5

— New York — ordinò Krug. — Ufficio superiore.

Entrò con Spaulding nella cabina trasmat. Dalla fessura sul pavimento, la fiamma verde del campo guizzò in alto e divise la cabina in due. La cabina era in diretto collegamento con la centrale che dal fondo dell’Atlantico ruotava instancabilmente per generare l’effetto theta del viaggio trasmat. Fu l’ectogeno a formare le coordinate, né Krug perse tempo a controllarle: si fidava dei suoi. Sarebbe bastata una minima differenza di ascissa per disperdere i suoi atomi tra i gelidi venti dell’Artico, ma Krug non ebbe esitazione quando entrò nella fiamma verde.

Nessuna sensazione. Il corpo di Krug venne distrutto. Il treno d’onde percorse varie migliaia di chilometri e venne raccolto da un ricevitore sintonizzato su quella specifica cabina: Krug fu ricostruito. Il campo trasmat riduceva il corpo umano in particelle subatomiche, ma tutto il processo si svolgeva così rapidamente che il sistema nervoso non faceva in tempo a percepire il dolore: con uguale rapidità si svolgeva poi il ritorno alla vita. Intero e indenne, Krug emerse (sempre con Spaulding al fianco) nella cabina trasmat dell’ufficio.

— Pensa tu a Quenelle — disse Krug. — Arriverà sotto. Tienla occupata: non voglio venir disturbato per tutta la prossima ora.

Spaulding uscì. Krug chiuse gli occhi.

La caduta del blocco l’aveva davvero scosso. Non era il primo infortunio nella costruzione della torre, e probabilmente non sarebbe stato l’ultimo. Oggi erano andate perdute alcune vite. Solo vite androidi, sì, ma sempre vite. Lo spreco di vite, lo spreco di energia, lo spreco di tempo lo mandavano in bestia. Come avrebbe potuto innalzare la torre, se continuavano a cadere blocchi? Come avrebbe potuto mandare oltre il cielo il messaggio dell’esistenza dell’uomo, della sua importanza, senza la torre? Come avrebbe potuto fare le domande che doveva fare?

Krug soffriva. Di fronte all’immensità del compito che si era imposto, si sentiva prossimo alla disperazione.

Nei momenti di fatica o di tensione, Krug avvertiva più che mai la presenza del proprio corpo: l’avvertiva morbosamente, come la prigione che rinserrava la sua anima. Le pieghe di carne sulla pancia, l’isola di perpetua rigidità alla base del collo, l’esile tremito della palpebra sinistra, la leggera, continua pressione della vescica, l’arsura della gola, l’esitazione della rotula, ogni indizio della propria caducità riecheggiava come uno scampanellio. Spesso vedeva il proprio corpo come una cosa assurda: un banale sacco di carne, ossa, sangue e feccia, con un assortimento di tubi, fili, corde e stracci, piegato dall’assalto del tempo, sempre più deteriorato da un anno all’altro e da un’ora all’altra. Può esserci qualcosa di nobile, in un simile mucchio di protoplasma? Le unghie: un paradosso! Le nari: un’idiozia! I gomiti: una sciocchezza! Eppure, grigio e attento, sotto la corazza delle ossa craniche, c’era il cervello: il cervello che continuava a ticchettare, come una bomba sepolta nel fango. Disgusto per la carne e ammirazione, soggezione per il cervello: ecco i sentimenti di Krug. Per il cervello suo, e per quello umano in generale. Il suo Io, la sua personalità, la vera e interiore krugghità che era in lui stavano tutti in quella soffice massa di tessuto nervoso e nelle sue circonvoluzioni. Lì stavano, non in altri posti; non nell’intestino; non nell’inguine; non nel torace. Nella mente. Il corpo già marcisce mentre ancora il proprietario lo indossa; la mente che contiene s’innalza alle più remote galassie.

— Massaggio! — latrò Krug.

Il timbro con cui aveva dato l’ordine fece uscire dalla parete una tavola liscia e vibrante. Nella stanza entrarono tre androidi femmina, sempre pronte nell’eventualità di un richiamo. Flessuose, nude, le androidi erano tre comuni modelli gamma: salvo le solite piccole differenze somatiche (programmate di routine) sarebbero parse gemelle. Avevano seno piccolo, alto, e ventre piatto; lunghe le cosce, piene le natiche. I capelli e le sopracciglia, contrastando con tutto il resto dell’epidermide, che era glabro, conferivano loro una certa espressione asessuata, anche se portavano il solco del sesso, chiaro e inconfondibile, iscritto tra le cosce: se gliene fosse venuto il gusto, Krug avrebbe potuto separarle e trovare al loro interno una convincente imitazione della passione. Quel gusto non gli era mai venuto, ma aveva voluto inserire ugualmente un elemento di sensualità nel progetto dei suoi androidi. Aveva dato alle sue creature organi genitali perfettamente funzionali (pur se sterili) per lo stesso motivo cui aveva dato loro un normale ombelico (assolutamente superfluo). Voleva che le sue creature avessero aspetto umano (salvo le differenze indispensabili) e che potessero compiere quasi tutte le funzioni compiute dagli esseri umani. I suoi androidi non dovevano essere dei robot. Aveva deciso di creare degli esseri umani sintetici, non delle semplici macchine.

Le tre gamma lo svestirono con competenza e presero a massaggiarlo con mani addestrate: solerti e instancabili, gli scioglievano la carne e gli ridavano tono ai muscoli. Intanto Krug, prono sull’asse, fissava il vuoto dell’ufficio e le immagini sulla parete opposta.

Era un ambiente arredato con semplicità, quasi spartano. Solo un lungo rettangolo che comprendeva la scrivania, un terminale, una piccola scultura scura e un tendaggio nero che, sfiorando il pulsante del depolarizzatore, mostrava il panorama di New York, giù in basso. L’illuminazione indiretta e smorzata stendeva sull’ufficio un crepuscolo perpetuo. L’unica macchia di luce era un disegno, luminescente, giallo vivo, che brillava da una parete:



Era il messaggio delle stelle.

Inizialmente, l’osservatorio di Vargas lo aveva raccolto come una serie di deboli impulsi radio a 9100 megacicli: due rapidi bit, pausa, quattro bit, pausa e così via. La configurazione si era ripetuta mille volte nei due giorni successivi, e poi era cessata. Un mese dopo, era comparsa a 1421 megacicli (la frequenza 21 cm dell’idrogeno), ripetendosi altre mille volte. Un altro mese ancora, ed era riapparsa a due distinte frequenze: quella metà e quella doppia della precedente mille volte ciascuna. E successivamente Vargas l’aveva scoperta nella banda delle frequenze ottiche, trasmessa con un intenso fascio laser a 5000 ångström. E la configurazione era sempre rimasta la stessa; un grappolo di brevi impulsi informativi: 2…4…1…2…5…1…3…1. Ogni sottogruppo di bit era separato dall’altro per mezzo di un’interruzione perfettamente rilevabile; una pausa più lunga separava ogni ripetizione del gruppo di impulsi.

Non poteva trattarsi che di un messaggio. Per Krug la sequenza 2-4-1-2-5-1-3-1 era divenuta un numero sacro: il primo simbolo di una nuova Cabala. Non solo se n’era imblasonato la parete dell’ufficio: poteva farsi sussurrare a comando la registrazione del segnale delle stelle, su diverse frequenze acustiche, e, inoltre, la scultura a fianco della scrivania era stata predisposta per emettere tutta la sequenza con pulsazioni abbaglianti di luce coerente.

Quel segnale era la sua ossessione. Tutto il suo universo faceva perno su quella domanda in attesa di risposta. Di notte levava gli occhi alle stelle, si faceva stordire dal loro allucciolio e lanciava lo sguardo alle galassie, pensando: “Sono Krug. Sono io, Krug! Sono qui che aspetto. Parlatemi ancora!”. Era sicurissimo che il segnale delle stelle fosse un tentativo cosciente di comunicazione: l’altra possibilità non voleva neppure prenderla in considerazione. E aveva dedicato tutta la sua immensa fortuna al compito di rispondere.

“Non è possibile che il segnale sia un fenomeno naturale?”

No. La regolarità con cui arriva, nonostante la diversità delle frequenze usate, dimostra la presenza di un’entità intelligente. C’è qualcuno che vuol comunicarci qualcosa.

“E che significato possono avere quei numeri? Sono una specie di pi greco della Galassia?”

Non abbiamo trovato nessuna relazione matematica semplice. Non costituiscono una successione aritmetica identificabile. I crittografi hanno avanzato una cinquantina di suggerimenti tutti molto seducenti, ma la stessa quantità dei suggerimenti li rende tutti ugualmente sospetti. La nostra impressione è che quei numeri siano stati scelti assolutamente a caso.

“Non vedo lo scopo di un messaggio senza un contenuto comprensibile.”

Il messaggio stesso è il suo contenuto: un grido da una galassia all’altra. Ci dice: Ehi, siamo qui; sappiamo come trasmettere. Siamo capaci di ragionare, e vogliamo entrare in contatto con voi.

“Sempre che lei abbia ragione, cosa conta di dire, come risposta?”

Conto di dire: Pronto, pronto, vi abbiamo sentito, abbiamo ricevuto il messaggio, vi salutiamo! Siamo intelligenti anche noi. Siamo esseri umani. Non vogliamo più essere soli nell’universo.

“E con quale linguaggio conta di dirglielo?”

Con il linguaggio dei numeri casuali. E poi con quello dei numeri un po’ meno casuali. Pronto, pronto, 3,14159, ci sentite? 3,14159, rapporto tra circonferenza e diametro.

“E come glielo dirà? Con il laser? Con le onde radio?”

No, no, vanno troppo piano. Non posso aspettare che le onde elettromagnetiche facciano il viaggio avanti e indietro. Parleremo con un fascio tachionico, e racconterò di Simeon Krug agli abitanti delle stelle.

Sul tavolo del massaggio, Krug rabbrividì. Le androidi lo artigliavano, lo percuotevano, gli affondavano le nocche nei muscoli massicci. Che fosse il loro modo d’imprimergli nelle ossa quei numeri arcani? 2-4-1, 2-5-1, 3-1. E dov’era finito quel 2 che mancava? E se anche fosse stato trasmesso, che cosa poteva significare la sequenza 2-4-1, 2-5-1, 2-3-1? Niente. Numeri casuali. Un gruppetto insensato d’informazione non decodificata. Nient’altro che numeri, disposti in configurazioni astratte, ma che portavano il più importante messaggio dell’universo:

Siamo qui.

Siamo qui.

Siamo qui

Vi stiamo chiamando.

E Krug intendeva rispondere. Provava una scossa di piacere quando pensava alla torre completa, al fascio tachionico che si riversava nella galassia. Sarebbe stato Krug a rispondere. L’avido Krug, l’affarista Krug, quel bifolco di Krug, quell’affamato di soldi di Krug, Krug il semplice industriale, Krug l’ignorante, Krug il grassone, Krug lo zotico. Io! Krug! Krug!

— Via! — ringhiò alle androidi. — Basta!

Le ragazze si allontanarono subito. Krug si alzò, si rivestì lentamente, attraversò la stanza e passò le mani sulle luci gialle della parete.

— Ci sono comunicazioni? — chiese. — Visite?

Sfarfallando sull’invisibile schermo di sodio vaporizzato, comparvero a mezz’aria le fattezze di Leon Spaulding: testa e spalle. — C’è il professor Vargas — annunciò l’ectogeno. — L’aspetta nel planetarium. Gli annuncio il suo arrivo?

— Certo: salgo subito da lui. E Quenelle?

— È in Uganda, alla villa del lago. Ha detto che l’aspetta lì.

— Mio figlio?

— È andato alla fabbrica di Duluth; quell’ispezione. Devo comunicargli qualcosa?

— No, grazie — disse Krug. — Mio figlio sa benissimo il da farsi. Vado subito da Vargas.

L’immagine di Spaulding svanì; Krug si diresse al suo ascensore personale e salì rapidamente alla cupola del planetarium, sul tetto del grattacielo. Sotto la volta ramata, la figura sottile e assorta di Niccolò Vargas passeggiava tra una vetrinetta alla sinistra (contenente otto chili di proteinoidi d’Alfa Centauri V) e un tozzo criostato alla destra (nel cui gelido interno oscillavano trenta litri di metano liquido: souvenir dei mari di Plutone).

Vargas era un ometto minuto e bianchiccio, ma aveva una personalità foltissima. Nei suoi riguardi, Krug nutriva un rispetto che sfiorava la soggezione: ecco un uomo che, fin dalla giovinezza, ha dedicato ogni giorno, ogni ora della sua vita a cercare tra le stelle i segni di altre civiltà. Un uomo che conosce a fondo i problemi della comunicazione interstellare. E il volto di Vargas portava le stigmate della sua professione: quindici anni addietro, espostosi incautamente al fascio di un telescopio neutronico in un momento di slancio irrefrenabile, Vargas si era strinato irreparabilmente tutta la parte sinistra del viso. Gli avevano ricostruito l’occhio leso, ma non avevano potuto arrestare la decalcificazione della struttura ossea sottostante. Si erano dovuti limitare a puntellarla con fibre di berillo, cosicché la fronte e la guancia di Vargas conservavano ancor oggi un aspetto incavato, inaridito. Nell’epoca della chirurgia cosmetica le deformità come la sua erano piuttosto rare; l’astronomo, tuttavia, non sembrava preoccuparsi molto di ulteriori ricostruzioni del proprio viso.

Quando Krug entrò, Vargas gli rivolse il suo sorriso torto. — La torre è magnifica! — esclamò.

— Sarà magnifica una volta finita — lo corresse Krug.

— No, no, è già magnifica. Un torso stupendo! Così liscia, Krug, così imponente: e come s’innalza! Ma lo sai, Krug, amico mio, cosa stai costruendo? La prima cattedrale dell’Era galattica. Nelle migliaia d’anni a venire, quando ormai la tua torre avrà esaurito il suo scopo di centro di comunicazioni, la gente si recherà ancora laggiù, e s’inginocchierà, e bacerà la sua superficie levigata, e ti benedirà per averla costruita. E non solo esseri umani.

— Già. Che pensiero affascinante — mormorò Krug. — Una cattedrale. Non l’avevo mai osservata sotto tale aspetto. — Scorse il cubetto che Vargas gli porgeva nella destra. — Cos’è?

— Un dono per te.

— Un dono?

— Abbiamo individuato l’origine dei segnali — spiegò Vargas. — Sarai curioso di vedere la stella.

Krug balzò in avanti, scosso. — Perché aspettare tanto tempo per dirmelo? Perché non dirlo subito; prima, quando eravamo alla torre!

— La torre era il tuo momento. Questo è il mio. Vuoi che lo proietti?

Krug gli indicò la scanalatura del proiettore, con impazienza. Vargas inserì abilmente il cubo e accese l’analizzatore. Fasci bluastri di luce esploratrice sezionarono il reticolo cristallino del cubo, scavandone fuori il messaggio registrato.

Sul soffitto del planetarium fiorirono le stelle.

Krug aveva una certa familiarità con la Galassia. I suoi occhi ravvisarono configurazioni note: Sirio, Canopo, Vega, Capella, Betelgeuse, Altair, Fomalhaut, Deneb… i più fulgidi fari dei cieli, spiegati spettacolarmente sulla cupola che lo sovrastava. Lo sguardo gli corse alle stelle più vicine, quelle che, comprese nel raggio di una quindicina di anni luce dal sistema solare, erano state raggiunte dalle sonde stellari inviate dall’uomo: Epsilon Indi, Ross 154, Lalande 21185, l’Astro di Barnard, Wolf 359, Procione, 61 Cygni. Guardò in direzione del Toro e scorse la rossa Aldebaran luccicargli nella fronte, con dietro, lontano, il grappolo delle Iadi, e con le Pleiadi che avvampavano sotto il velo brillante. E poi le costellazioni si allargarono mentre la distanza focale si ravvicinava, mentre le distanze aumentavano. Krug si sentiva un tumulto nel petto. Vargas non aveva ancora detto parola.

— Allora? — si decise a chiedere Krug. — Cosa dovrei vedere?

— Osserva verso Acquario.

Krug scrutò il cielo settentrionale. Seguì la pista familiare: Perseo, Cassiopea, Andromeda, Pegaso, Acquario. Sì, ecco lì l’antico Coppiere tra Pesci e Capricorno. Krug si sforzò di ricordare il nome di qualche stella importante dell’Acquario, ma non approdò a nulla.

— Be’? — chiese.

— Continua a guardare. Adesso ingrandisco l’immagine.

Krug s’irrigidì mentre la volta siderea si avventava contro di lui. La forma della costellazione non riusciva più a discernerla, ormai; capitombolavano i cieli, e ogni ordine era andato perso. Quando il movimento cessò, si trovò a fissare un singolo segmento della Galassia, ingrandito fino a occupare l’intera cupola del planetarium. Allo zenit, direttamente sopra di lui, compariva l’immagine di un anello infocato, nero all’interno e bordato di un irregolare alone di gas luminosi. Un minuscolo puntino di luce scintillava nel centro esatto dell’anello.

Vargas spiegò: — Si tratta della nebulosa planetaria NGC 7293, in Acquario.

— Sì?

— È l’origine dei nostri segnali.

— E con che sicurezza puoi affermarlo?

— Con sicurezza assoluta — disse l’astronomo. — Abbiamo compiuto osservazioni di parallasse, varie triangolazioni ottiche e spettroscopiche, occultamenti di conferma e altre cose. Fin dall’inizio sospettavamo che NGC 7293 fosse l’origine cercata, ma i dati definitivi sono stati elaborati solo questa mattina. Ora ne siamo sicuri.

Con la gola secca, Krug chiese: — Che distanza?

— Circa 300 anni luce.

— Niente male — disse lentamente Krug. — Niente male. Superiore alla portata delle sonde stellari, superiore alla portata di un buon contatto radio. Ma nessun problema con il fascio tachionico. La mia torre è giustificata.

— E la distanza ci lascia sperare di poter comunicare con gli autori del messaggio — aggiunse Vargas. — C’era il pericolo che provenisse da un posto come Andromeda, che la trasmissione fosse cominciata un milione d’anni fa, o anche più…

— Questa possibilità è ormai da escludere.

— Sì. Da escludere.

— Descrivimela — disse Krug. — Una nebulosa planetaria… che roba è? Se è una nebulosa, come può essere un pianeta?

— Né un pianeta né una nebulosa — spiegò Vargas, che intanto aveva ripreso a passeggiare. — Si tratta di un corpo astronomico piuttosto fuori del comune. Un evento straordinario. — Si fermò accanto alla vasca dei proteinoidi centauriani e vi batté le nocche. Irritate, le creature semivive presero a ondeggiare e a svolgersi pigramente. — L’anello che vedi è un guscio vuoto, una bolla di gas che circonda una stella di tipo O. È la classe spettrale delle giganti azzurre: stelle caldissime e instabili, che rimangono solo pochi millenni d’anni sulla sequenza principale. In alcune di esse, verso la fine del loro ciclo vitale, si verifica un sommovimento catastrofico, paragonabile a quello di una nova. Gli strati superficiali dell’atmosfera solare vengono espulsi violentemente, formando un immenso guscio gassoso. La nebulosa planetaria che vedi ha un diametro di 1,3 anni luce, e si espande alla velocità di quindici chilometri al secondo. Tra parentesi, la straordinaria luminosità dei gas che la compongono è dovuta a un effetto di fluorescenza: l’astro centrale produce una foltissima quantità di radiazione nella banda dell’ultravioletto, che viene assorbita dagli atomi d’idrogeno del guscio, con emissione di…

— Alt un momento! — l’interruppe Krug. — Mi stai dicendo che questo sistema solare ha subito qualcosa come l’esplosione di una nova. Che detta esplosione si è verificata in un periodo relativamente recente, tanto che il guscio è largo solo 1,3 anni luce, pur allargandosi di quindici chilometri ogni secondo. E che il sole centrale ha un’emissione ultravioletta talmente forte da portare il guscio alla fluorescenza.

— Esatto.

— Vorresti farmi credere, dunque, che c’è una razza intelligente, dentro quella fornace, che ci invia messaggi?

— Senza alcun dubbio — disse Vargas — i segnali provengono dalla NGC 7293.

— Impossibile! — tuonò Krug. — Impossibile! — Si batté le mani sulle cosce. — Una gigante azzurra, tanto per cominciare, con un’età massima di qualche milione di anni. Come puoi farci evolvere la vita, e per di più la vita intelligente? Poi una specie di esplosione stellare… come potrebbe sopravviverci qualcosa? E le radiazioni ultraviolette? Spiegamelo tu! In un sistema solare come quello, puoi scommettere che non c’è affatto vita. Tientela pure, la tua maledetta nebulosa planetaria! Ma i segnali, i segnali? Da dove arrivano? e come?

— Abbiamo considerato questi fatti — disse Vargas, debolmente.

Ancora scosso, Krug chiese: — Vuoi dirmi che i segnali, in fin dei conti, sono solo dei fenomeni naturali? Impulsi irradiati dagli atomi di quella tua nebulosa pazza?

— Noi siamo sempre convinti che i segnali abbiano un’origine intelligente.

Di fronte a quel paradosso, Krug rimase perplesso. Fece un passo indietro, sudato, confuso. Era solo un dilettante, come astronomo; aveva letto molto, si era imbottito la testa di nastri didattici e di farmaci mnemotropici, sapeva la differenza tra una gigante rossa e una nana bianca, era capace di disegnare il diagramma di Hertzsprung-Russell, di osservare il cielo e indicare Spica e Alpha Crucis… ma si trattava di conoscenze superficiali, di una semplice patina che rimaneva all’esterno della sua mente, di un ornamento e nulla più. Non ne era compenetrato come Vargas; non viveva interiormente quelle informazioni; non riusciva a superare agilmente i confini del nozionismo. Da ciò la sua soggezione nei riguardi di Vargas. Da ciò il disagio che ora provava.

— Su, continua — mormorò. — Dimmi cosa sono. Spiegami il perché.

Vargas spiegò: — Ci sono varie possibilità. Tutte di ordine speculativo, tutte supposizioni, naturalmente. La prima, la più ovvia, è che i segnalatori di NGC 7293 siano giunti dopo l’esplosione, quando tutto era ritornato tranquillo. Negli ultimi diecimila anni, tanto per fare una cifra. Colonizzatori provenienti da qualche lontano punto della Galassia, esploratori, profughi, esuli… insomma una migrazione recente.

— E le radiazioni? — obiettò Krug. — Anche dopo che tutto era ritornato tranquillo, come tu dici, quel sole assassino continuava a radiare nell’ultravioletto.

— È chiaro che quegli esseri non ne risentono. A noi, per i nostri processi vitali, occorre la luce del Sole: si può benissimo concepire una razza che abbia bisogno di luce a frequenza spettrale più alta.

Krug scosse il capo.

— Tu parla di quella razza, allora, e io farò la parte dell’avvocato del diavolo. Impiega le radiazioni ultraviolette, tu affermi. E cosa ne dici degli effetti genetici? Che tipo di civiltà stabile si può costituire, con un tasso di mutazione cosi elevato?

— Una razza adattata ad alti livelli di radiazione avrà certo una struttura genetica meno vulnerabile della nostra. Potrà assorbire ogni tipo di particelle senza troppe mutazioni genetiche.

— Sì. E forse no. — Krug rimase in silenzio per un istante, poi disse: — Benissimo, sono venuti da qualche altra parte e si sono stabiliti nella tua nebulosa planetaria quando è passato il pericolo. E allora perché non abbiamo ricevuto i segnali anche da altre stelle? Dov’è il loro sistema d’origine? Profughi, coloni, sì, ma da dove?

— Forse il loro sistema d’origine è talmente lontano che i segnali ci arriveranno solo tra migliaia di anni — azzardò Vargas. — O forse non manda segnali. O anche…

— Tu hai tante risposte… — brontolò Krug. — Ma l’idea non mi piace lo stesso.

— E allora passiamo alla seconda possibilità — disse Vargas. — I segnalatori sono originari di NGC 7293.

— E come fanno? L’esplosione…

— Forse l’esplosione non li ha danneggiati affatto. Potrebbe trattarsi di una razza che si nutre di radiazioni: una razza per cui la mutazione genetica è il modo di vivere. Amico mio, qui stiamo parlando di razze extraterrestri, diversissime dalla nostra. E se sono davvero diverse, noi non possiamo neppure immaginarci i loro parametri… Su, tienimi dietro nelle supposizioni. Abbiamo un pianeta di una stella azzurra; un pianeta lontano dal proprio sole, ma che riceve ugualmente una dose massiccia di radiazioni, fortissime. Il loro mare è un brodo di coltura, pieno di composti chimici in costante ebollizione. Un brodo di mutazioni biologiche. Un milione d’anni dopo che la crosta del pianeta si è raffreddata, ecco nascere la vita. Tutto succede molto in fretta su quel pianeta. Un altro milione di anni e si arriva agli organismi complessi, multicellulari. Al terzo milione siamo già al loro equivalente dei mammiferi. E al quarto arriviamo a una civiltà di portata galattica. La mutazione; la mutazione feroce, interminabile.

— Vorrei poterti credere — borbottò Krug, tetro. — Lo vorrei davvero. Ma non ci riesco.

— Divoratori di radiazioni — continuò Vargas. — Intelligenti, sommamente adattabili, convinti della necessità… perfino della desiderabilità… di un continuo, violento rimescolamento genetico. La loro stella si espande, scoppia; benissimo, loro si adattano all’aumento di radiazioni; trovano il modo di proteggersi. E poi si trovano a vivere all’interno di una nebulosa planetaria, circondati da un cielo luminescente. Scoprono l’esistenza del resto della Galassia. Ci inviano messaggi. Non ti pare?

Krug, tormentato, allargò le braccia verso Vargas. — Come vorrei poterlo credere!

— E allora credici. Io ci credo.

— Ma si tratta solo di una teoria. Una teoria campata in aria!

— Eppure si accorda benissimo con i dati che possediamo — lo rincuorò Vargas. — Non hai mai sentito quel vecchio detto: “Se non è vero, è ben trovato”? Come ipotesi di lavoro, può esserci utile finché non ne avremo una migliore. Spiega i fatti molto meglio di quanto non possa farlo l’altra, e cioè che quei segnali complessi, ripetuti, su varie frequenze, abbiano origine spontanea.

Volgendo le spalle a Vargas, Krug calò un colpo violento sull’interruttore del proiettore, come se non potesse più soffrire l’immagine sulla cupola, come se si fosse sentito ferire la pelle dalle tumultuose radiazioni di quel sole estraneo, mortale. Nei suoi sogni l’immagine era stata ben diversa. Aveva pensato al pianeta di un sole giallo, in qualche punto del cielo a ottanta, novant’anni luce dalla Terra: un sole gentile e carezzevole, simile a quello sotto cui era nato lui. Aveva sognato un mondo di laghi e di fiumi e di grandi distese erbose, di aria profumata dal vaghissimo sentore di ozono, di alberi dalle foglie rosse e di insetti verdi e lucidi, di creature snelle ed eleganti dalle spalle sottili, con molte dita alle mani. Creature dalla voce saggia e pacata, che discorrevano amabilmente mentre passeggiavano per vallate e boschetti di quel paradiso, che sondavano i misteri del cosmo tessendo speculazioni sull’esistenza di altre civiltà, e che infine mandavano all’universo il loro messaggio. Li aveva visti spalancare le braccia ai primi visitatori della Terra ed esclamare: Benvenuti, fratelli, benvenuti; sapevamo che dovevate esserci anche voi. E ora tutta quella dolce visione era calpestata, distrutta. Con l’occhio della mente, ora Krug si raffigurava un infame sole azzurro che lanciava contro il vuoto le sue fiammate demoniache; scorgeva un pianeta calcinato e rovente, dove mostri squamosi e corazzati strisciavano in paludi d’argento vivo, sotto un ostile cielo incandescente. Una masnada di orrori, attruppata vicino a una macchina d’incubo, che mandava al di là del vuoto dello spazio un messaggio incomprensibile. E sarebbero nostri fratelli? Che gusto ci può essere, si chiedeva tetramente Krug.

— Ormai — confessò deluso — con che cuore potremmo recarci da loro? Con che cuore potremmo abbracciarli? Sai, Vargas, ho una nave quasi pronta: una nave stellare, capace di trasportare un dormiente per centinaia d’anni. Ma non oso più mandarla in un posto simile.

— Mi stupisce vederti reagire così. Non mi aspettavo una simile angoscia da parte tua.

— E io non mi aspettavo una stella come quella.

— Perché, preferivi sentirti dire che i segnali erano solo degli impulsi naturali?

— No. No.

— E allora accetta con gioia questi nostri strani fratelli: dimentica le differenze che li rendono strani ai nostri occhi e pensa solo alla fratellanza che ci accomuna.

Le parole di Vargas fecero presa: gli diedero forza. L’astronomo aveva ragione. Per quanto diversi fossero quegli esseri, per quanto stravagante apparisse il loro mondo (sempre che l’ipotesi di Vargas corrispondesse al vero) si trattava di creature civili, scientifiche, aperte alle altre forme di vita intelligente. Nostri fratelli. Se domani lo spazio si dovesse ripiegare su se stesso, inghiottendo il Sole, la Terra e i pianeti vicini e scaraventandoli nell’oblio, l’intelligenza non scomparirebbe dalla faccia del cosmo, perché ci sarebbero loro.

— Sì — disse infine Krug — li accetto. Con gioia. Quando la torre sarà terminata invierò il mio saluto.

Erano trascorsi due secoli e mezzo da quando l’uomo si era svincolato per la prima volta dal pianeta natale. In un singolo, grande, dinamico impulso, la sete degli spazi aveva portato gli esploratori dalla Luna a Plutone, al bordo del sistema solare, senza tuttavia mai incontrare vita intelligente. Licheni, batteri, creature striscianti dei phylum più bassi: questi sì, ma nulla di più evoluto. Solo la delusione aveva arriso agli archeologi che fantasticavano di ricostruire le fasi della civiltà marziana da manufatti trovati nel deserto. Quei manufatti non c’erano mai stati. E quando erano partite anche le sonde stellari per viaggi di decine d’anni verso i sistemi solari più vicini, esse erano poi ritornate con… niente. Nella sfera di quindici anni luce dal Sole, così testimoniavano le prove raccolte, non era mai esistita forma di vita superiore a quella dei proteinoidi del Centauro, che tutt’al più potevano fare invidia alle amebe.

Krug era un giovanotto, all’epoca in cui erano ritornate le prime sonde. Gli era spiaciuto vedere come molti, sulla Terra, avessero preso a filosofeggiare sull’insuccesso della ricerca di vita intelligente sugli astri più prossimi. Che cosa dicevano, quegli apostoli del nuovo geocentrismo?

«Noi siamo gli eletti!»

«Noi siamo i figli unigeniti di Dio!»

«Solo su questo mondo, e su nessun altro, il Signore forgiò il suo popolo!»

«Spetta a noi l’universo, per eredità divina!»

In quel tipo di idee, Krug ravvisava la paranoia.

Non aveva mai pensato a Dio. Ma gli sembrava che gli uomini pretendessero troppo dall’universo, quando affermavano che il miracolo dell’intelligenza aveva avuto il permesso di sorgere solo su questo piccolo pianeta di un piccolo sole. Esistevano miliardi e miliardi di soli; esisteva un’infinità di mondi. Com’era possibile che l’intelligenza non si fosse evoluta innumerevoli e innumerevoli volte in quegli infiniti mari di galassie?

E gli sembrava assurdo, megalomane il tentativo di far assurgere a dogma assoluto gli scarsi, provvisori risultati di una ricerca sulla distanza di quindici anni luce. Che davvero fosse solo, l’uomo? E chi poteva dirlo? Fondamentalmente, Krug era un razionalista. Cercava di mantenere ogni cosa nella giusta proporzione. E sentiva che la continuità della salute mentale, per la razza umana, richiedeva di destarsi dal sogno di unicità, perché quel sogno, certamente, era destinato a terminare: se il risveglio fosse giunto troppo tardi, la razza umana ne avrebbe subito una mazzata insuperabile.

— Quando sarà pronta la torre? — chiese Vargas.

— Tra due anni. Forse alla fine del prossimo, se avremo fortuna. Hai visto stamattina l’appoggio che do alla costruzione: stanziamenti illimitati. — Krug si aggrottò. Bruscamente, si era sentito inquieto. — Dimmi la verità. Anche tu, anche tu che hai passato tutta la vita ad ascoltare la voce delle stelle, non pensi anche tu che Krug sia un po’ pazzo?

— Niente affatto!

— E invece sì. Lo pensano tutti. Mio figlio Manuel, per esempio, pensa che dovrei venire chiuso in manicomio, anche se ha paura di dirmelo. E Spaulding, qui sotto: anche lui. Tutti, tutti, anche Thor Guardiano, probabilmente, ed è proprio lui a costruirmi quell’accidenti di torre. Vorrebbero sapere cosa penso di ricavarci. Perché butto miliardi di dollari in una torre di cristallo. Anche tu, Vargas!

Il volto teso di Vargas divenne ancor più stiracchiato. — No: nutro la massima comprensione per il tuo progetto. Questi sospetti mi fanno male. Perché, non credi che entrare in contatto con una civiltà extrasolare abbia altrettanta importanza per me quanto per te?

— Certo: per te ha il diritto di essere importante. Si tratta del tuo campo, dei tuoi studi. Ma io? Io sono un uomo d’affari. Costruttore di androidi. Proprietario terriero. Capitalista; sfruttatore, magari un po’ un chimico, questo sì, e conosco la genetica, ma non sono un astronomo, non sono uno scienziato. Non è un po’ pazzo, Vargas, che mi dedichi a una cosa come questa? Spreco di beni. Investimento non produttivo. Che tipo di dividendi può fruttarmi NGC 7293 eh? Dimmi, dimmi.

Imbarazzato, Vargas propose: — Forse faremmo meglio a scendere. L’eccitazione…

Krug si batté la mano sul petto. — Ho appena sessant’anni. Me ne restano cento da vivere, forse duecento, chi può dirlo? Non preoccuparti di me. Puoi confessarlo tranquillamente. Sai che è una follia, per un ignorante come me, interessarsi a tal punto di una cosa di questo genere. — Krug scrollò la testa, violentemente. — Che sia una follia lo so perfino io. Devo continuare a spiegare a me stesso i miei motivi. Vedi, mi dico, è una cosa che si deve fare. E io la faccio: questa torre. Questo saluto alle stelle. Quando ero giovane, tutti continuavano a dire: siamo soli, siamo soli, siamo soli. Ma io non ci credevo. Non potevo crederci. Poi ho fatto i miliardi, e adesso quei miliardi li spendo, per ficcare in testa a tutti la verità sull’universo. Tu hai trovato i segnali. Io manderò la risposta. Numeri nostri in cambio dei loro. E poi figure: so come farlo. Uno e zero, uno e zero, uno e zero, nero e bianco, nero e bianco: continui a mandare bit, e quelli finiscono col formare una figura. Tu devi solo annerire gli spazi numerati. Ecco, noi siamo fatti così. Questa è la molecola dell’acqua. Questo è il sistema solare. Questo è il no… — Krug s’interruppe, rauco e ansante, accorgendosi solo allora dell’espressione sorpresa e intimorita comparsa sul volto dell’astronomo. In tono più sommesso, continuò: — Oh, mi spiace. Non dovrei mettermi a urlare. A volte perdo il controllo delle parole.

— No, no — sorrise Vargas — non preoccuparti. Niente di male. È la fiamma del tuo entusiasmo. Meglio qualche volta una vampata che non dare mai segno di vita…

— Sai cos’è stato? — chiese Krug. — È la nebulosa planetaria che mi hai sbattuto in faccia. Mi ha sconvolto, e ora te ne spiego la ragione. Sognavo di andare nel luogo d’origine dei segnali. Io, Krug, nella mia nave, ibernato, che viaggiavo per cento, magari duecento anni; l’ambasciatore della Terra; un viaggio che nessuno ha mai compiuto prima di me. E adesso tu mi hai descritto il mondo infernale che invia quei segnali. Cielo fluorescente. Stella di tipo O. Una fornace ultravioletta. Il mio viaggio è annullato, eh? La cosa, la sorpresa della cosa mi ha sconvolto, ma non devi preoccuparti. Mi so adattare. So assorbire bene i colpi duri. Mi spostano su un livello energetico superiore, tutto qui. — D’impulso, abbracciò come un orso le spalle di Vargas. — Grazie per i segnali che mi hai dato. Grazie per la nebulosa planetaria. Mille grazie, un milione di grazie, no, Vargas? — Fece un passo indietro. — Adesso scendiamo pure. Come va il laboratorio? Hai bisogno di fondi? Parlane a Spaulding. Lui ha carta bianca per te, sempre. Qualsiasi cifra.

Vargas lo lasciò per parlare a Spaulding. Solo nel suo ufficio, Krug si sentì ardere di vitalità: nella mente gli aleggiava la visione di NGC 7293. Proprio come aveva detto, ora vibrava su un livello energetico superiore; la sua stessa pelle, ora, gli sembrava un corsetto fiammante.

— Via ai qui — brontolò.

Formò le coordinate trasmat del suo ritiro in Uganda ed entrò nel campo. Dopo un istante era a dodicimila chilometri di distanza, fermo sulla sua veranda d’onice, e fissava il lago verdeggiante sotto la villa. A sinistra, a poche centinaia di metri di distanza, galleggiava un quartetto d’ippopotami: si scorgevano solo le froge rosee e le larghe schiene grigie. A destra c’era la sua amante Quenelle, seduta nuda nell’acqua bassa. Krug si spogliò. Pesante come un rinoceronte, impaziente come un impala, s’avventò giù della ripa per unirsi a lei nell’acqua.

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