Fu una lunga camminata, prima di raggiungere la foresta. L’intero altopiano, lassù, sembrava avere una forma a scodella, protetta da alte rupi tutt’intorno. Harker, riandando col pensiero al loro primo insediamento di tanto tempo prima, decise che quel posto era infinitamente migliore. Era quasi la visione che aveva avuto nei suoi sogni febbricitanti: la Terra Promessa. Era come se l’aria tersa e fresca di quell’altopiano gli avesse tolto dei pesi dai polmoni, dal cuore, da tutto il corpo.
Ma anche se quell’aria pulita gli restituiva vigore e giovinezza, non riusciva a compensare del tutto il peso di McLaren. Poco dopo, Harker fu costretto a dirle: «Aspetta», e si sedette, facendo rotolare con delicatezza il corpo di McLaren sull’erba folta. La ragazza si fermò. Tornò indietro di qualche passo e studiò Harker, che stava sbuffando come un cavallo esausto.
Harker sollevò gli occhi su di lei, sogghignando.
«Sono sfinito», le spiegò; «Ho consumato troppe energie per un uomo della mia età. Non puoi chiamare qualcuno che mi aiuti a portarlo?»
Ancora una volta lei lo studiò in silenzio, affascinata e perplessa. La notte stava ormai per chiudersi sopra di loro, era d’una sfumatura indaco, più chiara della notte cupa che tutti opprimeva al livello del mare. Gli occhi della ragazza mostravano una curiosa luminosità nel buio.
«Perché lo fai?» gli chiese.
«Far che cosa?»
«Portare quello».
«Quello», per Harker fu facile intuirlo, era McLaren. D’improvviso, fu gelidamente consapevole dell’abisso che li separava… e che nessuna dose di spiegazioni, per quanto abbondante, sarebbe riuscita a colmare. «È un mio caro amico. È un… Devo farlo».
Lei studiò i suoi pensieri, poi scosse il capo. «Non capisco. È guasto…»
L’immagine, nella sua mente, era una combinazione di «rotto», «finito» e «inutile».
«… portarselo dietro?»
«McLaren non è un "quello". È un uomo come me… un amico. È ferito, e devo aiutarlo».
«Non capisco». La sua scrollata di spalle fu fin troppo eloquente, l’ovvio giudizio che lui era un pazzo, e che non valeva la pena dedicargli altro tempo. La ragazza ricominciò ad avanzare senza prestar più nessuna attenzione agli appelli di Harker, che le chiedeva di aspettarlo. Per forza di cose, Harker si caricò nuovamente del peso di McLaren e la seguì barcollando. Desiderò ardentemente che Sim fosse là, e subito desiderò di non aver pensato a Sim. Si augurò che Sim fosse morto in fretta prima di… prima di che cosa? Oh Dio, è buio e ho paura e il mio stomaco è diventato acqua fredda e quella creatura che trotterella davanti a me, in mezzo a questa foschia azzurra…
Tuttavia, quella creatura era molto bella. Uno splendido, affascinante profilo, uno snello, curvo luccichio fatto d’impalpabile chiaro di luna, il calice d’un fiore esotico contenente il nettare mistico e profumato dell’irreale, l’ignoto, l’inesplorato… Suo malgrado, Harker sentì il sangue pulsargli d’una profonda eccitazione.
Giunsero infine sotto le ombre fragranti degli alberi. La foresta non era un groviglio impraticabile, ma aveva abbondanti radure e crinali coperti di muschio. Non c’era sottobosco, né arbusti, né macchie di felci, ma soltanto distese fiorite. La ragazza si fermò e protese una mano verso l’alto. Un ramo piumato, lassù, fuori della sua portata, si piegò e le sfiorò il viso, la ragazza ne colse un grande germoglio pallido e se l’infilò tra i capelli.
Si voltò e sorrise ad Harker. Questi cominciò a tremare, in parte per la stanchezza, in parte per qualcos’altro.
«Come puoi farlo?» le chiese.
Lei lo fissò perplessa. «Vuoi dire il ramo? Oh, quello!» Rise. Era il primo, vero suono che l’udiva emettere, e gli parve d’essere trapassato da uno spruzzo di mercurio bollente. «Mi basta pensare che mi piacerebbe un fiore… e il fiore viene».
Teletrasporto, psicocinesi… come lo definivano nei libri? Sulla Terra ne sapevano qualcosa, ma la colonia non aveva avuto neppure il tempo di compulsare la sua povera biblioteca. C’era stata qualche setta religiosa che riusciva a far chinare le rose che reggevano in mano. L’antica saggezza, la misteriosa forza dietro i miracoli biblici… niente più che il pensiero, l’infinito potere del pensiero. Molto semplice. Già. Harker si chiese a disagio se la ragazza potesse usarlo anche su di lui. Ma anche lui aveva un proprio cervello. O no?
«Qual è il tuo nome?» le chiese.
Lei produsse un limpido trillo. Harker cercò d’imitarlo fischiando, ma subito ci rinunciò. Una specie di linguaggio tonale, pensò, privo di parole… o almeno, di parole come lui le intendeva. Pareva che lei, la sua gente — qualunque cosa fossero — avessero copiato gli uccelli.
«Ti chiamerò Fiordaliso» le disse. «Sì… Fiordaliso. Ma tu non sai cosa vuol dire».
Lei colse l’immagine nella sua mente e gliela rinviò. Fiori dai petali azzurri che occhieggiavano dalla fruttiera di porcellana di sua madre. La ragazza tornò a ridere, mandò via gli uccelli neri e s’inoltrò tra gli alberi facendogli strada, riempiendo l’aria di trilli come un rigogolo. Altre voci le risposero e poco dopo, correndo come la brezza fra gli alberi, arrivò la sua gente.
Erano tutti come lei. C’erano maschi… esili creature simili a ragazzini… e ragazze come Fiordaliso. Erano molte centinaia, tutti nudi, tutti che ridevano incuriositi, i loro corpi flessuosi che guizzavano come farfalle fra le ombre color indaco. Erano coronati di petali — così li chiamava Harker, anche se non sapeva, in realtà, cosa fossero — di tutti i colori, dallo scarlatto al bianco più puro.
Vi fu un lungo incrociarsi di trilli. A quanto pareva Fiordaliso stava raccontando come aveva trovato Harker e McLaren. Tutta quella folla avanzò lenta attraverso la foresta fino ad arrivare a un vasto spiazzo aperto cosparso di pochi alberi qua e là. Una sorgente formava un laghetto, dal quale usciva un ruscello che si perdeva fra la vegetazione.
Continuava ad arrivare altra gente del piccolo popolo; ora Harker vide finalmente i più giovani: dalle creature più minuscole e sottili, via via attraverso le varie fasi dello sviluppo, erano repliche in minor formato degli adulti. Non c’erano vecchi. Non c’era nessuno che avesse un corpo imperfetto, o ferito. Harker, esausto e sull’orlo di un attacco di febbre, provò un profondo scoramento davanti a tanta fragile bellezza.
Mise giù McLaren accanto alla sorgente. Bevve, ansando come un animale, e si rinfrescò la testa e le spalle. Il popolo della foresta si era disposto in cerchio tutt’intorno ad osservarlo. Adesso erano silenziosi. Harker si sentì rozzo e bestiale, in un certo senso quasi come se avesse ruttato sonoramente in una chiesa.
Si occupò di McLaren. Lo lavò, lo aiutò a bere, e si diede da fare per curargli la gamba ferita. Ma avrebbe avuto bisogno di luce, d’un fuoco.
C’erano foglie secche, lì intorno, e zolle di muschio morto. Ne raccolse abbastanza, fra le rocce intorno alla sorgente, e le ammucchiò. La gente della foresta l’osservava. Harker cominciò a sentirsi innervosito per tutti quegli sguardi luminescenti puntati verso di lui. Le mani presero a tremargli al punto che dovette ricominciare per ben quattro volte con la selce e l’acciarino prima di ottenere una scintilla.
Già quel minuscolo guizzo produsse un’intensa agitazione tra le file silenziose degli astanti. Harker ci soffiò sopra. Le fiamme si levarono, dapprima piccole e pallide, poi presero vigore, crebbero e crepitarono. Harker vide i loro volti all’improvviso sfavillio luminoso, i loro occhi spalancati per il terrore. Uno strillo acuto eruppe dalle loro gole, e poi fuggirono tutti come foglie frusciami, sospinte dal vento.
Harker estrasse il coltello. Un profondo silenzio era calato sulla foresta. C’era silenzio… ma non tranquillità. Harker sentì la pelle accapponarglisi sulla schiena, mentre i capélli gli si rizzarono in testa. Sentì la gola secca. Passò la lama tra le fiamme. McLaren alzò lo sguardo su di lui. Harker gli disse: «Va tutto bene, Rory». E gli vibrò un pugno sulla punta del mento. McLaren si rovesciò all’indietro, immobile. Harker gli afferrò la gamba gonfia, gliela distese, e si mise al lavoro.
Era di nuovo l’alba. Harker giaceva accanto alla sorgente, in mezzo all’erba fresca, le ceneri del fuoco erano grige e morte lì accanto alle chiazze più scure della vegetazione. Si sentiva riposato, i nervi distesi, e sembrava che la paura l’avesse lasciato. L’aria era inebriante come vino.
Si girò sulla schiena. Soffiava un vento forte e vivificante, ricco d’aromi. Gli alberi ondeggiavano vivaci, sembravano quasi urlare di piacere. Harker inspirò profondamente. L’odore, quella sensazione di purezza, di pulizia…
D’improvviso si rese conto che le nubi erano alte, più alte di quanto le avesse mai viste prima d’ora. Il vento le sospingeva tutte d’un lato, e la luce del giorno era luminosa, tanto luminosa che…
Harker balzò in piedi. Il sangue gli tumultuava nelle vene. Avverti un bruciore negli occhi, un intenso pizzichio. Cominciò a correre verso un alto albero, fece un salto aggrappandosi ai rami più bassi, poi prese ad arrampicarsi spericolatamente fino alla cima ondeggiante. La conca della valle si stese sotto di lui, verde, rigogliosa… affascinante. Le grige rocce di granito s’innalzarono intorno ad essa, crescevano sempre più imponenti contro il cielo nella direzione verso la quale il vento soffiava. Erano molto alte ma al di là, molto al di là di esse, torreggiavano montagne colossali.
E su queste montagne, attraverso gli squarci delle nubi sferzate dal vento, si stendeva una coltre nevosa, gelida e bianca, d’una purezza accecante, e mentre Harker aguzzava gli occhi, colse un brillio, così rapido e fuggevole che lo intuì più che altro col cuore… La luce del sole. Campi di neve e, sopra di essi, il sole…
Molto tempo dopo, tornò a calarsi nel silenzio della radura. E restò immobile, gli occhi fissi su ciò che, prima, non aveva fatto in tempo a vedere.
Rory McLaren non c’era più, e non c’erano più neppure gli zaini, col cibo, le corde da scalata, le bende, la selce e l’acciarino. Neppure le corte lance c’erano più. Harker si tastò istintivamente il fianco, e non vi trovò niente, soltanto la carne nuda. Il coltello, perfino il perizoma gli erano stati tolti.
Un corpo snello, delizioso, avanzò fuori dall’ombra degli alberi. Grandi boccioli bianchi spiccavano sui riccioli azzurri che le coronavano la testa. Occhi luminosi fissarono Harker, pieni d’una vibrazione sottile e d’una ironia appena accennata.
Fiordaliso sorrise.
Matt Harker s’incamminò verso Fiordaliso, senza affrettarsi, i muscoli del viso induriti, cancellando ogni espressione. Cercò di mantenere sgombro anche il cervello. «Dov’è l’altro, il mio amico?»
«Nel luogo del termine». Gli indicò con un vago cenno del capo i dirupi intorno al punto dove lui e McLaren erano emersi dalla galleria. Colse l’immagine mentale di qualcosa d’intermedio fra un mucchio di spazzatura e un cimitero, in una sorta di traduzione approssimativa che riuscì a fare nei concetti terrestri. Colse anche una totale noncuranza e anche un po’ di fastidio per il tempo perso in una simile sciocchezza.
«L’avete… è ancora vivo?»
«Lo era quando l’abbiamo messo là. Tutto andrà bene, aspetterà fino a quando non si… fermerà. Come tutti».
«Perché è stato spostato? Perché avete…»
«Era brutto». Fiordaliso scrollò le spalle. «In ogni caso era rotto». Protese le braccia in alto e alto il viso al vento. Un brivido deliziato la percorse. Tornò a sorridere ad Harker, in tralice.
Lui cercò di dominare la rabbia, di tenerla nascosta. Si avviò, con volto sempre privo d’espressione, verso i dirupi. Passò accanto a un cespuglio dai fiori gialli e i rami spinosi e flessibili. D’un tratto la pianta si contorse e lo sferzò sul ventre. Harker si arrestò di botto, piegandosi in due. E udì la risata di Fiordaliso.
Quando si raddrizzò, la ragazza era davanti a lui. «È rosso», lei fece, sorpresa, e appoggiò le sue dita sottili e appuntite sui graffi lasciati dalle spine. Pareva eccitata, e affascinata, dal colore e dal tocco del sangue. Le sue dita si mossero, saggiando la forma dei suoi muscoli, la trama della sua pelle e la peluria scura sul suo petto. Le dita tracciarono piccole linee di fuoco lungo il suo collo, la sporgenza delle sue mascelle… gli toccarono i lineamenti, uno ad uno, le palpebre, le nere sopracciglia.
«Cosa sei?» gli bisbigliò con la mente.
«Questo». Harker la cinse, lentamente, con le braccia. La pelle di lei era liscia, e stranamente gelida, sotto le sue mani, facendogli provare un brivido indescrivibile, in parte di piacere, in parte di ripugnanza. Piegò la testa. Gli occhi di lei s’incupirono, laghi di fuoco azzurro, poi Harker trovò le sue labbra. Erano fredde e strane come il resto di lei, cedevoli, come il resto del suo corpo, odoranti di spezie, lo stesso profumo che esalò, con improvvisa, sopraffacente dolcezza, dai suoi petali ricciuti.
Harker colse un movimento tra gli squarci della foresta, un assieparsi di corolle dai vivaci colori. Fiordaliso si tirò indietro. Gli prese la mano e lo condusse via, verso il ruscello e le macchie di felci che lo bordavano. Alzando lo sguardo, Harker vide che i due uccelli neri avevano ripreso a seguirli, alti nel cielo.
«Ma allora in realtà siete piante? Fiori come questi?» Toccò i bianchi boccioli sopra la sua testa.
«Allora in realtà tu sei una bestia? Come le creature pelose e ringhianti che a volte si arrampicano su dal passo?»
Scoppiarono a ridere tutti e due. Il cielo sopra di loro aveva il colore di un vello soffice e perlaceo. Il terreno era tiepido e le felci cedevano elastiche sotto i loro piedi. «Quale passo?» chiese Harker.
«Laggiù». Lei gliel’indicò verso il confine roccioso della valle. «Scende giù fino al mare, credo. Molto tempo fa andavamo anche noi fin laggiù, ma in realtà non era necessario… e le bestie lo rendono pericoloso».
«Davvero», disse Harker, e la baciò nel cavo sotto il mento. «Cosa succede quando vengono le bestie?»
Fiordaliso scoppiò a ridere. Prima che potesse muoversi, Harker si trovò saldamente intrappolato in un groviglio di rampicanti e di robuste fronde di felci, e gli uccelli neri si precipitarono giù stridendo e fecero roteare i loro becchi taglienti a pochi centimetri dal suo viso.
«Ecco cosa succede», disse Fiordaliso. Accarezzò le felci. «I nostri cugini ci capiscono ancora meglio degli uccelli».
Harker giacque a terra, ansante e intriso di sudore, anche dopo essere stato liberato. Alla fine disse: «Quelle creature del lago sotterraneo… sono anch’essi vostri cugini?»
Il pensiero di Fiordaliso, pieno di paura, si scontrò con la sua mente come un paio di mani che cercassero di spingersi affannosamente lontano. «No, non… La leggenda dice che molto, molto tempo fa tutta questa valle era un immenso lago e i nuotatori ci vivevano dentro. Erano d’una specie completamente diversa dalla nostra. Noi siamo venuti dalle alte gole, dove adesso vi sono soltanto rocce spoglie. Questo è stato molto tempo fa. Man mano il lago si ritirava, siamo diventati sempre più numerosi e abbiamo cominciato a scendere verso il basso, alla fine ci fu una battaglia e i nuotatori furono cacciati oltre la cascata, dentro il lago nero. Hanno tentato molte volte di uscire, di tornare alla luce, ma non hanno potuto. Alle volte mandano fuori i loro pensieri verso di noi. Loro…» S’interruppe. «Non voglio più parlare di loro».
«Come potreste combattere contro di loro, se dovessero uscire?» le chiese Harker, sbrigativo. «Soltanto con gli uccelli e le creature che crescono dal suolo?»
Fiordaliso tardò alquanto a rispondere. Poi disse: «Ti farò vedere un modo». Gli appoggiò le mani sugli occhi. Per un attimo ci fu soltanto buio. Poi cominciò a prender forma un’immagine… gente, la gente di Harker, vista come un riflesso su uno specchio opaco e distorto, ma riconoscibile. Si riversarono dentro la valle attraverso una fenditura tra i dirupi, e subito ogni cespuglio, ogni albero, ogni singolo filo d’erba si scatenavano contro di loro. Essi combattevano selvaggiamente coi loro coltelli, riuscendo ad avanzare, ma lentamente. E poi attraverso il pianoro venne avanti una nebbia leggera, ma morbida e compatta.
Si fece più vicina, avanzando per forza propria, sfidando il vento contrario. Harker vide che si trattava d’una infinità di pappi, semi portati da seriche ali. La nube si distese sopra la gente intrappolata tra i cespugli. Era una marea interminabile e lenta che li coprì tutti d’una sottile lanugine. Gli uomini cominciarono a contorcersi e ad urlare per il dolore, in preda a una terribile paura. Si dibattevano, ma non riuscivano a fuggire.
La lanugine bianca cadde giù dai loro corpi, i quali rivelarono adesso di esser coperti da minuscole, innumerevoli punture verdi, attraverso le quali venivano risucchiate le sostanze chimiche dalla carne viva… I semi lì conficcati cominciavano già a crescere.
Il pensiero parlato di Fiordaliso si sovrappose alle immagini: «Ho visto i tuoi pensieri… o almeno alcuni di essi… dal momento in cui sei uscito dalle caverne. Non riesco a capirli, ma ho potuto vedere le nostre terre squarciate fino alla nuda roccia, i nostri alberi abbattuti e ogni creatura abbrutita. Se la tua razza venisse qui, noi dovremmo andarcene. E la valle appartiene a noi».
Il cervello di Matt Harker giacque immobile nell’oscurità del suo cranio, vigile, ritirato in se stesso. «Prima di voi, apparteneva ai nuotatori».
«Non sono riusciti a tenersela. Noi possiamo farlo».
«Perché mi hai salvato, Fiordaliso? Cosa vuoi da me?»
«Da te non veniva nessun pericolo. Eri strano. Volevo giocare con te».
«Mi ami, Fiordaliso?» Il suo dito sfiorò una larga pietra liscia tra le radici delle felci.
«Amore? Cos’è?»
«È il domani e lo ieri. È speranza e felicità e dolore. È la totalità dell’essere perché è disinteressato, la catena che ti lega alla vita e che fa sì che valga la pena viverla. Capisci?»
«No. Io cresco, prendo al suolo e alla luce, gioco con gli altri, con gli uccelli, il vento e i fiori. Quando viene il momento sono matura di semi, e dopo vado lì, nel termine, ad aspettare. È tutto ciò che capisco. È tutto ciò che c’è».
Harker sollevò lo sguardo e guardò nei suoi occhi. Un brivido lo colse. «Non hai anima, Fiordaliso. Ecco la differenza tra noi. Tu vivi… ma non hai anima».
E dopo… non gli fu difficile far ciò che doveva. Farlo in fretta, fare ciò che era la sua unica, debole possibilità di giustificare la morte di Sim. Ciò che Fiordaliso poteva anche aver intravisto nella sua mente, ma contro la quale non poteva difendersi, poiché a lei mancava del tutto la comprensione dell’assassinio.