8. I MOSTRI

Nel mezzo della notte mi svegliò la luce. Mi alzai appoggiato sul gomito, mi coprii gli occhi con una mano. Harey, avvolta in un lenzuolo, era seduta sulla sponda del letto, rannicchiata, con la faccia coperta dai capelli. Le tremavano le spalle. Piangeva in silenzio.

— Harey!

Si raggomitolò ancora di più.

— Cos’hai…? Harey… — Mi levai a sedere, ancora non del tutto presente, liberandomi a fatica dall’incubo che fino a poco prima mi aveva assillato. La ragazza aveva dei tremiti.

L’abbracciai. Mi allontanò con il braccio. Nascondeva la faccia.

— Amore.

— Non mi parlare così.

— Ma, Harey, che succede?

Guardai la sua faccia umida e tremante. Grosse lacrime le scendevano sulle guance, brillavano quando arrivavano al mento e cadevano sul lenzuolo.

— Non mi vuoi.

— Cosa ti viene in mente!

— Ti ho udito.

Sentii che il mio viso si irrigidiva.

— Che cos’hai sentito? Non hai capito, ero solo…

— No. No. Dicevi che non sono io, che me ne debbo andare. Me ne andrei. Mio Dio! Me ne andrei, ma non posso. Non so che cosa sia. Vorrei, ma non posso. Sono così vigliacca!

— Piccola mia!

La presi, la strinsi con tutte le mie forze, e che tutto andasse in malora! Baciavo le sue mani bagnate e salate, ripetevo suppliche, promesse, richieste di perdono, dicevo che era stato solo un brutto sogno. A poco a poco si calmò.

Smise di piangere. I suoi occhi erano immensi, occhi da sonnambula. Si asciugarono. E girò la testa.

— No — disse. — Non mi dire questo, non ce n’è bisogno. Tu non sei più lo stesso con me…

— Io non sono lo stesso! — gridai, mio malgrado.

— Sì, tu non mi vuoi. Lo sento. Fingevo di non vederlo.

Pensavo che fosse un’impressione, invece no. Ti comporti… sei diverso… Non mi tratti seriamente. E’ stato un sogno, è vero: ma sognavi me. Mi chiamavi per nome. Con avversione. Perché? Perché?

Mi inginocchiai davanti a lei e abbracciai le sue ginocchia.

— Piccola…

— Non voglio che tu mi parli così. Non voglio, hai capito?

Non sono una bambina. Sono…

Scoppiò di nuovo in lacrime e cadde con la faccia riversa sul letto. Mi alzai. Dalle bocche dei ventilatori, con un ronzio cupo, arrivava aria fresca. Avevo freddo. Indossai l’accappatoio e sedetti accanto a lei toccandole la spalla.

— Harey, ascolta. Ti dirò una cosa. Ti dirò la verità…

Si rialzò puntellandosi sulle braccia. Vedevo le pulsazioni che le muovevano la pelle del collo. Sentii di nuovo che il mio volto si contraeva e provai un freddo intenso, come in una ghiacciaia. Nella testa avevo il vuoto completo.

— La verità? — mi disse. — Parole sacre?

Non risposi subito, dovevo sopravvivere al nodo che mi stringeva la gola. Questo era un nostro vecchio giuramento.

Quando veniva pronunciato, nessuno dei due aveva il coraggio di mentire né di nascondere qualcosa. Per un periodo c’eravamo tormentati a furia di sincerità, nell’ingenua convinzione che ci avrebbe salvato.

— Parole sacre — dissi seriamente. — Harey…

Aspettava.

— Anche tu sei cambiata. Tutti cambiamo. Ma non è questo che ti voglio dire. Sembra davvero… che, per motivi che non conosciamo bene né tu né io… non ti puoi staccare da me.

Ma questo è anche un bene, perché neanch’io ci riesco…

— Chris!

L’alzai avvolta nel lenzuolo. L’angolo bagnato con le sue lacrime mi cadeva sulla spalla. La portavo su e giù attraverso la stanza e la cullavo. Mi accarezzò la faccia.

— No. Tu non sei cambiato. Sono io — mi sussurrò nell’orecchio. — Mi succede qualcosa. Forse questo?

Guardava lo spazio nero e vuoto della porta spaccata, di cui avevo portato i pezzi al magazzino.

«Dovrò metterne una nuova» pensai, facendola stendere sul letto.

— Ma tu non dormi qualche volta? — domandai, fermo, davanti a lei, con le braccia lungo il corpo.

— Non lo so.

— Come, non lo sai? Pensaci su, amore.

— Forse, non è un sonno vero, forse sono ammalata. Quando sono sdraiata e penso, sai… — tremò.

— Cosa? — domandai in un sussurro, non volendo che la voce mi tradisse.

— Sono dei pensieri abbastanza strani. Non so da dove vengano.

— Per esempio? — «Devo stare tranquillo» pensavo «qualunque cosa senta.» Mi preparai alle sue parole come a un grosso colpo.

Scosse la testa, indecisa. — E’ qualcosa… intorno…

— Non capisco…

— Come se non fosse in me, ma più lontano; è qualcosa che non so spiegare. Non trovo le parole…

— Probabilmente è un sogno — dissi con indifferenza, riprendendo fiato. — Adesso spegniamo la luce e, fino a domattina, niente più dispiaceri. Domani, se ne avremo voglia, ce ne procureremo di nuovi. Va bene?

Tirò fuori la mano per raggiungere l’interruttore, cadde il buio; mi sdraiai sulle lenzuola fredde e sentii il caldo del suo respiro.

La abbracciai.

— Più forte — sussurrò. E dopo un lungo momento: — Chris!

— Cosa?

— Ti amo.

Mi sarei messo a urlare.

Il mattino era rosso. L’immenso disco solare spuntava appena sull’orizzonte. Posata sulla soglia c’era una lettera. Aprii la busta. Harey era in bagno, la udivo canticchiare. Di tanto in tanto faceva capolino per guardarmi, con i capelli tutti bagnati. Mi avvicinai alla finestra per leggere:

«Kelvin, siamo in moto. Sartorius vuole che reagiamo energicamente. Crede di riuscire a distruggere la stabilità delle strutture di neutrini. Deve fare delle prove e ha bisogno di plasma, come materiale F di partenza. Propone che tu faccia una ricognizione e prelevi una certa quantità di plasma come scorta. Fa’ come meglio credi, ma avvisami della tua decisione. Mi pare che non mi sia rimasto altro da dire. Preferirei che tu lo facessi, così avremo qualche probabilità di muoverci, almeno in apparenza. Altrimenti rimarrà solo da invidiare G.

Topo

p. s. Non entrare nella cabina radio. Fallo per me. Telefonami

Mi si strinse il cuore nel leggere quella lettera. La rilesssi attentamente, la stracciai e la buttai nell’acquaio. Poi cominciai a cercare una tuta per Harey. Cosa orribile. Tutto era come l’altra volta. Lei però non se ne accorgeva: non si sarebbe rallegrata così quando le dissi che dovevo uscire per una piccola ricognizione all’esterno della stazione e le chiesi di accompagnarmi. Facemmo colazione nella piccola cucina (Harey mangiò appena, come al solito) e ce ne andammo in biblioteca.

Volevo dare un’occhiata alla letteratura che riguardava i problemi dei campi magnetici e delle strutture neutriniche prima di ottemperare ai desideri di Sartorius. Non sapevo ancora quale linea d’azione avrei adottato, ma preferivo poter avere un controllo sul suo lavoro. Mi venne in mente che quel «neutrinoannientatore» o altro che fosse, ancora di là da venire, significava forse la salvezza per Snaut e Sartorius, ma che io potevo nascondermi altrove con Harey, per esempio in volo. Rimasi per un bel pezzo a tu per tu col catalogo elettronico facendo richieste e ottenendo in risposta un «manca bibliografia» oppure l’alluvione di una giungla specialistica che mi lasciava indeciso. Non avevo voglia però di andarmene dal grande locale circolare dalle pareti lisce coperte di cassetti e ripiani pieni di microfilm e registrazioni elettroniche. La biblioteca era proprio al centro della stazione, non aveva finestre e rappresentava uno dei luoghi più isolati all’interno del guscio metallico. Forse per questo motivo mi trovavo così bene là dentro, a dispetto dell’esito poco soddisfacente delle mie ricerche. Gironzolai nella grande sala e finii col fermarmi davanti a una grande libreria. Non era un lusso, ma un omaggio solenne in memoria di tutti i pionieri delle esplorazioni su Solaris: i ripiani contenevano circa seicento volumi, tutti dedicati allo stesso argomento, a cominciare dalla vecchia e sorpassata monografia monumentale, in diciannove volumi, di Giese. Tirai giù quei libri, sotto il cui peso la mano si piegava, e cominciai a sfogliarli con indolenza, seduto sul bracciolo di una poltrona. Anche Harey si era trovata un libro: da sopra la sua spalla lessi qualche riga. Era un volume raro, della prima spedizione; forse era stato proprietà dello stesso Giese: Il cuoco interplanetario

Vedendo Harey concentrata a leggere le ricette escogitate per i cosmonauti, non dissi niente e tornai al testo che avevo sulle ginocchia.

Dieci anni di ricerche su Solaris era stato pubblicato inizialmente nei volumi da quattro a tredici di Solaristica, la cui numerazione, adesso, era di quattro cifre.

Giese non aveva una gran fantasia, ma questa dote avrebbe solo nuociuto a uno studioso di Solaris. In nessun altro luogo la fantasia e l’attitudine ad abbandonarsi prontamente alle ipotesi potevano essere più nocive. In fin dei conti, su questo pianeta accadeva di tutto. Per quanto incredibili, le descrizioni della miriade di costruzioni plasmatiche erano con ogni probabilità autentiche, anche se non controllabili poiché solo per certi casi l’oceano ripeteva le sue evoluzioni. Osservandole per la prima volta si rimaneva sbigottiti sia per il loro carattere insolito sia per la loro gigantesca grandezza; se si fossero presentate su scala minore, sarebbero state giudicate uno «scherzo di natura», puro frutto del caso o del gioco delle forze.

La mediocrità e il genio rimanevano del pari interdetti di fronte alle metamorfosi di Solaris, cosa che non facilitava i rapporti con i fenomeni dell’oceano vivente. Giese non era appartenuto né all’una né all’altra categoria. Era semplicemente un classificatore pedante, della schiera di coloro che nella dedizione incondizionata e accanita al lavoro trovano rifugio dalle vicissitudini della vita. Usava, fin dove poteva, un linguaggio descrittivo abbastanza comune; ma quando gli mancavano le parole ne creava di nuove, non sempre con mano felice. Bisogna riconoscere, però, che non esistevano definizioni, per ciò che accade su Solaris. I suoi «montalberi», i suoi «longhi», «perfunghi», «mimoidi», «simmetriadi», «asimmetriadi», «vertebroidi» e «agilanti» suonano artificiosi, ma davano un’idea di Solaris a chi l’aveva visto soltanto in film o in fotografie di scarsa precisione.

Questo ricercatore, per quanto scrupoloso, commise tuttavia qualche imprudenza. L’uomo è spinto suo malgrado a fare ipotesi, anche quando sta molto attento. Giese aveva considerato i «longhi» come tipo fondamentale delle formazioni, assimilandoli alle ondemarea dei mari terrestri, però molto più grandi e accavallati.

Chi aveva letto la prima edizione delle sue opere sapeva che Giese aveva inizialmente chiamato appunto «maree» queste formazioni, ispirato da un geocentrismo che farebbe sorridere se non tradisse l’imbarazzo dello studioso. In realtà queste formazioni, che superano per grandezza, se si vogliono proprio stabilire dei paragoni con la Terra, il Grand Canyon del Colorado, sono modellate in una massa di materia che esternamente ha una consistenza gelatinosa schiumosa (che nel corso di quella fantastica lavorazione si coagula in blocchi facilmente sgretolabili, in trine traforate e inamidate, inducendo certi studiosi a parlare di «escrescenze scheletriche»), mentre all’interno la sostanza diventa via via più compatta, come un muscolo teso, e infine, a una profondità di una quindicina di metri, è dura come la pietra pur conservando l’elasticità. Fra le pareti simili alle ali membranose e tese di un mostro, alle quali si agganciano le escrescenze scheletriche, il longo si stende per chilometri, simile a un gigantesco pitone che ha divorato montagne e che le digerisce in silenzio, col corpo percorso ogni tanto da lente contrazioni.

Ma solo dall’alto, da un apparecchio in volo, il longo appare così. Se si scende, quando le due «pareti del burrone» si innalzano per centinaia di metri al di sopra del velivolo, ci si accorge che il «corpo del pitone», quel cilindro gonfiato che si estende fino all’orizzonte, è animato da un moto vertiginoso. Si osserva per prima cosa il movimento ininterrotto di rotazione di una specie di mota scivolosa grigioverdastra che riflette con violenza la luce solare; ma quando l’apparecchio scende ancora fino a sfiorare la «schiena del pitone», quando le creste del «burrone» in cui si cela il longo appaiono come il ciglio di faglie geologiche, ci si accorge allora che i movimenti sono molto più complessi, esiste una circolazione mediana con dei rivoli scuri, e a volte il «manto» esterno è lucido come uno specchio che riflette il cielo e le nuvole, a volte è perforato da eruzioni di gas provenienti dall’interno semiliquido. A poco a poco diventa evidente che è in funzione lì sotto il centro di forze che divarica e che solleva verso l’alto i due versanti gelatinosi che lentamente cristallizzano.

Ma ciò che era ovvio per l’occhio, non poteva essere accettato senza prove dalla scienza. Per quanti anni si è discusso su che cosa succedeva ai margini dei longhi che a milioni solcano la superficie dell’oceano vivo! Si pensava che fossero organi mostruosi nei quali avvenivano processi di respirazione o il trasporto di materie nutritive: solo la polvere delle biblioteche sa tutto quel che si è detto in proposito. Esperienze laboriose e talvolta pericolose hanno a mano a mano eliminato queste ipotesi. Oggi si parla solo di longhi, formazioni, in fondo, semplici e relativamente stabili, poiché la loro esistenza si conta a settimane: cosa, questa, quasi eccezionale.

Più complicati, e capricciosi nella forma, sono i mimoidi.

Non si esagera dicendo che Giese si era dedicato a questi con un vero amore, studiandoli, descrivendoli e impegnandosi fino all’ultimo per indovinarne l’origine. Con quel nome riuscì a rendere l’idea di ciò che in essi risulta più caratteristico per l’uomo: una certa predisposizione a imitare le forme circostanti, vicine o lontane.

Un giorno, nelle profondità dell’oceano, una macchia circolare comincia a scurirsi, come se si ricoprisse di catrame.

Dopo alcune ore si divide in strati e contemporaneamente sale verso la superficie. L’osservatore giurerebbe che si stia svolgendo una lotta violenta, poiché intorno, da ogni direzione, giungono come delle labbra chiuse, vive e muscolose, simili a crateri od onde circolari, che si uniscono, s’innalzano e ricadono. Ogni caduta di una di quelle masse, del peso di centinaia di tonnellate, è accompagnata da un boato, poiché tutto avviene su scala infinitamente grande. L’immensa massa scura è spinta verso il basso, ogni colpo successivo sembra appiattirla e scioglierla; dai singoli strati, che pendono come ali bagnate, si stacca una sorta di grappoli, che poi prendono la forma di collane e che, snodandosi, si riuniscono e scorrono verso l’alto, mentre dalle zone superiori cadono in cerchio, senza tregua, i successivi anelli d’onda.

Questo gioco dura a volte giorni, a volte mesi e a volte non ha alcun seguito. Lo scrupoloso Giese chiamò questa variante «mimoide iniziale»; non si sa da dove avesse attinto la certezza che lo scopo finale di ogni cataclisma fosse il «mimoide maturo»; ciò significava una colonia di polipi con pelle scura (di solito più grandi di una città) il cui fine era l’imitazione delle forme esterne…

Naturalmente non mancò un altro solarista, di nome Uyvens, che chiamò l’ultima fase «degenerata», cioè un decadimento, una necrosi, e la selva di forme nascenti un visibile indizio di rottura col rigoglio di potenza della matrice originaria.

Giese comunque, come in tutte le sue descrizioni delle creazioni di Solaris, si comportava come una formica, che per nessun motivo cambia il ritmo del passo, e catalogava in bell’ordine ogni fase di apparizione di mimoide secondo il grado di perfezione raggiunta.

Visto dall’alto il mimoide appare simile a una città, ma ciò è frutto d’immaginazione, provocato dalla ricerca di una qualsiasi analogia con ciò che si conosce. Quando il cielo è limpido, tutte le forme stratificate e le loro palizzate sono circondate da una massa d’aria riscaldata, che provoca un ondeggiamento e un tremolio di forme difficili da definire. La prima nube che attraversa l’azzurro (parlo d’azzurro per pura abitudine, dato che qui l’azzurro, il cielo, è color rosso ruggine oppure terribilmente bianco durante il giorno del sole azzurro) sembra costituire un richiamo. Il tegumento elastico comincia di colpo a crescere, staccandosi dalla base e impallidendo, e in capo a pochi minuti imita perfettamente la nube. Questo «oggetto» immenso manda un’ombra rossa e certi pinnacoli del mimoide si piegano, con un movimento che va sempre in direzione opposta a quello della nube vera.

Penso che Giese sarebbe stato pronto a tutto, pur di capire questo fenomeno. E queste creazioni «singole» del mimoide erano ancora una bazzecola a confronto dell’attività travolgente cui era «stimolato» in presenza degli oggetti e forme di provenienza terrestre che gli si presentavano. La riproduzione di forme esterne coinvolgeva tutto ciò che si trovava in un raggio di una quindicina di chilometri. Spesso i mimoidi fornivano riproduzioni ingrandite o deformate, spesso davano luogo a caricature grottesche, soprattutto quando si trattava di macchine.

Fu subito evidente che il materiale base era sempre quella pallida massa che, scagliata in aria, invece di ricadere rimaneva sospesa, collegata al fondo da una specie di cordoni ombelicali grazie ai quali si spostava pigramente, restringendosi o allargandosi, e componeva con disinvoltura disegni complessi. Un aereo, una rete o un palo venivano riprodotti con precisione. Invece i mimoidi non riproducevano esseri viventi, nemmeno le piante che gli studiosi avevano portato su Solaris per esperimento. Per contro, i manichini o le statuette, di legno o di qualsiasi altro materiale, venivano subito copiati.

Qui, sia detto tra parentesi, si arrestava purtroppo l’eccezionale «docilità» dei mimoidi nei confronti degli esploratori solaristi. I mimoidi maturi avevano giornate di pigrizia durante le quali pulsavano lentamente. Questo battito non era neanche visibile a occhio nudo, poiché il ritmo di una singola fase di pulsazione avveniva in un arco di due ore: lo si era scoperto solo attraverso i filmati.

In tali circostanze un mimoide, specialmente se vecchio, si prestava perfettamente a essere visitato, poiché il suo zoccolo di sostegno, immerso nell’oceano, come le protuberanze di tale base, aveva una relativa solidità che permetteva all’uomo di posarvisi con sicurezza.

Si poteva stare nelle vicinanze di un mimoide anche durante le sue giornate «lavorative», ma la visibilità era ridotta a zero, visto che, come neve bianca, la materia colloidale cadeva dalle lacerazioni del tegumento sospeso sopra le protuberanze. Del resto, da vicino, le forme riprodotte dal tegumento non si potevano riconoscere, a causa delle dimensioni gigantesche, nell’ordine di grandezza delle montagne. Inoltre uno spesso strato di neve colloidale ricopriva rapidamente la base del mimoide, formando un tappeto fangoso che s’induriva solo dopo qualche ora (la crosta sopportava il peso d’un uomo pur essendo molto più leggera della pomice). Infine, senza un adeguato equipaggiamento, c’era il rischio di smarrirsi nel labirinto di strutture nodose e spaccate, simili talvolta a colonnati rattrappiti, talvolta a geyser pietrificati. Anche di giorno si rischiava di smarrirsi, perché i raggi non filtravano attraverso la superficie dove si creano in continuazione forme diverse.

Nei giorni fortunati (cioè fortunati per lo studioso che si trovasse presente), l’osservazione di un mimoide produceva un’impressione indimenticabile. In quelle giornate di superproduzione esso cominciava con una straordinaria girandola creativa. Si abbandonava a variazioni sul tema di oggetti esterni, compiacendosi nel complicarli e nel dedicarsi a «prolungamenti di forme»; giocava così per ore, con gran piacere del pittore non figurativo e gran disperazione dello studioso, che invano tentava di capire i processi che si svolgevano sotto i suoi occhi. Certe volte, dall’azione dei mimoidi, uscivano semplificazioni quasi infantili, altre volte facevano sfoggio di creazioni barocche e allora tutto era all’insegna dell’elefantiasi. Specialmente i vecchi mimoidi erano capaci di creare forme buffissime; ma io, a dire il vero, non sono mai riuscito a sorriderne, quando poi le ho viste, troppo colpito dal carattere misterioso di quello spettacolo.

Si poteva capire perché, nei primi anni di studio, ci si fosse gettati sui mimoidi come se costituissero i centri ideali dell’oceano di Solaris, il luogo in cui sarebbe avvenuto l’incontro delle due civiltà. Fin troppo presto, però, si dovette riconoscere che non c’era nessuna possibilità di contatto; tutto cominciava e finiva con l’imitazione delle forme, e non conduceva a nulla.

Obbedendo a un latente criterio di atropo e zoomorfismo, numerosi studiosi non si stancavano di voler riconoscere, nelle creazioni dell’oceano vivente, «organi sensoriali» o anche «membra»; così appunto furono definiti per qualche tempo da certi scienziati (Maartens ed Ekkonai) quelli che Giese aveva battezzato vertebroidi e agilanti. Ma chiamare membra quelle protuberanze dell’oceano vivente proiettate a distanze di tre chilometri è quasi come dire che il terremoto sia la ginnastica della Terra.

Il catalogo delle forme che si ripetono con relativa frequenza comprende circa trecento voci. Queste formazioni nascono dall’oceano così copiosamente che se ne possono riscontrare a decine e talvolta a centinaia nelle ventiquattr’ore.

Secondo Giese, le formazioni più inumane in senso assoluto, intendendosi con ciò l’assenza di somiglianza con qualsiasi cosa che si trovi sulla Terra, erano i simmetriadi. Presto fu accertato con sicurezza che l’oceano non era aggressivo e che nel suo ambiente plasmatico trovava la morte solo chi se la cercava, per propria imprudenza o incoscienza (a parte gli incidenti dovuti a mancato funzionamento degli autorespiratori a ossigeno o dei condizionatori); che con un mezzo aereo si potevano attraversare il fiume di un longo o le colonne fantastiche dei vertebroidi oscillanti fra le nuvole senza correre alcun pericolo, poiché il plasma si scostava alla velocità del suono nell’atmosfera di Solaris, aprendo delle profonde gallerie, persino sotto la superficie dell’oceano (l’energia che esso usa in tali circostanze è immensa: Skrjabin l’ha calcolata, in erg, in dieci alla diciannovesima potenza). Tuttavia l’esplorazione dei simmetriadi fu intrapresa con grande circospezione e intensificando le precauzioni, che spesso si rivelarono vane. I nomi di coloro che per primi esplorarono gli abissi dei simmetriadi sono oggi noti a ogni scolaretto della Terra.

La cosa veramente spaventevole di quei giganti non era il loro aspetto esteriore, che pure è da incubo. Forse l’effetto peggiore è generato dal fatto che in essi nulla è fisso e sicuro e le stesse leggi fisiche cessano di essere valide. Perciò appunto gli esploratori di simmetriadi sono stati sostenitori, più di chiunque altro, della tesi che l’oceano vivente sia dotato di ragione.

I simmetriadi nascono all’improvviso. La loro nascita è simile a un’eruzione. Circa un’ora prima, l’oceano comincia a brillare violentemente, come se la sua superficie si fosse vetrificata su un’estensione di decine di chilometri quadrati.

Però conserva la stessa fluidità e lo stesso ritmo di ondeggiamento. Talvolta, ma non necessariamente, il fenomeno della vetrificazione avviene nei paraggi dell’imbuto lasciato da un agitante. In capo a un’ora tutta quella superficie vetrificata salta per aria sotto forma di una portentosa vescica in cui tutto il firmamento, il sole, le nuvole e l’intero orizzonte si rispecchiano, cangiano, si rifrangono. L’abbagliante gioco di colori, in cui la luce volta a volta ondeggia e si frantuma, è una visione che non ha uguali.

Gli effetti luminosi prodotti dai simmetriadi sono particolarmente violenti durante il giorno del sole azzurro o al tramonto del sole rosso. Si direbbe che il pianeta ne partorisca un altro, il quale in pochi istanti raddoppia il volume. Appena lanciato in alto dagli abissi, il globo abbagliante esplode alla sommità e si spacca a spicchi, ma non è disgregazione.

Questa fase, chiamata poco felicemente «del calice», dura appena qualche secondo. Gli archi protesi al cielo della corolla membranosa si ripiegano all’interno, congiungendosi per le punte in quello spazio invisibile, dove cominciano velocemente a formare un tozzo ceppo dentro il quale avvengono centinaia di fenomeni la volta. Nel centro stesso, esplorato per la prima volta dai settanta membri della équipe di Hamalei, nasce un asse gigantesco di policristallizzazione, che è stato anche chiamato «colonna vertebrale», termine con il quale, personalmente, non concordo. In statu nascendi, l’erezione architettonica vertiginosa di questo pilastro centrale è puntellata da colonne verticali d’una gelatina acquosa che scaturiscono incessantemente da crepacci chilometrici. Durante questo processo il colosso emette un muggito prolungato e continuo, ed è circondato da schiuma nevosa, svolazzante e ribollente. A ciò seguono, dal centro verso la periferia, complicatissime rotazioni di superfici piane sulle quali si deposita a strati il materiale estensibile salito dalle profondità; contemporaneamente i predetti geyser degli abissi si consolidano in mobili colonne tentacolari che si dirigono a fasci in punti della struttura rigorosamente determinati dalla dinamica d’insieme, e che richiamano alla mente branchie embrionali alte fino al cielo, roteanti a una velocità mille volte accresciuta e percorse da filamenti di un sangue roseo e di una secrezione verde scuro, quasi nera. Da quell’istante il simmetriade comincia a manifestare la sua proprietà più straordinaria: quella di poter modellare o sospendere certe leggi fisiche.

Si diceva che non esistessero due simmetriadi uguali e che la geometria di ognuno costituisse una «invenzione» dell’oceano vivente. Anzi, che il simmetriade producesse nel suo interno quelle che venivano indicate come «macchine effimere», sebbene tali creazioni non ricordassero in nulla le macchine costruite dall’uomo; si aveva però un’attività limitata, con finalità ristrette e perciò «meccaniche».

Quando i geyser scaturiti dalle profondità si sono ispessiti e solidificati creando gallerie e corridoi che vanno in tutti i sensi e la «pellicola» membranosa si è fissata in un complesso inestricabile di piani, di oggetti, di pareti, allora il simmetriade giustifica il proprio nome, poiché ogni passaggio, ogni tratto, ogni rampa nell’ambito di un polo ha la propria esatta contropartita, fino nei particolari e nello stesso ordine, al polo opposto.

In capo a venti o trenta minuti il gigante comincia lentamente a tuffarsi, dopo essersi inclinato talvolta fra gli otto e i dodici gradi rispetto alla verticale. Ci sono simmetriadi più o meno grandi; ma anche i nani posati nell’oceano si alzano fino a ottocento metri sopra l’orizzonte e sono visibili a molti chilometri di distanza. Il momento migliore per penetrare all’interno col minimo rischio è quando l’insieme cessa d’immergersi e contemporaneamente ritrova l’equilibrio verticale; il punto di accesso più favorevole è la parte presso la sommità. In questa calotta relativamente liscia si trova una zona perforata dalle imboccature a sifone delle celle e dei canali di cui è crivellato. Nel suo complesso tutta questa formazione rappresenta lo sviluppo tridimensionale di qualche equazione trascendente.

Come ben sappiamo, per mezzo del linguaggio figurato della geometria superiore si può esprimere qualsiasi equazione e costruirne la rappresentazione spaziale con un solido corrispondente. Sotto questo profilo il simmetriade è parente del cono di Lobacevskij e delle curve negative di Riemann, ma parente molto alla lontana, a causa della sua complessità indescrivibile. Esso struttura, in un volume di alcuni chilometri cubi, il compendio del processo di sviluppo di un intero sistema matematico, e anzi di uno sviluppo a quattro dimensioni, poiché i coefficienti delle equazioni si esprimono anche in termini di tempo.

Si era subito presentata l’ovvia idea che ci trovassimo in presenza di una «macchina matematica» dell’oceano vivente, creata a propria dimensione, per calcoli il cui scopo ci era ignoto. Ma questa ipotesi del Fermont non era ancora condivisa da nessuno. Come teoria, in verità, era allettante; tuttavia risultava impossibile sostenere il concetto che l’oceano vivente si dedicasse all’esame dei problemi della materia, del cosmo e dell’esistere, a furia di titaniche eruzioni in cui ogni minima particella concorresse all’espressione infinitamente complessa di un’analisi superiore. Infatti si potevano rintracciare, nel quadro del gigante, numerosi fenomeni in contrasto con questo concetto troppo semplice e anzi, per alcuni, addirittura ingenuo.

Non mancarono dei tentativi di rendere comprensibili i simmetriadi, ideandone schemi divulgativi; ottenne un notevole successo l’illustrazione di Averian, che a grandi linee diceva così: immaginiamo un antichissimo edificio terrestre del tempo in cui fioriva Babilonia, ma costruito con una sostanza viva, sensibile e in evoluzione, così che la sua architettura attraversi fasi successive e assuma sotto i nostri occhi la forma di una costruzione greca e poi romanica, e le colonne s’assottiglino come steli, la volta s’alleggerisca, s’innalzi, s’aguzzi, l’arco descriva una parabola ripida, che si spezza dando l’arco acuto. E’ nato il gotico, il tempo fugge, appaiono nuove forme; l’austerità della linea scompare nell’esplodere di un’esuberanza orgiastica, e dinanzi ai nostri occhi si sfrena il barocco; così, sempre considerando il susseguirsi di mutazioni come tappe di una vita evolutiva, giungiamo infine all’architettura dell’era cosmica e forse possiamo avvicinarci alla comprensione di ciò che è un simmetriade. Tuttavia, a dispetto di qualsiasi sviluppo o perfezionamento di questa illustrazione (si è tentato di renderla visiva per mezzo dei modellini e di film), la sua inadeguatezza intrinseca sussiste, ed essa rimane una scappatoia, per non dire una truffa.

I simmetriadi nulla hanno di terrestre…

L’uomo è in grado di apprendere poche cose la volta; vediamo soltanto ciò che accade dinanzi a noi, qui e ora; non siamo capaci di figurarci una serie di processi che avvengono simultaneamente, per quanto siano legati o complementari gli uni agli altri. Questo vale anche per fenomeni relativamente semplici. La sorte di un uomo è significativa, quella di cento si può appena afferrare; ma la storia di mille, di un milione, propriamente parlando, non ci dice niente. Il simmetriade è il milione, anzi il miliardo, elevato all’ennesima potenza: è l’incomprensibile. Che possiamo dunque comprendere di queste innumerevoli navate, ciascuna di capacità pari a dieci unità Kronecker, che andiamo esplorando, aggrappati come formiche agli anfratti delle volte che respirano, e vedendo lo slancio verticale e l’intersecarsi reciproco delle superfici grigie opalescenti nel raggio dei nostri riflettori, e la morbidezza, la perfezione delle soluzioni istantanee…? poiché qui tutto fugge, il movimento è l’essenza stessa di queste architetture, un movimento concentrato e volto a uno scopo prefissato. Noi osserviamo solo qualche particolare dei processi, la vibrazione di una sola corda in un’orchestra sinfonica di supergiganti, e per di più sappiamo (sappiamo senza riuscire a concepirlo) che sopra e sotto di noi, in abissi vertiginosi che superano i limiti della vista e dell’immaginazione, avvengono contemporaneamente altre trasformazioni, a migliaia, a milioni, collegate fra loro, come il contrappunto lega le note. Qualcuno ha anche parlato di «sinfonia geometrica».

Ma, in tal caso, noi siamo degli ascoltatori sordi.

Per vedere davvero qualcosa bisognerebbe che potessimo retrocedere nello spazio, guardare da una certa distanza; invece tutto accade all’interno del simmetriade, la moltiplicazione, la valanga delle nascite di un’inaudita generazione, in cui la creazione è contemporaneamente la creatura; e nessuna è sensitiva al minimo tocco quanto il luogo in cui stiamo lo è a cambiamenti che avvengono a migliaia e a centinaia di piani lontano da noi. Qui ogni momentanea formazione con la sua bellezza, il cui compimento sfugge alla nostra vista, è tutt’insieme il mezzo e la guida della costruzione stessa; si modellano reciprocamente. Una sinfonia, sia pure; ma tale da creare e da annullare se stessa.

La fine del simmetriade è orrenda. Chiunque vi abbia assistito non dimentica più d’essere stato testimone di una tragedia, se non di un assassinio. In capo a due o tre ore (il processo di riproduzione spontanea, di proliferazione esplosiva, non dura mai di più) l’oceano vivente passa all’attacco. Accade così: la superficie liscia s’increspa, dov’era la calma cominciano a ribollire i frangenti coperti di schiuma, da ogni punto dell’orizzonte accorrono a schiere concentriche le onde, come fauci, ma incomparabilmente maggiori delle labbra tumide che circondano la nascita di un mimoide. La parte immersa del simmetriade subisce una tale compressione che il colosso si impenna lentamente come sul punto di essere espulso dalla zona d’attrazione planetaria; gli strati superficiali della massa oceanica accrescono la propria attività, risalgono lungo le pareti laterali, vi si attaccano, le ricoprono solidificandosi e così chiudendo gli orifizi. Ma questo è niente al confronto di ciò che accade all’interno. All’inizio il processo creativo, l’evoluzione architettonica subiscono un attimo d’arresto e, subito dopo, un’accelerazione violenta. Il morbido fluire del compenetrarsi e piegarsi, l’innalzarsi delle pareti e delle volte, sin qui ritmico e sicuro come se dovesse durare secoli, comincia a sconquassarsi. Si ha l’impressione che, minacciato da un pericolo, il colosso si affretti per portare l’opera a compimento. Quanto più il movimento di trasformazione accelera, tanto più diventa evidente e orribile la metamorfosi del materiale da costruzione stesso e della sua dinamica. Tutto quell’insieme meraviglioso di superfici malleabili cede, si allenta, vacilla, e le forme cominciano a essere incomplete, stonate, distorte; dalle profondità invisibili sale un brontolio potente, un muggito: come un sospiro d’agonia un soffio d’aria s’ingolfa nei canali strozzati, raschiando e rombando, e le volte in rovina mandano rantoli come gole mostruose in cui le stalattiti di mucosa sono corde vocali inerti. Lo spettatore è allora colto da un torpore invincibile nonostante il movimento scatenato di una violenza crescente e di una forza distruttrice palese. Solo il ciclone che urla dalle voragini, e che attraversa migliaia di cunicoli, regge ancora in piedi l’alta struttura, che non tarda a colare come un alveare lambito dalle fiamme. Si osservano ancora gli ultimi palpiti, inerti, staccati dal resto dei movimenti, ciechi e ogni volta più deboli, fino a che, aggredito dall’esterno, il gigante frana come una montagna e sparisce, sepolto dalla stessa schiuma che aveva accompagnato la sua nascita titanica.

Che cosa significa tutto ciò?

Già, che cosa significa… Ricordo un gruppo di giovani in gita scolastica che, al tempo in cui ero assistente di Gibarian, venne a visitare l’Istituto di Solaristica di Aden. I ragazzi, dopo aver attraversato una sala laterale, che era la biblioteca, furono condotti nell’aula magna, dalle pareti ricoperte in gran parte di cassetti pieni di microfilm. C’era lì una piccola documentazione d’interni di simmetriadi da gran tempo scomparsi, costituita da più di novemila… non già disegni e rilievi, ma bobine cinematografiche. Ed ecco che una ragazzina rotondetta di circa quindici anni, con gli occhiali e dall’aria intelligente, salta fuori con la domanda: «A che serve?».

Nel silenzio imbarazzato che seguì, l’insegnante accompagnatrice diede un’occhiataccia all’alunna impertinente; ma nessuno dei solaristi (io fra gli altri) che scortavano il gruppo trovò una risposta. Infatti i simmetriadi non si ripetono, né si ripetono i fenomeni che li riguardano. A volte l’aria fa da isolatore d’ogni suono. A volte il coefficiente di rifrazione aumenta o diminuisce. In certi punti appaiono delle pulsazioni, con variazioni ritmiche di peso, quasi che il simmetriade avesse un cuore gravitante. A volte le bussole giroscopiche degli scienziati impazziscono, gli strati di ionizzazione aumentano o diminuiscono… si potrebbe continuare con gli esempi all’infinito. Del resto, se mai il segreto dei simmetriadi venisse svelato, rimarrebbero pur sempre gli asimmetriadi: questi nascono nello stesso modo, ma con altro fine, e di essi non si può vedere altro che fremiti, scintillii e splendori; si sa soltanto che sono la sede di processi vertiginosi, a una velocità che sfida le leggi fisiche, i cosiddetti «fenomeni quantici giganti». Le loro analogie matematiche con certi modelli di atomo sono comunque talmente instabili e impalpabili che certi studiosi hanno ritenuto che questa fosse una caratteristica marginale o casuale. Gli asimmetriadi vivono incomparabilmente meno degli altri, appena qualche minuto, e hanno una fine ancora peggiore. Con l’uragano, che li invade e li fa scoppiare, si riempiono a velocità incredibile di un liquido che gorgoglia orrendamente sotto l’involucro, e tutto sommerge in un lurido ribollire; poi l’esplosione, accompagnata da un’eruzione vulcanica fangosa, proietta una colonna di macerie che ricadono a pioggia sulla superficie dell’oceano sconvolto. Capita di vedere una parte di queste macerie sotto forma di ossa infangate e frammenti cartilaginosi appiattiti e rinsecchiti, sparsi in mezzo alle onde a distanza di parecchi chilometri dal luogo dell’esplosione.

Gruppo a parte formano le creazioni che si staccano completamente dall’oceano vivente per un certo periodo. E’ stato quasi sempre impossibile identificarle e di rado si sono potute osservare. La prima volta che si trovarono dei frammenti di questi «indipendenti» furono identificati, a torto, come poi si vide, come esseri viventi nelle profondità oceaniche. Certe volte, ma raramente, si riuscivano a vedere sugli scogli delle isole branchi di foche che riposavano prendendo il sole e che poi scivolavano per entrare in mare, diventando tutt’uno con esso.

Si continuava, insomma, a girare nel circolo chiuso dell’immaginazione umana, fin dal primo contatto…

Le spedizioni hanno fatto centinaia di chilometri nelle profondità dei simmetriadi, lasciando apparecchi di registrazione, macchine cinematografiche automatiche; gli occhi artificiali dei satelliti hanno registrato lo spuntare dei mimoidi e dei longhi, il loro maturare e la loro morte. Le biblioteche si riempivano, si ingrossavano gli archivi, e in cambio di questo bisognava pagare un prezzo terribilmente alto. Settecentodiciotto uomini erano morti durante i cataclismi per non essersi ritirati in tempo dai colossi che erano condannati alla distruzione; centosei perirono in una sola catastrofe, rimasta famosa poiché vi trovò la morte lo stesso Giese, che aveva allora settant’anni. In quell’occasione la spedizione stava studiando un simmetriade, chiaramente caratterizzato come tale, che fu distrutto invece con un processo tipico degli asimmetriadi. Settantanove uomini, con macchine e apparecchi, vestiti di tute corazzate, furono inghiottiti, nel giro di pochi secondi, da un’eruzione di fango attaccaticcio; gli altri ventisette furono colti dalle eruzioni mentre volavano intorno alla massa con elicotteri e aerei. Quel luogo, quell’incrocio del 42esimo parallelo e dell’89esimo meridiano, è indicato sulle carte come «Eruzione dei Centosei». Ma il punto esiste solo sulle carte; la superficie dell’oceano non ne serba traccia.

Fu allora che, per la prima volta nella storia delle ricerche solaristiche, si levarono voci a chiedere che si ricorresse alle esplosioni termonucleari. Sarebbe stato peggio di una vendetta: volevamo distruggere ciò che non capivamo. Tsanken, il sostituto di Giese nel gruppo di riserva, che si era salvato solo grazie a uno sbaglio (il suo relais automatico aveva fornito una falsa segnalazione sul luogo nel quale si trovavano gli esploratori del simmetriade) vagava nel suo apparecchio sopra l’oceano e arrivò sul luogo della catastrofe pochi minuti dopo l’esplosione, di cui riuscì a vedere il fungo nero. Nel momento in cui si stava decidendo in merito al ricorso a un’esplosione termonucleare, minacciò di far saltare la stazione assieme ai diciotto superstiti che vi si erano rifugiati.

Ufficialmente non è mai stato riconosciuto che questo ultimatum abbia determinato l’esito delle votazioni, ma è da credere che fosse così. I tempi delle spedizioni tanto numerose erano finiti. La costruzione della stazione stessa, condotta dai satelliti, era stata un’impresa tecnica colossale, della quale la Terra poteva essere orgogliosa; ma l’oceano, nel giro di pochi secondi, era capace di crearne un’altra un milione di volte più grande. Fu costruita una specie di disco, di dodici metri di diametro, a quattro piani nel mezzo e due ai margini.

Sospesa, da cinquecento a millecinquecento metri sopra l’oceano, possedeva come forza motrice l’energia dei gravitatori, che compensano la forza d’attrazione. Era dotata di tutte le apparecchiature proprie alle normali stazioni e ai grandi satelliti di altri pianeti, ma attrezzata con antenne radar speciali, sensibili a ogni eventuale cambiamento sulla superficie dell’oceano; i radar facevano scattare un’energia supplementare che spediva il disco nella stratosfera al primo segno della nascita di una nuova creazione vivente.

Adesso la stazione era in realtà disabitata. Da quando, per motivi che non avevo potuto ancora sapere, avevano rinchiuso gli automi nei magazzini interni, si poteva circolare per tutti i corridoi senza incontrare nessuno. Come in un relitto vagante, nel quale le macchine erano sopravvissute alla morte dell’equipaggio.

Quando rimisi a posto sul ripiano il nono volume della monografia di Giese, mi sembrò di sentire tremare la moquette sotto i piedi. Mi fermai di botto, ma la vibrazione non si ripeté. La biblioteca era perfettamente isolata dal resto della costruzione, le vibrazioni potevano avere una sola spiegazione. Qualche razzo era partito dalla stazione. Questo pensiero mi riportò alla realtà. Non ero del tutto deciso a uscire in volo, come voleva Sartorius. Comportandomi come se accettassi pienamente il suo piano, mi limitavo a rimandare la crisi; ero sicuro del fatto che sarei arrivato a uno scontro, poiché ero intenzionato a fare di tutto per salvare Harey. Il punto stava nel sapere se Sartorius avesse una possibilità di successo. La sua superiorità rispetto a me era immensa.

Come fisico conosceva il problema dieci volte meglio di me.

Io, paradossalmente, potevo solo contare sulla perfezione delle soluzioni che trovava l’oceano. Durante l’ora seguente lavorai assiduamente sui microfilm, cercando qualcosa che potessi capire nel mare di quella matematica, in cui mi mancava qualsiasi punto di riferimento e del cui linguaggio si serviva la fisica dei processi neutrinici. Inizialmente mi sembrò un’impresa disperata, poiché di teorie sui campi neutrinici ce n’erano cinque, chiaro segno che nessuna era perfetta.

Infine riuscii a trovare qualcosa di promettente. Mentre ricopiavo le formule, udii bussare.

Mi avvicinai alla porta e l’aprii, coprendo la fessura col mio corpo. Vidi la faccia sudata di Snaut. Il corridoio dietro a lui era vuoto.

— Ah, sei tu — dissi. — Entra.

— Sì, sono io — rispose.

La voce era rauca. Sotto gli occhi arrossati aveva profonde occhiaie. Indossava un grembiule antiraggi, sotto il quale spuntavano i soliti pantaloni. I suoi occhi percorsero tutta la sala, immersa in una luce uniforme, e si bloccarono quando, in fondo, vicino a una poltrona, vide Harey. Ci scambiammo uno sguardo, io socchiusi gli occhi, e in quel momento egli si inchinò. Assumendo un tono amichevole, dissi: — Questo è il dottor Snaut, Harey; Snaut, ti presento… mia moglie.

— Sono… un componente dell’equipaggio poco visibile e perciò… — l’intervallo si prolungò pericolosamente — non ho avuto sinora il piacere di conoscerla… — Harey gli sorrise e gli diede la mano, che egli strinse, mi parve, con stupore.

Sbatté gli occhi alcune volte e rimase fermo a fissarla, ma lo presi sottobraccio.

— Mi scusi — le disse. — Volevo parlare con te, Kelvin…

— Certo — risposi con scioltezza; tutto suonava come una commedia da due soldi, ma non c’erano altre soluzioni. — Harey, amore, non ti disturbare. Dobbiamo parlare, col dottore, delle nostre noiose questioni…

Lo pilotai, a braccetto, verso una poltrona all’altro lato della sala. Harey sedette su quella dove ero seduto prima io, ma la spinse in modo tale che alzando la testa dal libro ci poteva vedere.

— Che c’è di nuovo? — domandai piano.

— Ho divorziato — rispose con un sussurro sibilato. Pochi giorni prima mi sarei messo a ridere se mi avessero raccontato questa storia e l’inizio di questa conversazione; ma nella stazione il mio senso dell’umorismo era sfumato. — Da ieri ho vissuto delle ore che contano per anni, Kelvin — aggiunse. — Per parecchi anni. E tu?

— Niente… — risposi dopo un momento, poiché non sapevo che cosa dirgli. Gli volevo bene, ma sentivo che dovevo stare in guardia con lui, o meglio dinanzi al motivo per il quale era venuto da me.

— Niente? — ripeté con lo stesso mio tono. — Ma non dovevi…?

— Che cosa? — finsi di non capire.

Socchiuse gli occhi arrossati e, sporgendosi al punto che sentii il calore del suo alito, sussurrò: — Affondiamo, Kelvin.

Con Sartorius non posso comunicare, so solo ciò che ti ho detto, ciò che mi ha detto dopo la nostra piccola riunione…

— Ha staccato il videotelefono? — domandai.

— No. Dev’essere stato un corto circuito. Mi sembra che l’abbia fatto apposta, o… — fece un movimento con il pugno come se avesse rotto qualcosa. Lo guardai senza dire una parola. L’angolo sinistro delle labbra gli si alzò in una specie di antipatico sorriso. — Kelvin, sono venuto, perché… — s’interruppe. — Che cosa hai intenzione di fare?

— Ti riferisci alla tua lettera? — risposi adagio. — Posso farlo, non vedo il motivo di rifiutarmi. Per questo sono venuto qui.

Volevo sapere…

— No — tagliò. — Non si tratta di questo…

— No? — dissi, fingendo stupore. — Allora ti ascolto.

— Sartorius — disse dopo un momento. — Mi sembra che abbia trovato la strada… Sai. — Non mi toglieva gli occhi di dosso. Io sedevo tranquillo, cercando di assumere un’espressione indifferente. — In primo luogo, c’è stata quella faccenda dei raggi X. Quell’esperimento che hanno fatto con Gibarian, ricordi? E’ possibile che qualche modificazione…

— Quale?

— Mandavano soltanto dei fasci di raggi nell’oceano e ne modulavano l’intensità secondo schemi variabili.

— Sì, lo so. Nilin l’aveva già fatto. E anche altri.

— Sì. Ma avevano usato delle radiazioni leggere. Queste invece erano dure, perché si è spedito nell’oceano tutto ciò di cui si disponeva, tutta la potenza.

— Possono esserci degli strascichi spiacevoli — osservai. —

La violazione della convenzione dei Quattro e dell’ONU…

— Kelvin… non fingere. Ormai non ha nessuna importanza.

Gibarian è morto.

— Ah, Sartorius vuole scaricare tutta la colpa su Gibarian?

— Non lo so. Non ne ho parlato con lui. Non è importante.

Sartorius pensa che, poiché l’ospite appare sempre e solo dopo che uno si sveglia, significa che l’oceano si occupa soprattutto del nostro sonno e che ricava i suoi modelli di riproduzione mentre dormiamo. Perciò si comporta così. Allora Sartorius vuole spedirgli la nostra realtà, i pensieri da svegli, capisci?

— In che modo? Per posta?

— Spiritoso. Questo fascio di raggi sarà modulato con le correnti cerebrali di uno di noi.

Cominciavo a vedere più chiaro.

— Ah — dissi. — Quel qualcuno sarei io, vero?

— Sì. Lui ha pensato a te.

— Ma com’è gentile!

— E tu, che cosa ne dici?

Rimasi in silenzio. Senza dir niente, guardò Harey che era immersa nella lettura, poi distolse gli occhi per osservare la mia faccia. Sentivo di impallidire. Non riuscii a dominarmi.

— Ah, è così…? — dissi. Scossi le spalle. — Quest’idea di spedire con i raggi X delle prediche sulla grandezza dell’uomo mi sembra comica. A te no?

— Dici sul serio?

— Sì.

— Va bene — concluse, e sorrise come se avessi soddisfatto la sua richiesta. — Allora sei contrario all’idea di Sartorius.

Non capivo ancora come fosse successo, ma nel suo sguardo lessi che mi aveva portato dove aveva voluto. Rimasi in silenzio; che altro potevo fare?

— Benissimo — disse. — C’è un altro progetto. Ricostruire l’apparecchio di Roche.

— L’annichilitore?

— Sì. Sartorius ha già fatto dei calcoli preliminari. E’ possibile. Non occorrerà usare molta forza. L’apparecchio resterà in funzione per tutta la giornata e per un tempo indefinito creando degli anticampi.

— As… Aspetta! Come te lo immagini?

— Molto semplice. Sarà un anticampo neutrinico. La materia ordinaria rimarrà senza alterazioni. Saranno annichilite soltanto le strutture di neutrini, capisci? — Sorrideva soddisfatto. Io stavo seduto a bocca aperta. Lentamente, smise di sorridere. Mi guardò interrogativo, con la fronte corrugata, e attese un istante, per dire: — Dunque, il primo progetto, il progetto «Pensiero» è eliminato. E il secondo? Se n’è già occupato Sartorius. Lo chiameremo «Liberazione».

Chiusi gli occhi per un momento e di colpo mi decisi.

Snaut non era un fisico. Sartorius aveva staccato il videotelefono. Benissimo. — Io lo chiamerei piuttosto in altro modo.

Lo chiamerei «Mattatoio»… — dissi scandendo le parole.

— Hai già fatto il macellaio. Vuoi dire di no? Ma adesso sarà una cosa completamente diversa. Niente più ospiti, niente più creazioni F. Niente. Nel momento stesso in cui appare la materializzazione, avviene lo sfacelo.

— Non ci siamo capiti — risposi, scuotendo il capo con un sorriso e augurandomi che sembrasse abbastanza naturale. —

Non si tratta di scrupoli morali, ma solo d’istinto di conservazione. Non ho voglia di morire, Snaut.

— Cosa…?

Era rimasto scosso. Mi guardava con sospetto. Tolsi dalla mia tasca il pezzo di carta sgualcito contenente le formule.

— Anch’io ho pensato a questo. Ti meravigli? Eppure sono stato io ad avanzare l’ipotesi dei neutrini. Forse no? Guarda.

Si possono creare degli anticampi. Per la materia comune non è dannoso, infatti. Ma nel momento della destabilizzazione, quando la struttura di neutrini si disintegra, noi liberiamo l’energia che ne costituiva i legami. Prendendo, per un chilogrammo di massa in riposo, 10 all’ottava erg, otteniamo, per una creazione F, 5 alla settima moltiplicato per 10 all’ottava; sai che cosa vuoi dire? E’ l’equivalente di una piccola carica di uranio che esplode dentro la stazione.

— Che vai dicendo! Ma… Sartorius ne avrà pure tenuto conto…

— Non è detto — negai con un sorriso ironico. — Vedi, Sartorius è della scuola di Frazer e Caiolli. Secondo loro, tutta l’energia dei legami, nel momento della disgregazione, si libera sotto forma di raggi luminosi. Sarebbe semplicemente un lampo, molto forte, certo, ma non distruttore. Esistono tuttavia delle altre ipotesi, delle altre teorie sui campi neutrinici.

Secondo Cayatt, secondo Avalov, secondo Sion, lo spettro dell’emissione è molto più ampio e, al punto massimo, giunge ai raggi gamma duri. E’ bello che Sartorius abbia fede nei suoi maestri e nelle loro teorie, ma ce ne sono altre, Snaut. E

sai che cosa ti dico? — e continuai, vedendo che le mie parole lo impressionavano. — Bisogna anche prendere in considerazione l’oceano. Se ha fatto ciò che ha fatto, sicuramente ha scelto il metodo migliore. In altre parole: la sua azione mi sembra un argomento che opta per la seconda scuola. E contro Sartorius.

— Dammi quel foglio, Kelvin… — Glielo diedi. Inclinò la testa cercando di leggere i miei scarabocchi.

— Che cos’è? — chiese indicando con il dito.

Presi il foglio. — Questo? Il tensore di trasformazione dei campi.

— Me lo dai?

— A che ti serve? — domandai. Sapevo quel che avrebbe risposto.

— Devo mostrarlo a Sartorius…

— Come vuoi — risposi con indifferenza. — Te lo posso dare.

Ma, vedi, nessuno ha provato sperimentalmente; non si conoscevano ancora queste strutture. Lui crede in Frazer e io ho fatto i calcoli secondo Sion. Ti risponderà che non sono un fisico, e che non lo era neanche Sion. Almeno a suo modo di vedere. Ma la questione è aperta. E io non ho voglia di discutere, poiché nella discussione Sartorius mi batterà, con sua gran soddisfazione. Posso convincere te, ma non lui. E.

non ci proverò.

— Allora, che cosa vuoi fare? E’ già all’opera… — disse Snaut con voce atona. Stava curvo e tutta la sua vivacità era sparita. Non sapevo se mi credesse, ma non m’importava.

Risposi piano: — Quel che fa un uomo di fronte a una minaccia di morte.

— Proverò a mettermi in contatto con lui. Forse ha in mente qualche impianto di sicurezza — borbottò Snaut. Mi guardò negli occhi: — Ascoltami, e se…? Il primo progetto. Che ne dici? Sartorius sarebbe d’accordo. E’ a ogni modo una possibilità…

— E tu ci credi?

— No — rispose immediatamente. — Ma cosa rischiamo?

Non volevo acconsentire troppo in fretta, desideravo guadagnare tempo. Snaut diventava mio complice nel gioco di procrastinare.

— Ci penserò — dissi.

— Bene, me ne vado — borbottò, alzandosi. Tutte le giunture scricchiolarono, quando si alzò dalla poltrona. — Allora ti lascerai fare l’encefalogramma? — domandò, passando la mano sulla superficie del grembiule, come se cercasse di togliere una invisibile macchia.

— Bene — dissi. Senza guardare Harey (che osservava questa scena, in silenzio, col libro sulle ginocchia), si avvicinò alla porta. Quando questa si chiuse, mi alzai. Aprii il foglio che tenevo in mano. Le formule erano autentiche. Però non so se Sion sarebbe stato d’accordo con me sul modo in cui le avevo sviluppate. Credo di no.

Trasalii. Harey si era avvicinata da dietro e mi toccava il braccio.

— Chris!

— Che c’è, amore?

— Chi era?

— Te l’ho detto, il dottor Snaut.

— Che tipo è?

— Lo conosco poco. Perché me lo chiedi?

— Mi guardava in un modo…

— Sicuramente gli sei piaciuta.

— No — scosse la testa. — Non era uno sguardo del genere.

Mi guardava, come… come se… — Ebbe un brivido, alzò gli occhi e subito li riabbassò. — Andiamo da qualche altra parte…

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