti al proprio comportamento.

"Con uno stratagemma lo fecero entrare in una pentola d’acqua. Vi misero sopra il coperchio e lo fecero bollire finché non morì. La storia si conclude con una canzone. La canzone fa così." Nia cantò:


"Uh! La mia carne

data in pasto alle lucertole!


"Uh! Le mie ossa

trasformate in flauti!


"Uh! La mia musica

è forte e sgradevole!


"Uh! La mia musica

suona così!".


— L’Imbroglione è morto? — chiesi.

— Solo per un po’ di tempo. Lui ritorna sempre. Angai era furiosa.

— Perché? — Eravamo arrivate sull’argine del fiume. Davanti a noi c’era la mia imbarcazione, da cui proveniva un aroma di caffè e pancetta affumicata.

— Anhar stava dicendo che voi siete degli istigatori come l’Imbroglione, che ingannate il villaggio. Ma la discussione era terminata e la decisione presa. Era arrivato il momento di essere cordiali le une con le altre. Ma Anhar non riusciva a farla finita. Ci sono persone così. Stuzzicano la conclusione di una lite come un bambino stuzzica i lembi di una ferita che sta guarendo.

"Non so che cosa abbia deciso Angai, ma so che non vuole far piacere ad Anhar." Nia indicò la barca con un cenno della mano. "E tutto quello che ho da dirvi. Venite al villaggio al tramonto."

— Okay — dissi.

Se ne andò. Io salii a bordo dell’imbarcazione. Il tavolo pieghevole era sollevato. Agopian, Eddie e la Ivanova vi stavano seduti intorno.

— Elizaveta ha parlato con il campo — riferì Eddie.

— Oh, sì? — Mi sedetti e mi versai una tazza di caffè.

Lei annuì. — Hanno avvistato lucertole nel lago. Grosse. Una mezza dozzina finora, che si tengono nell’acqua bassa in prossimità della riva.

Stavo per prendere il latte ma mi arrestai con la mano a mezz’aria. — Oh-oh.

— Stanno montando nuovi riflettori e assicurandosi che tutto ciò che odora di cibo sia bruciato.

— Credevo che lo stessero facendo anche prima.

— Solo con il materiale proveniente dalla nave. La sostanza organica originaria del pianeta veniva seppellita.

I resti degli esemplari di Marina.

Agopian mangiò un pezzo di pancetta affumicata. — Nessuno dovrà andare a nuotare.

— Qui?

— No. Al campo.

— Che cosa è successo al tuo dito? — s’informò Eddie.

Raccontai loro del fiore.

Eddie scosse il capo. — Continuiamo a pensare che questo pianeta sia come la Terra. Io credo che, se resteremo, avremo sempre più sorprese, non sempre piacevoli.

— Forse. Mi sono imbattuta in Nia sulla scogliera. Ha detto che dobbiamo andare al villaggio questo pomeriggio sul tardi. Angai ha preso una decisione. Non chiedetemi quale sia. Nia non ha nemmeno voluto fare congetture.

Finii la colazione, poi andai a fare una nuotata. Dopo indossai un paio di jeans e una camicia di seta rossa.

Naturalmente avevamo dei bachi da seta sulla nave, e un giardino pieno di gelsi. Ma la camicia era stata fatta sulla Terra. C’era l’etichetta di un sindacato nella parte posteriore del colletto, con su scritto LAVORATORI TESSILI DI SHANGHAI. Accanto alla scritta si vedeva una persona, non avrei saputo distinguerne il sesso, seduta in groppa a una gru in volo. La persona teneva in mano un fuso e aveva le vesti che le svolazzavano. Alle spalle della gru c’era una stella a cinque punte.

Il tipo sulla gru era quasi certamente un immortale taoista, e la stella a cinque punte era un emblema della rivoluzione. La camicia dava una sensazione meravigliosa sulla mia pelle.

Era una brutta giornata, con l’aria calda e stagnante. Eravamo tutti irrequieti. Io, Eddie e Derek lavorammo ai nostri rapporti. Tatiana e Agopian eseguivano controlli dell’attrezzatura, mentre la Ivanova andava avanti e indietro da una barca all’altra. Soltanto il signor Fang sembrava tranquillo. Dopo pranzo andai sulla sua barca. Il vecchio era seduto sul ponte. Aveva di fronte una scacchiera, con accanto una teiera piena di tè.

— Se stai cercando Yunqi, è andata a fare una nuotata, mettendosi in una situazione davvero terribile. Non vedo una via di uscita per lei. — Indicò con la mano i pezzi sulla scacchiera.

— Mi stanno facendo impazzire su quella barca. Sto uscendo di senno.

— Il Maestro Lao ci dice che la pesantezza è la base della leggerezza, e l’immobilità è la signora dell’azione.

— Che cosa?

— Lenin ci dice che un rivoluzionario ha bisogno di due cose: pazienza e senso dell’ironia. — Alzò lo sguardo e sorrise. — Prenditi una tazza, Lixia. Predisporrò di nuovo la scacchiera. Berremo il tè e giocheremo a scacchi e non ci preoccuperemo di problemi che sono al di fuori del nostro controllo.

— Hai intenzione di fare il saggio?

— Non in modo particolare.

— Bene. Non sono in vena di saggezza.

Andai a prendere una tazza. Giocammo a scacchi. Lui mi batté.

Yunqi tornò, con indosso un costume da bagno. Era un costume intero di un azzurro uniforme. I suoi corti capelli neri erano fradici. Gli occhi avevano lo sguardo sfocato della grave miopia.

— Perché non porti lenti a contatto? — le chiesi.

— Mi piace come sto con gli occhiali. — Se li infilò, un paio di semplici lenti chiare con una semplice montatura rotonda di metallo.

— Yunqi è come il compagno Agopian — disse il signor Fang. — Una romantica. Le piacciono gli occhiali nello stile degli inizi del Ventesimo Secolo. Quella era l’epoca degli eroi. Luxemburg. Lenin. Trotsky. Mao e Zhou.

— Credevo che non ti piacesse la politica — dissi.

Yunqi arrossì. — Non mi piacciono i discorsi interminabili, soprattutto quando le persone si arrabbiano. Ma ho sempre amato le storie della Lunga Marcia e del compagno Trotsky sul treno blindato.

— Le piace la guerra — disse il signor Fang. — Come idea. Vuoi fare un’altra partita a scacchi?

— Okay.

Persi di nuovo. Il signor Fang disse: — È ora di andare.

Le persone dell’altra barca ci vennero incontro sulla pista: Derek, Eddie, la Ivanova, Agopian. Salimmo insieme la scogliera.

Faceva caldo sulla pianura e c’era vento. Nel villaggio i lembi sollevati delle tende sbattevano. Le insegne tintinnavano. I fuochi da campo danzavano. Un minuscolo quadrupede si slanciò lungo la strada di fronte a noi. Era grande quanto un dik dik, con piccole corna ricurve. La sua pelliccia era di un color verde scuro. Portava un collare fatto di cuoio e ottone.

— Che cos’è? — domandò Eddie.

Feci il gesto dell’ignoranza.

Derek disse: — Non lo sappiamo.


Arrivammo nella piazza del villaggio. Ancora una volta era piena di gente, almeno lungo i margini. Al centro della piazza c’era un gran mucchio di cenere.

Angai ci aspettava di fronte alla sua tenda. Portava una veste di tessuto blu scuro senza alcun ricamo. La sua cintura era fatta di anelli d’oro intrecciati a mo’ di maglia di catena. La fibbia era enorme: un bipede in oro, ripiegato su se stesso. Il collo era girato, la testa toccava il codrione, la lunga coda si avvolgeva attorno all’intero corpo. L’occhio dell’animale era costituito da una pietra color rosso scuro.

Nia e l’oracolo erano ritti accanto a lei.

La folla attorno a noi mormorava. Angai sollevò una mano. Calò il silenzio, rotto solo dal tintinnio del metallo e dalle raffiche di vento.

— Ho parlato con diverse persone — disse Angai con voce forte e chiara. — Le donne anziane che hanno imparato molto nella loro vita. I vecchi che hanno viaggiato in lungo e in largo e certamente non sono sciocchi. Ho parlato con Nia e con la Voce della Cascata, che conoscono queste persone senza pelo. Mi sono ritirata da sola nella mia tenda per consultare gli spiriti, aspirando il fumo dei sogni.

"Dopo aver ascoltato tutto e aver riflettuto, sono giunta a una decisione.

"La riferisco a voi, o abitanti del villaggio. Siete voi coloro che devono approvare o disapprovare.

"Ma ricordate, se disapproverete, andrete contro di me, contro gli spiriti e gli anziani del villaggio."

Tacque e fece un gesto nella nostra direzione. Derek tradusse.

— Una donna intelligente — commentò la Ivanova. — Non sarà facile respingere la sua decisione.

Angai proseguì: — Se volete sapere che cosa hanno detto gli anziani, chiedetelo a loro. Io vi riferirò ciò che mi hanno detto gli spiriti. Ma voglio che Nia e l’oracolo esprimano la loro opinione.

— Perché? — domandò una voce.

Angai fece il gesto che esigeva silenzio. — Ho chiesto a Nia la sua opinione perché lei ha viaggiato a lungo con due delle persone senza pelo. Ha visto la città che hanno costruito nei pressi del Lago Lungo. Ha viaggiato su una delle loro barche.

— Anche Anasu — gridò un bambino.

— Zitto — ordinò una donna.

Angai continuò: — Soltanto una sciocca, soltanto una donna indegna, rifiuta di chiedere informazioni a coloro che sanno.

"Chiedetelo all’oracolo. Anche lui ha viaggiato con queste persone, e lui è santo. Ha avuto i consigli di uno spirito."

Tacque. Derek tradusse. Quindi parlò Nia.

— Angai mi ha chiesto se queste persone sono degne di fiducia. Ho risposto di sì. Per quanto ne so. Ma costoro sono in molti, e hanno opinioni diverse. Li ho sentiti discutere.

"Io credo che ci si possa fidare di loro, che si possa credere a quello che dicono. Ma non lo so per certo.

"Mi ha chiesto se recheranno danno al Popolo del Ferro. Costoro non sono pazzi. Non recheranno danno di proposito. Ma sono molto diversi. Se li accoglieremo, cambieranno il nostro modo di vedere il mondo. L’hanno fatto con me.

"Questo è fastidioso. Forse è dannoso. Non lo so."

Nia fece una pausa. Derek tradusse, quindi lei continuò. — Non credo che spariranno. Non sono un miraggio. Sono qui e sono reali. Se li cacceremo via, andranno in altri villaggi. Qualcuno sulla pianura darà loro il benvenuto. Non credo che ci sia un modo di cacciarli dal mondo. Forse si potrebbe fare se tutti si unissero. Ma questo non accadrà, e non so se sarebbe giusto che accadesse. I cambiamenti non sono sempre un male. C’è stato un tempo in cui non esisteva nulla. Gli spiriti apparvero dal nulla. Fecero il mondo e tutto ciò che c’è in esso. La maggior parte di noi è convinta che questo sia stato un cambiamento in bene.

"Il mio consiglio ad Angai è di accogliere queste persone, ma di farlo con prudenza. O mio popolo! Rifletti su ciò che stai facendo!"

L’oracolo fece un passo avanti. — Io non ho molto da dire. Il mio spirito è vecchio e potente. Ha dato buoni consigli alla gente del mio villaggio per molte generazioni. Mi ha ordinato di andare con queste persone senza pelo e di imparare da loro. Ciò che loro conoscono è importante, così ha detto il mio spirito.

"L’ho fatto, percorrendo una lunga distanza con Lixia e Deraku. Abbiamo incontrato molte persone e anche parecchi spiriti. Sono successe alcune cose sgradevoli, ma non a causa di quei due."

Pensai che si stesse comportando con molta cortesia. Io avevo condotto male l’incontro con Inahooli e Derek aveva agito da irresponsabile con il braccialetto che aveva trovato nel vecchio vulcano.

Qualcuno chiese: — Che genere di cose sgradevoli?

— Abbiamo avuto problemi con l’Imbroglione — rispose l’oracolo. — Voi sapete com’è. Un malvagio che causa soltanto guai! Gli piace mettere le persone le une contro le altre. Gli piace far sì che dimentichino tutte le antiche usanze e il modo corretto di comportarsi.

"E abbiamo incontrato uno spirito a nord di qui, non lontano dal fiume. Si trovava in una caverna." Fece una pausa. "Era una di quelle cose che si trovano nei luoghi bui, di solito sotto terra. Hanno nomi diversi. Gli Antichi. Gli Invisibili. I Famelici.

"Di solito non rappresentano un problema. Dormono nel loro luogo oscuro. A volte si svegliano e notano delle persone. Allora è probabile che causino guai, per fame o per una stupida collera." Fece una pausa. "Ho dimenticato ciò che stavo per dire."

— Ti avevo chiesto di esprimere la tua opinione sulle persone senza pelo — disse Angai. — Ma tu ti sei messo a parlare di spiriti.

Lui fece il gesto dell’assenso. — Non sono in grado di dirvi che cosa fare. Non siete il mio popolo, e voi avete i vostri spiriti a cui chiedere consigli. Ma Lixia e Deraku mi piacciono e non credo che queste persone senza pelo siano pericolose.

Terminò di parlare. Derek tradusse.

— Sbagliato — commentò Eddie.

La piazza si stava facendo buia. Le persone andarono a prendere pali di metallo che conficcarono nel terreno. Poi misero torce dentro supporti sui pali. Le torce ondeggiavano al vento, sfolgorando e affievolendosi. Erano quasi tutte vicine ad Angai e illuminavano piuttosto bene lei, Nia e l’oracolo. Ma la luce continuava a cambiare d’intensità. Le ombre sobbalzavano e tremolavano. Volti, mani, occhi e ornamenti di metallo entravano e uscivano dall’oscurità.

— Nia ha parlato in modo chiaro — disse Angai. — E l’oracolo merita di essere ascoltato, anche se non è sempre chiaro.

Una voce disse: — Qual è la tua opinione? Sei tu la sciamana qui. Queste altre persone sono straniere.

— Ve la riferirò. — Aspettò un momento. Le campanelle sulle insegne tintinnavano al vento. Un neonato pianse per breve tempo.

— Io penso che Nia abbia ragione. Dovremmo accogliere queste persone, come abbiamo sempre accolto gli stranieri, non per paura dell’Oscuro, ma per riguardo verso gli spiriti e per un corretto comportamento.

"Penso che Nia abbia ragione su un secondo punto. Questo è un periodo di cambiamenti e noi non possiamo ignorarli. Quando la terra trema e le vecchie piste vanno in nuove direzioni, solo una sciocca pretende di seguire la stessa strada di prima. La donna saggia dice: ’Questa roccia è nuova. Quel pendio non era qui l’estate scorsa’."

Angai si raddrizzò in tutta la sua statura, poi si guardò attorno con atteggiamento autorevole. — Ascoltatemi! Questa è la mia decisione! Daremo il benvenuto alle persone senza pelo. Ma lo faremo con prudenza. Come un viaggiatore saggio, faremo un passo alla volta.

Fece una pausa. Derek tradusse.

— Maledizione! — disse Eddie.

Angai proseguì. — Queste persone senza pelo possono restare nel villaggio che hanno costruito finché si ricorderanno che questo non è il loro paese. Sono ospiti. — Guardò nella nostra direzione. — Non spostate il vostro villaggio senza chiedere il permesso, e non chiedete ad altri vostri parenti di venire a stare con voi. Non voglio che il nostro paese si riempia di persone senza pelo.

"Nia sostiene che fra la vostra gente uomini e donne non possono essere separati. La mia decisione, quindi, è che potete vivere secondo le vostre usanze nel vostro villaggio. Ma quando farete visita a noi o a qualunque altra persona normale, lasciate a casa i vostri uomini."

— Merda — disse Derek.

— Non voglio più avere uomini in questo villaggio. È troppo fastidioso. Le donne anziane si infuriano. I bambini si fanno nuove idee.

Angai tacque e Derek tradusse.

— Questo è bene — disse la Ivanova. — Ma non quanto avevo sperato. — Fece una breve pausa. — È un inizio.

— È una porcheria — protestò Derek. — Come potrò fare il mio lavoro di ricerca sul campo? Dovrò poter andare nei villaggi!

— Parla con gli uomini — gli dissi.

— Cercheranno di uccidermi.

Angai proseguì. — Nia dice che vorrete viaggiare dappertutto e fare domande e osservare cose. Ha ragione? È la verità?

— Sì — risposi.

Angai aggrottò la fronte. — Non sono sicura di quello che sia giusto fare a questo proposito. Non voglio trovare persone senza pelo in ogni parte del nostro territorio, che rivoltano pietre e ficcano bastoni nei buchi. È già abbastanza difficile avere i bambini. — Fece una pausa. — Restate nei pressi del villaggio finché non avrò avuto la possibilità di riflettere meglio su questa cosa.

Derek tradusse.

Eddie disse: — Non funzionerà.

— Sì, invece — ribatté il signor Fang. — Loro hanno il diritto di stabilire questo genere di limitazioni. E noi abbiamo la disciplina per mantenerci entro i limiti da loro stabiliti.

— E per quanto riguarda Nia? — chiese una voce.

— Non ho ancora deciso — rispose Angai.

— Noi sì — fece la voce. — Dieci inverni fa le abbiamo ordinato di andarsene. Non è cambiata. Era una pervertita allora. È una pervertita adesso. Guarda con che genere di persone viaggia! Dille di andarsene con loro. Dille di vivere nel loro villaggio, non qui, fra persone che sanno comportarsi come si deve.

La folla si divise. Ora vedevo la persona che aveva parlato: una donna tarchiata di mezza età. La sua pelliccia era di un bruno medio e stranamente opaco. Assorbiva la luce come argilla.

— Quella è Anhar — disse Nia.

— Chiederò agli spiriti che cosa fare riguardo a Nia — dichiarò Angai. — Non oggi. Non amano che si pongano loro molte domande tutte in una volta.

— A te è sempre piaciuta Nia — protestò Anhar. — L’hai sempre protetta. Stai cercando di farla tornare nel villaggio.

Angai disse: — Tu non sai mai quando tacere, Anhar. Sono stanca delle tue opinioni! Hai una mente ristretta, piena di idee malvagie. È come un formaggio rosicchiato dagli insetti del formaggio. Come un animale morto mangiato dai vermi.

— Caspita! — esclamò Derek.

Anhar si voltò. La folla la lasciò passare. Si allontanò da Angai e dalla piazza illuminata dalle torce e sparì nell’oscurità.

— E per quanto riguarda l’uomo? — domandò un’altra donna. — La Voce della Cascata?

L’oracolo rispose. — Io andrò al villaggio delle persone senza pelo. Il mio spirito mi ha ordinato di imparare da loro. Non ho fatto nessun nuovo sogno che mi dicesse di fare altrimenti.

Angai disse: — Ho finito di parlare. Avete sentito la mia decisione. Siete d’accordo con me? O ci dovrà essere una discussione?

Ci fu silenzio. Avevo la sensazione che le persone attorno a me non fossero soddisfatte, ma nessuno era disposto a parlare.

Alla fine qualcuno domandò: — Che cosa ti hanno detto gli spiriti, Angai?

— Ho sognato che mi trovavo su una pista che non riconoscevo. Il territorio che mi circondava era sconosciuto. Il suolo sotto i miei piedi scottava. C’era fumo che saliva da fori. Non riuscivo a vedere dove stavo andando.

— Non mi sembra un sogno favorevole, Angai.

La sciamana si accigliò. — Non ho finito! Con me c’era una vecchia. Aveva un ventre grasso e seni cascanti. Portava un bastone e mi sembrò che avesse dei problemi a camminare. A volte camminava al mio fianco. A volte davanti. A volte dietro. Non mi lasciava mai. Ogni tanto faceva dei versi: grugniti e gemiti. Quasi sempre restava in silenzio. Una volta era dietro di me e mi sembrò di sentirla incespicare. Mi fermai a guardarmi alle spalle. Lei disse: ’Continua a camminare. Non preoccuparti per me. Per quanto sia vecchia, terrò il passo con te’. Proseguii. Il sogno è terminato così.

La donna che aveva fatto la domanda disse: — D’accordo. Sarò d’accordo con te, Angai. Anche se queste nuove persone mi mettono a disagio. E anche se penso che Anhar abbia ragione riguardo a Nia.

Angai fece il gesto che significava "basta così". Si voltò ed entrò nella tenda.

Dissi: — Finisci tu di tradurre, Derek. Voglio parlare con Nia.

Lui fece il gesto dell’assenso.

Mi avvicinai a Nia e all’oracolo. Due donne tolsero le torce dai loro sostegni e le portarono via.

Nia disse: — Non sono sicura che Angai stia agendo in modo intelligente. Sarebbe dovuta essere più cortese con Anhar. Adesso si è fatta una nemica.

— No — fece l’oracolo. — Non ha cambiato niente. Erano già nemiche. Adesso possono smettere di fingere. Io non ho mai avuto un nemico, ma so che è difficile essere gentili con qualuno che si odia. È logorante per una donna. Perde le forze. Non può fare cose che sono importanti.

— Non hai mai avuto un nemico? — domandai.

— Gli uomini per lo più non ne hanno. Se un uomo si arrabbia, affronta la persona che l’ha fatto infuriare. Altrimenti se ne va. Le donne sono intrappolate nei loro villaggi. Trascorrono un inverno dopo l’altro accanto a persone per cui provano antipatia. Non manifestano la loro collera. Non possono andarsene. Ciò crea le inimicizie. L’ho visto succedere.

— Vuoi restare nel villaggio? — chiesi a Nia.

Lei fece il gesto dell’incertezza.

— Hai un posto dove stare questa notte?

— Qui. Con Angai. — Nia fece una pausa. — Quella era Ti-antai. La donna che ha parlato per ultima. La donna che ti ha curato la mano questa mattina. Era una mia buona amica quando eravamo giovani.

Aiya! - esclamai.

L’oracolo disse: — Io verrò con voi. La notte scorsa Angai mi ha fatto stare ai margini del villaggio in una vecchia tenda che era piena di buchi. Anche con i buchi e il vento che soffiava dentro, puzzava di vecchiaia e di pazzia. — Fece una pausa. — Non pazzia santa. Dell’altro genere.

La piazza era deserta fatta eccezione per i miei compagni. Le torce erano tutte sparite. Non c’era alcun rumore all’infuori del vento e della voce di Derek, che stava ancora traducendo.

— Che cosa voleva dire il sogno? — chiesi. — Perché ha convinto tua cugina?

— Tu non conosci molto, vero? — disse Nia.

— No. Chi era la donna anziana?

— La Madre delle Madri. Se lei ci dice di proseguire attraverso un territorio sconosciuto, allora lo facciamo.

— Era un bel sogno — osservò l’oracolo. — Non ne ho fatti molti che fossero così facili da interpretare. Nessuno può metterlo in discussione.

Derek disse: — Io ho finito.

— Arriviamo — risposi.

Lasciammo la piazza, attraversando il villaggio buio.

Fu la Ivanova a parlare: — Questa decisione non soddisferà nessuno. I gruppi di ricerca vorranno poter viaggiare. Ed Eddie, naturalmente, è sconvolto dal fatto che non ci abbiano ordinato di abbandonare il pianeta.

— È vero — confermò Eddie.

— Credo che il problema sia marxismo volgare — intervenne il signor Fang.

— Oh, sì? — dissi.

— Noi tendiamo a semplificare troppo il processo dialettico e ci facciamo affascinare dal dramma della rivoluzione. Dimentichiamo che la storia umana è molto complessa e molto lenta. Ogni grande cambiamento è preceduto da una moltitudine di piccoli cambiamenti. Ci sono compromessi. Ci sono fallimenti. Facciamo un passo avanti e poi siamo costretti a tornare indietro di un passo o perfino di due.

"Perfino le rivoluzioni sono piene di compromessi e fallimenti. Anche nel mezzo di grandi trasformazioni, arretriamo. Dopo il trionfo della Rivoluzione d’Ottobre vennero Kronstadt e il soffocamento dell’Opposizione dei Lavoratori."

— Non capisco dove porti questo discorso — disse la Ivanova.

— Noi ci aspettavamo che questo incontro avrebbe risolto ogni cosa. Ci aspettavamo una rivoluzione, del genere chiaro e semplice che vediamo sull’olovisione.

"Siamo nel mezzo di una rivoluzione che va avanti da oltre cinque secoli. Non hp idea di quando finirà, se mai finirà. Ma non è un semplice dramma teatrale. Non procede continuamente e non ci sono divisioni nette. Non c’è nessuna scena, nessun atto. Nessuno, almeno, che possiamo vedere. Queste cose le inseriscono più tardi gli storici.

"Oggi, credo, la rivoluzione è entrata in una nuova fase. Indubbiamente si è spostata su un nuovo palcoscenico. Ci sono nuovi attori e nuovi problemi, ma non c’è nessuna risoluzione."

— Questo è abbastanza vero — disse Eddie. — Quello che abbiamo raggiunto è un maledetto compromesso. Non reggerà. Una volta che saremo quaggiù…

La Ivanova disse: — Una volta tanto sono d’accordo con Eddie. Dobbiamo poter viaggiare. Abbiamo fatto tanta strada. — Esitò. — Forse potremo trovare un altro popolo che stabilirà meno restrizioni.

— Non questa notte — replicò il signor Fang.

Arrivammo al fiume. C’erano luci su una sola delle imbarcazioni. Tatiana e Yunqi sedevano insieme sul ponte. Aiutarono il signor Fang a salire a bordo. Eddie e la Ivanova li seguirono.

L’oracolo disse: — Voglio dormire. È stata una lunga giornata.

— Su questo hai ragione — osservai.

Lo accompagnammo sull’altra barca e gli preparammo un letto nella cabina.

Uscii sul ponte insieme a Derek e ad Agopian. L’aria del fiume era fresca e brulicava di insetti che sciamarono attorno alle luci del ponte non appena le accendemmo. Agopian e io ci sedemmo. Derek andò a prendere delle birre.

Bevemmo, senza parlare. Sentivamo le voci che provenivano dall’altra imbarcazione: Eddie e la Ivanova che descrivevano a Tatiana e Yunqi quanto era successo.

Agopian disse: — Non so per quanto tempo andrà avanti quella conversazione.

— Per ore, con ogni probabilità.

— Forse. — Mise giù la bottiglia. — C’è qualcosa di cui devo parlarvi.

Lo guardai. — Il tuo segreto. La tua complicazione etica.

— Sì.

— Non può aspettare?

— Non sono certo che riuscirò a trovarmi ancora da solo con voi. Questo è il momento perfetto, se avrò abbastanza tempo.

Derek disse: — Sono pronto ad ascoltare.

Agopian guardò verso di me.

Feci cenno di sì col capo.

— Cercherò di raccontarvi questa cosa il più rapidamente possibile. Non so quando finirà quella conversazione e Tatiana tornerà. Ci sono informazioni che sono state tenute nascoste e menzogne che sono state dette. Penso che sia venuto il momento di correggere questa situazione.

Derek si protese in avanti. — Che genere di informazioni?

— Storia. Ciò che è successo sulla Terra durante gli ultimi cento anni.

— Abbiamo i messaggi provenienti dalla Terra — dissi.

— Sono tutte menzogne.

— Lo sai per certo? — chiese Derek.

— Le ho scritte io… con l’aiuto di altri, naturalmente. È un lavoro troppo grosso per una sola persona.

— Perché? — chiesi.

Derek domandò: — Quando?

— Sapete che ci sono stati problemi per arrivare in questo sistema.

Derek fece il gesto dell’assenso.

Agopian assunse un’aria perplessa e continuò. — Ci sono stati detriti in quantità assai maggiore di quanto avessimo previsto, e gran parte di questi erano a notevole distanza. Una specie di supernuvola. E ci sono stati problemi col sistema di navigazione spaziale. I computer hanno stabilito che si trattava di un’emergenza e hanno svegliato in anticipo l’equipaggio. Abbiamo guidato noi la nave in questo sistema.

"Non avevamo il tempo di svegliare nessun’altra persona, ma ne avevamo per controllare i messaggi che erano arrivati dalla Terra. Erano assurdi."

— Che cosa vuoi dire? — chiesi.

— Voglio dire esattamente quello. I messaggi erano assurdi. La Terra era cambiata moltissimo. — Fece una pausa. — Noi pensavamo che la storia si sarebbe fermata solo perché la nostra vita si era fermata, perché dormivamo un sonno magico come bambini in una fiaba.

"Non era vero. La storia era andata avanti e aveva preso un corso…" Esitò di nuovo. "Il progresso non è inevitabile. Questo è un errore che fanno i marxisti volgari. Mi è sempre piaciuto quel termine. Immagino un uomo con una grossa e folta barba, che scoreggia a tavola mentre spiega il feticismo delle merci o la teoria socialista del valore. E naturalmente sbaglia la teoria.

— Di che cosa stai parlando? — chiesi.

— Del progresso. Non c’è nessuna legge che dica che la società deve sviluppare forme sociali sempre più elevate. Il crollo è sempre possibile. Il regresso o la stagnazione. Questo è in sostanza quanto è successo dopo il Ventesimo Secolo. Non il regresso, ma la stagnazione. Credevamo che fosse una caratteristica delle società post-capitalistiche: estrema stabilità, rispetto all’estrema instabilità del capitalismo, il ritmo folle del cambiamento durante il Diciannovesimo e il Ventesimo Secolo.

"Ora credo che la stabilità fosse frutto del terribile caos creato nel Ventesimo Secolo, la scarsità di risorse e lo stato precario dell’ambiente. Abbiamo passato duecento anni a ripulire tutto, cercando di riportare il pianeta al suo stato precedente, di disfare ciò che avevano fatto quei criminali e i loro epigoni. Non avevamo il tempo per le innovazioni."

— Abbiamo costruito le colonie L-5 — dissi.

— E la nave — aggiunse Derek.

— Quelli erano nuovi oggetti. Io sto parlando di nuove idee. Quasi tutta la nostra ideologia e la nostra tecnologia provengono… provenivano… dalla vecchia società. La maggior parte di ciò che abbiamo fatto si basa su quanto le persone sapevano già prima del crollo.

— Questo non è del tutto vero — dissi.

— Lo è in gran parte — ribatté Agopian. — Siamo stati come gli individui dell’inizio del Medio Evo. Usavamo la vecchia conoscenza in modi nuovi, ma non vi aggiungevamo niente.

Derek si accigliò. — Contesto questa analogia.

— Non voglio stare a discutere sul Medio Evo.

Derek fece il gesto che significava "dimentica quello che ho detto".

— In ogni caso, la stabilità, o stagnazione, è stata solo temporanea. È quanto abbiamo appreso quando ci siamo svegliati e abbiamo ascoltato i messaggi provenienti da casa. Più o meno nel periodo della nostra partenza le differenti società sulla Terra hanno incominciato a mutare rapidamente.

Fece una pausa, corrugando la fronte. — I cambiamenti erano allarmanti. Noi… mi riferisco all’equipaggio… riuscivamo a stento a governare le informazioni che stavamo ricevendo, ed è fuori discussione che siamo le persone più disciplinate sulla nave. Non avevamo idea di quello che sarebbe successo se il resto di voi si fosse svegliato e avesse sentito. Immaginammo panico e crollo del morale. Alcuni avrebbero voluto tornare immediatamente a casa, sebbene ci sia da chiedersi a quale scopo. Altri sarebbero crollati. Ci sarebbero stati mesi di discussioni e un calo nella qualità del lavoro. Ci è sembrato che la spedizione dovesse essere protetta. Abbiamo votato, tutti coloro che non erano ibernati. Abbiamo deciso di cambiare i messaggi.

Aprii la bocca.

Agopian alzò una mano. — Non fare domande. Non so quanto tempo mi resti e voglio riferirvi quanto più possibile.

— Okay.

— Abbiamo incominciato col cambiare la storia. È stato relativamente facile. Abbiamo scritto… io ho scritto… una storia alternativa, che ci facesse sentire più a nostro agio. Dopo di che è stata tutta una questione di ricerca e sostituzione. Abbiamo detto al sistema di computer di cercare determinate categorie di eventi, di cancellarle e sostituirle con altre categorie di eventi.

Sorrise. — Devo dire che provo un nuovo rispetto per i bugiardi, soprattutto coloro che sono vissuti prima dei computer. Non ho idea di come si possa riuscire a riscrivere la storia senza un computer.

— Perché l’avete fatto? — chiesi. — Che cosa poteva esserci di così terribile nei messaggi che provenivano dalla Terra?

Agopian si sedette accanto a una delle luci del ponte. Lo vedevo chiaramente: una faccia rettangolare color bruno chiaro. Gli occhi erano grandi e scuri, il naso alto e stretto, leggermente curvo. La bocca era normale. Erano gli occhi che dominavano il viso e i capelli ricciuti e ribelli, portati un po’ più lunghi di quanto fosse di moda fra i membri dell’equipaggio.

— Ci sono tre cose che contano per me: il socialismo, il marxismo e l’Unione Sovietica. Non penso che quello che provo sia sciovinismo. È amore per un luogo e orgoglio per ciò che i suoi abitanti hanno fatto. Hanno lottato ripetutamente, generazione dopo generazione, per edificare una società che incarnasse realmente i principi del socialismo. Ci sono riusciti, anche se solo a stento. La rivoluzione non è stata distrutta dallo stalinismo, né dal fascismo, né dal nazionalismo e neppure dai numerosi crimini e dalla sorprendente stupidità degli aparatchik, i burocrati. Alla fine le persone sono riuscite a creare una società che fosse soddisfacente e giusta.

— Se questo ti fa sentire meglio, possiamo assicurarti che il tuo sentimento non è sciovinismo — disse Derek.

Agopian sorrise. — La mia vita è stata costruita attorno al socialismo, al marxismo e all’Unione Sovietica. Sono come coordinate. Mi danno un posto nello spazio e nel tempo. Mi danno una struttura: morale, intellettuale, storica, sociale e personale.

"Quando penso di perderle… è come trovarsi nello spazio. Non c’è niente sopra né sotto. Niente vicino né lontano. Ci sono soltanto l’oscurità e le stelle. Poi ti volti ed ecco lì la nave o la Terra o una stazione. Sei in grado di orientarti. Ma se ti voltassi e non vedessi niente? Solo altra oscurità e altre stelle?

"Non esisono più paesi sulla Terra né in nessun altro luogo del sistema solare. Secondo quanto ci hanno detto i messaggi, laggiù hanno abbandonato categorie antiquate come "nazione". Hanno abbandonato categorie antiquate come "socialismo". Le idee del Diciannovesimo Secolo hanno ancora un interesse storico, ma non sono più pertinenti. Non è più possibile usare le costruzioni del marxismo. Semplicemente non funzionano. È questo che dicevano i messaggi."

Raccolse la sua bottiglia di birra e l’agitò. — Per quanto sono in grado di giudicare, queste persone non hanno alcun interesse in nessun tipo di sistema: politico, economico o intellettuale. — Si alzò in piedi. — Ho bisogno di un’altra birra. E voi?

— Che cosa fa la Ivanova? — s’informò Derek.

Lui restò un momento in ascolto. — Va ancora forte. In ogni caso vi ho riferito le informazioni importanti. Volete qualcosa da bere?

— Birra — rispose Derek.

Agopian entrò nella cabina.

— Sta dicendo la verità? — chiesi.

Derek fece il gesto del dubbio.

Agopian tornò e porse una bottiglia a ciascuno di noi. Si sedette ed emise un verso fra il gemito e il sospiro.

Bevvi la birra. — Hai detto che avete incominciato cambiando la storia.

Lui annuì col capo.

— Che cos’altro avete cambiato?

— Non dovete preoccuparvi dei messaggi personali. Riguardo a quelli non abbiamo fatto quasi niente. Per lo più venivano dai primi due o tre decenni del nostro viaggio. Vi capita mai di pensare alle persone che hanno mandato i messaggi? I nostri amici. Le nostre famiglie. Loro sapevano che le persone sulla nave erano ibernate. Sapevano che quando ci saremmo svegliati, loro sarebbero stati già morti.

"Ovviamente, col tempo la maggior parte di loro ha rinunciato. Cinque anni. Dieci anni. Dopo di che soltanto i fanatici hanno mandato molto. Noi eravamo usciti dalla loro storia e dallo spazio che conoscevano. Per loro siamo diventati irreali.

"Quei messaggi non costituivano affatto un pericolo. Erano discorsivi e informali, disorganizzati, pieni di notizie di famiglia, esattamente ciò che ci si aspetterebbe da una madre o una sorella. Abbiamo dovuto eliminare qualche riferimento ad avvenimenti storici. Altrimenti niente."

Fece una pausa. — Parte del materiale attinente ai fatti era okay. La tale e la tale stella è appena diventata una nova. Abbiamo scoperto una nuova forma di vita su Titano.

"Ma le teorie! Vi ho detto che queste persone non sono interessate a nessun genere di struttura. Quello è il problema numero uno. Il numero due è che non sembrano distinguere fra realtà e fantasia, o fra materiale che è pertinente e tutto il resto. Alcuni dei messaggi sembrano poesia. Altri sono storie delle quali non riesco ad afferrare alcun senso. Altri sembrano pettegolezzi o un insieme di proverbi. E altri ancora sono una sequela di fatti non collegati che non appartengono neppure alla stessa disciplina.

"E mescolate a tutto il resto ci sono sciocchezze: stupide barzellette e antiche leggende e immagini olografiche di chissà che cosa. Famiglie di estranei. Un hotel per vacanze su Marte.

"Questi sono i messaggi degli scienziati! Per metà del tempo parlano come una qualche vecchia signora un po’ pazza che si incontra al parco e che ha una teoria sull’astrologia e la storia. O come l’uomo che viene a riparare l’impianto idraulico e spiega la vera causa dell’ultima epidemia virale. ’Viene tutto da Titano. Fanno cose lassù da non credere. Non la guardate l’olo? Statemi a sentire, uno di questi giorni arriva giù un germe che fa sembrare una bazzecola l’Aids. Mi passate la chiave inglese?’"

Derek sorrise.

— Non è divertente!

— Abbiamo cercato di trasformare quei messaggi in qualcosa che avesse senso. Di dar loro una struttura teorica, di inserirli in un sistema. Non è stato facile. Abbiamo scongelato alcuni scienziati, persone di cui pensavamo di poterci fidare. Perfino loro hanno avuto problemi, in particolare i fisici. Hanno detto che la teoria fisica è assolutamente assurda. — Sorrise. — Ma interessante, hanno detto, sebbene non si sentissero a proprio agio con l’occasionalità o l’esigenza dell’intervento di svariate divinità, di solito all’inizio e alla fine dell’universo, anche se, credo, gli dei siano necessari anche per spiegare il comportamento di determinati tipi di particelle.

— Perché ci stai raccontando tutto questo? — domandò Derek.

Agopian bevve ancora un po’ di birra. — Stavo pensando agli uomini che lavoravano per Stalin, cancellando dalle fotografie i vecchi bolscevichi, uno dopo l’altro, man mano che venivano epurati.

"Gli individui che facevano queste cose avevano dei buoni motivi. Forse non buoni per voi o per me, ma convincenti per loro. La rivoluzione era isolata e in pericolo. Andava difesa dai nemici che approfittavano di ogni insuccesso, di ogni lite e incrinatura per farne qualcosa di mostruoso.

"Stavano cercando di difendere la rivoluzione quando eliminarono Trotsky dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo.

"Il problema è che avevano torto e hanno contribuito a distruggere la spedizione."

— Che cosa? — dissi.

— Volevo dire la rivoluzione.

Derek fece il gesto che significava "siete assolutamente matti".

— Che cosa significa? — chiese Agopian.

— Voialtri siete dei pazzi.

Agopian annuì. — È vero. Ed è quello che intendo dire alla Ivanova. Tutto questo deve finire. Non sono del tutto certo di quello che farà lei. Voglio che altre persone siano a conoscenza di quanto sta succedendo.

— Credi che ti farà del male?

— Capitano incidenti. Ci sono membri dell’equipaggio che si sono rifiutati di andare avanti con il progetto. Li abbiamo ibernati.

— Con la forza?

Fece cenno di sì col capo.

— C’è un due per cento di probabilità di gravi danni irreversibili — dissi. — E questo la prima volta che una persona viene ibernata. Ogni volta in più aumenta la percentuale dei possibili danni.

Lui annuì di nuovo. — C’è la possibilità che io sia un assassino. Ci penso spesso. Non sono contrario all’assassinio in sé. Ci sono situazioni in cui è giustificato. Ma non credo che questa sia una di quelle occasioni.

Bevve un altra sorsata di birra, poi mise giù la bottiglia e si protese in avanti. — Voglio offrire alla Ivanova una possibilità di… che cosa? Denunciarsi, immagino. Non mi va l’idea di fare la spia. Ma non voglio darle la possibilità di eliminarmi.

— Stai dicendo sul serio? Pensi davvero di essere in pericolo?

— Credo che ci sia una possibilità. Non grossa. Non avrebbe modo di ibernarmi quaggiù e non ritengo probabile che cerchi di uccidermi. Ma abbiamo fatto un sacco di stupidi progetti. — Fece una pausa e inclinò la testa. — Hanno finito di parlare. È meglio che torni. — Si alzò in piedi.

— Si tratta di una questione morale? — domandò Derek. — Sei giunto alla conclusione che mentire è sbagliato?

Agopian sorrise. — È una domanda strana fatta da te.

Derek attese.

Agopian continuò: — Non mi piace pensare che mi adatterei bene all’epoca di Stalin. E non credo che potremo passarla liscia. Ci sono state troppe menzogne che hanno coinvolto troppe persone. È solo questione di tempo prima che qualcuno parli, o qualcuno capisca quello che è successo. — Si diresse verso il parapetto, poi si voltò a guardare indietro. — Ho conservato i messaggi. Quando la gente li vedrà, non avrà più voglia di tornare a casa. — Scavalcò il parapetto e saltò sulla riva. Dopo circa un minuto sentii la sua voce, che salutava qualcuno sull’altra barca.

Derek disse: — Questa non è una situazione che si possa discutere con la birra. Richiede del vino. O forse dell’acquavite. — Si alzò, raccolse le bottiglie ed entrò nella cabina.

Restai seduta in silenzio, ascoltando Agopian che parlava in russo. La sua voce era leggera, rapida e fluida. Gli rispose la voce piena da contralto della Ivanova. Non stavano parlando di niente di serio. Lo intuivo dal tono.

Derek tornò con due bicchieri di vino. Me ne porse uno.

— Agopian non è un burlone, vero? — chiesi.

— No, e non riesco a immaginare che un bugiardo per costrizione si sarebbe imbarcato sulla nave. Credo di poter presumere che stia dicendo la verità.

— Sorprendente!

— Senza dubbio lo è. Si sedette e appoggiò le spalle allo schienale della poltroncina. — Questo spiega alcune cose strane nelle informazioni provenienti da casa.

— Che cosa faremo? — chiesi.

— Berremo il vino, poi andremo a dormire.

Aggrottai la fronte.

— Non affronterà la Ivanova questa notte. Ci sono Eddie e il signor Fang. Vorrà prenderla da sola. — Bevve un po’ di vino. Un insetto dalle ali scarlatte scese svolazzando alla luce e andò a posarsi sull’orlo del suo bicchiere di vino. Derek sorrise. L’insetto rimase lì per circa un minuto, agitando le ali, poi si alzò di nuovo in volo, librandosi oltre il parapetto e scomparendo nell’oscurità sopra il fiume.

— Penso che domani faremmo meglio a raccontare tutto a Eddie. Glielo dobbiamo. Se Mesrop ha ragione, i messaggi cambieranno l’opinione delle persone su questo pianeta. È possibile che si decida di cercare una nuova patria.

— Qui? — chiesi.

— Forse. Il viaggio di ritorno a casa dura più di cento anni. Forse a quel punto le cose saranno tornate come prima. Ne dubito, però. La storia può essere una spirale, non un cerchio. Non si torna mai al punto da cui si è partiti.

— Parli come un marxista.

Lui si alzò, sorridendo. — Quei tristi individui superati? — Mise giù il bicchiere. Era ancora pieno a metà. — Povero, stupido Agopian! Buonanotte.

Entrò nella cabina. Io finii di bere, poi lo seguii e spensi le luci.

Mi svestii al buio, aprii il letto e mi coricai. Come potevo dormire? Ascoltavo il respiro dei miei compagni e pensavo a casa. Il Libero Stato delle Hawaii. La Confederazione dei Grandi Laghi. L’Alta California. Il Nuevo Mexico. Spariti. Tutti spariti. Le nazioni e le tribù del Nord America.

Mi svegliai e trovai la cabina deserta, mi vestii e uscii all’aperto. Eddie e Derek erano seduti e bevevano caffè. C’era una caffettiera sul tavolo e una tazza vuota. Riempii la tazza, poi mi sedetti.

Una splendida mattina! Le nuvole vagavano sulla valle, illuminate dal sole mattutino. Il fiume era in ombra. Luccicava bruno come bronzo.

— Dov’è l’oracolo? — domandai.

— Su al villaggio — rispose Derek. — Si sta procurando del cibo. Tatiana è andata con lui. Voleva dare un’altra occhiata ai nativi sul luogo.

Lanciai un’occhiata a Eddie. La sua espressione era insolitamente cupa. — Glielo hai detto?

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Che cosa faremo?

Eddie disse: — Mi piacerebbe passare sotto silenzio l’intera faccenda, ma non credo che sia possibile.

— Lo faresti? — Bevvi un po’ di caffè, poi mi appoggiai allo schienale della poltroncina. Esisteva un piacere simile al caffè in una fresca mattina d’estate?

Be’, sì. Ma non era questo il momento di fare un elenco.

— Se ho capito correttamente, Mesrop sostiene che non ci adatteremo più sulla Terra. Credo che sentiremo argomenti favorevoli a rimanere qui e a fondare una colonia. — Fece una pausa. — Dovevano essere pazzi. Per me non ha alcun senso logico. Non avevano alcuna possibilità di mantenere un segreto così grosso. Né di riuscire a riscrivere tanta storia. — Fece un’altra pausa. — Credo di riuscire a capire ciò che Agopian sta facendo ora. Ci sta spingendo verso l’intervento.

Feci il gesto del dissenso. — Non credo che stia complottando, ma piuttosto che stia cercando di tirarsi fuori da un complotto.

— Può darsi.

— Non sottovalutarlo — disse Derek. — E non pensare mai che faccia qualcosa per ragioni semplici. È un uomo pericoloso. È convinto che le idee siano importanti.

— E tu no? — chiesi.

— Le idee vanno bene per trastullarcisi all’università. Ma non hanno molto a che fare con la vita. Non riesco a immaginare di uccidere per una qualsiasi astrazione. E di certo non sacrificherei me stesso. Agopian sì. L’ha fatto.

Eddie disse: — Che cosa intendete fare tu e Derek? È questo che voglio sapere.

Lo guardai.

— Hai intenzione di riferire questa storia alle persone al campo?

— No.

Eddie sembrò sorpreso, e fiducioso, se interpretavo correttamente la sua espressione.

— La decision spetta ad Agopian. Se decide di tacere, o se gli succede qualcosa, io e Derek parleremo. Altrimenti no.

— Cancella il piano A — disse Derek. — Che consisterebbe nel chiudere la bocca ad Agopian in un modo o nell’altro. Lixia, tu sei più vicina al caffè.

Riempii di nuovo la sua tazza.

— Non c’è modo di evitarlo, Eddie. Agopian farà la sua grande confessione. E noi incominceremo a pensare di restare su questo pianeta. Ha fatto sembrare la Terra un luogo davvero sgradevole.

— Potrebbe avere torto — disse Eddie. — O mentire. Non c’è ragione di credergli.

Mi protesi in avanti. — Ha conservato le copie dei messaggi. Quelle originali. Ci sono i dati.

— Deve avere l’archivio personale più voluminoso della nave — osservò Derek.

— Potrebbe aver alterato quei messaggi. Forse sono quelli i falsi.

Derek disse: — Stai suggerendo che la storia di Agopian sia tutta una menzogna e che lui abbia passato il suo tempo libero creando una storia contraffatta della Terra, che ora presenterà come la vera storia tenuta nascosta.

— Perché no? — fece Eddie.

— È un’eccellente fantasia paranoide. Ma quando incominceremo a cercare, troveremo le sue istruzioni al sistema di comando. Le cancelleremo e poi incominceremo a ricevere messaggi che non sono stati cambiati. Agopian non ha alcuna possibilità di alterare le informazioni che stanno ancora passando. Può darsi che sia riuscito a cambiare il passato, ma non può cambiare il futuro.

Eddie scosse il capo. — Non riesco ancora a capire perché l’abbiano fatto. Se Agopian dice la verità.

— Perché tu ci hai chiesto di alterare quello che avrebbe detto la Ivanova quando avremmo tradotto per lei? — gli domandai.

Eddie parve irritato, ma dopo un momento disse: — Farò ciò che devo: impedire alla popolazione di qui di soffrire come ha sofferto il mio popolo.

— Loro stavano cercando di salvare la spedizione — disse Derek. — E, credo, anche quel che potevano del loro passato. Non volevano che noi perdessimo ciò che è andato perduto sulla Terra. — Si alzò in piedi. — Credo che sia ora di colazione. — Andò nella cabina.

Eddie e io restammo seduti in silenzio, a bere caffè.

Derek tornò con focaccine, burro, marmellata e un bricco di caffè fresco.

Mangiammo. Alla fine Eddie si alzò. — Vado a parlare con la Ivanova e il signor Fang. Dobbiamo decidere quando partire.

Raccolsi i piatti e li portai nella cambusa, li lavai e tornai sul ponte. Derek se ne era andato via da qualche parte. La mia iniziale felicità mattutina era svanita e ora mi sentivo tesa e un po’ depressa. Non avevo alcuna voglia di tornare al campo. Ci sarebbe stato uno scontro veramente atroce. Mi piaceva Agopian. Ora si era trasformato in qualcuno che non riconoscevo. Avevo creduto di conoscere la storia del mio pianeta. Ma stava cambiando e svanendo… come che cosa? Nebbia o foschia. Il mio passato stava andando in cenere.

Decisi di salire al villaggio.

Oggi c’era un’atmosfera diversa. Una tensione sotterranea. Niente che potessi indicare esattamente. Qualcosa nel modo in cui le persone si muovevano, nel modo in cui parlavano o non parlavano.

Mi faceva sentire a disagio. Andai fino ai margini del villaggio e gironzolai lì attorno, evitando le persone e osservando gli insetti fra la vegetazione. La giornata si fece caldissima. L’aria odorava di letame e dell’arida pianura. Di quando in quando il vento mi portava l’odore del fumo di legna.


Tanta bellezza!

Tanta bellezza!

Perché sprechiamo il nostro tempo?


Feci il mio yoga, guardando verso la pianura, poi mi voltai e vidi una dozzina di bambini. C’erano i piccoli simili a cuccioli: rotondi, grassi e nudi a parte la pelliccia. E c’erano quelli alti e dinoccolati come puledri: nervosi, pieni di energia, pronti a correre. Questi ultimi portavano indumenti: tuniche sbiadite e gonnellini laceri. Vestiti per giocare.

Uno dei bambini più grandicelli mi chiese: — Che cosa stai facendo?

Non conoscevo la parola per "esercizio" né quella per "meditazione".

— Sto estendendo il mio corpo e frenando la mia mente.

— Uh! Sei strana!

— È possibile.

Chiesi i loro nomi. Me li dissero. Mi domandarono quando sarei partita. Risposi che non lo sapevo.

— Diccelo prima di andartene — fece uno. — Vogliamo venire giù al fiume a vedere le vostre barche che si muovono da sole.

Un altro, uno dei piccoli, esclamò: — Come pesci! Come lucertole!

— D’accordo.

Tornai attraversando il villaggio. I bambini mi accompagnarono. Tacquero quasi tutto il tempo. Ogni tanto uno parlava.

— Quella è la tenda di mia madre.

— Ho ucciso un uccello con il mio arco nuovo.

— Che effetto fa a non avere pelliccia?

— Fresco — dissi. — Posso sentire il vento.

— Ma in inverno, devi avere freddo.

Feci il gesto dell’assenso. — Preferirei avere la pelliccia.

Arrivammo all’altra estremità del villaggio e i bambini mi fecero cenni di saluto.

Agopian era sulla mia barca, seduto sul ponte. Con lui c’erano Derek, Eddie e la Ivanova.

Salii a bordo.

— Ti stavamo aspettando — disse Derek.

— È fatta — mi disse Agopian.

— Non sono contenta delle precauzioni di Mesrop — fece la Ivanova. — Si sta comportando come se io fossi una specie di criminale.

Agopian alzò lo sguardo. — Elizaveta, abbiamo infranto delle leggi.

— Avevamo delle buone ragioni.

— Questo è qualcosa che faccio fatica a capire — dissi. — Quali erano le ragioni? E dov’è la birra?

— Al solito posto — rispose Derek. — Prendine una per me e Agopian.

Quando tornai fuori, la Ivanova disse: — Capirai quando sentirai i messaggi. Il socialismo non significa la riduzione di ogni cosa al minimo comun denominatore. Significa offrire agli individui la libertà di realizzare il loro massimo potenziale. Significa un innalzamento dell’umanità. Una nobilitazione. — Fece una pausa. — Quanto tempo abbiamo impiegato? Quattro secoli? Duecento anni di lotta per mettere fine a quell’orribile sistema e altri duecento anni di duro lavoro per ripulire la sporcizia che si era lasciato dietro? Quante persone sono morte di fame o avvelenate da tutti i diversi tipi di inquinamento? Avete mai guardato le statistiche sulla morte per fame e le malattie?

"Quante persone sono state assassinate perché volevano un sindacato o libere elezioni? O qualcosa di molto semplice. Il diritto di decidere chi avrebbero amato. Il diritto di decidere quanti figli avrebbero messo al mondo.

"Tutta quella sofferenza, quelle generazioni di lotte." Aveva parlato tenendo lo sguardo abbassato. Ora alzò la testa. C’erano rughe sul suo viso che non ricordavo.

— Pensavamo di aver vinto. Quando abbiamo lasciato la Terra, quando abbiamo iniziato questo viaggio, sembrava che l’umanità fosse sul punto di raggiungere un’età dell’oro. Un’autentica società socialista.

"Ci siamo risvegliati ai margini di questo sistema e abbiamo scoperto… non so come definirlo."

— Spazzatura — disse Agopian. — È come se avesse prevalso il pensiero umano peggiore e più basso. È davvero terribile, Lixia.

— Avete riscritto i messaggi perché non vi piacevano — dissi. — La storia non si era evoluta come volevate voi, così avete cercato di correggerla. Disfarla.

— No — ribatté la Ivanova.

Agopian disse: — Forse.

La Ivanova lo guardò con cipiglio, poi si rivolse a me: — Adesso che cosa succederà?

— Torneremo al campo, e tu e Agopian racconterete la vostra storia.

Lei guardò Eddie. — Credi che sia una buona idea?

— No. Ma non vedo alcun modo di far tacere Lixia, Derek e Agopian.

— Non c’è alcun modo — dichiarai. — Non intendo andare avanti con una menzogna di tale vastità.

Agopian mi guardò. Sembrava un po’ ubriaco. — Tu sei più forte di me, Lixia, e più innamorata delle astrazioni. Verità. Bellezza. Integrità. Ci annienteresti tutti per quelle parole.

— Tu non sei nella posizione di criticare — disse la Ivanova.

Mi rivolsi a Eddie. — Quando partiamo?

— Domattina. Presto. Tu e Derek dovreste andare al villaggio a congedarvi formalmente.

Derek fece il gesto del dissenso. — Angai ha detto niente uomini. Credo che parlasse sul serio.

— L’oracolo è lassù.

— Lui è santo. Io no. Sto prendendo Angai sulla parola.

— Andrò io — dissi. — Dopo pranzo e dopo aver fatto una nuotata. Qualcuno vuole venire con me?

— A nuotare? — domandò Derek.

— Al villaggio.

— Ci verrò io — disse la Ivanova. — Se Eddie è d’accordo.

— Penso che rimanderemo l’arresto di chiunque finché non saremo di ritorno al campo. Non conosco la procedura e in realtà non voglio chiamare per chiederla. Susciterebbe troppe domande. — Eddie si guardò attorno. — Voi altri siete d’accordo?

Derek e io annuimmo.

La Ivanova disse: — Penso che mi asterrò dal votare su questa questione.

Agopian annuì. — Mi astengo anch’io.

— Tanto vale che tu vada — disse Eddie alla Ivanova.

— Grazie.

Derek e io preparammo dei sandwich. Mangiammo, poi andai a fare una nuotata. L’acqua era fresca. Il fiume allentò buona parte della mia tensione. Avrei avuto voglia di farmi portare dalla corrente, lontano dal villaggio e dalle barche, lontano da tutte quelle persone e dalle loro discussioni. Naturalmente, se fossi andata abbastanza lontana, sarei finita nel bel mezzo della migrazione delle lucertole. Tornai indietro e salii a bordo, presi un asciugamano e me lo legai attorno al corpo.

Tatiana era tornata e stava seduta sul ponte di poppa con la Ivanova e Agopian. Sul tavolo pieghevole accanto a lei c’era una bacinella di frutta. Arance, banane e lucide mele verdi. Accanto alla bacinella c’era un mucchio di bucce d’arancia. L’aria era satura del profumo delle arance.

Tatiana parlava in russo, in modo rapido e impaziente.

— Che ne è stato dell’oracolo? — chiesi.

Si volse verso di me. — È rimasto al villaggio. Era insieme a qualcuno. Una persona grande dalla pelliccia rossiccia e abiti dimessi.

Nia.

Andai nella cabina e mi vestii.

Quando uscii, la Ivanova si alzò in piedi. Ci inerpicammo insieme lungo la scogliera.

C’erano bambini fuori dal villaggio. Se ne stavano fermi rivolti verso il vento, le mani all’infuori, le palme in avanti.

— Che cosa state facendo? — domandai.

— Tu ci hai detto che potevate sentire il vento. Le palme delle nostre mani non hanno pelo. Stiamo sentendo il vento e cercando di capire che effetto farebbe sentirsi così su tutto il corpo.

Tradussi per la Ivanova. Lei rise. — Loro non avranno difficoltà. Sono gli adulti che avranno paura e si opporranno ai cambiamenti.

I bambini rimasero ai margini del villaggio, continuando il loro gioco di far finta di essere senza pelo. Io e la Ivanova ci dirigemmo verso la piazza principale. Angai era lì, seduta sotto il suo riparo. Con lei c’erano Nia e l’oracolo.

Feci il gesto del saluto.

Angai fece il gesto che significava "sedetevi e restate per un po’".

Ci sedemmo all’ombra del riparo. Il vento sollevava polvere per la piazza.

— Partiamo domani mattina — dissi.

— Bene — ribatté Angai. — Quando ve ne sarete andati, le persone smetteranno di preoccuparsi. Dopo un po’ questa visita sembrerà solo un sogno per loro, o una storia raccontata da una vecchia su qualcosa successo molto tempo addietro. Allora potrete ritornare. Saranno meno terrorizzate la seconda volta. Ma ricordate. Quando venite, portate solo le donne e assicuratevi che siano intelligenti e sagge.

Tradussi per la Ivanova.

Lei disse: — Porgi ad Angai i nostri ringraziamenti. Spiegale che quando torneremo porteremo molti doni e molte storie, ma nessun uomo.

Lo riferii ad Angai.

Lei fece il gesto dell’intesa. — Credo che le cose si metteranno bene, anche se non mi sarei dovuta infuriare ieri sera. Adesso dovrò trovare un modo per fare contenta Anhar.

"Ora andate e portate con voi l’oracolo. Chiederò agli spiriti di prendersi cura di voi."

Feci il gesto della gratitudine. — È tutto — dissi alla Ivanova. — Vuole che lasciamo il villaggio.

Ci alzammo e altrettanto fece l’oracolo. Aveva una grossa sacca di cuoio bozzoluta: il suo cibo.

Guardai Nia. — E tu?

— Resterò qui ancora per un giorno o due. Poi ho intenzione di andare a nord a far visita a Tanajin.

— E dopo? — le chiesi.

Fece il gesto del dubbio, si alzò e mi abbracciò. Un abbraccio forte e stretto che mi lasciò senza fiato.

— Vieni al nostro villaggio — dissi.

Lei fece il gesto che significava "può darsi".

— Andate — disse Angai.

L’oracolo si incamminò. Io e la Ivanova lo seguimmo.

Quando arrivammo di nuovo dai bambini, stavano giocando con una palla. Addio al gioco dell’essere senza pelo.

Dissi loro: — Partiremo domattina. Quasi all’alba, credo. Venite giù allora se volete vedere le nostre barche.

— Lo faremo — rispose uno dei bambini.

Arrivammo sull’orlo della scogliera. La Ivanova si fermò e si voltò a guardare il villaggio e la pianura.

— Muovetevi — disse l’oracolo.

— L’oracolo è impaziente — osservai.

— Voglio ricordare tutto questo.

Restò lì ferma ancora un minuto e due. L’oracolo era irrequieto. Gli feci cenno di proseguire. Infine la Ivanova si volse verso di me. — Non sono stata particolarmente intelligente durante quest’ultimo anno. Ma non sono una stupida. Ho un’idea ben fondata di quello che succederà a Mesrop e a me.

Si avviò giù per la scogliera, seguendo l’oracolo.

Sarebbero stati processati per crimini contro la democrazia e per aver messo in pericolo la vita delle persone che avevano ibernato. Forse per omicidio. Non avevamo provvedimenti per la riabilitazione e neppure un luogo dove mandare le persone che avevano commesso gravi crimini. La sola cosa che potevamo fare era ibernarli finché non fossimo tornati sulla Terra o finché la nostra colonia non si fosse sviluppata abbastanza da avere una prigione o un’attrezzatura psicoterapeutica veramente avanzata.

Questa era probabilmente l’ultima volta che la Ivanova vedeva un villaggio indigeno o un paesaggio come quello. Diedi un’altra occhiata alla pianura battuta dal vento e ai bambini che inseguivano la loro palla. Poi seguii la Ivanova giù per la scogliera.

Nia

Le persone senza pelo partirono al mattino. Le abitanti del villaggio incominciarono a fare i bagagli nel pomeriggio. Nia aiutò Angai, ma solo con le cose che si trovavano nella parte anteriore della tenda. Il locale posteriore era il luogo dove Angai teneva i suoi oggetti magici. Tutto là dentro era nascosto da un tendone di stoffa rossa ricamata con animali e spiriti. Il tendone attraversava la tenda dall’alto in basso e da un lato all’altro. Non vi usciva nulla, a parte il profumo di erbe essiccate e la sensazione della magia, una sensazione che a Nia faceva pizzicare e formicolare la pelle.

Se ne stava il più possibile lontana da quel divisorio, inginocchiata accanto all’ingresso anteriore nella luce del sole pomeridiano, piegando indumenti e mettendoli in una cassa fatta di cuoio.

Hua era inginocchiata dall’altra parte della stanza, proprio accanto al telo divisorio e sotto l’immagine di uno spirito: un vecchio, nudo e con il membro sessuale ben visibile. L’Oscuro, pensò Nia, in uno dei suoi numerosi travestimenti.

Hua aveva disposto degli utensili e li stava contando prima di impacchettarli: coltelli di diverse misure, aghi, cucchiai fatti di corno e legno lucidati.

Angai era dietro il tendone, impegnata a impacchettare ciò che teneva lì dentro, oggetti che Nia non voleva neppure vedere.

— Come fai a sopportare di stare qui? — domandò Nia.

Hua alzò lo sguardo e fece il gesto della domanda.

— Vicino a quel sipario. In questa tenda.

Hua ripeté il gesto della domanda.

— A Nia non è mai piaciuta la magia — spiegò Angai.

— A me non dà fastidio — disse Hua.

— È un bene — osservò Nia. — Se hai intenzione di diventare la prossima sciamana.

— Certo che voglio diventarlo — ribatté Hua. — Chi altri c’è qui? — Adesso stava contando i pettini. Li dispose, grandi e piccoli, fatti di legno, corno e metallo.

Nia si rese conto che le prudeva tutta la pelle e la sensazione era particolarmente sgradevole fra le scapole e lungo la spina dorsale. — Lasciane fuori qualcuno. È passato tanto tempo dall’ultima volta che mi sono fatta dare una strigliata come si deve, da un’amica o una parente.

— D’accordo — fece Hua. Mise da parte due pettini: uno di grandezza normale e uno grosso con i denti molto radi.

Nia emise un suono soddisfatto. — Sarà qualcosa da ricordare quando mi troverò fuori sulla pianura.

— Non vieni con noi? — chiese Hua. La sua voce aveva un suono acuto e stridulo.

— No.

— Perché no? Qualcuno ti ha dato delle noie? Non sei preoccupata per Anhar, vero? Angai non ti ha detto che puoi restare?

Nia appoggiò sul pavimento una tunica dalle maniche lunghe. Piegò le maniche sopra il corpetto della tunica, lisciandone il tessuto. Era soffice e delicata, dono di un popolo che viveva nel lontano sud.

— Quando vivevo nelle Colline del Ferro, stavo con te, Anasu ed Enshi. Quando vivevo nell’est, mi trovavo ai margini del villaggio, lontana come un uomo. Non sono abituata a stare con molte persone. Non so più vivere in un villaggio.

— Non l’hai mai saputo realmente — disse Angai da dietro il telo divisorio. — Ti sei sempre comportata come se fossi sola.

Nia provò una certa sorpresa. Fece il gesto che significava "è proprio vero?". Ma Angai non poteva vedere, naturalmente.

Hua disse: — Mia madre vuole sapere se ne sei certa.

— Sì. — Il telo ondeggiò. Angai doveva averlo sfiorato. — Ti conosco meglio di chiunque altro, Nia. Tu sei come una roccia! Sei come una freccia! Sei quella che sei, e niente può cambiarti. Vai dove vuoi, e niente può farti cambiare direzione. Non sei mai stata una persona qualunque.

— Non lo sapevo — disse Nia.

Hua disse: — Desideravo che restassi con noi. Volevo sentire le tue storie.

— Non me ne vado via per sempre. Ma ho bisogno di stare un po’ di tempo da sola.

— È la decisione giusta — dichiarò Angai. — Mi piacerebbe che Nia restasse, ma ho notato come la guardano le persone del villaggio. Lei le fa sentire a disagio. Se Nia se ne andrà, dopo un po’ si calmeranno. Allora, credo, potrà tornare. Ma se resta adesso, si adireranno. Sono accadute troppe cose. Hanno visto troppe cose nuove. Se ora Nia rimane, la cacceranno via.

Hua fece il gesto del rammarico.

Continuarono a lavorare finché il cielo non cominciò a oscurarsi. Angai uscì da dietro il tendone. Cenarono. Angai pettinò la pelliccia di Nia. Aiya! Che bella sensazione! Soprattutto quando Angai le pettinò il folto pelame sulla schiena. Nia si piegò contro il pettine, quello grande, emettendo mormorii di piacere.

Quando l’operazione fu terminata, chiacchierarono per un po’. Non dissero niente di importante. Angai descrisse la pista che voleva seguire andando a sud e il luogo dove intendeva trascorrere l’inverno. Ogni tanto Nia faceva una domanda. Hua ascoltava in silenzio.

Alla fine andarono a dormire. Nia rimase sveglia. L’ingresso della tenda era aperto, ma c’era pochissimo vento. L’aria dentro la tenda era calda e stagnante. Guardò fuori dalla porta. Le stelle brillavano sopra le tende delle sue vicine di un tempo. Così numerose! Così grosse e splendenti!

Si alzarono all’alba e incominciarono a caricare i carri. Anasu portò gli animali da tiro per il carro: sei bellissimi cornacurve castrati. Li attaccarono al carro. Il cielo era sereno. La giornata sarebbe stata molto calda. Nia lo sentiva.

Angai disse: — Vorrei che tornassi fuori a prendere un animale per Nia. Macchia Bianca o Gagliardo o Corno Rotto, quello che riesci a trovare.

— Perché gliene serve uno? — domandò Anasu. — Credevo che avrebbe viaggiato sul carro.

— Nia ci lascia — disse Hua.

— Perché?

— Vuole stare da sola.

Aiya! Che famiglia mi ritrovo! — Voltò il suo cornacurve e si allontanò.

— È in collera? — chiese Nia.

— Un po’, forse — rispose Hua. — Non è stato facile averti come madre, anche se Angai ci ha protetti.

Nia fece il gesto delle scuse.

— Poteva essere peggio — osservò Hua. — Potevamo avere Anhar per madre. O Ti-antai. Una donna cattiva. Una donna che è una vigliacca.

— È questo che pensi di Ti-antai?

— Forse non è una vigliacca — disse Hua. — Forse ha una mente ristretta. Non pensa mai a nient’altro che alle proprie figlie e alle loro figlie e alle vicine.

— Non è abbastanza?

— Non per me. Io diventerò una sciamana.

— Allora puoi aiutarmi adesso — disse Angai. — Ho parecchie casse piene di oggetti magici che vanno sistemate sul carro. Nia non le toccherà. Lo so.

Hua fece una smorfia, poi il gesto dell’assenso.

Quando ebbero finito di caricare gli oggetti magici, smontarono la tenda. Nia le aiutò. La caricarono sul carro. Entro mezzogiorno erano pronte a partire, e così il resto del villaggio. Nia si guardò attorno. Non c’era più una sola tenda in vista. Invece c’erano carri e cornacurve, donne che sollevavano casse, bambini che correvano. Alcuni carri avevano incominciato a muoversi e una nube di polvere era sospesa a mezz’aria verso la parte occidentale del villaggio.

Anasu tornò, conducendo un cornacurve: un castrato giovane e robusto. Aveva una grossa chiazza bianca al centro del torace, curva come un arco. L’impugnatura dell’arco era sul fondo e i due bracci si alzavano su entrambi i lati. A Nia quel disegno ricordava anche altre cose: il simbolo di "pentola", il simbolo di "barca", e la Grande Luna quando era sotile. Se l’animale apparteneva ad Angai, doveva essere fortunato, sebbene Nia si sentisse turbata guardando il disegno e vedendo tante cose.

— Ha cinque anni — le spiegò Angai. — Non c’è un miglior viaggiatore nella mandria. Sii prudente, però. Qualche volta, anche se non spesso, diventa un po’ nervoso.

— Non ho niente da darti in cambio — disse Nia.

— Mi hai parlato delle persone senza pelo. Mi hai dato buoni consigli.

Nia fece il gesto che significava "non è stato niente".

— È sufficiente — ripose Angai.

Hua le porse un paio di bisacce da sella. — Sono per te. — Vi ho messo dentro tutto quello che dovresti avere. Mia madre, l’amica della sciamana, non può andare sulla pianura senza niente.

Nia prese le bisacce e le legò al suo animale. Provava una strana sensazione nel petto.

Anasu si girò e slegò il mantello sistemato dietro la sua sella. — Anche questo è per te. Un dono di addio, anche se non ho mai sentito parlare di un ragazzo che faccia un dono alla propria madre.

— Il dono che offre il ragazzo è la propria vita sulla pianura — disse Angai. — Lui si prende cura della mandria. La guida e la sorveglia. È sufficiente. Compensa i doni che riceve dalle sue parenti.

Una vera sciamana! pensò Nia. Ha sempre avuto una risposta. È sempre stata pronta a offrire insegnamenti e spiegazioni.

Prese il mantello. Era fatto di lana grigia ornata di ciuffi di pelo su un lato così da sembrare la pelle di un animale. Portava attaccati due fermagli, grandi e fatti in argento. Uno aveva la forma di un cornacurve disteso, con le zampe piegate. L’altro aveva la forma di un assassino-delle-pianure. I due fermagli erano uniti da una catena d’argento.

Anasu disse: — È un buon mantello. Non dovrai preoccuparti per la pioggia finché l’avrai. E non soffrirai il freddo neppure in inverno.

Nia legò il mantello sopra le bisacce, poi montò in sella e rimase a guardare gli altri tre: il ragazzo sul suo cornacurve, Angai e Hua ritte al centro di una macchia di vegetazione. Si sentiva la mano intorpidita. Non riusciva a muoverla. Non c’erano parole nella sua gola e nella sua mente.

— Sempre la stessa! — le disse la sua amica. — Ci sono cose che non sei mai riuscita a dire.

— Non ho mai amato il momento della separazione. — Fece il gesto della gratitudine e il gesto dell’addio, poi voltò il suo animale e si allontanò.

Ormai l’intero villaggio era in movimento, diretto verso ovest. Nia guidò il proprio animale fra i carri, andando nella direzione opposta. L’aria era satura di polvere. Le donne sbraitavano, i bambini strillavano, i cornacurve facevano grugniti che significavano che stavano lavorando duramente e non gradivano la cosa.


"Uh-uuh! Uh-uuh!

Perché stiamo facendo questo?

Dovremmo correre

liberi per la pianura."


Nia arrivò alla fine del villaggio. Non c’era niente davanti a lei a parte la pista segnata da solchi e gli escrementi dei cornacurve. Gli escrementi erano freschi e di un nero lucente. Trattenne per un momento Macchia Bianca. C’era qualcos’altro che non aveva detto ad Angai. Quando gli addii erano terminati, quando le persone se ne erano andate, incominciava, sempre, a sentirsi felice. Aiya! Essere in viaggio! Aiya! Essere da sola!

Non stava seduta nel modo corretto. Aveva la schiena curva e le spalle ingobbite come se portasse un grosso peso. Si raddrizzò e spinse il petto in fuori. Così andava meglio. Ora i polmoni avevano spazio.

Una voce fece: — Ho qualcosa da dirti e non volevo che Angai sentisse.

Nia si voltò a guardare indietro. Era Anasu. Il suo animale respirava affannosamente con la bocca aperta.

Nia fece il gesto della domanda.

— Ho intenzione di far visita alla gente senza pelo. Quest’inverno, prima di subire il cambiamento.

— Perché?

— Non era mai accaduto niente di simile. Non ci sono individui senza pelo in nessuna delle antiche storie, né imbarcazioni come quella su cui sono stato, e certamente non ci sono uomini che vivono con le donne. È una cosa assolutamente nuova. Voglio vederla, Nia! Voglio capire.

"Se aspetterò, chissà che cosa accadrà? Forse mi trasformerò in uno di quegli uomini che non riescono a sopportare nessuno, neppure le donne nel periodo degli accoppiamenti. Forse impazzirò."

— Queste cose non succedono nella nostra famiglia — disse Nia.

Anasu fece il gesto del dubbio. — E se tutto andrà bene, se il cambiamento sarà assolutamente normale, finirò a sud. Ho sentito parlare di quel posto! Nessuna donna viene laggiù. Nessuno che porti notizie. Gli uomini grandi e grossi si prendono tutto, e i giovani stanno seduti a chiedersi che cosa succede nel resto del mondo.

Nia emise un brontolio e guardò il figlio. Alla luce del sole la sua pelliccia scura luccicava. Ora vedeva che aveva una sfumatura rossiccia. Come il rame, come suo zio Anasu.

— Sii prudente — gli disse.

— Certo. Non sono uno sciocco. Non farò niente per cacciarmi nei guai. Non intendo finire come Enshi o come te.

— Cerca di essere anche cortese.

Il ragazzo fece il gesto dell’assenso. — Se verrai al villaggio della gente senza pelo, durante l’inverno, non prima, ci sarò.

— È assai probabile che ci venga — rispose Nia.

Lui fece il gesto della soddisfazione e il gesto dell’addio, poi si allontanò sul suo animale.

Nia viaggiò verso nord per tutto il giorno, seguendo la pista del villaggio. Alla sera si accampò nei pressi di un torrente. Un rivolo d’acqua scorreva al centro di un ampio letto sabbioso. Era sufficiente. Nia abbeverò l’animale, poi raccolse legna fra gli arbusti lungo il torrente. Accese un fuoco. C’era del cibo nelle bisacce da sella: frutta secca e pane da viaggio, secco e duro.

Uh! Era confortevole starsene seduta a osservare le fiamme che danzavano, rosse e gialle. Macchia Bianca era lì vicino. Nia sentiva lo scricchiolio della vegetazione e il gorgoglio del fluido nello stomaco del cornacurve.

In lontananza, sulla pianura, un tulpa gridava: — Up-up. Up-up.

Nia restò per un po’ ad ascoltare, poi si addormentò.

Seguì la pista del villaggio per altri due giorni. La mattina del terzo giorno arrivò a un’altra pista, stretta e profonda. L’avevano fatta delle viaggiatrici. Loro non usavano mai i carri, ma conducevano file di cornacurve carichi di splendidi doni del Popolo dell’Ambra e del Popolo della Pelliccia e dello Stagno. Nia girò verso est, seguendo la nuova pista. Viaggiò per un altro giorno. Il tempo si manteneva lo stesso: molto caldo, sereno e radioso. Uh! Era noioso! Compose poesie. Si chiese che ne fosse stato dell’oracolo e di Li-sa e Deragu. Erano tornati al loro villaggio? E che ne era dei suoi figli? Stavano bene? Erano felici?

Angai aveva fatto un buon lavoro allevandoli. Perché non aveva lodato la sua amica? Perché non aveva detto a Hua e ad Anasu: "Siete dei bravi figli"?

Verso sera ci fu un rumore simile a un tuono: fragoroso e penetrante. Macchia Bianca si lanciò in una corsa.

Nia tirò le redini. L’animale non si fermò. Invece abbandonò la pista e si precipitò fra la vegetazione. Nia continuò a tirare, ma l’animale proseguì la sua corsa finché non arrivarono a un boschetto di foglie-lama che li sovrastava entrambi. L’animale s’impennò, poi atterrò di colpo sulle quattro zampe, tremando, sbuffando e sudando come una delle persone senza pelo.

— Non è questo il modo di comportarsi — lo rimproverò Nia. — Sta’ calmo! Contento! Non c’è niente che possa farti del male. — Nia accarezzò il collo dell’animale, poi si guardò attorno. Il cielo era sgombro. — L’ho già sentito prima — disse al cornacurve. — Significa che un’isola è caduta nel Lago Lungo.

L’animale agitò la testa e sbuffò di nuovo. Ma lo fece tornare sulla pista.

Al crepuscolo arrivò alla valle del fiume. Si accampò in cima a una scogliera e al mattino scese giù per una stretta gola. Le pareti erano ricoperte di piante rampicanti dalle foglie rosse come rame. L’aria odorava di polvere e vegetazione secca.

In fondo alla gola il terreno era piatto e ricoperto dalla foresta. Nia proseguì verso est. La pista era asciutta, ma si capiva che in primavera doveva essere in buona parte sommersa dalle acque. Nei punti più bassi erano stati posati dei tronchi sopra i quali era stato ammucchiato terriccio, in modo che la pista fosse rialzata. Aiya! Che costruzione! Non aveva mai visto niente di simile in precedenza. Chi poteva averla fatta? Tanajin? O qualcuna delle viaggiatrici? Era un eccellente dono. Molte persone l’avrebbero lodato.

A metà pomeriggio arrivò al fiume. L’acqua bruna scorreva in un letto stretto al di là del quale sorgeva un’isola. C’era una zattera tirata sulla riva dell’isola fra il fiume e gli alberi.

Nia smontò di sella. Il terreno attorno a lei era disseminato di cenere e frammenti di legno bruciato. C’erano orme nella terra, di persone e cornacurve, e mucchi di sterco. Tutto lo sterco era vecchio.

Nia si prese cura dell’animale, poi raccolse legna e accese un fuoco. Anzitutto legna morta. Non i pezzi marci che erano stati mangiati dagli insetti, ma dei bei pezzi asciutti, compatti, senza su niente a parte qualche chiazza della pianta rossa a scaglie. Quando il fuoco ardeva ormai veramente bene, vi aggiunse legna viva. Questa fece fumo, che si alzò come il tronco di un albero, denso e scuro.

Non successe nulla per il resto della giornata. Nia mantenne il fuoco acceso. Durante la notte dormì accanto al fuoco e si svegliò parecchie volte per aggiungere legna. Nella foresta poteva esserci di tutto: lucertole grosse come gli umazi, assassini dagli artigli affilati, osupai o tulpai. Molto meglio la pianura. Le piaceva vedere che cosa la seguiva.

Al mattino raccolse altra legna. Il cibo era quasi finito. Alimentò bene il fuoco, poi si sedette ad aspettare. Aveva il corpo irrigidito e si sentiva la mente come una pentola di ferro: pesante e vuota.

A metà della giornata una persona emerse dalla foresta sull’isola. Spinse in acqua la zattera e vi salì. Sul lato della zattera era attaccato un bastone biforcuto. La persona sistemò nella biforcazione un lungo remo.

La zattera si allontanò lentamente dalla riva. La persona incominciò a muoversi in un modo che in un primo momento Nia non riuscì a capire: chinandosi e raddrizzandosi. Il remo si alzava e si abbassava. L’acqua gocciolava dalla pala lunga e larga.

Su e giù. Dentro e fuori dall’acqua. Dopo un po’ Nia si rese conto di quello che stava accadendo. Il remo spingeva la zattera. Invece di scendere la corrente, la zattera l’attraversava.

Un lavoro lento! E duro! Nia osservava, sentendosi irrequieta. Non era mai facile stare seduti a mani vuote quando altre persone facevano qualcosa di utile. Si alzò e si diresse verso la riva.

La zattera era vicina. La persona sulla zattera era Tanajin. Lanciò un’occhiata a Nia, ma non fece alcun cenno di riconoscimento. Continuò invece a muovere il remo. Nonostante tutti i suoi sforzi, la zattera veniva trascinata dalla corrente. Sarebbe arrivata a riva più a valle di Nia.

Nia s’incamminò lungo l’argine, poi si tolse i sandali ed entrò con i piedi nell’acqua. — Che cosa posso fare? — gridò.

Tanajin si chinò e afferrò qualcosa. — Ecco! — Lo gettò.

Una fune. Si srotolò a mezz’aria e cadde nell’acqua. Nia afferrò un’estremità. L’altra era fissata alla zattera.

— Tira! — ordinò Tanajin.

Nia si avvolse la fune attorno all’avambraccio finché non fu tesa, poi allargò i piedi e conficcò le dita nel fondo fangoso, afferrò saldamente la fune e incominciò a tirare.

Hunh!

La zattera rallentò.

Hunh!

La zattera si fermò.

Hunh!

La zattera incominciò a virare.

Tanajin tirò fuori dall’acqua il remo, che restò sollevato, sostenuto dal bastone biforcuto, anche se Nia non riusciva a capire esattamente come. Poi saltò nel fiume. Aiya! Che tonfo! Era nell’acqua fino al torace, appoggiata alla zattera e spingeva con forza. Nia continuava a tirare. Grugnivano tutte e due come cornacurve. La zattera arrivò a riva.

Le due donne uscirono dall’acqua. Tanajin prese la fune e la legò attorno a un albero. — Dov’è Ulzai? — chiese. — Non è tornato.

Nia fece il gesto che significava "non lo so".

Tanajin fece il gesto della domanda.

— Una lucertola ci ha seguiti nelle rapide. Ulzai si è alzato in piedi per affrontarla. È successo qualcosa. Non so esattamente che cosa. La barca si è capovolta. Tutti noi… — Chiuse la mano a pugno, poi l’aprì. Il gesto significava "dispersi" o "spariti".

— Ahi! — esclamò Tanajin.

— La lucertola non era un umazi. Ulzai ha osservato bene l’animale. Ha detto che non era niente di eccezionale. Ci ha parlato del suo sogno. Gli umazi gli avevano promesso che sarebbero stati loro la sua morte.

— Che ne è stato delle persone senza pelo? — s’informò Tanajin. — E del pazzo? Sono affogati?

Nia fece il gesto che significava "no". — C’è un nuovo villaggio sul lago. L’hanno costruito le persone senza pelo e non assomiglia a nessun altro villaggio che io abbia visto. Li-sa e Deragu sono laggiù. E anche l’oracolo. Io sono venuta ad aggiustare la tua pentola.

Tanajin fece il gesto che significava "andiamo avanti".

Si diressero all’accampamento di Nia. Il fuoco era quasi spento. Tanajin disperse i rami con un calcio. Era impazzita? Era a piedi nudi. Senza dubbio sembrava furiosa. Aveva un’espressione corrucciata e il pelo sulle arcate sopraccigliari scendeva a tal punto che le nascondeva gli occhi.

Nia sellò Macchia Bianca, muovendosi con circospezione e facendo il minimo rumore possibile. Condusse l’animale fino alla zattera e lo fece salire. Non fu un’impresa facile. L’animale tremava e sbuffava. — Non è il modo di comportarsi di un castrato — disse Nia. — Calmati! Non comportarti come un maschio! — L’animale agitò le orecchie. La coda fremeva, ma non si alzò. Era un buon segno. L’animale era inquieto, ma non realmente spaventato. Non era sul punto di fuggire per il terrore. Nia tenne saldamente le briglie e fece dei suoni per calmarlo.

Tanajin slegò la fune, poi spinse la zattera verso il largo, usando il remo.

La zattera si mosse dolcemente. Era fatta di tronchi legati insieme. La corda non era del tipo usato sulla pianura, fatto con lunghi e sottili pezzi di cuoio intrecciati. Questa corda era fatta di una fibra pelosa. Nia aveva visto qualcosa di simile nell’est. Il Popolo del Rame la usava per fabbricare reti. Proveniva dal lontano sud.

Quanti tipi di persone c’erano? Quante specie di doni?

Si spostarono lentamente verso il centro del fiume. Macchia Bianca sbuffava e batteva uno zoccolo. Nia gli massaggiava il collo peloso. Si voltò a guardare indietro. C’era una lucertola nel fiume fra loro e la riva occidentale. Era grossa, diretta a sud.

Aiya! Nia tirò con forza la briglia, facendo girare la testa al cornacurve e assicurandosi che Macchia Bianca non la vedesse. — Ce ne sono state parecchie? — chiese.

Tanajin alzò lo sguardo. — Lucertole? Sì.

Riprese a spingere con il remo. Quando arrivarono all’isola, parlò di nuovo. — Vedo le lucertole quando trasporto le persone attraverso il fiume. Loro amano viaggiare lungo questa riva. L’acqua scorre lentamente e ci sono le paludi dove cacciano. La lucertola che vi ha seguiti si è comportata in modo molto strano.

— Seguiva il sangue — disse Nia. — L’oracolo aveva una ferita. Perdeva sangue nell’acqua.

— È lui la causa!

Nia fece il gesto del dissenso. — Credo che la causa risalga a molto prima. Penso che siano stati gli spiriti della caverna.

Tanajin fece il gesto della domanda.

Nia le parlò della caverna con le pitture sulle pareti. — L’oracolo ha detto che era piena di spiriti. Erano affamati. Li ha nutriti, ma non erano soddisfatti. Volevano altro sangue. Questa è la mia opinione, comunque. Non lo so con certezza.

— È troppo complicato per me — ribatté Tanajin. — Ho bisogno di una sciamana. Forse dovrei andare a cercarne una.

Tirarono fuori dall’acqua la zattera e la lasciarono lì, attraversando l’isola a piedi. Gli alberi erano pieni di uccelli chiassosi. Il terreno era ricoperto di escrementi: bianchi, rossi e color porpora.

Dall’altra parte dell’isola c’era un’altra zattera. La usarono per attraversare un altro ramo del fiume.

Successe la stessa cosa. Tirarono sulla riva la zattera e attraversarono l’isola. Trovarono un’altra zattera.

— Quanto ce n’è ancora? — domandò Nia.

Tanajin fece il gesto della fine o del completamento. — Questo è l’ultimo ramo. Non c’è un buon passaggio attorno alle isole e se cerco di attraversare tutto il fiume in una sola volta, la zattera viene trascinata troppo a valle. Lo so. Ci ho provato.

Nia disse: — Le persone senza pelo hanno una barca che si muove da sola come se avesse zampe o pinne.

— Si tratta di magia?

— No. È spinta dal fuoco, anche se non capisco come.

Tanajin fece il gesto dello stupore, ma non sembrava sorpresa, soltanto stanca.

Attraversarono l’ultimo ramo del fiume. Il sole era già sparito, ma il cielo era ancora pieno di luce. L’aria era quasi stagnante, satura dell’odore del fiume e del cornacurve, che aveva lasciato un mucchio di sterco sui tronchi vicino a Tanajin.

— Fa’ attenzione al tuo animale — disse la donna.

— Faccio del mio meglio.

Raggiunsero la riva e tirarono in secco la zattera. Il cielo si era fatto buio. S’incamminarono verso nord lungo il fiume finché non arrivarono alla casa di Tanajin.

Nia condusse Macchia Bianca sul retro. Tolse la sella al castrato e lo legò, usando una corda di cuoio. C’erano anche gli altri due cornacurve, che pascolavano fra la bassa vegetazione. Tornò sul davanti dell’abitazione. Tanajin aveva acceso il fuoco.

Mangiarono senza parlare. Quando ebbero finito, Tanajin entrò nella tenda. Tornò portando una coperta. — Non ti voglio dentro la mia casa, Nia. Sono in collera per la notizia che mi hai portato. Perché Ulzai è il solo che non è ricomparso?

Nia fece il gesto del dubbio.

Tanajin entrò.

Nia si coricò. Gli insetti le ronzavano attorno. La morsicarono nei punti in cui la pelliccia era sottile: sui bordi delle mani, sulla punta delle orecchie. Si tirò su la coperta finché non la riparò del tutto e sognò di essere intrappolata in un luogo buio: una grotta o una foresta. Attorno a lei c’erano persone che parlavano e si muovevano. Non riusciva a vederle e non conosceva la loro lingua.

Si svegliò all’alba. Tanajin uscì dalla tenda e riaccese il fuoco. Mangiarono poltiglia.

Tanajin disse: — Ho sognato Ulzai. Aveva i vestiti fradici e la sua pelliccia grondava acqua. Mi ha parlato. Non sono riuscita a capire le sue parole.

— Ho sognato anch’io — disse Nia.

— Che cosa?

— Oscurità. Ero intrappolata. E c’erano persone. Non so quali persone. Parlavano. Non riuscivo a capirle.

— Questi sono brutti sogni. C’è bisogno di una cerimonia di prevenzione. — Tanajin aggrottò la fronte. — Ci sono momenti in cui penso che questo non sia un modo di vivere. Non ho parenti femmine. Non ho una sciamana. Adesso se ne è andato anche Ulzai.

Nia fece il gesto del cortese assenso. — Hai detto che hai degli utensili. Ho intenzione di iniziare a erigere un posto per lavorare.

Tanajin fece il gesto dell’intesa.

Nia costruì una fucina più a valle della tenda. Ci vollero nove giorni di duro lavoro. Il tempo rimase lo stesso. C’erano insetti ogni notte. Tanajin raccoglieva legna viva e la metteva sul fuoco. Il fumo scacciava la maggior parte degli insetti. Nia era troppo esausta per preoccuparsi se ne rimaneva qualcuno.

Ogni mattina si svegliava irrigidita, ma l’indolenzimento lentamente passava. Il vero problema erano le mani. Sulle palme dove i calli si erano assottigliati le si formavano vesciche. Queste si rompevano e la carne sotto era rossa e tenera. Si avvolse pezze di stoffa fra le dita e sui palmi. Aiya! Questo la rendeva maldestra. Ma continuò a lavorare.

— Non è necessario che ti affretti — le disse Tanajin.

— Mi piace. Capisco quello che sto facendo. Da tanto tempo non ero in grado di dire una cosa del genere. — Fece una pausa, cercando di pensare a un modo di spiegarsi. — Questa è la cosa che faccio. È il mio dono.

Tanajin fece il gesto della dubbiosa comprensione.

Il giorno in cui la fucina fu completata successe qualcosa di strano. Apparve una nuvola. No. Una scia di fumo. S’innalzò da sud, muovendosi diagonalmente verso ovest e formandosi con sorprendente rapidità. Diverso da qualsiasi tipo di fumo che Nia avesse mai visto. Andava sempre più su. Nia si riparò gli occhi con la mano. C’era qualcosa sulla punta della nube? Qualcosa che lasciava la scia di fumo? Era piuttosto improbabile.

Restò in ascolto. Non si udì il fragore del tuono e nel cielo non c’era niente all’infuori della scia che era salita così in alto che non riusciva più a vederne la fine.

— Uh! — Tornò al suo lavoro.

Alla sera fece ritorno a casa di Tanajin. La donna era seduta accanto al fuoco e cucinava pesce in umido in una pentola appesa a un treppiede.

— Che cosa è stato? — domandò a Nia.

— La nuvola? Non ne sono certa. Ma la gente senza pelo si trova a sud di qui. — Nia si grattò il naso. — Mi chiedo quante isole ci siano nel lago. Vorrei avere una scatola parlante. Lo chiederei all’oracolo o a Li-sa.

Tanajin fece il gesto della domanda.

Nia le parlò delle isole che cadevano dal cielo. — Vengono giù con gran rumore. Forse salgono facendo fumo.

Tanajin fece il gesto del dubbio. — Molte cose cadono dal cielo. Pioggia di diversi colori, neve, grandine, pezzi di ferro e di pietra. Non ho mai sentito parlare di niente che tornasse su. Soltanto il fumo sale.

Nia fece il gesto che significava "non pensi a quello che dici". — Quando i demoni del fuoco sono attivi, le montagne scagliano in alto pietre, che possono viaggiare per lunghe distanze. Nello stesso tempo salgono la cenere e il fuoco.

— Credi che queste persone siano una specie di demoni?

— No. Credo che abbiano utensili che non assomigliano affatto ai nostri utensili, e strane cose accadono attorno a loro.

Tanajin fece il gesto del cortese dubbio. — Sono disposta a credere che le montagne sputino in aria pietre, anche se non l’ho mai visto fare da nessuna. Ma non sono disposta a credere che un lago possa sputare isole verso il cielo.

Il giorno seguente Nia incominciò a riparare gli utensili che appartenevano a Tanajin. Da est arrivarono viaggiatrici: otto donne che appartenevano al Popolo della Pelliccia e dello Stagno.

Tanajin le traghettò al di là del fiume. Le ci vollero due giorni. Quando tornò, disse: — Tornavano dopo aver fatto visita al Popolo dell’Ambra! Una visita spiacevole! Laggiù stavano litigando tutte. Una cerimonia era stata rovinata e si stavano scambiando accuse.

Nia rabbrividì e fece il gesto per evitare conseguenze sgradevoli.

Tanajin continuò. — Hanno visto la nuvola nel sud. Ho raccontato loro della gente senza pelo. Ho detto che sapevo dell’esistenza di quelle persone. Le avevo viste. Ma non avevo visto cadere dal cielo nessuna isola. Ho spiegato loro che quella notizia proveniva da Nia la lavoratrice del ferro.

— Hai fatto il mio nome?

Tanajin fece il gesto che significava "non preoccuparti". — Ho detto che venivi dall’est. Non hanno capito che sei la donna che amava un uomo.

— Meno male — osservò Nia.

Continuò a lavorare alle cose di Tanajin. Il tempo si mantenne caldo e luminoso. Il tempo dell’estate inoltrata. Il terreno era arido, perfino in prossimità del fiume. Sulla pianura tutto sarebbe stato coperto di polvere. Il villaggio, in viaggio, avrebbe sollevato grandi nubi scure.

Di notte il disegno di stelle chiamato Grande Carro scagliava molte frecce. Era una cosa normale. Quelle frecce apparivano alla fine di ogni estate. I Ragazzini Che Non Crescono Mai viaggiavano sul carro della loro madre, lanciando frecce con i loro archi. Aiya! Quando li acchiappava!

Nia finì con le pentole di Tanajin e incominciò a lavorare alla propria attrezzatura: morsi, anelli delle selle, coltelli che andavano affilati, punteruoli che non perforavano più niente. Tanajin aveva un rotolo di filo di ferro. Nia fabbricò degli aghi.

Di quando in quando vedeva nuvole di quella nuova specie: lunghe e sottili. Di solito erano a sud o sud-ovest. Si formavano rapidamente come la prima nuvola, e avevano la stessa forma, ma non salivano verso la sommità del cielo. Invece erano orizzontali. Era più facile vederle di sera. Il sole le illuminava da sotto. Risplendevano come striscioni colorati: rossi, gialli, color porpora, arancione, rosa. A volte a Nia sembrava di riuscire a scorgere il luccichio del metallo. La cosa che luccicava era sempre all’estremità anteriore della nuvola, nel punto dove questa iniziava.

Lavorava e rifletteva. Dopo un po’ le venne un’idea. Le sembrò folle. C’era solo una cosa da fare con un’idea folle. Raccontarla. Soltanto gli uomini stavano zitti quando qualcosa li preoccupava. O le donne che facevano o pensavano qualcosa di vergognoso.

Ne parlò con Tanajin.

— Le nuvole sono a sud, dove si trovano le persone senza pelo. Loro sono nuovi, e le nuvole sono nuove. Perciò sono loro i responsabili.

Forse.

— Ti ho parlato delle loro barche. Le barche lasciano una scia nell’acqua. La scia è bianca. Si forma rapidamente e poi sparisce. Forse anche le nuvole sono scie.

— Nel cielo? — disse Tanajin. — Non essere ridicola. Prima hai detto che queste persone sono capaci di lanciare per aria pietre come i demoni. Adesso sostieni che possono librarsi nel cielo come spiriti. Quanto è probabile una cosa del genere?

Nia fece il gesto della concessione. — Non molto.

— Hai passato troppo tempo da sola, Nia. Ti stai facendo idee strampalate.

Nia fece il gesto che significava "sì".

Arrivarono viaggiatrici da ovest e accesero un falò di segnalazione. Tanajin andò a prenderle: cinque donne grandi e grosse e immusonite. Le loro tuniche avevano strisce verticali dai vivaci colori. Le loro bisacce da sella non assomigliavano a niente che Nia avesse visto prima di allora: grossi canestri fatti con qualche specie di fibra vegetale e a righe orizzontali.

Le cinque donne parlavano con accento molto marcato. Appartenevano al Popolo dei Canestri Ben Intrecciati, dissero. Una barca era giunta nel loro villaggio dal cielo.

— Uh! — esclamò Tanajin.

— Dico che era una barca perché trasportava delle persone. — A parlare era stata la donna che guidava la comitiva. Era la donna più grossa, con un ventre che la faceva sembrare gravida. Ma le donne gravide di solito non viaggiavano. Forse era grassa. Nia non conosceva un modo cortese per domandarlo.

— Non assomigliava a nessuna imbarcazione che io abbia mai visto. Era simile agli uccelli che le nostre vicine fanno per appendere alle insegne. Gli uccelli sono d’oro. I loro corpi grassi. Le ali sono lunghe e sottili. Hanno occhi fatti di differenti specie di cristallo.

Un’altra donna disse: — Questa cosa… questa barca… aveva due grossi occhi sul davanti che brillavano come cristalli. C’erano altri occhi, piccoli, lungo i fianchi. Uh! Era curioso.

La donna capo della comitiva si accigliò.

L’altra donna fece il gesto che significava una scusa per aver interrotto.

La guida disse: — Le persone sulla barca erano quasi prive di pelliccia. Una di loro parlava il linguaggio dei doni, sebbene molto male. Questa persona ha detto che volevano venire a far visita e a scambiare storie.

Tanajin si rivolse a Nia. — Non eri pazza.

— Che cosa significa? — domandò la guida.

— Ci sono state nuvole nel cielo. Questa donna sosteneva che erano causate da imbarcazioni che appartenevano alla gente senza pelo.

— Come facevi a saperlo? — chiese una donna.

— Finisci la tua storia — rispose Nia. — Ve lo racconterò dopo.

— Non sapevamo che cosa fare — disse la guida. — La nostra sciamana ha deciso di chiedere consiglio. Ci ha mandate presso il Popolo dell’Ambra a chiedere la loro opinione. Un altro gruppo si è recato presso il Popolo del Ferro e un altro ancora presso il Popolo della Pelliccia e dello Stagno.

— Siamo in lite con il Popolo dell’Oro. Sono le nostre vicine più prossime. Hanno lingue simili a coltelli e amano comporre poesia satirica. Non intendiamo chiedere niente a loro.

— Inoltre — fece un’altra donna — vivono fra le alte montagne. Non ci piace andare lassù. Uh! È tetro! La pista va su e giù!

— Noi siamo gente di pianura — disse la guida. — Ci piace poter vedere tutto il cammino fino all’orizzonte.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Il Popolo del Ferro ha permesso alla gente senza pelo di venire in visita. Non so che cosa abbia deciso il Popolo dell’Ambra.

— È così che l’hai saputo — disse la guida. — Hai visto queste persone.

— Sì — rispose Nia. — Ma non avevo visto il genere di barca che avete descritto.

Le donne fecero domande. Nia disse il meno possibile. Non voleva descrivere il lungo viaggio da est. Non voleva spiegare perché non viveva con la propria gente.

— È evidente che sai più di quello che dici — dichiarò alla fine la guida. — È una tua decisione e non ci riguarda. Noi siamo state inviate presso il Popolo dell’Ambra.

Il giorno seguente le donne proseguirono il loro viaggio. Nia finì di lavorare alla fucina.

— Era quello che aspettavo — disse Tanajin.

Nia fece il gesto della domanda.

— Ulzai continua ad apparirmi in sogno. Parla in tono pressante. Non riesco a capirlo. Di solito è bagnato. Questo dovrebbe significare che è annegato, ma non lo so con certezza. Che cosa vuole? Perché mi importuna?

Nia fece il gesto dell’ignoranza.

— Fabbricherò una nuova zattera e discenderò il fiume. Chiederò di lui al villaggio della gente senza pelo. Può darsi che abbiano trovato il suo corpo.

"Dopo di che proseguirò il mio viaggio. C’è un villaggio sul fiume oltre il lago. Le persone laggiù non si muovono mai. Le loro case sono di legno e loro ci abitano sempre." Tanajin fece una pausa.

"Il loro dono è un certo tipo di pesce molto grosso. Lo affumicano e lo marinano. Conservano anche le uova del pesce e le cose che il pesce maschio produce. La loro sciamana è famosa per la sua saggezza. Le chiederò di spiegarmi i miei sogni. Forse mi serve una cerimonia di propiziazione.

— È possibile — disse Nia. — E il traghetto?

— Le persone possono fare com’erano abituate a fare prima del mio arrivo.

— Il traghetto è stato il tuo dono.

— Tu continuerai a viaggiare. Sei fatta così. Se resterò qui da sola, impazzirò. Troverò un nuovo dono, forse fra il Popolo delle Uova di Pesce, forse più a sud.

Nia aiutò Tanajin a fabbricare la zattera. Ci vollero cinque giorni. Quando ebbero finito, disse: — Insegnami a usare il remo.

— Perché? — s’informò Tanajin.

— Penso di restare qui per un po’ di tempo. Quando verranno delle persone, le traghetterò. Spiegherò che te ne sei andata e che anch’io partirò presto. La notizia si diffonderà. Le persone sapranno di dover portare con sé delle asce.

Tanajin fece il gesto dell’assenso.

Rimase ancora una quindicina di giorni. Passarono la maggior parte delle giornate sull’acqua. Nia imparò a ruotare il grosso e pesante remo e a conoscere ciò che si nascondeva sotto la superficie dell’acqua. C’erano isole che emergevano soltanto negli anni di maggior siccità, ma erano sempre là e la zattera poteva rimanere impigliata su una di esse. C’erano tronchi, più di quanti potesse contarne una persona. Alcuni galleggiavano sulla superficie dell’acqua, altri erano sommersi. Alcuni erano rimasti incagliati nel fango del fondo del fiume e stavano ritti come alberi vivi, i rami che salivano verso la superficie. Altri erano trattenuti meno saldamente dal fango e ondeggiavano avanti e indietro nell’acqua.

— Come canne al vento — disse Tanajin. — O un albero che sta per spezzarsi.

Aiya! - esclamò Nia.

— Ogni tipo di tronco è pericoloso. Se la zattera resta impigliata, potresti non riuscire a liberarla. Non lasciar mai penzolare una fune. Porta sempre con te un coltello. E tieni sempre d’occhio la superficie. Se ci sono gorghi o mulinelli, evita quel punto.

— È molto più complicato di quanto pensassi — osservò Nia.

Tanajin parlò in tono iroso. — Voi persone del nord siete così ignoranti! Pensate che il fiume sia come la pianura. Pensate che tutto ciò che importa sia in superficie, dove qualunque sciocco può vederlo.

Nia tenne i denti stretti. Un’insegnante aveva sempre diritto almeno a qualche insulto. Tutti lo sapevano. Era vero fra tutti i popoli.

Finalmente Tanajin disse: — Non sei ancora esperta, e non sai abbastanza sul fiume, ma credo che tu sia in grado di farcela. Ora posso lasciarti.

Nia fece il gesto dell’intesa.

L’indomani mattina Tanajin ammucchiò le sue cose sulla nuova zattera. Nia l’aiutò a spingere nel fiume la zattera. Tanajin vi salì e fece il gesto dell’addio.

Nia agitò la mano in risposta.

La zattera si allontanò. Tanajin incominciò ad azionare il remo. Nia restò a osservarla. La donna diventò sempre più piccola finché non sparì. La zattera divenne un puntino sul fiume ampio e splendente. Nia si riparò gli occhi con la mano. Anche la zattera era sparita.

Nia trasportò le proprie cose nella tenda vuota, ma non vi dormì. Aveva l’odore di Tanajin e le pareti erano sostenute da pezzi di legno. Erano troppo robuste. Una casa come si deve doveva muoversi al vento, non troppo, ma abbastanza perché le persone all’interno potessero sapere che cosa succedeva sulla pianura.

Ogni sera portava fuori una coperta davanti alla tenda. Si coricava presso il fuoco e guardava in su. Incominciò a notare delle cose.

Una di queste era una luce che si muoveva come una luna, ma era del colore sbagliato: un bianco argenteo. Seguiva una nuova traiettoria, diversa da qualunque delle vecchie lune. Notte dopo notte attraversava il cielo sopra di lei. Non aveva idea di che cosa fosse. Forse era tornata una delle Due Donne Disperse?

C’era anche una nuova stella. Appariva nello stesso punto ogni sera: al centro del cielo. Le altre stelle si muovevano tutt’attorno, ma quella non si muoveva affatto.

C’erano altre luci: rosse, bianche e verdi. Si trovavano quasi tutte a sud, vicino all’orizzonte. Si spostavano rapidamente in tutte le direzioni.

Nia incominciò a sentirsi inquieta. Una cosa era che le persone senza pelo creassero un nuovo genere di nuvola. C’erano molti diversi tipi di nuvole e mutavano sempre. Era improbabile che un tipo in più causasse guai. Ma una nuova stella! Una nuova luna! Luci che vagavano come insetti! Qui! Là! Su! Giù!

Dall’altra parte del fiume si alzò del fumo. Nia vi andò. C’era un uomo in attesa. Un tipo grande e grosso dalla pelliccia color grigio ferro.

— E tu chi sei? — chiese. — Dov’è Tanajin? — Parlava con un accento che Nia non riconosceva.

— Se ne è andata. Mi occupo io del traghetto.

— Uh! — disse l’uomo.

Nia lo traghettò sull’altra sponda insieme a due cornacurve. Lui le diede del sale in un sacchetto di pelle. La pelle era morbida e sottile. Nia non sapeva da che specie di animale provenisse. L’uomo non le spiegò chi fosse né perché viaggiasse attraverso il territorio del Popolo del Ferro. Nia decise di non chiederglielo.

Trascorsero altri giorni. La nuova luna continuava a viaggiare nel cielo. La nuova stella restava al centro del cielo. Di quando in quando vedeva un’altra di quelle lunghe nuvole.

Tornarono le Donne dei Canestri. La loro guida disse che il Popolo dell’Ambra non era stato di grande aiuto. — Sono impegnate a eseguire cerimonie di prevenzione e propiziazione. Qualcosa è andato storto. Non hanno voluto spiegarci che cosa, a parte dirci che dietro tutto questo c’era l’Imbroglione.

"È uno spirito che non conosciamo, sebbene somigli un po’ alla nostra Donna dalla Faccia di Uccello. Una sobillatrice! Una spiona e una bugiarda! Anche se devo riconoscere che dobbiamo molto alla Donna dalla Faccia di Uccello. Lei ci ha dato il fuoco e ci ha insegnato a intrecciare canestri."

Un’altra donna disse: — Non dovremmo esserle troppo grate. Ha convinto lei la Prima Gente che non c’era niente di sbagliato nell’incesto. E ha lasciato libero nel mondo il piccolo insetto nero della morte.

La guida si accigliò. — Le donne del Popolo dell’Ambra hanno continuato a parlare di questo spirito. Questo Imbroglione. Ci hanno detto che le persone senza pelo non sono il problema. L’Imbroglione è il problema. È lui che sta causando cambiamenti nel cielo.

— Le persone senza pelo hanno fatto una visita laggiù? — s’informò Nia. Puntò il dito verso est.

La guida fece il gesto che significava "no". — Non sono sicura che ci abbiano creduto quando abbiamo raccontato loro delle persone senza pelo e della barca che poteva volare. Forse pensavano che fossimo delle bugiarde, come l’Imbroglione.

Aiya! - esclamò Nia. Le traghettò oltre il fiume, poi tornò indietro.

Ormai la foresta lungo il fiume aveva finito di cambiare colore. Gli alberi erano gialli e arancione. Le canne nelle paludi erano rosse. Stormi di uccelli viaggiavano nel cielo come nuvole.

Nia incominciò a preoccuparsi del cibo. Stava per rimanere senza. Si avvicinava l’inverno. Fabbricò delle trappole per i pesci e le sistemò nel fiume. Poi andò nella foresta, tagliò della legna e fece una rastrelliera per affumicare. Era il modo più sicuro per conservare pesce e carne. Il fumo avrebbe nascosto l’odore del cibo. Gli animali della foresta non sarebbero venuti a cercare qualcosa da mangiare.

Fabbricò delle trappole da collocare nella foresta. Poi si costruì un arco. Era del tipo poco resistente usato dalla gente del sud, ma non aveva i materiali per un arco fatto nel modo giusto, con strati di corno, e inoltre non era una fabbricante di archi.

Com’era possibile per gli uomini sopravvivere da soli? Una donna aveva bisogno di un intero villaggio pieno di persone dalle diverse conoscenze.

— Bene — disse fra sé. — So che è possibile. Sono già vissuta da sola in precedenza, salvo per Enshi, e lui non era poi un grande aiuto. Posso farlo di nuovo.

Raccolse cibo. Arrivarono nuvole da ovest, grigie e fitte, e fecero cadere pioggia su di lei. La pioggia era fredda e intensa. Le foglie cadevano dagli alberi. Si posavano al suolo nella foresta e volavano oltre il fiume. Rosse. Gialle. Arancione. Rosa. Porpora.

Gli stormi di uccelli si fecero meno frequenti. Gli insetti erano quasi spariti.

Notte e giorno, Nia sorvegliava il fuoco per affumicare. Il fumo grigio saliva in volute verso il cielo grigio. Dalla foresta non uscirono animali per scoprire se aveva qualcosa di commestibile. In questo era fortunata. Era il periodo dell’anno in cui ogni specie di creatura andava in cerca di cibo, sebbene non in preda alla disperazione. La disperazione sarebbe venuta più tardi con la neve.

Un pomeriggio, Nia se ne stava di fronte alla tenda, occupata a pulire un uccello terrestre. Aprì il ventre dell’animale per togliere i visceri. Uno dei suoi cornacurve fischiò: un segnale di allarme. Nia alzò lo sguardo. Dalla pista che seguiva il fiume si stava avvicinando un cavaliere. Nia si alzò, tenendo in mano i visceri sanguinolenti. Erano ancora attaccati all’uccello e, alzandosi in piedi, Nia sollevò l’uccello dal suolo. Per un attimo questo penzolò all’estremità di un pezzo di intestino. Poi il budello si spezzò e l’uccello cadde. Il cavaliere tirò le redini del suo animale.

Era grande e dalle spalle ampie. La sua pelliccia luccicava nonostante il cielo fosse grigio e scuro. La tunica che indossava era gialla e coperta di ricami. Portava braccialetti d’oro e un ciondolo d’oro a forma di pesce appeso a una collana di perline d’ambra. — Ho sentito dire che la vecchia donna del traghetto se ne era andata. Sembra che la nuova appartenga al Popolo del Ferro. Non parla molto e non racconta niente di sé.

— Chi può avertelo detto, Inzara?

— L’uomo il cui dono è il sale. — Inzara smontò di sella. — Perché non finisci quello che stavi facendo e poi non ti lavi le mani?

Condusse il suo animale dietro la tenda. Nia pulì l’uccello e si lavò le mani nel fiume.

Inzara tornò, portando le sue bisacce da sella.

— Che cosa ci fai qui? Non dovresti essere nella Terra dell’Inverno, a difendere il tuo territorio?

— Se ne occuperanno per me i miei fratelli. In ogni caso, non ha molta importanza in questo periodo dell’anno.

Lei infilzò l’uccello sullo spiedo e lo sistemò sopra il fuoco. Inzara si accovacciò. Aiya! Era grande e grosso, perfino appoggiato sui talloni.

— È abbastanza evidente che il mondo sta cambiando. C’è una nuova stella nel cielo, e anche una nuova luna. Qualche tempo fa un giovane è uscito dal villaggio. L’ho fermato e ho parlato con lui prima di mandarlo per la sua strada. Mi ha detto che erano venute persone da ovest, portando le loro provviste dentro canestri e raccontando una strana storia. Da loro erano giunti dei visitatori che viaggiavano su un uccello fatto di metallo. I visitatori erano senza pelo. Le persone dell’ovest volevano consigli. Ma le donne del mio popolo erano indaffarate. Da quando si sono recate sull’isola della Cordaia non fanno che litigare ed eseguire cerimonie. La guardiana della torre era morta e la torre stessa era danneggiata.

— Noi non abbiamo toccato la torre — disse Nia.

— Sono stati gli uccelli, o il vento — ribatté Inzara. — In ogni caso, i clan si stanno scambiando accuse di magia e pensieri malvagi. È quello che ha detto il giovane. Avrei potuto spiegare che cosa era accaduto realmente, ma chi dà ascolto agli uomini su queste cose? — Fece una pausa. — Ho pensato: il mondo sta cambiando, ed è evidente chi c’è dietro tutti questi cambiamenti. Le persone senza pelo, l’oracolo e Nia.

"È arrivato l’uomo che porta il sale. Mi ha parlato della donna del traghetto sul fiume. Ho pensato: quasi certamente si tratta di Nia. Quante strane donne possono esserci, che vagano per la pianura?"

— Un’opinione giusta, ma perché ti sei preoccupato? Non credo di essere responsabile di nessuno dei cambiamenti, e se lo sono, ormai non c’è niente che possa fare a questo riguardo.

— Sono responsabili le persone senza pelo? — domandò Inzara.

— Forse. Credo di sì.

— E tu sei loro amica.

— Forse.

— Dimmi dove sarai in primavera.

Nia alzò lo sguardo, sorpresa. — Perché?

— Tu hai molta fortuna, più di qualunque donna di cui abbia mai sentito parlare. Non sono sicuro di che genere di fortuna sia. A volte sembra più cattiva che buona. Ma è senza dubbio potente, e non c’è alcun dubbio sulla mia fortuna. È sempre buona.

"Se tu avessi un figlio, e il padre fossi io, o Ara, o Tzoon, pensa alla fortuna che avrebbe! Pensa al potere!"

Nia si sentì ancora più sorpresa. Se ne restò lì a bocca aperta. Le mani rimasero dov’erano, sulle cosce.

L’uomo proseguì: — Ne abbiamo discusso, noi tre. Se ti interessa, tireremo a sorte. Quello che prenderà la paglia più lunga verrà a cercarti. Questa zona dovrebbe essere buona. Non è probabile che ci siano altri uomini nei dintorni. Né donne. È facile distrarsi nel periodo degli accoppiamenti, e questa è una cosa che dovrebbe essere fatta nel modo corretto. Con attenzione.

— No — disse Nia.

Inzara fece il gesto della domanda.

— Ho già fatto troppe cose strane, e sto diventando vecchia. Non credo di volere altri figli.

— Hai già dei figli? Ci sono figlie femmine? Quanti anni hanno?

Nia fece il gesto che significava "smettila" o "taci".

— Perché? — s’informò Inzara.

— Tutto questo è assurdo. Gli uomini non scelgono le donne con le quali si accoppiano. Agli uomini non importa chi siano i loro figli o come siano.

— E tu che ne sai degli uomini? Che cosa ne sanno le donne in generale? Ve ne state sedute nei vostri villaggi! Chiacchierate! Fate pettegolezzi! Vi dite l’una con l’altra come sono gli uomini. Come potete capire qualcosa di noi? Hai mai passato un inverno da sola sulla pianura?

— Sì — rispose Nia.

Lui brontolò, poi fece il gesto delle scuse. — Dimenticavo chi sei. — Tacque un istante e aggrottò la fronte. Poi parlò di nuovo. — Dimmi dove sarai, Nia. Vuoi davvero accoppiarti col primo uomo che capita, uno qualsiasi? Potrebbe essere un uomo da poco. Potrebbe essere vecchio o pazzo. Chissà che specie di figlio uscirà?

Nia guardò l’uccello che cuoceva sul fuoco. La pelle si stava dorando. Era coperto dal grasso liquido, che luccicava. Rigirò l’uccello, poi si volse verso Inzara. — Te l’ho detto, non voglio più figli. Inoltre, sono stanca di fare le cose in modi nuovi e insoliti. Voglio essere normale per un po’ di tempo.

Inzara fece il gesto che significava "non è probabile che succeda".

— Inoltre, non mi va che altre persone facciano progetti per me. Io faccio quello che voglio.

— E vuoi essere normale — fu il commento di Inzara. Si alzò e si stiracchiò. Uh! Era enorme! La sua pelliccia luccicava alla luce del fuoco. Altrettanto facevano i suoi gioielli. — Mi porti al di là del fiume?

— Perché vuoi andare?

— Le persone senza pelo hanno edificato un villaggio a sud di qui sul Lago Lungo. Voglio vederlo.

— Perché? Non potrai entrarci.

— Le persone senza pelo mi cacceranno via?

Nia rifletté un momento. — No.

— Posso sopportare la gente. Guardami adesso. Sono seduto a parlare con te, e non è il periodo degli accoppiamenti. Se il villaggio sembra interessante, forse entrerò. Ara vuole informazioni. Io sono quello che va d’accordo con la gente, così sono venuto io. Ma è lui quello curioso.

Mangiarono l’uccello terrestre. Inzara prese una coperta e andò dietro la casa. Dormì per terra accanto al suo animale. Nia dormì dentro la tenda. Sognò il villaggio della gente senza peio. Si trovava dentro il villaggio e si aggirava fra le grandi case rotonde e scolorite. C’erano anche Inzara e altre persone che non riconosceva. Alcune di loro erano persone vere, persone con la pelliccia. Altre erano come Li-sa e Deragu.

Al mattino traghettò Inzara sull’altra sponda del fiume. — Non c’è una buona pista lungo il fiume. Dovrai andare a ovest sulla pianura e poi girare a sud.

Lui fece il gesto che significava che aveva capito.

Nia tornò alla casa di Tanajin.

Trascorsero altri giorni. Ci fu parecchia pioggia. Caddero le foglie. Il sole si spostò a sud. Quando era visibile, era del pallido colore invernale. Stava diventando affamato, come solevano dire le vecchie, benché questo non avesse alcun senso per Nia. Il sole era una fibbia. Lo sapevano tutti. L’aveva fatto la Signora della Fucina e l’aveva donato allo Spirito del Cielo, che lo portava sulla sua cintura. Com’era possibile che una fibbia avesse fame?

Non c’era nessuno che potesse rispondere alla sua domanda.

Da ovest arrivò un gruppo di viaggiatrici: donne del Popolo dell’Ambra, che tornavano a casa. Erano silenziose e sembravano turbate. Nia non domandò loro il perché. Le traghettò e loro le diedero una coperta fatta di pelliccia maculata e una pentola di stagno.

Il tempo si faceva sempre più freddo. Ora c’era ghiaccio nelle paludi: sottile e delicato. Lo si trovava nelle prime ore del mattino ed entro mezzogiorno era sparito. Se lo toccava, si spezzava. Aiya! Era simile alle tazze per bere delle persone senza pelo o ai loro strani pezzi di ghiaccio quadrati e cavi.

Il sole si spostò ancora più a sud. Il cielo era basso e grigio. Una mattina Nia udì un tuono, ma non vide niente.

Un’altra isola, pensò. Che saliva o scendeva. Quante ce n’erano ormai nel lago? Dove andavano quando partivano?

Inzara tornò. Accese un fuoco e Nia andò a prenderlo.

— Non ce l’ho fatta. Ho visto le loro barche e i loro carri. Ero consapevole che mio fratello avrebbe voluto saperne di più, ma non sono riuscito a farmi forza per entrare nel villaggio. Neppure dopo che l’uomo senza pelo mi ha invitato.

Nia fece il gesto della domanda.

— Quello che ho incontrato prima. Deragu. Mi ha trovato sulla scogliera sopra il villaggio. Abbiamo parlato. Ha detto che altre persone, persone vere, erano venute a guardare il villaggio ma non erano entrate. Non molte. Tre o forse quattro. Mi ha chiesto di portarti un messaggio.

— Sì?

— Vieni al villaggio per l’inverno. Tu hai fatto molti doni alla gente senza pelo, ha detto, soprattutto a lui e a Li-sa. Loro ti hanno dato pochissimo. Questo li fa sentire a disagio, ha detto. Un carro non procede in linea retta se i cornacurve che lo tirano non sono ben appaiati. Un arco non scaglia una freccia diritta se i due bracci non sono di uguale lunghezza.

Nia aggrottò la fronte. — Non ricordo di aver dato loro niente di importante.

Inzara fece il gesto che significava "può darsi". — Uno scambio non è concluso finché non sono tutti d’accordo che lo sia. È difficile dire che tipo di persona causi maggiori problemi: quella che rifiuta di dare o quella che rifiuta di prendere.

Nia non disse nulla.

Inzara continuò: — Un anno mi sono accoppiato con una donna a cui non piaceva prendere. Mi ha fatto quasi uscire di senno. Tutto quello che le davo era "troppo" o "troppo bello" o "troppo buono" per lei. Quanto ai suoi doni, che erano eccellenti, sosteneva che erano "piccoli" e "brutti". Avrei voluto picchiarla. L’ho lasciata il più in fretta possibile.

Nia emise un grugnito.

Inzara disse: — Conoscevo la madre della donna. Aveva occhi come aghi e una lingua simile a un coltello. Niente era mai abbastanza buono per lei. Credo che la donna abbia imparato a scusarsi per tutto ciò che faceva. Uh! Che brutta abitudine!

Raggiunsero la sponda orientale del fiume. Inzara l’aiutò a tirare sulla riva la zattera. Si tolse la collana d’oro e ambra e gliela porse. Nia stava per dire che era troppo come dono in cambio della traversata del fiume. Ma Inzara sembrava nervoso, e non voleva discutere con lui. Accettò la collana.

Lui montò in sella al suo animale e raccolse le redini, poi guardò Nia. — Ero solito pensare che niente mi facesse paura, a parte la vecchiaia. Ma quel villaggio laggiù mi ha spaventato. — Fece un cenno della mano verso sud e ovest. — Sono adirato con me stesso e inquieto. È meglio che me ne vada. — Diede uno strappo alle redini. L’animale si voltò. Inzara si volse indietro. — Forse verrò di nuovo in primavera. O forse verrà Ara. Il villaggio non lo spaventerà. E Tzoon è come una roccia. Non c’è mai niente che lo preoccupi.

Si allontanò. Nia si mise la collana. Era una splendida fattura. L’ambra aveva la forma di perline rotonde e il pesce era fatto di minuscoli pezzi d’oro legati insieme. Si dimenava come un pesce vero.

Nia tornò all’accampamento.

Il giorno seguente cadde la neve: grandi fiocchi soffici che si scioglievano non appena toccavano il suolo. Nia impacchettò le proprie cose e pulì la casa. Lasciò un sacco di cibo essiccato appeso al palo del tetto. Potevano venire delle persone. Potevano essere affamate. Lasciò anche una pentola per cucinare, una brocca per l’acqua e un coltello.

Dopo di che controllò bene i cornacurve. I loro zoccoli erano sani. Non avevano piaghe sulla schiena. Camminavano senza usare di più una zampa o uno zoccolo. Gli occhi erano puliti, e così le narici. Non trovò tracce di vermi o insetti scavatori.

Nia fece il gesto della soddisfazione.

Non era completamente a mani vuote. Aveva tre animali, cibo, e gli utensili per lavorare il metallo che le aveva lasciato Tanajin. Era più di quanto avesse portato con sé dal Villaggio del Popolo del Rame. Più di quanto avesse portato con sé dal proprio villaggio quando l’aveva lasciato la prima volta o la seconda o la terza.

Il giorno seguente attraversò il fiume. Doveva fare due viaggi. Il primo fu facile. L’aria era ferma. Il cielo era basso e grigio, ma non scendeva niente. Portò due dei cornacurve e li legò sulla sponda occidentale, poi tornò indietro.

Caricò il resto delle sue cose e condusse il terzo cornacurve sulla zattera. L’animale sbuffò e pestò uno zoccolo.

— Sii paziente! Tranquillo! Gli altri non mi hanno causato problemi.

Spinse la zattera verso il largo. Cominciava a cadere la neve. I fiocchi erano grandi e soffici e scendevano lenti. Quando arrivò alla prima isola, la riva orientale era sparita, nascosta dal biancore. Nia attraversò l’isola e caricò tutto sulla seconda zattera.

Questa volta la neve attecchiva, fermandosi sui rami spogli, sull’attrezzatura caricata sul cornacurve: le sacche e le coperte. C’era neve sulle spalle di Nia e neve sulla ruvida corteccia dei tronchi che formavano la zattera. Tutt’attorno i fiocchi sfioravano la grigia superficie dell’acqua e svanivano.

Aiya! Quel biancore! Nascondeva l’isola che aveva appena lasciato e le impediva di vedere quella dov’era diretta. Nia azionava il remo e grugniva.

Approdarono sull’estremità meridionale dell’isola. Nia tirò a riva la zattera, poi la guardò. Avrebbe dovuto portarla più a monte dov’era il punto giusto per l’approdo, ma ciò avrebbe richiesto tempo e la bufera stava peggiorando.

— Che siano altri a occuparsi di questo problema — disse.

Condusse il suo animale attraverso l’isola fino all’ultima zattera.

L’ultima traversata fu più facile. Il letto del fiume in quel punto era stretto, ma la neve si faceva più fitta. Copriva la zattera, il cornacurve e Nia. Perfino il remo era coperto di neve. Quando lo sollevava e lo muoveva, cadevano pezzi di neve. Facevano dei rumori quando toccavano l’acqua.

A Nia venne in mente una poesia. Non sapeva se l’avesse imparata da bambina o l’avesse composta proprio lì in mezzo al fiume.

Perché vieni,

oh, perché vieni adesso,

o popolo della neve?

Popolo dalle scarpe bianche,

perché mi infastidisci?

Nia raggiunse la riva occidentale e condusse a terra il cornacurve, lodandolo per le sue buone maniere. L’animale sbuffò e agitò le orecchie.

— Lo so. Lo so. Volevi causare guai. Ma ti sei trattenuto. Questo merita una lode. Ora è tutto finito. — Guardò il fiume: l’acqua grigia e la neve che cadeva. — Tireremo a riva la zattera e poi andremo a cercare i tuoi compagni. E domattina ci metteremo in viaggio per il sud.

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