2. I SOLARISTI

Il corridoio tubolare era vuoto. Sostai davanti alla porta chiusa e ascoltai. Le pareti dovevano essere molto sottili, poiché dall’esterno giungeva il fischio del vento. Sulla porta di fronte era appiccicato di sghembo un pezzo rettangolare di nastro adesivo bisunto, con su scritto a matita: UOMINI.

Guardai la parola scarabocchiata e per un attimo ebbi voglia di tornare da Snaut, ma capii che era inutile.

I suoi avvertimenti mi echeggiavano ancora nelle orecchie.

Mi mossi, curvo sotto il peso esasperante della tuta. Silenziosamente, come nascondendomi a un osservatore invisibile, tornai nella rotonda per provare le altre porte. Sulla targhetta della prima si leggeva: DOTT. GIBARIAN; sulla seconda: DOTT. SNAUT; sulla terza: DOTT. SARTORIUS. Sulla quarta, niente. Esitai, poi premetti piano la maniglia e aprii lentamente. Mentre spingevo provai il presentimento, quasi la certezza, che ci fosse qualcuno nella cabina. Entrai.

Non c’era nessuno. Attraverso una piccola finestra convessa si vedeva l’oceano, che da quella parte, sotto il sole, era tutto lustro come se dalle onde colasse un olio rossastro. Il riflesso scarlatto riempiva la cabina, che era simile a quella di una nave. Su un lato c’erano alcuni scaffali di libri, e tra di essi era appoggiato un letto, in verticale, contro la paratia; dall’altro lato, tra vari stipetti con maniglie metalliche (uno era aperto e si vedevano becchi a gas e provette tappate col cotone), erano appese vedute aeree in cornici di nichel; su due file, sotto la finestra, erano sistemati contenitori bianchi, smaltati, che ingombravano il passaggio. Alcuni erano aperti e all’interno si potevano vedere utensili e cannucce di plastica in gran numero. Agli angoli della stanza c’erano alcuni rubinetti, un aspiratore dei fumi, un frigorifero.

Il microscopio, per il quale non c’era più posto sul grande tavolo vicino alla finestra, era posato sul pavimento. Girandomi, vidi accanto alla porta d’entrata un armadio socchiuso, alto fino al soffitto, pieno di tute, di camici, di grembiuli isolanti e, sui ripiani, biancheria, scarponi antiradiazione e le bombole d’alluminio degli autorespiratori. Due di questi apparecchi, completi di maschere, erano appesi alle maniglie del letto rialzato.

Lo stesso caos regnava dappertutto, l’ordine era solo apparente. Fiutai l’aria; sentii un lieve effluvio di reagenti chimici e la traccia di un odore più aspro, forse cloro. Automaticamente alzai lo sguardo alle grate del condizionatore sul soffitto. Alcune striscioline di carta attaccate agli orli svolazzavano, indicando che i compressori erano in funzione per mantenere il normale ricircolo d’aria.

Tolsi da due sedie i libri, gli apparecchi, gli utensili e li ammucchiai alla meglio in un angolo, in modo da creare un po’ di spazio vuoto fra il letto e l’armadio. Tirai fuori un attaccapanni, per appendervi la mia roba, e presi tra le dita la linguetta della chiusura lampo; ma la mollai subito. Non mi risolvevo a togliermi la tuta, quasi che, senza di essa, sarei rimasto indifeso. Ancora una volta passai in rassegna la camera; controllai che la porta fosse ben chiusa, ma non aveva chiavistello e, dopo un attimo di riflessione, spinsi contro di essa due contenitori, dei più grossi. Dopo essermi sommariamente barricato in quel modo, in tre mosse mi liberai del mio involucro pesante e scricchiolante. Sull’anta dell’armadio, all’esterno, uno specchio stretto rifletteva una parte della camera. Sussultai perché, con la coda dell’occhio, avevo colto un movimento; ma era il mio riflesso. La maglia, sotto la tuta, era inzuppata di sudore. La tolsi e chiusi l’anta; dietro c’era una porta che dava su uno stanzino da bagno. In basso, sotto la doccia, c’era una cassetta piatta, piuttosto grande. La sollevai e, con un certo sforzo, la trasportai in camera.

Quando la posai al suolo, il coperchio si aprì di scatto, spinto da una molla. Gli scomparti erano pieni di oggetti strani, abbozzi di metallo cupo, quasi goffe imitazioni degli strumenti che si trovavano negli stipetti. Erano rovinati, deformati, smussati, parzialmente fusi, come se fossero passati nel fuoco. La cosa più inusuale erano le tracce di alterazione nelle maniglie di ceramica, che erano pressoché indistruttibili. In nessun forno di laboratorio si sarebbe potuta raggiungere la necessaria temperatura di fusione: forse in una pila atomica. Per rilevare le radiazioni, presi un contatore dalla tasca della tuta spaziale, ma il suo muso nero rimase muto quando lo avvicinai a quei relitti. Ero rimasto in mutande e canottiera. Buttai per terra anche questi indumenti, come stracci, e nudo entrai nella doccia.

L’urto dell’acqua mi calmò. Mi giravo sotto la pioggia di getti forti e bollenti, mi sfregavo e sbuffavo con energia esagerata, come per togliermi di dosso il contagio della torbida incertezza che appestava la stazione.

Cercai nell’armadio una tuta da allenamento, di quelle che si potevano indossare anche sotto la tuta spaziale, e trasferii nella tasca le poche cose che avevo; nel taccuino sentii, come incastrato tra i fogli, qualcosa di duro, la chiave della mia casa terrestre, che rigirai tra le dita per un momento, non sapendo che farne. Alla fine la posai sul tavolo. Mi venne in mente che potevo avere bisogno di un’arma.

Il mio temperino universale non rispondeva certo allo scopo, ma non possedevo altro e non avevo voglia di mettermi alla ricerca di una pistola a raggi gamma o qualcosa del genere. Mi sedetti su uno sgabello metallico in mezzo allo spazio libero, lontano da tutto. Desideravo stare solo e pensai con gioia che avevo a disposizione più di mezz’ora; era uno scrupolo superfluo, ma la puntualità meticolosa a tutti gli appuntamenti, importanti o no, è nella mia natura.

Le lancette dell’orologio, sul quadrante di ventiquattr’ore, segnavano le sette. Il sole tramontava. Le sette, ora locale, erano le venti a bordo del Prometheus. Ormai Solaris doveva essere rimpicciolito, sul video di Moddard, fino a confondersi con le stelle. Ma perché rimpiangere il Prometheus? Chiusi gli occhi. Regnava un silenzio totale; si udiva solo di tanto in tanto, a intervalli regolari, il gemito delle tubature. Nel bagno le gocce d’acqua stillavano sommessamente sulla porcellana.

Gibarian era morto. E se avevo capito bene le parole di Snaut, erano trascorse appena poche ore dal suo decesso.

Che cosa avevano fatto del cadavere? Lo avevano sotterrato?

In realtà, su quel pianeta, non sarebbe stato possibile.

Per un po’ pensai concretamente a quelle ipotesi, quasi che la sorte del morto fosse di somma importanza, finché non mi accorsi dell’inutilità di simili ragionamenti; mi alzai e presi a camminare in diagonale per la stanza, avanti e indietro.

Quando urtai con la punta del piede un piccolo zaino vuoto, vicino a una pila di libri accatastati, mi chinai a raccoglierlo.

Non era vuoto. Conteneva una bottiglietta di vetro scuro, così leggera che sembrava soffiata nella carta.

La guardai in controluce verso la finestra, sugli ultimi bagliori del funereo tramonto rossastro velato di lurida caligine. Che cosa mi prendeva? Perché mi occupavo di qualsiasi inezia mi capitasse per mano? Trasalii perché si era accesa la luce. Una fotocellula, ovviamente, sensibile all’avvicinarsi dell’oscurità. Aspettai che succedesse qualcosa, ma nell’ansia crescente lo spazio vuoto alle mie spalle mi preoccupava.

Decisi di reagire. Avvicinai lo sgabello agli scaffali. Da questi tolsi il secondo volume della vecchia monografia di Hughes e Eugle, La storia di Solaris, che conoscevo bene, e appoggiato sulle ginocchia il suo dorso solidamente rilegato mi misi a sfogliarlo.

La scoperta di Solaris era avvenuta cent’anni prima della mia nascita. Il pianeta gira intorno a due soli, uno rosso e uno azzurro. Per circa quarant’anni, dopo la scoperta, nessuna nave spaziale gli si era avvicinata. Si riteneva ancora valida, a quell’epoca, la teoria di GamowShapley sull’impossibilità della presenza di vita sui pianeti delle stelle doppie. L’orbita di questi corpi celesti, infatti, subisce una variazione ininterrotta, per il gioco di gravità alterno della coppia di soli. Ne derivano perturbazioni che di volta in volta accorciano o allungano l’orbita del pianeta, e dunque ogni forma di vita è distrutta sul nascere dalle radiazioni termiche o dal freddo glaciale.

I grandi cambiamenti avvenivano in periodi di centinaia di migliaia di anni, cioè un tempo brevissimo da un punto di vista astronomico o biologico, poiché l’evoluzione esige centinaia di milioni, se non miliardi, di anni.

Stando ai calcoli iniziali, Solaris, nel giro di cinquecentomila anni, si sarebbe avvicinato di mezza unità astronomica, cioè di circa settantacinque milioni di chilometri, al sole rosso, ed entro un altro milione di anni sarebbe piombato nella sua voragine rovente.

Tuttavia, dopo una decina d’anni dalla sua scoperta, si rilevò che l’orbita non pareva mostrare le variazioni previste, quasi che fosse fissa quanto l’orbita dei pianeti del nostro sistema solare.

Eppure le osservazioni e i calcoli, ripetuti in seguito con la massima precisione, avevano dato solo conferma di quello che già era noto: Solaris si muoveva su un’orbita variabile.

A questo punto, dalla condizione di un pianeta fra i tanti che ogni anno vengono scoperti e che negli elenchi generali rimangono semplicemente segnalati con poche righe di descrizione, Solaris si trovò promosso al rango di corpo celeste di primario interesse.

Quattro anni dopo questa scoperta, il pianeta fu studiato dalla spedizione di Ottenskjold, che orbitò intorno a esso con il Laokoon, accompagnato da due navi ausiliarie. Questa esplorazione costituì una ricognizione preliminare con carattere di provvisorietà e, anzi, d’improvvisazione, tanto più che non era attrezzata per sbarcare sul pianeta. In quell’occasione furono lanciati in orbite equatoriali e polari un gran numero di satellitiosservatorio automatici, il cui compito principale era la misurazione dei gradienti gravitazionali. Ma fu esaminata anche la superficie del pianeta, quasi completamente coperta dall’oceano, con rare terre emerse a forma di altipiani.

La loro superficie complessiva non raggiungeva quella del territorio europeo, sebbene il diametro di Solaris fosse del venti per cento maggiore di quello della Terra.

Quei frammenti deserti e rocciosi, disseminati irregolarmente, erano tutti concentrati nell’emisfero meridionale. Fu analizzata anche la composizione dell’atmosfera, e misurata con precisione la densità del pianeta, determinandone inoltre l’albedo e altre caratteristiche astronomiche. Com’era prevedibile, non fu individuato alcun segno di vita, né sulle terre, né nell’oceano.

Durante i dieci anni successivi, Solaris, che adesso era al centro dell’attenzione di tutti gli osservatori di quel settore spaziale, rivelò la sorprendente tendenza a conservare costante, a dispetto dell’attrazione gravitazionale dei suoi soli, un’orbita che, indiscutibilmente, sarebbe dovuta essere variabile. Per un certo periodo la questione parve quasi sollevare uno scandalo, poiché (nell’interesse della scienza) doveva per forza trattarsi di un errore d’osservazione da imputare ai ricercatori che se ne occupavano o alle caratteristiche dei calcolatori impiegati.

La mancanza di fondi ritardò, per tre anni, una vera e propria spedizione solaristica, fino al momento in cui Shannahan completò la sua squadra e ottenne dall’Istituto il comando di tre unità di tonnellaggio C, classe portanavette.

Un anno e mezzo prima dell’arrivo della spedizione, partita dall’Alfa dell’Acquario, una seconda flotta d’esplorazione, per conto dell’Istituto, mise in orbita intorno a Solaris un satellite automatico, il Luna 247. Questo satellite, dopo tre ricostruzioni complete, eseguite a una decina d’anni d’intervallo, è tuttora funzionante. I dati che ha raccolto sono serviti a confermare definitivamente le osservazioni della spedizione di Ottenskjold circa il carattere attivo dei movimenti dell’oceano.

Una nave di Shannahan rimase in orbita alta; le altre due, dopo alcune prove preliminari, si posarono su un ripiano roccioso di circa mille chilometri quadrati presso il Polo Sud del pianeta Solaris.

I lavori della spedizione durarono diciotto mesi e, salvo un deplorevole incidente dovuto a un difetto meccanico di funzionamento, non incontrarono problemi. Tuttavia il gruppo di scienziati finì col dividersi in due opposte fazioni. Il pomo della discordia era l’oceano. In base alle analisi, tutti erano d’accordo sul fatto che si trattasse di una formazione organica (a quell’epoca nessuno osava ancora parlare di un essere vivente). Ma i biologi lo consideravano alla stregua di un corpo primitivo, simile a un nucleo gigantesco, a una singola cellula fluida di dimensioni planetarie (la chiamarono «formazione prebiologica»), che avvolgeva tutto il globo in un involucro colloidale, profondo in certi punti vari chilometri; i fisici, invece, prendevano in esame la possibilità che fosse una struttura straordinariamente e perfettamente organizzata, superiore forse, in quanto a complessità, anche agli organismi terrestri, poiché era in grado d’influire in modo attivo sull’andamento dell’orbita seguita dal pianeta. Non era stata formulata nessun’altra spiegazione per chiarire il comportamento di Solaris; inoltre i fisici planetologi avevano individuato un rapporto tra certi processi dell’oceano plasmatico e il valore dell’attrazione gravitazionale, che variava in corrispondenza del ricambio della materia dell’oceano.

Furono quindi i fisici, e non i biologi, a coniare il termine paradossale di macchina plasmatica, intendendo con ciò una formazione priva forse di vita secondo i nostri concetti, ma capace d’intraprendere attività utili su scala (diciamolo subito) astronomica.

In poche settimane, la polemica coinvolse le maggiori autorità, e per la prima volta la teoria di GamowShapley, incontestata da ottant’anni, fu messa in discussione.

Per un certo tempo alcuni cercarono di difenderla, affermando che l’oceano non aveva nulla in comune con la vita, che non era nemmeno una formazione «para» o «prebiologica», ma solo una formazione geologica, insolita indubbiamente, ma capace soltanto di rendere stabile l’orbita di Solaris attraverso spostamenti di forze d’attrazione, e in proposito si richiamavano alla regola di Le Chatelier.

All’opposto furono elaborate ipotesi, fra cui quella particolarmente complessa del CivitaVitta, secondo le quali l’oceano sarebbe stato frutto di uno sviluppo evolutivo: partendo dalla sua primitiva forma di preoceano, soluzione di sostanze chimiche in lenta reazione tra loro, e sotto la pressione delle circostanze ambientali (cioè dei cambiamenti d’orbita che minacciavano la sua esistenza), esso era riuscito a raggiungere lo stadio di «oceano omeostatico» senza passare attraverso la trafila di tutte le fasi di sviluppo terrestri, e saltando così la creazione di esseri mono o multicellulari, l’evoluzione vegetale e animale e la costituzione di un sistema nervoso e cerebrale. In altre parole, diversamente dagli organismi terrestri, non si era adattato all’ambiente attraverso centinaia di milioni di anni, tempo necessario all’apparizione di esseri dotati d’intelligenza, ma aveva dominato subito l’ambiente stesso.

Teoria originale, in verità; nessuno, però, era riuscito a capire come facesse un oceano di gelatina appiccicosa a stabilizzare l’orbita di un corpo celeste. Da circa un secolo erano già state create apparecchiature, chiamate «gravitatori», che producevano campi di forze di gravitazione artificiali; ma era difficile immaginare come un vischio informe potesse raggiungere il risultato che i gravitatori ottenevano con complicate reazioni nucleari a temperature estremamente elevate.

I giornali dell’epoca, destando la curiosità dei lettori e l’ira degli scienziati, erano colmi di assurdità sul tema «Il segreto di Solaris», non escluse quelle che mostravano l’oceano planetario come… un lontano parente della terrestre anguilla elettrica, detta comunemente torpedine.

Quando si riuscì, almeno entro una certa misura, a dare una prima risposta al problema, risultò, come poi doveva puntualmente ripetersi nel campo degli studi solaristici, che la spiegazione non faceva che sostituire un enigma con un altro, a volte ancor più sconcertante.

Le ricerche dimostrarono che l’oceano non funzionava affatto alla stessa maniera dei nostri gravitatori (cosa, del resto, chiaramente impossibile), bensì riusciva a modulare direttamente la metrica dello spaziotempo con l’effetto, fra l’altro, di provocare differenze nella misura degli intervalli di tempo lungo un meridiano di Solaris. Così, dunque, l’oceano non solo conosceva la teoria einsteinboeviana, ma anche ne utilizzava le implicazioni (cosa che, dal canto nostro, non eravamo in grado di fare).

A questa conclusione, nel mondo scientifico scoppiò una delle più violente bufere del secolo. Le teorie universalmente accettate si sbriciolavano, nella letteratura scientifica comparvero articoli eretici e sull’alternativa tra oceano intelligente e s emplice gelatina capace di esercitare un influsso sulla forza gravitazionale si accese la polemica.

Tutto ciò risaliva a una quindicina d’anni prima della mia nascita. Al tempo in cui andavo a scuola, Solaris, alla luce dei dati raccolti nel frattempo, era già comunemente conosciuto come pianeta provvisto di forma di vita, anche se limitata a un solo abitante.

Il secondo volume di Hughes e Eugle, che stavo sfogliando soprappensiero, cominciava con una sistematica delle forme di vita molto originale e direi divertente. La tabella di classificazione dava la seguente tassonomia: «Tipo, «Polytheria»; ordine, «Syncytialia»; classe, «Metamorpha»«.

Pareva quasi che conoscessimo dio sa quanti esemplari di quella specie, mentre in realtà ce n’era uno solo… che pesava però, questo è vero, diciassettemila miliardi di tonnellate.

Sotto le mie dita scorrevano i diagrammi a colori, i grafici variopinti, le analisi spettrografiche che mostravano tipo e frequenza dei ricambi basilari e delle reazioni chimiche.

Quanto più procedevo nella lettura dell’imponente volume, tanto più passavano pagine fitte di formule matematiche; a leggere quel libro si sarebbe davvero potuto credere che la nostra conoscenza di quell’esemplare della classe «Metamorpha» (che, avvolto attualmente dalle tenebre della notte di quattro ore, si stendeva quindici metri sotto lo scafo metallico della stazione) fosse completa.

In realtà non tutti convenivano con la definizione di «essere vivente» e tanto meno col fatto di chiamare «raziocinante» l’oceano. Posai rumorosamente sullo scaffale l’enorme volume e presi il successivo. Si divideva in due parti. La prima era dedicata al riassunto degli innumerevoli tentativi di entrare in contatto con l’oceano. Quand’ero a scuola, come ricordavo fin troppo bene, quegli esperimenti erano argomento d’infinite storielle, celie e barzellette. A confronto delle infinite speculazioni suscitate dal problema, la scolastica medievale appariva come un modello di chiarezza e concretezza.

La seconda parte, di circa milletrecento pagine, comprendeva esclusivamente la bibliografia sull’argomento; la letteratura relativa, in originale, non sarebbe entrata nella stanza in cui mi trovavo.

I primi tentativi di contatto avvennero attraverso speciali apparecchi elettronici che trasmettevano nella massa della gelatina vivente gli impulsi emessi dagli interlocutori. L’oceano vi prese parte attiva, modificando gli apparecchi stessi.

Tutto avveniva però nella più fitta oscurità. Parte attiva… ma in che senso? L’oceano modificò certi elementi delle apparecchiature che vi furono immerse: cambiarono, quindi, le frequenze delle scariche; quanto agli apparati di registrazione, furono sovraccaricati da una massa enorme di segnali, simili a frammenti di colossali operazioni di calcolo. Ma che cosa significava tutto ciò? Erano dati sul momentaneo stato di eccitamento dell’oceano? Gli impulsi che altrove, a mille miglia dagli studiosi, stavano provocando la nascita delle sue enormi creazioni? O erano le sue creazioni artistiche? Come saperlo, se non si riuscì a ottenere due volte la medesima reazione a uno stesso stimolo? In un caso, infatti, capitava di avere in risposta un’esplosione d’impulsi che quasi facevano saltare per aria le apparecchiature, nell’altro il silenzio assoluto. Dunque non era possibile la ripetizione degli esperimenti? Sembrava di essere costantemente a un passo dalla decifrazione, ma la mole degli appunti non faceva che crescere.

Allora furono costruiti dei cervelli elettronici con una potenza ineguagliabile di rielaborazione delle informazioni.

Essi conseguirono, effettivamente, alcuni buoni risultati. L’oceano, fonte d’impulsi elettrici, magnetici e gravitazionali, parlava un linguaggio matematico; certe sequenze delle sue scariche di corrente si potevano classificare, impiegando modelli d’analisi terrestri assolutamente astratti e applicando le teorie della statistica; furono rilevate omologie strutturali analoghe a quelle già osservate, nel campo della fisica, nei rapporti reciproci tra energia e materia, tra grandezze finite e non finite, tra elementi e campi. Tutto ciò condusse gli scienziati alla persuasione di trovarsi di fronte a un essere pensante, costituito da un mare di protoplasma simile a un cervello ingrandito milioni di volte, che avvolgeva il pianeta e che impiegava il proprio tempo in complicati ragionamenti sull’essenza e realtà dell’universo; perciò quel che i nostri strumenti riuscivano a captare erano solo le briciole di uno sterminato monologo, colto a tratti, che andava svolgendosi eternamente a profondità che superavano la nostra comprensione.

Questo, per quanto riguarda i matematici. Tali ipotesi, secondo alcuni, esprimevano una sottovalutazione delle possibilità umane, erano come un inchinarsi davanti all’ignoto, ridando linfa all’antica dottrina dell’ ignoramus et ignorabimus.

Altri ritenevano invece che fossero solo fandonie, nocive e sterili, e che le ipotesi matematiche, che indicavano in questo cervello enorme, elettronico e plasmatico al tempo stesso, il fine ultimo e la summa dell’esistenza, rispecchiassero la mitologia del nostro tempo.

Altri ancora… ma gli scienziati e i pareri erano una legione. E ciò valeva per l’intero campo degli esperimenti di «contatto e comunicazione». Confrontando quest’ultimo con altri rami degli studi di solaristica, rami nei quali, in particolare durante l’ultimo quarto di secolo, la specializzazione aveva avuto un forte sviluppo, si osservava che il solarista cibernetico stentava a farsi capire dal solarista simmetriologo. «Come sperate di comunicare con l’oceano se non ci riuscite fra voi?» aveva chiesto una volta, scherzosamente, Veubeke, che al tempo dei miei studi era direttore dell’Istituto. Ma quella battuta aveva un fondo di verità.

L’oceano era stato catalogato nella classe Metamorpha perché dalla sua superficie ondeggiante nascevano forme molto dissimili fra loro e da quelle terrestri. Adattamento, conoscenza o altro, la vera finalità di tali eruzioni violente di creatività plasmatica rimaneva un enigma.

Rimettendo a posto sullo scaffale il volume, così ponderoso che dovevo reggerlo con due mani, mi dicevo che tutta quella letteratura scientifica che ingombrava le biblioteche, era un’inutile zavorra, un pantano senza fondo di dati, e che ci trovavamo allo stesso punto del giorno in cui, settantotto anni prima, avevano cominciato ad accumularli; anzi, la situazione, in pratica, era andata peggiorando, poiché tutto lo sforzo di quei decenni era risultato vano.

Di preciso conoscevamo soltanto le contraddizioni. L’oceano non si serviva di macchine e non ne costruiva; però sembrava che, in determinate circostanze, potesse farlo, poiché aveva modificato alcune parti degli apparecchi immersi.

Ciò era accaduto nel primo e nel secondo anno dell’esplorazione; in seguito l’oceano aveva ignorato tutti gli esperimenti eseguiti dai ricercatori con pazienza da certosini, quasi avesse perso l’interesse per i nostri apparecchi e i nostri tentativi (e, conseguentemente, per noi). Non possedeva — continuo a enumerare le nostre «conoscenze per esclusione» — sistema nervoso e cellulare di sorta, né struttura proteica; non sempre reagiva agli stimoli, nemmeno ai più potenti (così, per esempio, «ignorò» la catastrofe della nave ausiliaria a razzi della seconda spedizione di Giese, che distrusse il plasma in un raggio di due chilometri, con l’esplosione nucleare delle sue pile atomiche, nel momento del suo impatto sulla superficie del pianeta dopo essere caduta da trecento chilometri d’altezza).

A poco a poco si cominciò a mormorare, nei circoli scientifici, che il «caso Solaris» era una causa persa; in particolare nel consiglio di amministrazione dell’Istituto, all’interno del quale, negli ultimi anni, si erano alzate diverse voci a chiedere il taglio dei fondi per le future ricerche. Nessuno osava ancora parlare di liquidazione completa della base, perché sarebbe stata una dichiarazione troppo esplicita di fallimento, ma nelle conversazioni non ufficiali si diceva che bisognava augurarsi soltanto di trovare una via d’uscita onorevole dallo «scandalo Solaris».

Per molti, tuttavia, e in particolare per i giovani, questo «scandalo» divenne una sorta di pietra di paragone delle proprie capacità: «In definitiva» dicevano «la posta è approfondire l’analisi della civiltà di Solaris. E’ un gioco che vale la candela, una sfida ai limiti della conoscenza umana».

Per un certo periodo di tempo fu molto popolare l’idea (divulgata ampiamente dai media) che l’oceano pensante che avvolge Solaris fosse un gigantesco cervello, in anticipo d’un milione di anni sulla nostra civiltà; che fosse una specie di yogi cosmico, un saggio, immagine dell’onniscienza, che da molto tempo aveva compreso l’inutilità di qualsiasi attività e che perciò manteneva nei nostri confronti un silenzio assoluto.

Ma questo era semplicemente falso, poiché l’oceano vivente agiva, eccome! In modo diverso, però, dalla nozione di attività degli uomini. Non costruiva città, né ponti, né macchine volanti, e non cercava di vincere o valicare lo spazio interstellare (vittoria inestimabile, in nome della quale vari difensori dell’uomo ne sostenevano la superiorità); si dedicava invece a migliaia di trasformazioni, a una «autometamorfosi ontologica»… nella solaristica, la terminologia scientifica non fa mai difetto.

D’altra parte, chiunque s’immerga nello studio delle numerose problematiche legate alle costruzioni di Solaris ha l’impressione di trovarsi dinanzi a creazioni intelligenti, e talvolta geniali, mescolate senza ordine e senza scopo a prodotti di una stupidità confinante con l’idiozia. Da ciò è nato, per antitesi, il concetto di «oceano debilitato».

Queste ipotesi riesumavano e resuscitavano uno dei più antichi problemi filosofici: il rapporto tra coscienza, spirito e materia. Occorreva non poco coraggio per parlare, come ha sostenuto per primo Du Haart, di «oceano cosciente». Questo problema, subito classificato come metafisico dai filosofi della scienza, ha costituito da allora il sottofondo di tutte le discussioni e di tutte le controversie. Era possibile il pensiero senza coscienza? Ma… potevano chiamarsi pensiero i processi che si svolgevano nell’oceano? Una montagna è solo una pietra enorme? Un pianeta è una montagna immensa? Si potevano usare quelle definizioni, ma la nuova scala di grandezza faceva emergere nuove forme e nuovi fenomeni.

Il problema era diventato la versione contemporanea della quadratura del cerchio. Ogni pensatore indipendente cercava di portare il proprio contributo alla conoscenza di Solaris.

Fiorivano nuove teorie che sostenevano l’esistenza di uno stato di decadenza, di regressione, succeduto a una stagione alta di «fioritura intellettuale» dell’oceano; in pratica venivano a considerarlo come un tessuto canceroso sviluppatosi dal corpo dei precedenti abitanti del pianeta, che da esso erano stati divorati e assorbiti, fusi in quella forma, eterna e autoriproduttrice, di organismo sopracellulare.

Nella luce bianca fluorescente, che imitava quella terrestre, spostai dal tavolo gli apparecchi e i libri che l’ingombravano, stesi sul suo piano di plastica la mappa di Solaris e la osservai, appoggiando le mani al bordo metallico. L’oceano vivente aveva i suoi alti fondali e le sue fosse; le sue isole, coperte da strati minerali erosi, facevano pensare che fossero state, un tempo, una parte del fondo. Regolava anche l’emergere e l’affondare delle formazioni rocciose immerse nel suo grembo? A questo non c’era risposta.

Osservavo sulla carta gli immensi emisferi, dipinti in diversi toni di viola e di azzurro, e fui sopraffatto, come poche altre volte nella vita, da un senso di stupore, lo stesso di quando, da ragazzo, ero venuto a conoscenza per la prima volta dell’esistenza di Solaris. Non so come, l’ambiente in preda al caos, l’inquietante mistero intorno alla morte di Gibarian, il mio stesso futuro, mi apparivano a un tratto insignificanti e non me ne curavo, immerso nella contemplazione di quell’enigma, sconvolgente per un essere umano.

I punti più interessanti del pianeta vivente portavano il nome dei ricercatori che ne avevano condotto la prima esplorazione. Stavo ispezionando l’affioramento di Texhall che lambisce gli arcipelaghi subequatoriali, quando ebbi la sensazione di uno sguardo posato su di me.

Ero ancora chino sulla mappa, ma già non la vedevo più, ero come paralizzato. La porta, di fronte a me, era barricata dai contenitori, ai quali avevo aggiunto uno stipetto. «Dev’essere un automa» pensai, sebbene non ne avessi trovato alcuno, nella camera, né potesse essere entrato senza essere visto. La pelle della nuca e delle spalle cominciava a scottare, sentivo il peso insopportabile di quello sguardo fisso.

Non mi accorsi che sotto quella pressione mi stavo appoggiando sempre più forte al tavolo, che cominciò a scivolare in avanti. Quel movimento fu una specie di liberazione. Mi girai di scatto.

La stanza era vuota. Dinanzi a me si apriva solo il buio della finestra semicircolare. La sensazione di una presenza non svaniva. Le tenebre mi osservavano, immense, informi, cieche, senza limiti. Nessuna stella rischiarava l’oscurità di là dai vetri. Tirai le tende. Ero alla stazione da meno di un’ora ma cominciavo a capire che vi si verificavano casi di mania di persecuzione. Collegai involontariamente questo pensiero alla morte di Gibarian. Avendolo conosciuto, avevo creduto fino a quel momento che nulla potesse offuscare la sua mente. Non ne ero più molto sicuro.

Ero in piedi accanto al tavolo, nel mezzo della camera. Si calmava l’affanno e sentivo che il sudore della fronte si raffreddava. Che cosa mi era venuto in mente un attimo prima?

Ah, ecco: gli automi. Era molto strano che non ne avessi incontrati. Dov’erano spariti? L’unico col quale, a distanza, avevo avuto un contatto, era la guida automatica per l’assistenza dei voli in arrivo. E gli altri?

Guardai l’orologio. Era ora di tornare da Snaut.

Uscii. Il corridoio era scarsamente illuminato da esili tubi fluorescenti che correvano sul soffitto. Oltrepassai due porte e raggiunsi quella su cui era scritto il nome di Gibarian. Vi sostai a lungo davanti. L’intera stazione era immersa nel silenzio. Afferrai la maniglia. Veramente, non avevo intenzione d’entrare. Ma cedette, e la porta si socchiuse su uno spiraglio dapprima nero, poi si accesero delle lampade. Chiunque fosse passato nel corridoio mi avrebbe notato. Attraversai la soglia di scatto e chiusi la porta alle mie spalle, silenziosamente ma con fermezza. Mi voltai. Stavo con la schiena quasi appoggiata alla porta. La camera era più grande della mia, con una finestra panoramica velata per tre quarti da una tenda celeste a fiorami rosa, probabilmente portata dalla Terra.

Lungo le pareti si alternavano scaffali di biblioteca e stipetti, gli uni e gli altri verniciati di verde chiaro con riflessi metallizzati argentei. Gli oggetti che in precedenza vi erano riposti si trovavano adesso per terra, in cumuli, tra sedie e poltrone.

Due piccoli tavolini a rotelle mi sbarravano il passo, sepolti sotto mucchi di pubblicazioni che i portariviste stracolmi non riuscivano più a contenere. Alcuni libri aperti avevano le pagine macchiate dai liquidi usciti da provette sbreccate e da boccette dai tappi corrosi: recipienti di vetro d’un tale spessore che non si sarebbero rotti per una semplice caduta, anche da notevole altezza. Sotto la finestra c’era una scrivania, ma era stata ribaltata su un fianco e adesso schiacciava una lampada da lavoro, dal lungo braccio snodabile, nei cassetti semiaperti erano incastrate due gambe di uno sgabello.

Una vera marea di carte, di fogli e foglietti manoscritti copriva il pavimento. Riconobbi la scrittura di Gibarian. Nel raccogliere alcuni fogli alla rinfusa, mi accorsi che il mio braccio produceva un’ombra doppia.

Mi voltai. Sembrava che la tenda avesse preso fuoco: avvampava per una linea tagliente d’incandescenza azzurra che si allargava velocemente. Scostai la stoffa e l’incendio abbagliante mi colpì dritto negli occhi.

Il sole occupava un terzo dell’orizzonte. Spingeva via, dinanzi a sé, legioni d’ombre spettrali generate nel cavo delle onde, che si allungavano verso la stazione. Era l’alba. Dopo un’ora di notte, in quella zona sorgeva il sole azzurro del pianeta. Un relais spense le luci del soffitto mentre tornavo ai fogli che avevo lasciato.

Mi capitò sott’occhio la descrizione sommaria di un esperimento progettato tre settimane prima: Gibarian pensava di sottoporre il plasma a un’azione fortissima di raggi X. Capii, dal contesto, che era destinata a Sartorius, il quale avrebbe dovuto provvedere all’attuazione; quella che avevo in mano era una copia. I fogli di carta bianca cominciavano ad abbagliarmi. Il giorno nascente era diverso da quello che l’aveva preceduto. Sotto il cielo arancione del sole meno caldo, l’oceano, tinto di lucentezza sanguigna, era quasi sempre coperto da una caligine rossastra che fondeva in un tutt’uno le onde, le nuvole e il firmamento. Ora tutto ciò era sparito.

Benché filtrata dalla stoffa a fiorami rosa, quella luce ardeva come una potente lampada al quarzo. Le mie braccia abbronzate parevano grigie. La camera era interamente cambiata, tutto ciò che aveva avuto una sfumatura rossa diventava d’un marrone smorto, color fiele, mentre gli oggetti bianchi, verdi e gialli, ravvivati, sembravano brillare di luce propria.

Socchiudendo gli occhi mi arrischiai a gettare uno sguardo dallo spiraglio delle tende: il cielo era un mare di fuoco bianco; sotto di esso, l’oceano tremolava e si muoveva come metallo fuso. Abbassai le palpebre; nel mio campo visivo si allargavano due cerchi rossi. Sul ripiano del lavandino (che aveva un bordo sbreccato) trovai un paio di occhiali scuri e li infilai; mi coprivano quasi mezza faccia. La tenda della finestra ardeva come una lampada a vapori di sodio. Lessi ancora i fogli, raccogliendoli dal pavimento e disponendoli in ordine sull’unico tavolino non rovesciato. Mancava una parte di testo.

Poi trovai le relazioni sugli esperimenti eseguiti. Ne ricavai che l’oceano era stato sottoposto ai raggi per quattro giorni, in un punto a duemila chilometri a nordest dalla posizione attuale. Rimasi sbalordito, poiché l’uso dei raggi X era vietato dall’ONU per i loro effetti letali, ed ero assolutamente sicuro che nessuno avesse trasmesso alla Terra una richiesta di autorizzazione per quel genere di esperimenti. A un certo punto, alzando il capo, vidi la mia immagine nello specchio di un’anta socchiusa, un viso cereo con gli occhiali scuri.

Anche la camera era strana, tutta riflessi bianchi e azzurri.

Dopo qualche minuto si udì un cigolio prolungato, perché all’esterno le saracinesche a chiusura ermetica si abbassavano sulla finestra; l’interno si oscurò e si accese una luce artificiale, stranamente pallida. Ora la temperatura cominciava ad aumentare, nonostante il normale ronzio dei condizionatori fosse salito fino a un miagolio. L’impianto di raffreddamento della stazione lavorava a pieno regime. Tuttavia l’opprimente calore cresceva.

Udii un rumore di passi. Qualcuno avanzava nel corridoio.

In due salti silenziosi fui dietro la porta. I passi rallentarono e si fermarono. Il nuovo venuto era adesso immobile al di là dell’uscio. La maniglia si abbassò piano; senza pensarci, automaticamente, la afferrai dalla mia parte e la fermai. Lo sforzo non aumentò, ma nemmeno diminuì. Anche quel «qualcuno» dall’altra parte della porta restava in silenzio, forse sconcertato. Tenemmo la maniglia per un bel po’. Poi a un tratto mi scattò in mano e si rialzò silenziosamente, e un rumore lieve che si spegneva mi disse che l’altro se n’era andato. Rimasi ancora ad ascoltare, ma tutto era silenzio.

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