Il Mago sedeva da solo su un palco del Constellation Club e suonava Bach per i robot che gli danzavano attorno in un solenne minuetto, aspirando mozziconi di sigaretta dal pavimento. Anche se le pareti dell’ampio locale erano di un nero lucido privo di stelle, nel mondo esterno il sole sorgeva appena allora. L’uomo cambiò registro e passò a una sarabanda, e l’oscurità fu spazzata via da un’improvvisa marea di colore. Le pareti, risplendenti adesso di un pallido verde chartreuse, proclamavano le sei del mattino. Il Mago e i robot rimasero indifferenti. Solo Sidney Halleck, occupato a lucidare il piano di quercia di uno dei dieci e più banconi del locale, prestò attenzione al cambiamento. Un colore vicino a quello del fango, gli dissero i suoi occhi con un sussulto, sarebbe stato più sopportabile dopo una notte simile.
Le dita del Mago intrecciarono accordi in una nitida conclusione, poi balzarono avanti di tre secoli. Il pianoforte costruito più di 150 anni prima, un pezzo d’antiquariato pre-GLM, risuonò garbato ma preciso sotto la volta vuota del club. Sidney smise di strofinare il ripiano di quercia e vi si appoggiò sopra, ascoltando la musica. Era un uomo massiccio, con un viso paffuto e cordiale, naso pronunciato, occhi acuti e sereni. Di giorno il Constellation Club, con i suoi 20 palchi ovali disseminati qua e là, quasi tutti ingombri di apparecchiature, somigliava a un hangar di UFO. Il Mago con l’antico pianoforte a coda, intento a produrre musica misteriosa in uno stato di solitaria indifferenza, quasi fosse una sorta di soffiatore meccanico, d’un tratto sembrò a Sidney non meno identificabile di un qualsiasi oggetto sceso dalle stelle per atterrare nel suo club.
Il picchiettio di note senza schema giunse alla fine. Il Mago rimase immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, e continuò a premere delicatamente un tasto. Sidney attese: il si bemolle non portava a nessun risultato. Allora si intromise gentilmente nelle fantasticherie del Mago.
— Non era Hanro quello che hai appena suonato? Il Cocktail Aurora Boreale?
Il Mago annuì con aria assente. — Non si adatta bene al piano… — Continuava a far risuonare il tasto. Metà del viso magro e affilato era color rosso magenta a ricordo della notte appena trascorsa. Si tirò dietro un paio di neurocavi disinseriti che gli uscivano dalla cintura e dal collare. Un luccichio verde e magenta brillò sui suoi capelli, sulla tastiera.
Finalmente si concentrò sul suono emesso dal tasto; rimase in ascolto, mentre l’aria tremolava e si calmava. Il suo viso, che rifletteva come un camaleonte ogni mutamento di pensiero, smise di seguire con clinico distacco il rumore prodotto dal piano e diventò se possibile ancora più rosso.
— Quest’affare stona anche solo a soffiarci sopra…
— Ha avuto una vita lunga e faticosa - disse Sidney. — E stato in piedi 75 anni in un attico del Settore Prateria, finché non l’ho scovato io. I topi avevano fatto il nido fra le corde — aggiunse, quando gli sembrò che il Mago non corresse più il rischio di svanire di nuovo nella sua musica. — Caffè? Birra?
Il Mago scosse la testa, poi soffiò via la polvere luminosa dai tasti. — Grazie, ma è ora di andare a letto. Cosa fai ancora in piedi, Sidney? Sono le… qualsiasi ora quell’orribile verde delle pareti stia a indicare.
— È l’alba — disse Sidney, e il Mago smise di respirare. Lo fissò senza espressione da sopra il piano.
— Sono rimasto per ascoltarti — continuò l’altro. — Non mi capita spesso di assistere gratis a un concerto di Bach. E comunque sono stato costretto a restare qui oltre l’orario. Per poco un complesso non ha suonato l’Ultimo rosso, verso l’ora di chiusura. — Il Mago emise un suono confuso che Sidney ritenne una domanda. — Tu stavi suonando. Non ti sei accorto dei poliziotti e delle ambulanze.
— Cosa… Chi…
Sidney accennò vagamente con la mano a un palco lontano. — Un complesso nuovo, i Desperate Sun. Sembravano innocui, durante l’audizione… E invece intendevano fulminarsi con i loro strumenti, in sostegno della Coalizione Nazionale Regressista del Settore Tramonto. Un buttafuori ha staccato la corrente prima che si facessero male sul serio. E loro hanno continuato ad arringare i poliziotti sul diritto del Settore Tramonto di portare armi, autotassarsi e chiamarsi di nuovo Australia. Mi sfugge tuttavia perché volessero. morire per l’Australia proprio nel mio club.
Il viso d’arlecchino del Mago era un mosaico d’espressioni. — E io cosa facevo nel frattempo?
— Suonavi un mucchio di Toccate e Fughe. E poi hai suonato le Invenzioni. Dalla prima all’ultima. Quella parte è stata un pochino noiosa — confessò. — Poi hai suonato la Quarta suite inglese. E dopo quasi tutta la Quinta, e poi parte delle Suites francesi…
— Non mi…
— E hai concluso con il Cocktail di Hanro. Quattro ore filate, con i poliziotti che raccoglievano testimonianze sotto il tuo naso e trasportavano via i corpi dei feriti. A cosa diavolo pensavi?
Gli occhi del Mago si soffermarono, spalancati, sul viso di Sidney. La destra scivolò sulla tastiera; quell’unica nota sommessa risuonò ancora. Gli occhi, sempre fissi sul viso di Sidney, divennero opachi.
Tutt’attorno le pareti ridiventarono nere. Non avevano più angoli; nella notte fredda e primordiale dello spazio, un bagliore minuscolo, alternativamente chiaro e scuro, seguì la sua orbita immutabile attorno a lui…
— Magico Capo — disse piano Sidney, e l’altro batté le palpebre. Dopo qualche istante smise di suonare quell’unica nota e fissò la tastiera.
— Si bemolle. — Si portò le mani al viso, pasticciandosi il trucco, e si alzò con movimenti rigidi. — Mi ci vorrebbe proprio, quella birra.
— Ti farò compagnia. Non ho impegni, fino alle dieci.
Il Mago si diresse all’angolo bar preferito da Sidney, un cantuccio tutto quercia e ottone, specchi luminosi e luce calda. Accennò a sedersi, poi cambiò idea. — Sei rimasto ad aspettare tutta la notte — disse in tono meravigliato. — Perché non mi hai interrotto?
Sidney esitò, coronando abilmente di schiuma i boccali di birra. — Ero troppo affascinato — rispose infine. — Non ho mai visto nessuno suonare musica classica in uno stato di trance come te. E poi, eri magnifico. Una volta ripulito e svuotato il locale, era rilassante stare ad ascoltarti.
— Mi fa piacere. — Sorseggiò con aria assorta la birra gelata e chiese, perché era una domanda priva di complicazioni: — Dove vai, stamattina? A tenere una conferenza da qualche parte, o a frugare il Settore Amazzonia alla ricerca del primo fischietto di latta?
— Vado a casa — rispose semplicemente Sidney. — Ieri mi hanno avvisato che alle dieci di stamattina dovrei ricevere una telefonata da Averno.
— Da Averno… — Il Mago inghiottì la birra troppo in fretta; Sidney gli porse una salvietta. — Come mai? — chiese, dopo aver ripreso fiato; Sidney si strinse allegramente nelle spalle.
— Non ne ho idea. Ho lavorato per parecchie istituzioni governative, ma mai per un carcere.
— Possiedi il club più famoso e più frequentato del Settore Costadoro; forse cominci a farti notare nei posti sbagliati. Hai sbattuto fuori qualche pezzo grosso della mala, di recente?
— Aaron mi avrebbe avvertito. Tiene d’occhio tutti.
— Aaron… — ripeté il Mago in tono bizzarro, e Sidney gli lanciò un’occhiata, sorseggiando la birra.
— Era qui, ieri notte, o meglio stamattina.
— In servizio?
— Non l’hai nemmeno visto?
— Avrei giurato di essere solo…
— Ti è mai successo prima d’ora? Di suonare in trance, voglio dire.
Il Mago lo guardò, incredulo. — Mentre un complesso cerca di arrostirsi davanti a me? Non avrei mai immaginato che sarei riuscito a suonare tutte le Invenzioni, neanche a pagamento. Non ricordo nemmeno di averle mai imparate tutte.
Sidney appoggiò il mento alla mano chiusa. — È stata una esecuzione notevole.
— La cosa strana è che i poliziotti non mi abbiano sparato, anche solo per avere un po’ di silenzio e di tranquillità.
— Aaron ha detto loro che sei un po’ tocco, ma inoffensivo.
Il Mago contrasse le labbra in una smorfia. Intuì di sfuggita nello specchio decorato alle spalle di Sidney l’immagine del proprio viso, una vistosa macchia confusa di vernice e di sudore, e si passò la salvietta sulla faccia. Il viso che ne emerse, teso, attento, curioso, non sembrava nemmeno il suo; gli occhi, del colore indefinito dell’acqua al tramonto, parevano in attesa di qualcosa appena oltre il raggio visivo.
Il Mago lasciò cadere la salvietta e bevve la birra. Gli sembrò di avere le dita più gelate del bicchiere. In quel momento avvertì improvvisamente la mancanza di sonno, il sudore gelido del suo corpo che aveva inseguito la musica con energia e passione per quattro ore, senza di lui. Sidney continuava a guardarlo curiosamente.
— Non ricordi a cosa pensavi?
Il Mago scosse la testa, con uno sbadiglio. — Non pensavo a niente.
— Qualcosa deve averlo innescato — disse Sidney con gentile insistenza, e il Mago avvertì l’eccitazione della mente dell’uomo, brillante, generosa, coscienziosa, che aveva fiutato un mistero musicale. Quel genere di cose rappresentava il suo lavoro, la sua passione, e il Mago frugò a disagio nel proprio cervello stanco in cerca di una risposta.
Ma non c’era niente: il puntino chiaro e scuro che ruotava lentamente contro un’ombra più intensa, il lento ritmo contro il quale aveva indirizzato la propria musica…
— Solo… — Ci rinunciò, scuotendo la testa. — Mi spiace.
— C’era qualcosa.
— Sì. Ma non ha alcun nesso.
— Il si bemolle.
— Era leggermente scordato. Tutto qui. Mi spiace — ripeté.
— Prima o poi te ne ricorderai — disse tranquillamente Sidney. — Credo che niente vada mai perduto del tutto. Nemmeno una nota. Secondo me noi viviamo fra gli echi di tutta la musica mai suonata, proprio come viviamo fra i nostri fantasmi. Nessuno strumento diventa mai obsoleto, nasce sempre qualcuno che tornerà a suonarlo. Tu suoni musica vecchia di centinaia d’anni, che ha indugiato nell’aria per tutto questo tempo, al di sopra di tutti i rumori del mondo, finché ne hai colto un frammento fra rumore e rumore, un’intimazione di esistenza. E poi sei stato spinto a cercarla. Spinto dalla fame.
Il Mago, cullato in un piacevole stato quasi di trance dalla voce di Sidney, fu scosso da quell’ultima parola. Spostò lo sguardo dall’ombra al piano di quercia.
— Fame… — D’un tratto il suo viso sembrò vulnerabile, privo delle difese dell’esperienza, aperto alla suggestione.
— È solo un’idea vaga… sto pensando al punto d’inizio delle cose.
— Quale? Di cosa?
— La ricerca di una cosa amata, desiderata, per cui ci si è sacrificati. Quella per esempio che ti ha posseduto quando eri giovane, spingendoti a imparare quei milioni di note.
— Non…
Sidney si interruppe, perplesso per l’intensità del Mago. — Cosa c’è? — chiese infine. Sembrò che il Mago lo udisse da molto lontano.
— Qualcosa — mormorò.
— Cosa? Cominci a ricordare?
— No. Qualcosa che hai detto tu. Le tue parole. Il punto d’inizio. — Era di nuovo immobile, con il corpo teso, e ascoltava parole dentro la sua mente. A poco a poco le linee del suo viso mutarono, diventarono più definite, familiari. I suoi occhi misero a fuoco la birra, e lui vuotò il bicchiere. Sidney gliene versò un altro.
— C’era un fantasma, annidato in quel piano insieme ai topi; e stanotte e strisciato dentro di me, si è divertito per quattro ore, poi se n’è tornato a dormire. Ecco la tua risposta, Sidney.
— Perché mai — obiettò Sidney — un fantasma vecchio di 75 anni avrebbe dovuto suonare il Cocktail di Hanro?
— Allora Aaron ha ragione. Sono un vecchio pazzo. Sono stato qui troppo a lungo.
— Sciocchezze. Ci sei rimasto solo cinque anni.
Il Mago lo guardò con aria interrogativa. — Cinque anni. Tre anni più di ogni altro complesso.
— Non posso farci niente se i Nova sono l’unico complesso oltre gli Historical Curiosity che dopo sei settimane ho ancora voglia di ascoltare.
Il Mago sorrise. — In vino veritas, come direbbe il Professore. Il padrone di un club famoso confessa che preferirebbe bere birra svaporata anziché ascoltare la musica per cui paga fior di soldoni.
— Pensa a quanto sono migliorati i Nova da quando sei venuto qui. Malgrado tu abbia cambiato cubista nel frattempo.
— Non l’ho cambiata.
— Sì, invece.
— Non dopo essere venuto qui.
— No. La cubista che era con te prima del Giocatore. La prima volta che ti ho ascoltato, nel… dov’era? Quel posto che sembrava una sala mortuaria, con bare al posto di tavolini.
— Ah, la Casa dei Marmi.
— Esatto. La cubista con forcine a forma di cuore nei capelli.
Il Mago annuì, mentre il viso gli si illuminava al ricordo. — La cubista con il viso d’oro… Ha suonato con noi per due anni, finché non ci hai assunti tu.
— Perché l’hai lasciata andar via?
— Non sono riuscito a trattenerla. Era troppo brava… L’ultima volta che ne ho sentito parlare, faceva il giro del Settore con gli Alien Shoe. — Mandò giù la birra, ricordando. — Era giovane, troppo brava per l’età che aveva. Quando la incontrai, aveva già suonato in complessi per tutto il sud del Settore Costadoro. Era venuta al nord per un impulso improvviso, mi disse. Entrò, si sedette con noi, e non l’avrei più lasciata andar via. Era la miglior cubista con cui avessi mai suonato… Ora, credo che i Nova andrebbero abbastanza bene, per lei. Però… — Interruppe bruscamente il corso dei pensieri, e bevve invece altra birra. Sidney finì la frase per lui.
— Però siete solo un complesso da club.
— Non è che voglia lamentarmi — disse mitemente il Mago. — Quale altro proprietario di club rimarrebbe a sentirmi suonare per tutta la notte, e mi offrirebbe birra a colazione?
— Non farci caso — disse Sidney con indulgenza. — Ma se ti metti in testa di farla diventare un’abitudine, chiederò anche a te lo scontrino.
Le pareti tutt’attorno tremolarono al cambiamento di ora. Il color chartreuse si scaldò fino a diventare un arancione acceso che li costrinse a chinare il capo sul boccale di birra.
— Oh Signore — esclamò Sidney in tono infastidito. — Non avevo idea di cosa succedesse qui a quest’ora del mattino.
Il Mago mandò giù un bel po’ della seconda birra, poi si stiracchiò, piacevolmente brillo. — Al tuo posto controllerei il palco, per accertarmi che tutto sia spento.
— Togliti i neurocavi — suggerì Sidney. Il Mago si accorse allora che portava ancora il collare, e se lo tolse arrotolando metodicamente il cavo mentre tornava indietro.
Ricoprì il pianoforte. Il suo tecnico del suono, un uomo allampanato che strascicava le parole e si faceva chiamare Nebraska, aveva già spento tutte le apparecchiature. Il Mago rimase fermo un attimo, guardando con aria accigliata il disordine, come se si aspettasse di vedere qualcosa, ma non ricordasse cosa. Sfiorò il pianoforte, rassicurato dal suo profilo familiare. Poi saltò giù dal palco e raggiunse Sidney, che lavava i due bicchieri. L’uomo li asciugò, li rimise a posto, lanciò un’occhiata amorevole al suo locale già pronto per un’altra nottata.
— Ma prima — mormorò, come ripetendo un appunto mentale — c’è un messaggio da Averno.
Il Mago lo fissò e si sentì rizzare i capelli. Ebbe di nuovo la visione: gli anelli rotanti, chiaro e scuro, che giravano senza rumore dentro e fuori l’ombra della Terra. Quell’accenno aveva provocato in lui un brivido lieve, un tremito psichico. Il brivido terminò, passò, e lui fu di nuovo in grado di parlare.
— Averno — mormorò. — Ecco cosa facevo mentre suonavo.
— Cosa?
— Lo osservavo.
Jason Klyos esaminò con occhio torvo il proprio riflesso sulla parete del bagno. “Undici anni in questa ciambella galleggiante” si disse “e sono ancora intrappolato nel medesimo maledetto specchio. Quand’è che me ne andrò da qui? Quando?” Premette il pulsante dell’intercom e ordinò: — Caffè. Caldo, e subito.
— Sì, signore.
Si sporse ancora un pochino verso lo specchio ed esaminò le venuzze degli occhi. L’attaccatura dei capelli neri retrocedeva sempre di più di anno in anno, come una lenta marea. Non che avesse importanza, lì…
L’intercom emise un segnale, due lievi note musicali. Schiacciò il pulsante con irritazione. — Che c’è?
— Signore, Jeri Halpren.
Jase emise un brontolio, chiedendosi cosa avesse fatto di male per meritarsi la voce di Jeri ancora prima del caffè. Jeri Halpren era il direttore del programma di riabilitazione di Averno, nominato dal GLM; aveva capelli finti, denti finti, e la mattina si svegliava pieno di zelo missionario, che si sforzava di trasmettere a Jase prima ancora che gli si schiarisse il cervello dai sogni della notte. “Adesso ricordo”, pensò quest’ultimo. “Continuo a rimandare. Ho rinviato già tre incontri. Qualcosa che ha a che fare con… l’arte?” Il viso nello specchio aveva un’aria di disgusto, come se il suo proprietario avesse calpestato qualcosa di spiacevole.
— Signore — disse Jeri Halpren in tono di rimprovero. — Avevate promesso che mi avreste incontrato stamattina. So benissimo che non volete essere disturbato con questioni di riabilitazione, ma ieri mi avete detto di mettere in programma questa chiamata. È prevista per le dieci in punto.
— Quale chiamata?
— Vi avevo detto…
— No, non mi avevate detto niente. — Tenne la mano sotto l’acqua, se la passò sul viso. Senza nessun motivo il volto di una ragazza che aveva conosciuto 25 anni prima gli attraversò la mente. Sentì il profumo del sapone e della luce del sole nei suoi capelli, e si scoprì a sorridere. — Ah, sì, ricordo. — “Tutte quelle teste di rapa di scienziati si sbagliano”, pensò. “Il tempo novn è un cerchio né una linea retta. È una boccetta di profumo. Ne cogli una zaffata qui, una là…” — Sì — disse, interrompendo Jeri. — Sì, sì, sì. Autorizzerò la chiamata. Con chi dovrei parlare? Oh, non fateci caso, me lo direte dopo. Sono in bagno. — Interruppe la raffica di proteste e immediatamente l’intercom squillò di nuovo. — Fiamme d’inferno! — imprecò. — Non potete aspettare che raggiunga l’ufficio?
— Signore…
Il segnalatore della porta ronzò, poi si illuminò e passò attraverso il triplice controllo di identità.
— Identità vocale 246-859-7. Johnson, Samuel Nyler. Stato… — cominciò a dire la porta.
— Signore, il caffè!
— Entra! — ruggì Jase, e la chiusura scattò al suono della sua voce. Trasse un respiro profondo, annusando di nuovo il Tempo: vento, e una casa la cui porta non reagiva alle parole. Johnson, Samuel Nyler, occhi cisposi e divisa immacolata, posò sul tavolo il vassoio del caffè. Caffè fresco, non la plasticaccia nera distribuita da una venatura della parete. “Ecco a cosa si riducono i miserabili vantaggi”, pensò. “Al caffè, e al privilegio di fare la conoscenza di qualche genio artistico.” Fra i due, preferiva ancora il caffè.
— Signore — disse l’intercom posto sul tavolo. Si trattava del suo vice, Nils Nilson. Stava per terminare il turno di servizio e aveva una voce stanca. Jason lo trovava simpatico, per cui abbassò il tono di qualche decibel. Il grande sogno di Nils era di prendere il posto di Jase; il sogno di Jase era di lasciarglielo. Ma sulla Terra la ruota che muoveva le fortune degli spaziali era lubrificata dall’infinita malvagità della burocrazia del GLM. Visto che Jase voleva tornare sulla Terra, lo avrebbero tenuto nello spazio per sempre. Visto che Nilson avrebbe svolto un lavoro eccellente come direttore di Averno, avrebbero trovato qualcuno che non ne era all’altezza, per, rimpiazzare Jase quando si fosse ormai ridotto a un vecchio incartapecorito.
— Cosa c’è, Nils?
— Scusate, signore. Un certo dottor A. Fiori chiama da Nuovorizzonte. Vuole parlare con voi personalmente.
— Oh, per… ma che diavolo vuole? Digli di andare all’inferno. — Trangugiò il caffè. Dall’intercom provenne una risatina soffocata. — E va bene. Gli parlerò. Quando sarò riuscito ad andare in ufficio. Non prima. Chi è, a proposito?
— Piazzista di attrezzature — credo.
— E cosa vuole?
— Un ergastolano.
— Digli che non se lo sogni nemmeno.
— Glielo dirò — rispose Nils, con uno sbadiglio.
La stanza rimase in silenzio. Jase bevve il caffè con cautela. Per un attimo si perse in fantasticherie. Pancetta e focacce calde. “Dimagrisco di dieci chili, appena arrivo sulla Terra. Magari mi faccio anche una plastica. Il naso non è poi male. Cambio il colore degli occhi da mrn a vrd. Capelli. Cinquantasei anni, direttore di Averno. Un bel po’ di soldi, e quassù nessun posto dove spenderli. Chiederò il trasferimento al Settore Tramonto. Spiagge. Sole. Oppure al Settore Arcipelago. Tiepide acque azzurre. Forse mi limiterò a dare le dimissioni…” Ma sapeva che non l’avrebbe fatto mai, proprio come sapeva che Averno non l’avrebbe mai lasciato andar via. Malvagità.
Mezz’ora dopo, in ufficio, leggeva sullo schermo della consolle i rapporti dei turni di guardia, mentre Nils, seduto alla scrivania, completava il resoconto scritto della nottata. L’ufficio si trovava nel Mozzo di Averno, la fortezza circolare al centro dei due anelli, collegata a questi ultimi da due raggi: uno per i mezzi di trasporto, e l’altro per le tubature dell’acqua, i generatori, la serra principale. Il Mozzo ruotava sul proprio asse per generare l’effetto gravitazionale. Ospitava il grande computer centrale, l’impianto di telecomunicazione, una piccola armeria, gli alloggiamenti degli ufficiali superiori, e inoltre cucine, serra e generatore autonomo. Conteneva anche un minuscolo scalo, con una spaziolancia sempre pronta. In cinquant’anni, la lancia era stata sostituita 12 volte, ma non era mai stata adoperata.
Per qualche minuto l’ufficio rimase nel silenzio più assoluto. Il tappeto grigio era senza macchia. Non c’era un granello di polvere nemmeno fra i tasti della consolle. L’aria aveva un odore bizzarro. Jase, sconcertato, si scoprì a fare brevi annusate incerte. Chissà che odore era.
Reparto 14BL. Nessun incidente.
Reparto 15AD. Nessun incidente.
Reparto 14CL. Rapporto di incidente, caporeparto P.C. Lawson. Detenuto D186521CL: ustioni superficiali alle mani, provocate da contatto con lo schermo della cella. Curato al reparto F dell’infermeria. Riportato in cella alle 5,47 TMT.
Niente. L’aria riciclata, purificata, non odorava di niente. — Cristo — brontolò Jase, e le dita di Nils si bloccarono sulla tastiera silenziosa.
— Signore?
— Niente. — Batté sulla propria tastiera, esaminò un elenco di ufficiali di sicurezza e di guardie allo scalo per il turno seguente. Poi un rapporto riguardante spaziomobili in arrivo e il loro carico di detenuti. Quindi diede il benestare alla richiesta di due spaziomobili in prossimità della zona L1, e al menù dell’indomani. Poi lesse la relazione di Nils. Niente. Niente.
— Bene. Bene. — Avrebbe voluto dire: sono così stufo che prenderei a morsi il tappeto. Ma di fronte alla frustrazione di Nils sarebbe sembrata crudeltà. Per cui disse invece: — Voglio provare a presentare un’altra richiesta di trasferimento.
L’espressione solitamente seria di Nils si rilassò. — Per dove, stavolta?
— Non lo so. Il polo sud. — Premette il pulsante dei messaggi registrati. Halpren, indicò lo schermo. E di nuovo: Halpren. Poi: UIGLM. - Chi ha chiamato dall’UIGLM?
— Darrel Collins.
— Uhm. Vorrà che mettiamo qualche ergastolano in cella d’isolamento e che gli conficchiamo spilli sotto le unghie per ottenere informazioni. Oppure si tratta di una trappola legale per qualche detenuto temporaneo.
— Perché non glielo chiedete? — suggerì gentilmente Nils, e Jase sorrise.
— Certo che glielo chiederò.
Nilson, anche se aveva terminato il proprio turno, non si mosse. Per un istante l’ambiente rimase tranquillo. Non si accesero spie luminose, non ci furono voci a disturbarlo. Jase si spostò davanti alla propria scrivania, si sedette sul bordo. Nils si allungò contro lo schienale della poltrona ad aria, succhiando un frullato di vitamine. Era un individuo magro, segaligno, rosso di capelli, con la mente concentrata su Averno ventiquattr’ore al giorno. Non capiva la mancanza d’entusiasmo di Jase, ma aveva un genuino rispetto per il suo superiore, e questi si fidava di lui più che di chiunque altro.
— Il polo sud… — mormorò Nils. — Pinguini. Turisti.
— Non capisco perché questo posto ti piaccia tanto.
Nils alzò le spalle. — Non ci sono solo questioni amministrative. Noi siamo la Stazione di Comando di tutte le pattuglie esterne. Credo che mi piaccia premere pulsanti, mandar fuori spaziomobili, farle rientrare con il loro carico di fuorilegge, rispedirle sulla Terra, leggere le relazioni dei processi, riportare indietro i detenuti, rinchiuderli nel posto che spetta loro. Da ragazzo, avevo il banco più ordinato di tutta la scuola. Nella mia collezione di minerali non c’era un granello di polvere. Sotto il mio letto non c’erano mai bioccoli di lanugine.
— Tutto questo dovrebbe significare qualcosa?
— Vi ho solo risposto. Mi piace l’ordine. Tutti i cattivi nella loro cella, e io senza polvere, sudiciume o sangue sulle mani. Ne ho avuto abbastanza sulla Terra.
Jase emise un leggero brontolio. — Se non ti conoscessi, ti manderei a Nuovorizzonte in osservazione.
Nils si batté il dito sulla tempia. — Si tratta solo di questo. Di lavoro di pattuglia con il cervello. Sconfiggere le forze del male mediante il computer.
— Un gioco.
— Mi sono sempre piaciuti i vecchi war games video. Se avessi il vostro posto… — Si interruppe, scuotendo la testa. — Non avrò mai il vostro posto.
— Te lo cederei per colazione, se dipendesse da me.
— Lo so. — Inghiottì le ultime gocce di frullato, rimuginando senza rancore. — Io vi osservo. Lo sapevate? Vi osservo parecchio. Per capire perché voi siete seduto lì e io qui. Sapete cosa penso che sia?
— Qualche idiota della Centrale L.E.
— No. Be’, forse anche questo. Ma si tratta di una qualità che non possiedo. La giusta sensazione di quando è ora di infrangere i regolamenti. L’istinto che vi suggerisce come arrivare al nocciolo del problema. L’avete adoperato quand’eravate di pattuglia, ma non potete adoperarlo qui, ecco perché non riuscite a sopportare il vostro lavoro. Ma è proprio per questo motivo che avete ottenuto il posto. Perché questo luogo potrebbe essere agevolmente diretto da qualcuno con un microchip al posto del cervello; addirittura potrebbe essere diretto da un robot. Ma questo è Averno, l’unica colonia penale isolata, autosufficiente, armata e orbitante; e i burocrati della Terra avevano bisogno che fosse diretta da un essere umano con cui poter parlare.
Jase rifletté su quelle parole, quasi con sorpresa. Poi scosse la testa. — Ottima analisi, ma io non la vedo allo stesso modo. La considero piuttosto una malignità del Fato. Mi piace l’aria libera, e il Fato mi dà aria riciclata. Mi piace l’azione, e il Fato mi dà una scrivania. Mi piace la gente, e ottengo migliaia e migliaia di persone che conosco solo come numeri. Mi piace scoprire i colpevoli, e ottengo criminali già processati e condannati. Mi piace la Terra, e ottengo… be’, forse hai ragione. Forse se cominciassi a comportarmi come un computer, prenderebbero sul serio le mie richieste di trasferimento…
La sua voce si smorzò nel silenzio. Jase fissò il tappeto, senza vederlo. Per un istante gli parve che il silenzio avesse una sua consistenza. Provò un bizzarro senso di disturbo, come se un soffio di aria fresca lo sfiorasse, o un raggio di sole fosse appena svanito dalla stanza priva di finestre. Una cosa totalmente familiare nel posto sbagliato. Venne a galla un nome. Ricordò i primi anni da poliziotto, quando un nome, una parola casuale, un capello su una manica, venivano bruscamente messi a fuoco: un particolare trascurabile che collegava in una catena ininterrotta tutte le informazioni disponibili su un crimine. Proprio allora aveva cominciato a non prendere alla lettera i regolamenti. In quei momenti di intuizione folgorante. Ma perché ora? E…
— Chi diavolo è Fiori?
Nils si alzò e si stiracchiò. — Lo sapete. Quel dottore di Nuovorizzonte. Gli ho detto che l’avreste chiamato prima ancora di sedervi alla scrivania.
— Ah, sì?
— Un tocco di pubbliche relazioni fra spaziali.
— Oh, quello lì. Vuole un detenuto?
— Uno ben preciso. C’è nel messaggio. — Buttò.il bicchiere nello scivolo dei rifiuti. — Ho finito il mio turno.
— Sogni d’oro.
Jase trovò il nome di Fiori fra quelli elencati nella lista delle chiamate di massima priorità. Il messaggio era già bizzarro di per sé.
Richiesta permesso esaminare detenuto Q92814HD2, uso apparecchiatura sperimentale per pazienti Nuovorizzonte. Dottor A. Fiori. Progetto: Cavia.
Cercando di ricavarne un senso, richiamò la pratica del detenuto Q92814HD2. Una donna rapata, smunta, con occhi di un’intensità sorprendente, lo fissò dallo schermo. Jase emise un brontolio. Terra Viridian. L’elenco dei crimini da lei compiuti contro il GLM era interminabile. Assassinio mediante laser in pieno giorno di 1509 fra civili e personale governativo… diserzione… minacce con fucile laser puntato contro il proprio ufficiale comandante… uso di detta arma contro… contro… Un’immagine televisiva del massacro guizzò nella mente di Jase, abbagliandogli per un istante il cervello: lo scheletro carbonizzato della palizzata, il deserto infuocato sotto l’ardente occhio del sole, corpi avvolti dalle fiamme come se un’eruzione solare si fosse estesa per milioni di chilometri fino a baciare il deserto e poi ritrarsi. Per il tentativo di trasformare in luce qualsiasi cosa vedesse sotto l’ardente cielo azzurro di mezzogiorno, la donna era stata rinchiusa a vita, senza appello, fino al suo ultimo respiro, nell’Anello Scuro di Averno.
Si era allontanata dal luogo del massacro ed era salita su una navetta pendolare diretta al Settore Costadoro. Per tre settimane era stata segnalata in tutti i luoghi del mondo: contrabbandava armi in una stazione spaziale segreta di ribelli, e contemporaneamente scalava una montagna del Settore Drago per raggiungere un monastero dove espiare i peccati. Poi, nel sud del Settore Costadoro, due poliziotti avevano arrestato una vagabonda che frugava in un bidone di riciclaggio inceppato cercando qualcosa da mangiare. Quando si era ribellata, l’avevano portata dentro, con l’accusa di resistenza aria forza pubblica e possesso di un’arma illegale. Poi avevano scoperto chi era.
Terra Viridian. L’arma illegale era un coltello piegato con cui aveva fatto inceppare il bidone di riciclaggio…
Era su Ayerno da sette anni. Nessun incidente, nessun infortunio. Nessuna comunicazione dal mondo esterno. Consumava i pasti, quindi era viva. Jason fissava lo schermo, ricordando il sensazionale processo. La Pazza contro il Governo Libero Mondiale. Era rimasto disgustato quando l’avevano mandata su Averne La donna era fuori di senno, si era rifugiata in un universo differente. Non si rendeva nemmeno conto di dove si trovava, per cui non poteva aver niente a che fare con Averno. Ma il Settore Deserto aveva minacciato di staccarsi dal GLM, portando con sé petrolio, miniere e commercio, e quindi il Governo l’aveva dichiarata sana di mente e pienamente responsabile delle proprie azioni. La donna se ne stava seduta in silenzio nell’Anello Scuro, sola con le proprie visioni, e dava meno fastidi che se fosse stata sepolta. E ora un dottor Fiori qualunque voleva mettersi a giocherellare con il suo cervello, costringendola a capire esattamente dove si trovava. Per i prossimi cinquant’anni, o cento. L’Anello Scuro. Nessuna possibilità d’appello.
Jase premette un pulsante luminoso dell’intercom. — Linea esterna. Klyos.
— Identità vocale tre. Confermato.
— Collegamento con Nuovorizzonte. Jason Klyos, per il dottor A. Fiori.
Nuovorizzonte si librava appropriatamente nell’ombra della Luna, un posto tranquillo, finanziato da capitali privati e sostenuto dal GLM, per lo studio della pazzia criminale. — Collegamento — disse qualche istante dopo l’intercom. — Il dottor Fiori.
— Direttore Klyos, grazie per avermi richiamato. — Fiori era un uomo di mezz’età che ignorava l’Ultima moda in fatto di visi, e aveva l’aria di chi è rimasto sveglio per giorni interi. Aveva capelli ricci che cominciavano a diradarsi, e un’ombra scura sotto gli occhi. Il suo sorriso allegro sembrava forzato. Parlava in continuazione senza aver l’aria di respirare. Jase si sforzò di afferrare i punti salienti. Alla fine riuscì a interromperlo, arginando quel fiotto di parole.
— Il detenuto non può lasciare Averno a nessuna condizione.
— Lo so, maledizione. Non importa… lì o qui, probabilmente è incurabile. Porteremo le nostre apparecchiature lì da voi.
— Ah, sì? E dove intendete sistemarle? Nella mia camera da letto?
Il dottor Fiori si interruppe, stupito. — Be’, no. Non è che siano poi così ingombranti. Di certo potrete metterci a disposizione una cella.
— Dottor Fiori, Averno non è un istituto di ricerca. La gente viene mandata qui per punizione, non per far da cavia. Non sono sicuro che il vostro progetto sia interamente legale.
— Legalità… — Il dottor Fiori proruppe in una risata incredula. — La donna è pazza. Non dovrebbe nemmeno esserci, su Averno.
— È stata processata e condannata secondo le leggi del GLM. La legge non parla di esperimenti su detenuti.
— Direttore Klyos, la tratteremo con la stessa cura riservata ai nostri pazienti.
— E allora perché non vi servite di un vostro paziente? — Colse il dottor Fiori a bocca aperta, in cerca della risposta adatta, e aggiunse scandendo bene le parole: — Dottor Fiori, questa conversazione viene registrata per l’archivio di Averno. Io non ho conversazioni private. Tutte le conversazioni riguardanti i detenuti possono essere usate in tribunale come prova a qualsiasi titolo.
Il dottor Fiori si ricordò finalmente di chiudere la bocca. — È una minaccia? — chiese, disorientato. — Ho fatto qualcosa di sbagliato?
Jase si appoggiò allo schienale della poltrona. — No. Vi ho solo detto una cosa che non sapevate. Abbiamo istruzioni ben precise su come trattare i detenuti, qui. Il GLM non apprezza che si infrangano i regolamenti. Il GLM non gradisce che qui si prendano iniziative non pianificate in precedenza da loro. Allora, voi volete servirvi di un nostro detenuto a vita per provare un biocomputer ancora allo stadio sperimentale. Io sono tutto sommato un uomo semplice. Potete spiegarmi in linguaggio elementare di che si tratta?
— Be’… — Il rapido flusso di parole lasciò posto a un’attenta concentrazione. — L’apparecchiatura trasforma gli impulsi chimici, nervosi ed elettrici del cervello in immagini su uno schermo. L’abbiamo chiamata la Macchina dei Sogni. Mi spiego. Supponiamo che vi mostri una pagnotta. La Macchina dei Sogni effettua una registrazione della vostra reazione. Vi mostra migliaia di immagini e registra le vostre reazioni. Poi, quando pensate o sognate, la Macchina può accoppiare gli schemi prodotti dal vostro cervello con le immagini che ha già immagazzinato, e tradurre in immagini la vostra attività cerebrale. Vi sembra una cosa pericolosa?
— Mi sembra affascinante.
La voce del dottor Fiori perse la debole traccia di diffidenza. — Naturalmente il linguaggio è inevitabilmente poco preciso. Voi e io non potremmo mai immaginare la medesima pagnotta. Ma non è possibile perfezionare ulteriormente la Macchina dei Sogni in modo che sia d’aiuto ai nostri pazienti senza servirci di una cavia. E Nuovorizzonte, che pur ricevendo qualche aiuto dal GLM non è un’istituzione governativa…
— Vi preoccupate delle conseguenze legali.
— Esattamente.
La franchezza della risposta strappò a Jase un sorriso. — Per cui volete servirvi di un ergastolano privo di diritti legali sulla Terra. Scommetto che parecchi detenuti dell’Anello Scuro sono candidati potenziali per Nuovorizzonte. Perché proprio lei?
— Perché lei… perché ricordo il suo processo. Usava un linguaggio personale, particolarmente immaginifico, ricco di simbologia. Lei è perfetta. E non ha famiglia.
— Secondo i documenti, ha una sorella sulla Terra. Non schedata, e senza residenza conosciuta. In sette anni nessuno ha cercato di comunicare con la detenuta. Né lettere, né telefonate, né richieste di lasciapassare per visitatori. Nemmeno gli auguri di Natale dagli avvocati. Niente.
— È una derelitta. Nessuno si cura di lei. Può essere impiegata per aiutare altri pazienti. Forse addirittura curata.
— Spero di no — disse Jase bruscamente. — Per il suo bene. Incurabile o curata, non lascerà mai più l’Anello Scuro. — Si interruppe. Il viso stanco sullo schermo attese con aria speranzosa. — Bene. Dipendesse da me, la lascerei in pace. Da pazza ha ucciso, da pazza è stata incarcerata… la punizione riguarderebbe sempre lo stesso tipo di personalità. Ma non dipende da me. Non posso darvi il permesso.
— Ah.
— Non ho l’autorità di prendere una decisione del genere. E c’è un altro punto. Se otterrete il permesso, probabilmente riusciremo a trovare un posto per le vostre apparecchiature. Ma lo spazio per il personale sarà limitato, e non posso lasciarvi adoperare il nostro computer.
— La Macchina dei Sogni è autosufficiente. Però — aggiunse il dottor Fiori in tono piuttosto lamentoso — adesso a chi devo rivolgermi?
— Fatemi pensare… Qualcuno dell’UIGLM. Ah. — Sorrise. — Chiedete a Darrel Collins. Lui sa certamente a chi dovreste rivolgervi. Gli dirò di aspettarsi una chiamata da parte vostra. Penso che mi debba un favore.
Rispose con un brontolio di impazienza ai ringraziamenti del dottor Fiori e passò alla chiamata successiva, l’Ufficio Investigativo del Governo Libero Mondiale. Come sospettava, Collins si guardò bene dall’ammettere che gli doveva favori. Invece chiese in cambio ospitalità per se stesso e per tre legali, e un’ora di conversazione privata in una stanza chiusa con un certo Harl Tak, detenuto nell’Anello Chiaro, condannato a 49 anni, sentenza non commutata, capo di una gang di spacciatori di sabbia d’argento. Jase gli diede un codice d’entrata e il nominativo del dottor Fiori; e scoprì, mentre il viso di Collins svaniva dallo schermo, che dall’intercom una decina di spie luminose ammiccavano verso di lui. Mezz’ora dopo risollevò lo sguardo, e si trovò davanti alla scrivania Jeri Halpren.
— Ah — disse senza entusiasmo.
— Sono le dieci.
— Devo…
— Avete promesso — disse Jeri, inflessibile. — La chiamata è in lista. Sta per arrivare. — Sbatté le palpebre una volta, con aria nervosa, e aggiunse: — Volete sapere con chi parlerete?
Jase ingoiò un’imprecazione. — Non me ne frega niente.
— Sidney Halleck. — Si interruppe. Dopo qualche istante Jase sospirò.
— Chi?
Jeri smise di sorridere. — Sidney Halleck. — Poi si sporse sulla scrivania di Jase e cominciò: — È un’autorità sulle influenze uditive ambientali, raccomandato dall’ufficio artistico del GLM nonché dall’Ente istituzioni sociali del GLM. Musicologo, compositore, inventore; possiede la più vasta collezione mondiale di strumenti musicali, e ha progettato il Constellation Club del Settore Costadoro, di cui è anche proprietario…
— Possiede il Settore Costadoro?
— No. Il Constellation Club. Lì va gente dà tutto il mondo. Venti complessi ogni notte, approdo privato per spaziolance…
— Perché diamine — disse Jase con voce inespressiva — vuoi che parli con un musicista?
Jeri si bloccò. Inspirò a fondo e deglutì. — Musicista. — Trasse un altro respiro profondo. Poi si diede qualche colpetto sull’orecchio. — Suoni. — Per un attimo Jase si chiese se a Jeri non si fosse inceppata la lingua. Poi l’altro divenne freddamente loquace. — Sono il vostro direttore di riabilitazione. Per detenuti da reinserire nella società terrestre. Sulla Terra ci sono rumori. Quassù non ce ne sono.
“A parte i tuoi”, pensò Jase.
— Sidney Halleck ha compiuto per conto di commissioni governative alcuni studi relativi all’effetto del rumore di fondo sui lavoratori in ogni tipo di ambiente. Secondo la sua teoria, la mancanza di rumori naturali e familiari è debilitante quanto la presenza di rumori troppo intensi e diversificati. Secondo la mia, il brusco passaggio dal silenzio quasi totale di Averno al caos auricolare del…
— Al che cosa?
Jeri sospirò. — Il frastuono della Terra potrebbe contribuire al senso di isolamento e di emarginazione sociale che provano gli ex-detenuti. Averno ha solo 50 anni. La maggior parte degli exdetenuti erano stati allontanati dalla Terra per motivi gravi, e sono rimasti qui mediamente per 30 anni. Riceviamo solo adesso la prima ondata delle analisi del nostro programma di riabilitazione.
Jase emise un brontolio. — Non ho mai sentito silenzio, qui attorno. Cosa devo fare, secondo te? Mandar giù un po’ di detenuti al suo night club?
— Per piacere! — disse Jeri in tono freddo. — Cercate solo di essere cortese con lui. Chiedetegli se può perdere qualche minuto a parlare con me.
— D’accordo — disse Jase. — D’accordo, d’accordo. Sidney Halleck. — Nonostante tutto era incuriosito. — Sembra quasi che la faccenda abbia un senso. Conosci qualche esperto di aria?
— Aria?
— Presenza o assenza di odori familiari, naturali? — Sullo schermo arrivò la chiamata. Un faccione bonario si girò a osservare Jase con sguardo indagatore, e subito ne avvertì l’occhiata severa, professionale. Sidney Halleck portava scritta in faccia la storia della sua vita, una cosa fuori moda sulla Terra, e a Jase. sembrò che rispecchiasse intelligenza, buonumore e cordialità.
— Signor Halleck.
— Direttore Klyos? — disse Sidney. La voce calma e profonda suonò perplessa ma cortese. — Cosa posso fare per voi?
— Non so niente di musica, ma mi dicono che è un onore conoscervi.
— Da bambino avrete certamente canticchiato qualche filastrocca. Quindi di musica un pochino ne sapete.
— No.
— Oh.
— Signor Halleck — disse Jase con cura, cercando di ricordare lo sproloquio di Jeri. — Ci siete stato raccomandato dall’ufficio artistico del GLM e dall’Ente governativo per… ah… le istituzioni sociali. Vorrei che parlaste per qualche minuto con il nostro direttore di riabilitazione, il dottor Jeri Halpren. Sta sperimentando un nuovo programma per reclusi in attesa di reinserimento nella società terrestre. Posso passarvelo?
— Prego — disse Sidney Halleck, stupito. — Ma non so proprio come potrei essergli d’aiuto. Non conosco niente, sulle prigioni, però…
— Vi spiegherà lui. — Jase lanciò un’occhiata a Jeri, che lo fissava con incredulità e stupore. Si sforzò di mantenere un tono cortese. — Vi ringrazio molto, signor Halleck. È stato un piacere… Oh! — Si interruppe, sorpreso. — Mi venga un colpo!
— Prego?
— Mi è appena tornata in mente una poesiola.
Sidney sorrise cordialmente. — Il cervello è un meraviglioso deposito di cianfrusaglie.
— Davvero.
— Che canzoncina era?
— Ah… parlava di crostate. La Regina di Cuori preparò le crostate in un giorno d’estate… Però, signor Halleck, è una filastrocca senza musica.
— A rigor di termini, è vero — disse Sidney in tono di scusa. — Avete ragione. Ma ha un certo ritmo, e se definiamo la musica come una successione o uno schema di intervalli sonori disposti secondo un ritmo prevedibile o variato, ci siamo quasi con La Regina di Cuori, giusto? Mentre una poesiola come Giro giro matto.…
— Oh, già… la scimmia caccia il ratto…
— Ha in realtà una melodia propria. Ricordate?
— Come diavolo era il verso seguente? — Rimasero tutt’e due in silenzio, a pensarci. Poi Jase si accorse che accanto a lui Jeri cominciava ad agitarsi. Gli lanciò un’occhiata. — Ah — disse. — Il direttore della riabilitazione diventa irrequieto. Signor Halleck…
— Sidney, vi prego.
— Sidney, se decidete di visitare Averno, spero di poter chiacchierare ancora con voi.
— Mi auguro di poter essere d’aiuto. Buon giorno, direttore Klyos.
Jase passò la linea a Jeri e si alzò per allontanarsi dalla sua irritante voce nasale. Qual era il verso? La scimmia caccia il ratto… E chi era la Regina di Cuori? Continuò a ripetersi la domanda con lo sguardo fisso nel vuoto, finché fu colpito dalla totale assurdità del proprio comportamento: restarsene lì impalato nel Mozzo di Averno a cercare di scoprire l’identità del personaggio di una poesiola infantile.
Però, si disse intestardendosi, sottintendevano sempre qualcosa, tutte quelle filastrocche. Non era così? Politica, calamità, incendio, vita e morte… Soffocò l’impulso di interrompere la conversazione di Jeri, ma alla fine cedette, proprio nel momento in cui l’altro interrompeva il contatto e diceva: Verrà qui. — Il suo sorriso si allargò di fronte all’intensa irritazione di Jeri e si smorzò. — Ho fatto qualcosa di male?
— Volevo chiedergli una cosa. Volevo chiedergli… — Mosse la mano. — Non farci caso. È ridicolo. — Ma la filastrocca gli stuzzicò di nuovo il cervello, mentre riprendeva il lavoro. La scimmia caccia il ratto… Solo che lui dava la caccia anche alla Regina di Cuori. E… Pop!
Spariti.
Aggrottò severamente le ciglia, scacciando l’immagine bizzarra, e si concentrò sul monotono, cruciale tran-tran di Averno.
Il Mago era steso sulla schiena sotto il pannello dei comandi del Pianto volante quando Aaron Fisher salì la rampa e bussò al portello aperto. Non ricevendo risposta dal corpo steso sotto il pannello, Aaron entrò nella spaziolancia. Mentre varcava la soglia risuonò un sommesso e antico miscuglio di corni e trombe. Il Mago depose il saldatore laser e rotolò fuori troppo bruscamente, battendo la testa.
— Ahi, accidenti ai guasti… Ciao, Aaron. — Si alzò e sorrise, tendendo la mano e strofinandosi la testa.
— Tutto a posto?
— Sopravvivrò. — Ruotò il sedile del capitano, lanciando un’occhiata all’uniforme sgualcita di Aaron. — Siediti. O sei in servizio?
Aaron scosse la testa, con aria stanca. — Sto tornando a casa.
— Caffè?
— Sì. Anzi, no. Hai una birra gelata?
— Te la prendo subito. — Si trattenne un momento, massaggiandosi sempre la testa con aria assente e un’espressione bizzarra. — Spero che ti sia piaciuto il concerto dell’altra notte.
Aaron sorrise brevemente al ricordo, con aria meravigliata. — Fino a che ora hai continuato?
— Fino alle sei del mattino. Sidney era ancora lì.
— Cosa combinavi? Semplice curiosità professionale.
— Niente. Alla fine ho deciso che uno dei neurocavi deve avermi fatto scattare qualcosa nel cervello, perché la musica non voleva saperne di smettere. Ma qui ho fatto delle prove, e non mi è successo niente.
Il sorriso di Aaron si spense. — Fai attenzione — disse, e gli occhi del Mago cambiarono, concentrandosi con inconscia curiosità sul poliziotto. Il viso di Aaron si spostò di una frazione di centimetro verso la calda luce del mattino che entrava dal portello aperto e colpiva il suo sedile. Il raggio di luce era piacevole, non ancora troppo caldo. L’aria attorno allo scalo, che più tardi avrebbe puzzato di asfalto, gas di scarico, prodotti chimici, adesso portava con sé un fresco sentore di mare. Il poliziotto, sentendo ancora su di sé lo sguardo curioso e interrogativo, si girò per affrontarlo. Ma il Mago era sparito; Aaron udì provenire dalla minuscola cucina il fruscio della ghiacciaia aperta. Si sistemò meglio sul sedile, senza guardare niente in particolare.
Era un uomo alto, snello e robusto, con un viso amabile e aggressivo insieme. Portava un bel paio di baffi scuri all’antica, e non si preoccupava di far scomparire le rughe profonde dell’età. I suoi occhi riflettevano il colore dell’ambiente. In quel momento, circondati dal grigio e argento del Pianto volante, erano scuri.
— Hai cambiato campanello — disse, quando il Mago tornò con la birra.
— Mormorto d’acqua di Händel. - Ruotò il sedile del navigatore e si sedette. Aaron accennò al saldatore.
— Problemi?
— Il sistema di comunicazione. La ricevente è vecchia.
— Tutta la spaziomobile è vecchia. Ho fatto i miei voli d’addestramento su un modello uguale a questo, 13 anni fa. Brutta, ma affidabile. Averno cambia modello ogni quattro o cinque anni; questo qui era uno dei migliori.
— È così brutta — disse il Mago amorevolmente. — L’ho avuta in cambio di una canzone. — Si stiracchiò contro il cuoio consunto e posò i piedi sulla cassetta per gli attrezzi. Per un istante parve perdersi in un mondo di sogno, e il suo viso divenne indecifrabile e quasi amorfo; teneva lo sguardo fisso sul caffè come se vi vedesse dentro panorami galleggianti.
— Cos’è successo stanotte? — chiese improvvisamente.
— Un cecchino.
— Chi è morto?
— Un… — Si interruppe e bevve una sorsata di birra. Poi guardò il Mago, perplesso, sulla difensiva. Il Mago continuava a fissare con aria assente la tazzina, ma sul suo viso le rughe erano diventate più marcate. Aaron completò piano la frase. — Un poliziotto.
Il Mago gli lanciò una rapida occhiata. — Uno che conoscevi?
— Non molto bene. Era stato trasferito da poco alla stazione; l’avevano messo insieme a me per la notte. Ho dovuto riportarlo indietro d’urgenza. È morto lungo la strada.
— Vi hanno sparato in volo?
— Il cecchino era in elicar. Per fortuna il traffico era scarso. — Alzò la bottiglia di birra. Se la portò alle labbra, l’abbassò senza bere. Aggiunse, come se il silenzio fosse diventato d’un tratto minaccioso: — Ha usato un fucile laser. — Il Mago emise un brontolio di gola, senza parole. Aaron aprì la mano, quasi a respingere il ricordo. — Il cecchino non… nella sua scheda c’erano solo multe per atterraggio vietato. Non covava vecchi rancori, non era drogato, svolgeva un normale lavoro quotidiano… non aveva motivo per spararci addosso. È già successo che qualche giovinastro mi abbia sparato addosso solo perché non aveva voglia di pagare un pacchetto di sigarette. Vado in bestia, quand’è così. Ma fatti come questo, uccidere, restare uccisi, senza nessun motivo al mondo, nessunissimo motivo, sono la cosa peggiore che possa capitare.
Alzò di nuovo la bottiglia, e questa volta bevve. Il Mago lo guardò quasi incuriosito, come se stesse ascoltando un accordo che, nonostante la sua ampia conoscenza musicale, non riusciva a inquadrare. Disse, con comprensione: — Sei stato fortunato a non saltare per aria.
— Fortuna… Cosa significa, in realtà?
— Vuoi dire che il caso è solo questione di caso?
— È una domanda trita e ritrita, no? — Si mosse, scostandosi ancora, ma aveva aggrottato intensamente le sopracciglia a un ricordo che si formava nella luce del sole. — Potevo vedere… potevo vedere il tempo rallentare. Mentre ero sotto tiro. I secondi si allungavano… Magico Capo, ti giuro che ho visto il raggio laser tagliare l’aria centimetro per centimetro. Quello che ha ucciso. Non l’avrei mai visto in quel modo se non avessi saputo che avrebbe fatto centro. Ma come facevo a saperlo? Sapevo che avrebbe ucciso, e sapevo che non sarei stato io a morire. Come mai?
— Ho sentito parlare di cose del genere — disse piano il Mago. — Non le ho mai capite.
Aaron distolse l’attenzione dalla luce. — Mi era già capitato una o due volte. Ma ogni volta ne resto stupito. Sono costretto a chiedermi… quali altre cose conosco senza rendermene conto…
— Oppure, mentre sei impegnato a cercare altro, quali cose possono sfuggirti.
Aaron lo guardò. La luce diventava più intensa, si spargeva sul suo viso, gli portava via l’espressione e quasi tutto il colore dagli occhi. Rimase in silenzio per qualche istante. Il Mago sentì che raccoglieva il respiro e lo tratteneva, prima di formare le parole: — Tu come fai?
— Che cosa?
— A sapere le cose… prima che decida di raccontartele.
— Davvero?
Ci fu un altro silenzio. Poi Aaron continuò in tono asciutto: — Ti dico buon giorno, e mi chiedi chi è morto.
— Ah, capisco. — Alzò appena le spalle e si batté il dito sull’orecchio. — Faccio attenzione ai suoni. Era nella tua voce.
Aaron scosse la testa. — Non avevo ancora parlato. E tu fissavi il tuo caffè. Mi pagano per notare le cose. L’hai raccolto dall’aria. Non è la prima volta.
Il Mago sorrise. — Perché? Nascondi qualche tenebroso segreto che non vuoi che scopra accidentalmente? A questo punto, potresti anche confessarmelo, visto che… — Cambiò espressione mentre Aaron si spostava. Guardò accigliato il caffè ormai freddo, tendendo l’orecchio al silenzio che era sceso fra loro. Ma era un silenzio vuoto, che non gli offriva spunti. — Succede e basta, a volte — disse infine. — Tutto qui. Da quanto tempo ci conosciamo?
— Non so. Quattro, cinque anni. Da quando è nata l’idea di far fare ai poliziotti una parte del turno a piedi. Entrai nel Constellation Club e tu eri lì, e suonavi Bach e diventavi arancione.
Il Mago ridacchiò. — Se ero arancione, non era Bach. Cinque anni. Se uno del mio complesso fosse morto, e io fossi venuto da te la mattina dopo a dirti che era una bella giornata, come diavolo avresti reagito?
Aaron scosse la testa, nient’affatto convinto. — Non è solo questo…
— D’accordo. Certo che non è così semplice. Ma non è nemmeno così importante, e non ti tormenterebbe se tu non avessi qualcosa… — Si alzò improvvisamente, voltandogli la schiena. — Questo caffè sembra olio lubrificante. Aspetta un momento. E poi — aggiunse alzando la voce per superare i rumori del cucinino — nemmeno io ci faccia mai molta attenzione. Odio mettere in disordine la mia vita con quello che c’è nella testa di altra gente. Mi interessano la musica e il denaro. In quest’ordine. — Ricomparve con una nuova tazzina. — Forse, in quest’ordine.
— Il denaro ti piace — disse Aaron. La luce calda aveva risvegliato un po’ di colore sul suo viso; gli occhi arrossati sembravano sopportare un po’ meglio la mancanza di sonno. — Ma per la musica venderesti l’anima… se ne avessi una.
Il Mago si sedette. Esaminò l’interno consunto e rappezzato del Pianto volante con orgoglio, compiaciuto. — Se ho davvero un’anima — disse — ci siamo seduti dentro.
Aaron sorrise. Nella sua mente, il fuoco del cecchino lacerava l’aria buia come stoffa, ma il suo corpo non reagiva più al ricordo. Quelle immagini avrebbero accompagnato anche il suo ultimo pensiero da sveglio, lo sapeva, ma per il momento la compagnia del Mago le teneva a bada. — Suoni, stasera? — chiese. — I miei programmi cambiano talmente in fretta che non riesco a tenere a mente i tuoi.
Il Mago annuì. — Stanotte c’è il poker, al Constellation Club.
— Di nuovo?
— Cerco di insegnare a Sidney Halleck come si gioca a poker, una volta alla settimana durante gli intervalli, quando non è in giro a fare conferenze.
— Sidney vuole imparare a giocare a poker? E perché?
Il Mago si strinse nelle spalle. — Ha approfittato di cinque minuti in cui il suo cervello non aveva niente da fare, e si è interessato alle carte. Se in quel momento invece di giocare a poker avessi suonato la cetra tirolese, si sarebbe interessato alle cetre.
— Cos’è una cetra tirolese?
— Una specie di autoarpa.
— Ah — disse Aaron senza espressione.
Il Mago sorseggiò il caffè e continuò: — Pensa un po’, Sidney ha davvero una cetra tirolese. E lì che l’ho vista, nella sua collezione. Probabilmente possiede anche il tronco che qualcuno scavò per ricavarne un tamburo un milione di anni fa.
— Che cos’è un…
— Una cassa di risonanza piatta con un assortimento di cordicelle. Antiquata quanto il corno ricurvo. Sidney dice che ne ha trovato uno in una soffitta.
— Per gente come noi è già duro trovare una soffitta.
— Sidney è una calamita. Lui pensa a quello che vuole trovare, ed è l’oggetto stesso che trova lui.
— Allora sarà un giocatore di poker strepitoso.
Il Mago scoppiò a ridere. — È terribile. Non vuole niente di quello che le carte possono dargli.
— Pensa a quello che vuole… e l’oggetto trova lui?
— Secondo Sidney, sì. Lo conosci. Noi tutti vogliamo fama, denaro, potere… Sidney vuole uno strumento di 900 anni fa che gracida come una raganella. E la vita glielo dà, oltre a fama, denaro, potere…
— C’è una morale, in questo?
— Mi piacerebbe saperlo.
— Perché? Tu cos’è che vuoi, e che non hai avuto?
— Un cambiamento — disse il Mago, semplicemente. — Suoniamo al Constellation Club da cinque anni. Complessi come i Cygnus e gli Alien Shoe fanno tournée spaziali sfruttando solo tre accorai. Anche a me piacerebbero orchidee e alberghi orbitali, per non parlare del denaro. Forse allora avrei una spaziolancia con la ricevente che funziona. — Lanciò un’occhiata cupa al pannello sventrato. Aaron posò la bottiglia vuota e si stiracchiò. — Dimmi se ti serve… — Uno sbadiglio soffocò il resto della frase. Aaron batté vagamente le palpebre alla luce danzante. — Oddio — disse con gratitudine. — Sembra che il sonno stia arrivando, finalmente.
— Vuoi un’altra birra?
Aaron scosse la testa. — Devo andarmene. — Però rimase, accorgendosi solo allora delle sfumature musicali che continuavano a tremolare ai margini del silenzio dentro il Pianto volante. Si girò per fare una domanda e vide che il Mago era già in movimento.
Aveva fatto ruotare il sedile, e muoveva le dita secondo uno schema ben preciso lungo la fila di pulsanti luminosi accanto al pannello di comando. Il pannello si aprì mettendo in mostra un’antiquata tastiera bianca e nera. Il Mago sfiorò alcuni tasti. Un riflettore sopra il portello principale ruotò lentamente per intercettare la luce.
Aaron sorrise, sia al grazioso sincronismo fra meccanismo e musica, sia all’imperturbabile soddisfazione del Mago per la propria opera. Il Mago staccò la tastiera dalla corrente della lancia e diede un’occhiata ad Aaron, come se ne approvasse il pensiero. Poi distolse completamente l’attenzione dal mondo circostante. Acquistò un’espressione distaccata, contemplativa. Allungò le mani a caso sui tasti, modellò lentamente i suoni in qualcosa di più complesso, più elegante, e -sospettò Aaron — di qualche secolo più vecchio del GLM. Per un istante la mente affaticata del poliziotto provò un po’ di sollievo, e persino il tozzo e ammaccato veicolo spaziale acquistò dignità sotto l’incantesimo del Mago.
Aaron se ne andò, e il Mago suonava ancora.
Quando Aaron si svegliò, a metà pomeriggio, nel cielo si addensava una nebbia estiva.
Il poliziotto la stava guardando mentre si vestiva. Abitava più in alto della città vera e propria, in uno dei giganteschi ghetti del GLM che come ragni alieni sovrastavano gli edifici più bassi; gli archi si intersecavano e si appoggiavano l’uno all’altro per resistere ai terremoti, e la loro sagoma agile occupava cielo, anziché terra. Aaron aveva una stanzetta vicino alla sommità di un arco. Non conteneva molto, oltre al letto e a un computer di dotazione governativa. Era rivolta a occidente; nelle serate calde lui poteva guardare l’orizzonte risplendere di bizzarri colori mentre il sole tramontava dietro la caligine prodotta dalle fabbriche marine. Il Settore Costadoro era largo 500 chilometri e lungo 1500. La parte settentrionale, in cui Aaron viveva, era infestata dal testardo fantasma dei tempi pre-GLM, diventato estremamente elusivo nel volgere di un secolo. Ma persino Aaron, scarsamente dotato d’immaginazione, riusciva a percepirlo di tanto in tanto nel sospiro della marea, nella nebbia silenziosa che si librava lungo antiche strade che portavano sempre al mare.
Ora la nebbia ondeggiava come piuma attraverso gli immensi archi dei ghetti. Aaron la guardava distrattamente, e i suoi occhi ne riflettevano il colore smorto. D’improvviso si girò, con un movimento vivace e aggraziato, staccandosi dalla nebbia, negando con il corpo il silenzio gelido che gli vagava nella testa.
Mancavano tre ore all’inizio del turno di notte. Aaron si calò nel cielo lattiginoso. Gli piaceva volare velocemente; aveva inseguito delinquenti e guidatori ubriachi fino al limite gravitazionale e li aveva riportati indietro sotto lune luminose, cieli stellati da capogiro. Ma la pallida coltre di nebbia che saliva dal mare tramutava la lunga sera estiva in una confusione amorfa di bianco e d’ombra. Attorno a lui il traffico aereo scorreva con cautela, lente gocce di luce indistinta. Si innalzò ancora e il mondo in cui abitava svanì.
Un’unica sirena ruggì come un dinosauro nella nebbia. Era antiquata, tenuta in funzione solo da un’interminabile disputa fra la burocrazia del Settore e quella del GLM. Si diceva che annunciasse navi fantasma, vite che scaturivano dall’acqua salmastra di tempi andati. Lanciò ad Aaron avvertimenti sempre più fiochi, anche se egualmente indispensabili, mentre lui volava verso occidente. Aaron atterrò finalmente sopra un promontorio e uscì. I frangiflutti davanti alle fabbriche marine e agli impianti di depurazione avevano smorzato le ondate, ma l’oceano poteva ancora intrecciare un’aspra frusta di vento e spuma. Aaron rimase qualche istante a gustare il freddo, insensibile al suo morso. Aguzzò gli occhi in cerca di vele marcite, di scafi arrugginiti. Ma i fantasmi rimasero nascosti sotto la superficie del mare.
Si girò, si diresse a una botola e sparì nel sottosuolo. La scogliera gli sembrava un luogo ridicolo per costruirvi un rifugio antiatomico, ma un centinaio d’anni prima doveva esserci stato più terreno fra il rifugio e il mare. Ancora poche stagioni piovose, e il restante cuneo di terra, rifugio compreso, sarebbe stato trascinato in mare. Ma per il momento gli tornava comodo.
Uno schermo accessorio si aprì al suono della sua voce e fece scattare le luci nel soffitto. Entrando, Aaron notò sulla consolle una spia intermittente che segnalava la presenza di messaggi. Prese un tramezzino dal congelatore, lo mise nel forno a microonde, poi lesse i messaggi.
C’erano due rapporti: uno dal Settore Costa Orientale, e uno dalle colonie sugli asteroidi. Lesse per primo il messaggio delle colonie.
Esaminò in silenzio l’elenco dei recenti aspiranti ai vari posti di lavoro nelle colonie. Sette avevano compiuto il lungo viaggio dalla Terra, 80 erano stati rifiutati. I motivi del rifiuto erano in teoria informazioni confidenziali, ma agli occhi del GLM un cittadino che chiedeva riserbo probabilmente stava combinando qualcosa. Aaron aveva mascherato il proprio istinto profondo di conservare una personale vita privata con l’uniforme da dipendente governativo. Nessuno gli poneva domande, e lui aveva accesso a una quantità infinita di informazioni riservate.
Età, descrizione fisica, esperienze di lavoro, retroterra familiare, profilo medico e psicologico: esaminò le schede di 87 estranei, poi si appoggiò allo schienale con un sospiro. Niente. La donna non si trovava nelle colonie minerarie, e nemmeno aveva fatto domanda per andarci. Il tramezzino era ancora freddo, nel forno a microonde, ma almeno si era scongelato. Lo mangiò meccanicamente.
Poi chiamò Raymond Takuda, il capo della polizia del Settore Costa Orientale.
— Lascia perdere, Aaron — brontolò Takuda. Aveva il viso segnato, duro, lustro come legno di noce, dopo mezzo secolo di servizio. — Hai seguito quella teoria di un complotto per anni, senza il minimo risultato.
— Non posso lasciar perdere — mentì Aaron. — Ho sempre l’incarico. E poi, la donna non è stata ancora ritrovata.
— Forse ha cambiato sesso. Forse è morta.
— Ho controllato le registrazioni di ospedali e obitori di tutto il mondo.
Takuda brontolò di nuovo, incuriosito senza volerlo. — Nemmeno una traccia? Pessima dimostrazione d’efficienza da parte nostra, perdere ogni traccia di un privato cittadino.
— Anche voi non avete trovato niente?
— Non è rinchiusa in nessun centro di detenzione della Costa Orientale, non è stata arrestata, non è iscritta nelle liste elettorali di Settore, non è stata ricoverata a spese del GLM, non ha preso multe per atterraggio vietato o per eccesso di velocità, e neppure possiede un veicolo registrato o un conto in banca in questa parte del mondo. Può darsi che sia annegata, o sia precipitata da una montagna.
— Può darsi.
— A volte dopo esserci strappati i capelli per la smania di trovare una cosa, scopriamo di averla sempre avuta sotto il naso… solo che non riusciamo a vederla.
— Tutto qui, il vostro aiuto?
— Ne sei ossessionato?
Aaron restò un attimo in silenzio, per dare alla domanda la considerazione che meritava. — Può darsi — disse lentamente. — Non ho mai guardato le cose da questo punto di vista. Si tratta solo… Credo di essere ossessionato dal fatto che qualcuno possa riuscire a scomparire così. Con la massima semplicità. Quella donna è la sorella dell’autrice di una strage. L’ipotesi di un complotto, considerando il clima politico di allora nel Settore Deserto, è certamente valida. Forse lei è assolutamente innocente, ma se può volatilizzarsi a questo modo, anche altri possono farlo. Voglio sapere come ha fatto.
Le rughe color noce si fusero in una smorfia. — Hai ragione — ammise Takuda. — Non piace neanche a me. Però, Aaron, ci hanno affibbiato quest’incarico riguardante un “complotto inteso a turbare, minare o rovinare” per fare da paravento all’UIGLM, in modo che nessuno potesse accusarli di usare una pazza come capro espiatorio. Lo sanno tutti.
Aaron sorrise. — Adesso sì.
— Ah, non importa più a nessuno. Il tuo è l’unico Settore che ci lavora ancora.
— Meglio così. Inoltre… — Si strinse nelle spalle. — Chissà? Potrebbe essere vero. Non l’abbiamo ancora trovata. E comincio a chiedermi chi troveremo assieme a lei, se mai ci riusciremo.
— È questo il problema — convenne piano Takuda. - Proprio questo. Hai verificato al Settore Tramonto? Potrebbe essere coinvolta con la Coalizione Nazionale Regressista.
— È una possibilità. No, non ho controllato.
— Be’, ti farò sapere se scopriamo qualcosa. Come dici tu, è un problema interessante.
— Grazie. Ve ne sarò grato.
Quindi avrebbe dovuto cavarsela da solo. Tuttavia rimase seduto a guardare lo schermo vuoto, lui che era un uomo addestrato all’azione, alla prontezza di riflessi, alla rapidità di decisione; restò immobile come un’ombra in un antico rifugio sotto terra, mentre i secondi e i minuti del cronometro scivolavano silenziosamente nel passato. La sua mente abbozzò i contorni di un viso, che sembrò balenare per un attimo sullo schermo; ne ricordò la sensazione, come se ricordasse una mano mancante.
Si scosse, mormorando qualcosa. La voce risuonò quasi soprannaturale nella bolla sotto terra. Allora si mosse, rapido, agitato, desiderando schemi d’azione familiari, l’inizio e la fine di piccoli incidenti, voci umane.
Quando entrò nel Constellation Club, le pareti si accesero di un rosa carico. Mezzanotte, secondo il frivolo orologio di Sidney Halleck. Rimase un attimo nell’ombra vicino a una guardia giurata del locale, di quelle che venivano chiamate i buttafuori di Sidney. Diciotto dei venti palchi erano racchiusi da seriche cortine di luce. I clienti vagavano dentro e fuori le zone luminose, risplendendo per un attimo come libellule in una cascata di colore. Diciotto complessi suonavano contemporaneamente sotto il tetto di Sidney, ma la musica stessa era catturata e trasformata dentro le cortine di luce. L’unica musica che superava il frastuono delle decine di bar era quella del complesso personale di Sidney, gli Historical Curiosity, che in un angolo suonava decorosamente musica da camera.
Il locale sembrava tranquillo. Aaron, che era in piedi da quattro ore, aveva bisogno di un intervallo. Si fece prestare da un buttafuori un lucente ricevitore a cintura e premette a caso una spia colorata. Un’orchestrina robot chiamata IQ eseguiva motivi popolari in voga, dietro una cortina azzurra. Aaron premette altri pulsanti, ricevette alfa-music dal palco verde, musica elettronica da quello giallo, e, da quello arancione, qualcosa che sembrava una battaglia fra bidoni di riciclaggio Finalmente localizzò i Nova, sul palco viola.
Quasar cantava a squarciagola una canzone che parlava di fare l’amore su un asteroide che passava troppo vicino al Sole. I versi fecero rabbrividire Aaron. Ma la musica si increspava dall’arpa a canne del Professore come un alito di vento solare, e il Mago creava uno sfrenato e intricato contrappunto servendosi dei neurocavi collegati alla sua testa. La batteria di cubi del Giocatore faceva pulsare l’aria come un campo di battaglia; Aaron si chiese, non per la prima volta, dove un tale scheletro ambulante nascondesse una forza del genere. Restituì il ricevitore a cintura e attraversò il locale. Fu fermato parecchie volte da gente che voleva salutarlo; quando fu a metà strada, la lontana luce viola svanì.
Scorse il Mago seduto a un tavolino d’angolo, intento ad asciugarsi il sudore e a togliersi il trucco, mentre Sidney distribuiva le carte. Sidney, con il viso sereno e paffuto stravolto per la concentrazione, lo vide arrivare e si illuminò.
— Aaron! Come stai?
Il Mago alzò dalla salvietta il viso pieno di sbavature e sorrise. — Prenditi una sedia — disse, e Aaron ridacchiò.
— Grazie, ma non vorrei perdere il lavoro.
— Non è gioco d’azzardo vero e proprio.
— Perché no? — chiese Sidney, con aria offesa. Una bassa e pulsante cascata di note scaturì da un palco non illuminato, dalla parte opposta del locale; il suono era debole, ma il Mago si girò incuriosito in quella direzione.
— Che cos’era?
— Una chitarra pre-GLM; un basso elettrico. Un tale del Settore Tamigi l’ha trovata e mi ha scritto. L’ho comprata senza nemmeno darle un’occhiata. È in condizioni eccellenti.
— Chi è che la suona?
— Il Talpino, degli Starcatchers. Gli piaceva il suo suono. — Vedendo l’espressione perplessa del Mago, aggiunse allegramente: — Io non sono capace di suonarla bene, e hai già visto che casa mia è piena di strumenti musicali. Ho tutto, dal pianoforte a coda di sei metri al didjeridoo…
— Didje… come?
— Cosa vuoi che faccia? Che la metta in un museo? Il Talpino ci si è attaccato come se fosse venuto al mondo suonandola. Come se fosse il fantasma della musica che aspettava di ascoltare. La musica è fatta per essere suonata.
— Fino a un certo punto.
— No. Se non imponi limiti, non troverai limiti. — Si rivolse ad Aaron, che se ne stava appoggiato alla parete dietro di lui chiedendosi quando Sidney avrebbe raccolto le carte. — Non è vero, Aaron?
— Tranne che per le leggi del GLM sui superalcolici e per il tuo credito personale.
— A meno di essere il padrone del bar — disse Sidney compiaciuto. — Lanciò un gettone da due crediti sul tavolo e chiese al Mago rimasto in paziente attesa: — Giochi?
Il Mago spinse avanti il proprio gettone. — Di solito — commentò — si guardano le carte, prima di puntare.
— Rischio — spiegò Sidney. Eseguì lo scarto, a caso secondo Aaron, e bevve birra. Il Mago chiese solo una carta. Il suo viso era più magro, più distaccato che mai; Aaron poteva quasi udire il cervello muovere le rotelle con precisione spietata per vincere il denaro di Sidney. Sidney si passò le dita sul naso e bevve ancora birra, sorvegliando amorevolmente la sua brillante e funzionale creazione. Il Mago alzò lo sguardo, prima sul viso assente di Sidney, poi su quello di Aaron, che ricambiò l’occhiata senza cambiare espressione.
Il Mago chinò la testa, perdendo completamente l’intensa espressione da rettile. Posò le carte sul tavolo, trattenendo a fatica una risata. — Come giocatore di poker fai paura, Sidney.
— Cosa c’è che non va? — chiese Sidney. — Cos’ho combinato? Mi hai letto nel pensiero.
Il Mago sembrò sorpreso. — Ti tradisci senza accorgertene. Ogni volta che hai carte pessime ti passi le dita sul naso e bevi birra. Quando hai carte buone, resti immobile, e ti concentri in modo quasi palpabile. Mi dà tanto fastidio che diventa difficile prendere i tuoi soldi.
Sidney rimase zitto. Scoprì le sue carte con un sospiro. Il Mago le guardò e rise.
— Così — disse Sidney bonariamente — non sei spietato quanto vuoi far credere.
— Pare proprio di sì. — Raccolse le carte. Poi girò la testa verso il palco alle sue spalle, e Aaron disse: — Non sono ancora arrivati.
— Un’altra mano?
— Cercherò di concentrarmi in modo meno evidente. — Sidney si appoggiò allo schienale per dire qualcosa ad Aaron; il suo ricevitore da polso emise un segnale acustico prima che cominciasse. Poggiò la testa sul pugno e rimase in ascolto. Aaron passò in rassegna la folla, scoprì che c’era un problema a un ingresso poco distante.
Un uomo che indossava gli abiti sbrindellati dell’immensa e lugubre zona desolata del Settore Discarica era capitato nel club. Sembrava stupito di trovarsi lì. La luce argentea che aveva negli occhi rivelava che aveva bisogno di droga. Aaron mandò un segnale alla pattuglia stradale; qualche istante dopo delle uniformi grigie comparvero ai margini della chiazza luminosa oltre la porta, mentre i buttafuori di Sidney convincevano il vagabondo a tornarsene in strada. Sidney si allungò sulla sedia.
— Grazie, Aaron.
— Strano che sia arrivato da queste parti. Quelli come lui pensano che il mondo fuori della Discarica sia pericoloso.
Il Mago, che stava per dare le carte, alzò lo sguardo con aria incredula. — Tu hai parlato con loro?
— Sono stato in quella zona due o tre volte. È un luogo bizzarro. Hanno le loro piste, i loro territori, i loro rifugi per nascondersi da gente come me, gente dell’esterno. Si possono seguire i loro sentieri attorno a montagne e vallate di porcherie, e rifiuti di un altro secolo… Ho visto relitti d’aeroplani, persino vecchie spaziomobili arenate su un fianco. Raramente si vede qualcuno; si scorge un movimento, un’ombra, forse un ragazzino che non ha ancora imparato a nascondersi in fretta. C’è sempre silenzio, un silenzio di morte, e ci si sente osservati…
— Come sei riuscito a parlare con loro?
— Non tutti hanno paura. Alcuni sono solo dei vecchi eccentrici che vivono nella discarica perché è più tranquilla della città. Non gliene frega niente se non hanno notizie del resto del mondo.
— Come hai fatto — chiese semplicemente Sidney — a trovare il coraggio di andarci?
— Cercavo qualcuno.
— L’hai trovato?
— Trovata. — Resistette all’impulso di sottrarsi allo sguardo curioso del Mago. — No.
— I reietti di questo secolo nel cimitero del precedente — disse pensosamente Sidney. — Chissà che musica suonano… — Si accorse del sorriso del Mago. — No, parlo sul serio. Prova a immaginare quali strumenti possono aver inventato, quale musica possono aver prodotto nel loro stato d’isolamento… Parlando di isolamento, mi viene in mente una cosa: ti piacerebbe un viaggio gratuito su Averno?
Il sorriso del Mago svanì. Il viso perse completamente espressione; sembrava, pensò Aaron, essersi tramutato nel proprio ritratto. Poi fu di nuovo in mezzo a loro, ma la sua voce era secca, lievemente turbata.
— C’è anche il biglietto di ritorno?
— Mi sono espresso così male? — chiese Sidney.
— Be’, no, ma perché mi vuoi mandare su Averno? Credevo che la mia musica ti piacesse.
— Certo. È questo il punto. Lassù qualche anima creativa ha capito che il silenzio quasi assoluto di Averno potrebbe avere effetti negativi sui detenuti che a fine pena dovranno reinserirsi nella società terrestre. Dovranno vivere in mezzo a noi: è questo lo scopo del programma di riabilitazione. Entro certi limiti possiamo determinare come saranno, quando torneranno a vivere con noi. — Sparpagliò con le dita il mazzo di carte come per ricavarne suggerimenti. — Stanno lassù in quella ciambella ritorta e girano nel vuoto. Sulla Terra un detenuto può udire il vento. La pioggia. Un grillo. Lo scorrere dell’acqua. Il superamento della barriera del suono. Il traffico aereo. Nel carcere di Corcrow sentono il mare e i generatori delle fabbriche. Tutti i piccoli rumori della vita quotidiana di una società da cui sono esclusi e in cui ritorneranno, per viverci nella continuità del tempo terrestre, con tutt’e due i piedi per terra.
Il Mago emise un brontolio d’assenso. — Su questo non discuto — disse gentilmente. — Ma perché…
— Perché proprio tu? Il direttore del programma di riabilitazione vuole che io vada su ad ascoltare il loro silenzio. Vuole anche che suggerisca un programma sperimentale di musica, fra le altre cose. Ho pensato subito ai Nova. Siete pittoreschi, siete troppo disciplinati per cacciarvi nei guai su Averno, e sapete cosa penso io della vostra musica. È ora che abbiate un po’ di pubblicità. Farete solo un concerto su Averno, e se siete tutti d’accordo girerò l’intera faccenda all’agenzia della Costadoro, che penserà a organizzarvi una tournée spaziale.
Il viso del Mago si era imporporato, sotto le sbavature rosso magenta. Ancora una volta era rimasto senza parole. Aaron sogghignò.
— Hai detto che avevi bisogno di un cambiamento, Magico Capo.
— Sei d’accordo?
— Una tournée spaziale? Con il tuo sostegno? Sidney, è la cosa… è la cosa…
— Ci sarà poco tempo per i preparativi, meno di un mese. Ma lassù avrai un pubblico avvinto, e non solo su Averno. — Ridacchiò con indulgenza al gioco di parole. — Pensaci. Parlane con gli altri.
— Accetteranno. Mi toccherà rimettere a posto il Pianto volante.
— L’agenzia potrebbe mettere a disposizione una spaziolancia.
— No. Preferisco adoperare le cose mie. Sono cinque anni che non faccio alzare da terra il Pianto volante. Sidney, è una cosa… Grazie.
— Sei diventato troppo bravo per un locale come questo — disse Sidney — e te lo meriti. — Rimise a posto il mazzo di carte. — Su, facciamo ancora una mano. Qualcosa di facile.
— Un poker pazzo. È rapido e facile. Si danno sette carte, due delle quali fanno da jolly, e le carte cambiate restano scoperte. Come puoi aspettarti che riesca a mantenere una faccia da poker dopo un’offerta del genere?
— È la mia tecnica — disse Sidney con serietà. Un orologio interiore tarato sugli inquieti movimenti ondeggianti della notte spinse Aaron a scostarsi dalla parete con un’alzata di spalle. Però non si allontanò, e rimase a guardare Sidney che raccoglieva le carte.
L’istante successivo si ricordò di respirare. Si appoggiò di nuovo alla parete e inviò a Sidney un messaggio mentale: “Non battere le palpebre, non cambiare tono di voce; fai finta di non avere gioco…”
Sidney spinse un gettone a centro tavola. Il Mago ne aggiunse altri cinque.
Sidney coprì il rilancio. Il Mago alzò gli occhi. — Allora un po’ di gioco ce l’hai… o stai imparando a bluffare?
In piedi alle spalle del Mago c’era qualcuno: una confusa macchia rossastra, una maschera. Sidney diede al Mago una carta, scoperta: asso di picche. Il Mago la guardò e aggiunse altri gettoni. Sidney coprì la puntata e scoprì l’ultima carta.
A quel punto gli occhi di Aaron furono attirati, quasi controvoglia, dal viso alle spalle del Mago. Lunghi capelli rosso-rosa, punteggiati di forcine nere a forma di cuore. Un viso aggraziato, dipinto d’oro. Spalle ampie e dritte. Occhi grigi che fissavano quelli di Aaron, seri, opachi, riservati. Poi Sidney diede un’occhiata alla ragazza, e lei sorrise.
— La Regina di Cuori — disse Sidney, sorpreso.
Il Mago emise un mormorio indistinto d’assenso, e Aaron guardò la carta che Sidney aveva girato: di nuovo il viso di lei, stilizzato, enigmatico. Resistette all’impulso di dire a Sidney di puntare tutto il Constellation Club.
— Cinque per l’asso — disse il Mago.
— Sei — disse Sidney a casaccio.
— Vedo.
Sidney scoprì le sue carte, a una a una. Dieci, fante, regina, re, asso di cuori, e le due carte dal valore immaginario, i jolly, le matte.
— Scala matta.
Il Mago emise un fischio muto. Poi si appoggiò allo schienale della sedia e scoppiò a ridere, sparpagliando un’inutile combinazione di picche e quadri. — Hai vinto, Sidney. Raccogli i gettoni.
Aaron alzò di nuovo gli occhi, sentendosi bizzarramente fuori dal tempo e dallo spazio, come se qualcosa, in qualche luogo di un universo alternativo, fosse terminato o stesse per iniziare. Ma il Mago aveva rimesso nel mazzo la Regina di Cuori, e la ragazza era sparita.
Sidney Halleck e il dottor Fiori arrivarono su Averno la mattina dello stesso giorno. Il direttore Klyos, d’umore nero perché la sua richiesta di trasferimento al Settore Polosud era stata respinta senza nemmeno un commento, fece condurre Sidney nei quartieri del Mozzo riservati ai visitatori ufficiali, dove Jeri Halpren era in attesa. Poi si occupò del dottor Fiori. Il dottore aveva condotto con sé tre assistenti, due uomini e una giovane donna molto graziosa e molto annoiata, il cui viso cambiò solo quando vide il piccolo, spartano padiglione d’infermeria che Jase aveva riservato loro. La Macchina dei Sogni seguiva ancora l’orbita di Averno, e sarebbe stata raccolta in seguito dal personale dello scalo. Intanto, diceva il dottor Fiori, dopo un’intensa occhiata alla stanza in cui sarebbe stata sistemata l’apparecchiatura, avrebbe gradito essere presentato alla detenuta.
Jase sollevò un sopracciglio a quelle parole, ma disse solo: — Tornate in ufficio con me, dottor Fiori. Intanto sarete ufficialmente registrato come ospite del Mozzo, e dopo chiamerò una squadra di guardie per scortarvi dalla detenuta. Signora Barton, signor Ames, signor Ng… se aspettate qui qualche minuto, verrà qualcuno a mostrarvi il refettorio e il circolo ricreativo, che saranno in pratica i soli locali in cui potrete recarvi senza un mio permesso scritto. Buona permanenza.
Il dottor Fiori rimase in silenzio mentre percorreva il corridoio curvo, ricoperto da un tappeto grigio, che conduceva al raggio di trasporto. Jase posò il palmo della mano contro la tacca d’identità accanto alla porta circolare, che si aprì come il diaframma di un obiettivo mettendo in mostra il lungo tunnel da trasporto, la pista magnetica che scompariva in direzione del Mozzo, e le nicchie lungo la passerella dove le roboguardie, armate di fucili laser, se ne stavano intervallate, immobili, ciecamente attente. Scesero a piedi la rampa fino al primo carrello.
— Sembrate un pochino ostile — disse il dottor Fiori.
Jase inghiottì parecchie risposte. — Mi sentirò meglio quando comincerete a capire dove vi trovate. La donna a cui volete “essere presentato” è responsabile della morte di più di 1500 persone. Io sono responsabile di voi. Lei è pericolosa e non so come reagirà alla vostra presenza. Nello stesso tempo, non voglio che voi le facciate del male.
Il dottor Fiori lo fissò. Le roboguardie, color oro e grigio metallizzato, diventarono una visione confusa lungo le pareti mentre il carrello correva verso il Mozzo.
— Perché ve ne preoccupate? — chiese infine.
— Non me ne preoccupo affatto.
— Be’, allora…
— C’è qualcosa in tutta questa faccenda — disse Jase in tono burbero — che mi mette decisamente a disagio. Quella donna se n’è stata qui tranquilla nell’Anello Scuro, come un ragno nello spazio, per sette anni. Come mai improvvisamente attira la vostra attenzione? Mi sento a disagio perché a volte ho la sensazione che raramente le cose accadano per caso. Accadono perché un evento tira l’altro, perché l’amore, l’odio, i desideri della gente si sovrappongono costantemente, perché un lavoro incompiuto, per quanto venga dimenticato, chiede sempre di essere portato a termine. Quella donna non dovrebbe trovarsi qui. Tuttavia, visto che ce l’abbiamo messa, dovremmo avere il buon senso di lasciarla in pace. — Balzò fuori appena il carrello si fermò e diede il nome e l’impronta di tutt’e due le mani al controllo d’identità. L’apparecchiatura emise una serie di rapidi toni musicali in segno di conferma, e la porta del Mozzo si spalancò. — Almeno — aggiunse Jase — io la penso così. Il dottore siete voi.
Il dottor Fiori lo seguì, oltrepassando la lunga parete ricurva e opaca al centro del Mozzo, dietro cui il computer principale controllava silenziosamente ogni cosa, dalle roboguardie agli impianti idraulici. L’ufficio di Jase si trovava di fronte alla porta principale della sala computer. Il direttore era abituato alle vivaci luci colorate che sostituivano il panorama esterno, sopra la consolle principale, ma il dottor Fiori le fissò per qualche istante, prima di rispondere.
— Avete opinioni ambigue, sulla detenuta.
Jase sospirò. — Ho opinioni ambigue quasi su tutto, dottor Fiori. Sapete una cosa? Sono troppo vecchio per farmene un problema. — Indicò l’intercom. — Ditegli solo il vostro nome e spiegate a grandi linee il motivo della vostra presenza qui. Quello che conta è lo schema vocale. Serve all’archivio del Mozzo, nell’eventualità che si verifichi una situazione d’emergenza durante il vostro soggiorno. — Alzò gli occhi e vide che l’altro sorrideva. — Cosa c’è di divertente?
— Nulla. — Si lisciò i capelli spettinati. — Sono un po’ stanco. Continuo a dire stupidaggini, e voi continuate a darmi risposte sensate. Penso che se siete interessato alla Macchina dei Sogni o a me o alla detenuta, dovreste venire a vedermi al lavoro.
Jase rimase in silenzio, sorpreso. — Forse lo farò — disse, e rimase sorpreso di nuovo, stavolta di se stesso.
Terra Viridian era seduta in un angolo della sua cella, che faceva parte del vasto alveare di celle costruito nelle enormi pareti dell’Anello Scuro. Il dottor Fiori, circondato da guardie nell’ascensore che portava alle celle esterne, guardò la parete dell’anello con gli schermi individuali che luccicavano delicatamente e che gli fecero venire in mente la bizzarra immagine di uno sciame d’insetti dalle tremule ali trasparenti pronti a spiccare il volo. Terra, dentro la cella, non notava nemmeno più la presenza dello schermo: era semplicemente uno sfondo per le sue visioni.
Linee verticali dense e confuse dietro un fiotto di luce nebbiosa e guizzante… Lo schermo della cella svanì; le dense linee diventarono umane: guardie armate di fucili. Lei le guardò senza interesse; appartenevano a un’altra visione, a un’altra dimensione. La sua mente le rendeva incorporee, linee di colore che potevano venir grattate via dall’aria e scartate.
— Terra. Terra Viridian.
Udì il suo nome come se provenisse da un’altra galassia, attraverso nuvole di polvere e risacche di spazio tenebroso senza stelle. In uno spazio sconosciuto qualcosa riposava. Avvertì i confini indistinti del proprio corpo.
Rispose stancamente, senza battere le palpebre: — Sì.
— Sono il dottor Arturo Fiori. Cercherò di aiutarti. Capisci?
— Sì — rispose con indifferenza. I suoi occhi, enormi, drogati dalla visione, fissarono il grappolo di facce. Le parole potevano provenire da tutte o da nessuna: non aveva importanza. Le stelle presero il posto delle facce. Il sole rosso.
Le facce ritornarono, o forse non erano mai sparite. Le comparve davanti un vassoio di cibo. Qualcuno ne aveva mangiato un pochino. E poi qualcuno si era riposato, sospeso in un silenzio senza tempo, dentro una nebbia ametista.
— Per favore, vieni con me.
Si aspettava un’altra doccia, o un periodo di passeggiata in cerchio. Invece la condussero in luoghi non familiari che si insinuarono con insistenza nei suoi pensieri. Il dottor Fiori le stava parlando. Campi di forza si spensero ammiccando al suo accostarsi, porte d’ascensore si spalancarono. Camminò su o giù o di lato per Averno, cercando di ignorare il dottor Fiori, che parlava di pagnotte. Il pane non faceva parte della visione. Né le porte spalancate, la troppa luce, il troppo movimento, qualsiasi parte dell’altra sua vita quotidiana. Della vita di Terra. Il suo respiro accelerò; poteva sentire il battito del suo cuore. Batté in fretta le palpebre, innervosita, ma le pareti scure continuarono a incombere su di lei; non riuscì a trovare la visione.
— Un linguaggio senza parole — disse il dottor Fiori, e lei rispose immediatamente: — Sì — fermandosi così bruscamente che un fucile le pungolò la schiena. — Sì. — I suoi occhi riacquistarono espressione. Finalmente vide il dottore, un uomo con i capelli ricci e neri più basso di lei. E nello stesso istante ricordò che lei stessa esisteva dentro quel mondo silenzioso infinitamente pieno di curve. Aveva dita, una bocca, un nome. Come aveva fatto a finire lì dentro?
— Il cielo è rosso — borbottò, ricordando.
— Alienata — mormorò una guardia. — Completamente fuori dal mondo.
— Per favore — disse il dottor Fiori. Il fucile le batté sulla spalla.
— Andiamo!
Lei si girò di scatto, terrorizzata dalla lunga camminata, da una libertà a cui non era più abituata. — State per uccidermi? — Le guardie si fusero in un cerchio tutt’attorno, a fucili alzati. Il dottor Fiori si fece strada e le fu a fianco, dentro il cerchio. Per un istante ebbe paura, ma non della donna. Terra se ne accorse, lo capì, tenendolo avvinto nel suo sguardo nebuloso. La voce del dottore era gentile.
— Nessuno ti farà del male. Voglio cercare di capirti.
Lei lo trattenne ancora un istante. Poi il viso dell’uomo si appiattì, divenne una fotografia, una vignetta. Un ovale. La sua mente non conteneva comprensione, solo incertezza.
— No — disse lei stancamente.
— Fidati di me.
Le prese il braccio. Quel tocco umano la spinse di nuovo su spiagge pericolose: solitudine, tempo che scorreva verso un futuro vuoto, ricordi di altri contatti fisici. Si scostò da lui, fu di nuovo colta dal panico, e cominciò a camminare come un automa. Il lungo tappeto grigio si mutò in un sentiero serpeggiante che attraversava le stelle, e poi nella sabbia di cristallo. Si ritrasse dal mondo rifugiandosi nel silenzio.
Jase la osservava da un monitor della sala computer. Le telecamere seguivano ogni mossa della donna, dalla cella all’infermeria dell’Anello Scuro. Aveva un aspetto alieno, pensò. Più alta di Fiori di tutta la testa; nata nello spazio, ricordò, calva come un insetto, con grandi, inespressivi occhi da insetto. Osservò con attenzione, intensamente. Se a Fiori fosse successo qualcosa, e fosse circolata la voce che Terra Viridian faceva ben altro che starsene seduta nell’Anello Scuro ad aspettare la morte, si sarebbe ritrovato con le chiappe sull’Orsa Maggiore, e non voleva essere trasferito così lontano. La ragazza si era fermata una volta, si era girata, ed era stata presa di mira da sei fucili così rapidamente che aveva temuto che l’uccidessero. Si era mossa in fretta, senza preavviso. Terra Viridian uccisa durante un tentativo di ribellione su Averno. Ma anche il dottor Fiori era stato pronto a intervenire, frapponendosi alle guardie, parlando ininterrottamente. Jase sospirò di sollievo quando si rimisero in cammino: l’assassina pazza, il dottore che parlava a vanvera ma era sorprendentemente coraggioso, le sei guardie allenate a uccidere.
Aveva quasi terminato il suo turno; non vedeva l’ora di cenare e di bere una birra assieme a Sidney Halleck, l’unico momento piacevole della giornata. Era stato uno schifo: Jeri Halpren che rompeva l’anima prima di colazione con la visita di un imprecisato complesso da night club, il rifiuto di trasferimento, Terra Viridian disseppellita come un personaggio di un vecchio film e che si aggirava per Averno come una furia carica di infausti presagi e infine il guasto meccanico di una spaziomobile di pattuglia nei pressi della Luna durante un inseguimento. Adesso sulla Luna c’era un cratere nuovo. C’erano stati scambi di messaggi durati ore intere, con Artemide e con l’UIGLM: i corpi erano stati ritrovati? Sì. No. Non era rimasto niente da trovare. Com’era successo? Di chi era la colpa? Chi erano i morti? Chi erano i parenti più prossimi? Dove… E intanto la spaziolancia in fuga aveva esaurito il carburante e andava alla deriva da qualche parte oltre la faccia scura della Luna, e mandava irregolari e confuse richieste d’aiuto.
Una giornata così doveva toccare a Nils, pensò Jase. Lui avrebbe saputo apprezzarla.
Terra era arrivata in infermeria. Jase distolse lo sguardo dallo schermo, limitandosi ad augurarsi che non succedesse niente. Si strofinò gli occhi con aria stanca e fu ricompensato, quando lasciò ricadere le mani, dalla vista di Jeri Halpren che entrava in ufficio.
Attirò la sua attenzione e attraversò la sala. Jeri sogghignava. “Dovremmo collegare quei denti a un generatore”, pensò stancamente Jase. Si sedette e lasciò che Jeri parlasse per qualche istante, finché non fu colpito da un particolare aspetto del suo discorso.
— Continui a dirmi Sidney Halleck ha detto questo e Sidney Halleck ha suggerito che… Non mi spiacerebbe affatto sentire dal signor Halleck in persona quello che ha da dire.
Il sorriso di Jeri si attenuò. — Be’, potrete chiamarlo quando sarà arrivato a casa, fra quattro giorni.
— Cosa?
— Ha dovuto andarsene stasera. Domani deve presenziare a una conferenza nel Settore Foresta Tropicale. Ho tentato di dirvelo, prima che partisse — aggiunse nervosamente Jeri — ma non sono riuscito a mettermi in contatto con voi, e mi becco regolarmente un cicchetto se mi presento qui senza avvisare. — Jase sospirò. — Mi ha detto che gli spiaceva non potervi incontrare.
— Spiace anche a me.
— Un suo complesso verrà qui a suonare.
Jase lo guardò con occhio torvo. — Continui a ripetermi anche questo.
— Con il vostro permesso, naturalmente.
— Non me ne frega niente. È un programma tuo. Non voglio nemmeno sapere che sono stati qui finché non se ne saranno andati. Musica. Complessi da night club. È un…
— È un precedente storico — disse Jeri con cautela, ma con fermezza. — L’ha detto Sidney Halleck.
Jase si appoggiò allo schienale. — Grazie — disse acidamente. Delle spie luminose gli ammiccarono contro, come in risposta al suo momento di distensione; si chinò nuovamente sulla scrivania, chiedendosi a chi toccava ora… la Luna, la spaziolancia dispersa, il GLM, il dottor Fiori e Terra, l’ignoto… chiunque fosse, si sarebbe rivolto a lui per una situazione di crisi o di caos, con l’urgente necessità di privarlo anche questa volta della birra.
— Terra. Mi senti, Terra?
Era seduta dentro una bolla. Calda, cedevole, sospesa nelle ombre sopra il pavimento. Alzò la mano, la toccò con stupore. La parete traslucida si tese sotto il suo tocco, poi ritornò come prima.
— Terra.
Una giovane donna in tuta rossa parlava piano in un computer. Terra fissò la macchia rossa, ondeggiando come attirata da una fiamma.
— Progetto: Cavia. Dottor A. Fiori. Assistenti: Reina Barton, Nathaniel Ng, Pietro Ames. Soggetto: Terra Viridian. Femmina. Anni 28. Detenuta, Anello Scuro di Averno. Segue fedina penale. Autorizzazione all’impiego di detenuti di Averno per programma sperimentale di bio-computer concessa dal dottor Grace Czerny, UIGLM, dipartimento di Psicobiologia. Famiglia: una sorella, residenza sconosciuta.
L’assistente guardò il dottore, in piedi vicino alla bolla. Questi annuì con un sorriso.
— Vai avanti, Reina. Cominciamo pure.
Uno schermo sopra la consolle si illuminò. Dei colori lo attraversarono, si fusero per formare nuovi colori che rotearono insieme in sfumature diverse. Terra, che per sette anni non aveva visto colori se non nella propria mente, li osservò con le labbra socchiuse. Improvvisamente si portò la mano alla testa e sentì che aveva un casco. Ma con i fucsia, gli azzurri e gli ori che si fondevano davanti ai suoi occhi, il sottile cavetto che le sporgeva dalla testa le sembrava privo d’importanza.
— Terra. Cosa vedi?
— Colori. Stelle che esplodono.
— Terra. — La voce del dottore era lenta, adesso, molto calma. — Voglio che tu faccia una cosa molto semplice. Tutto quello che ti chiederò di fare nei prossimi giorni sarà molto semplice.
— Nulla è semplice.
— L’inizio è molto semplice. Vuoi provarci?
Lei allontanò lo sguardo dallo schermo, e lo guardò negli occhi. — Annullato — disse chiaramente. Un fulmine nero guizzò in un cielo rosso, colpì una chiazza di sabbia viola che si fuse e corse a unirsi alla marea crescente. I colori sullo schermo si dissolsero in scariche di elettricità statica. Qualcuno emise un fischio.
— Come ha fatto? Dottor Fiori, ha evocato quel…
— Sst. Terra. Concentrati sui colori. Ricordali. Lasciali tornare.
Lei pensò ai colori, ed essi tornarono sullo schermo: colori tanto meravigliosi da berli, annusarli, indossarli.
— Bene, bene… Continua a concentrarti… — La voce svanì; i colori danzarono insieme, si separarono, rotearono in un ricordo per lei improvviso e sorprendente come le altre sue visioni. Le serre della minuscola luna informe su cui era nata… l’aria umida e calda, il profumo di una terra aliena, tutti i colori che sgorgavano da quella terra con la stessa spontaneità dei desideri, con la stessa facilità con cui polvere e ghiaccio e magma sgorgavano da tutti i mondi che aveva conosciuto…
— Terra. Dimmi cosa vedi.
— Una rosa — mormorò lei.
— Da dove viene quella luce? — chiese il Mago, sorpreso.
I Nova si guardarono l’un l’altro, poi lo fissarono. Nel centro del Constellation Club, con i suoi palchi inondati di luce e le pareti che risplendevano a quell’ora di una morbida foschia ametista, la domanda sembrava assurda. Nebraska si tirò gli smorti baffi ricurvi e si guardò attorno compiacente. Il Professore, con il viso nero attraversato da un fulmine argenteo, strinse gli occhi incredulo.
— Ti dispiacerebbe delucidare?
— Io non vedo nulla — disse il Giocatore in tono vago. Appoggiato al palco, dava l’impressione che il suo lungo corpo emaciato sarebbe crollato in un mucchietto informe se il palco fosse scomparso all’improvviso. — Tranne, lo sai, le solite luci.
— Delucidaci — disse Quasar, assaporando ogni sillaba come se fosse commestibile. Lanciò al Mago un sorriso di sbieco, mettendo in mostra i denti scarlatti. — Moi, ti aiuterò a spiegarti meglio, Magico Capo. Dimmi solo dov’è.
— Non viene dal nostro palco — disse Nebraska. — A cosa assomiglia?
— Che cosa?
— La luce — disse Nebraska, stupito. — Hai appena detto…
— Ah! — Mosse appena il capo, ammiccando. — Ho scorto qualcosa con la coda dell’occhio. Ma forse era solo un’impressione. Adesso non la vedo più.
— Nemmeno io — disse il Giocatore, cercando di essere d’aiuto.
— Parlami di questo “delucidare”. È una cosa legale, o sotterranea?
— Underground — mormorò il Professore. — Se è questa la parola che cerchi.
Quasar mosse le unghie che si intonavano al colore della corta chioma arcobaleno. — La méme chose… è lo stesso. Underground, sotterraneo…
— Il primo ha connotazioni politiche, l’altro deriva da un’antica lingua pre-GLM chiamata latino. La radice è analoga. Una preposizione che significa “sotto” e un sostantivo che significa “terra”.
— Possiamo tornare alle cose serie? — supplicò il Mago. — Prima che l’intervallo sia…
— Comunque, il contrario di legale non è sotterraneo, ma…
— Averno — suggerì il Giocatore. Il Mago piegò le braccia e alzò la voce.
— Che sarebbe il motivo per cui ho convocato la riunione, ammesso che qualcuno se ne ricordi ancora.
— Be’, allora? — chiese affabilmente il Professore. — Siamo tutti qui, e ti ascoltiamo. Sidney ha offerto un aumento di stipendio?
— Sidney ci offre una tournée spaziale, con partenza da Averno.
Si zittirono tutti e lo fissarono; e i loro visi vividamente truccati sembrarono sospesi tutt’attorno, immobili come maschere appese in aria.
Poi Nebraska sorrise, e il Giocatore compì una mossa brusca per non scivolare a terra.
— Averno — disse il Professore riprendendo fiato. — Magico Capo…
— Suoneremo lì una sera, poi andremo sulla Luna, a Rimrock e a Moonshadow, poi a Helios…
— Il sole? — chiese sorprendentemente il Giocatore.
— La città spaziale.
— Un caldo terribile — disse Nebraska. Quasar, senza manifestare emozioni, si accese una sigaretta e soffiò uno sbuffo di fumo sopra la testa del Mago.
— Prigione — disse la ragazza con tono incerto. Aggiunse un’altra parola, breve e intraducibile. — Magico Capo…
— Un unico concerto — ripeté lui, in fretta, notando che la mano le tremava mentre si portava la sigaretta alle labbra. — Ci resteremo solo una notte.
— Ma cosa se ne fanno della musica, su Averno? — chiese perplesso il Professore. — Della nostra, soprattutto.
— Stanno avviando un nuovo programma di riabilitazione. — Sorrise freddamente. — Cercano di portare un po’ di rumore su Averno. Ci ha raccomandati Sidney. L’agenzia della Costadoro sta preparando il resto della tournée. — Annuì al fischio del Professore. — Troppo bello per rinunciare. Se ci facciamo un po’ di pubblicità, forse potremo continuare a fare tournée nel Settore.
Il Giocatore era tornato in vita, e si teneva quasi eretto. Aveva un’aria terrorizzata. — Volare?
Il Mago chiuse gli occhi e li riaprì. — L’idea generale sarebbe questa.
— Spazio?
— È onnipresente — disse serio il Professore.
— No.
— No cosa?
— No e basta. Magico Capo, non posso. Non ho equilibrio.
— Non ti sto chiedendo di camminare su una fune tesa fino ad Averno. Cosa vuol dire, che non puoi? Tu vieni con noi. Non possiamo fare a meno di portarti.
— Qui. — Il Giocatore si toccò l’orecchio. — Non ho equilibrio, qui. Sto male. Rimetto. Anche in cima a un palazzo. Dappertutto.
Il Mago lo fissò con aria distaccata, come se avesse appena versato una pinta di birra nel piano. — Esistono delle cure — disse con decisione.
— Non posso…
— Non puoi tirarti indietro proprio adesso, ecco cosa non puoi. Hai suonato la mia musica per cinque anni. Forse è l’unica cosa che hai dentro quello che chiami cervello, ma la conosci come le tue tasche, e se pensi che i Nova affrontino una tournée spaziale con un cubista raccolto per strada e solo tre settimane di prove, vuol dire che ragioni con i piedi. Verrai con noi e basta.
— Non posso. — Si sottrasse alla collera del Mago, drappeggiando lungo il palco le pallide braccia nervose. Solo le sue spalle, ampie e diritte per l’uso continuo dei cubi, suggerivano la presenza di muscoli sotto la casacca. — Non volo nemmeno su un elicar. Magico Capo, devo restare a terra. Non mi piace l’aria sotto i piedi. Per niente. Mai. Per me — si portò il palmo alle labbra e poi al pavimento — la Terra. Ci amiamo. Non posso farci niente. Sapevo che ti saresti arrabbiato con me un giorno o l’altro.
— Cosa?
— Ho lasciato il complesso di prima proprio per questo. Dovevamo cominciare ad andare in giro. Volare. Sapevo che sarebbe successo anche ai Nova. — Sospirò. — I complessi migliori mi abbandonano sempre. — Stringendo con le dita il bordo del palco, come se temesse di vederlo volar via, aggiunse: — Mi spiace.
Il Mago lo guardò senza espressione ancora per qualche istante. Poi si girò verso il Professore. — Il tuo equilibrio come sta? — chiese in tono pericolosamente calmo.
— Magnificamente — si affrettò a rispondere il Professore. — Per me — baciò l’aria — lo spazio. Sono con te, Magico Capo.
Il Mago guardò Quasar, che continuava a tirare rapide boccate di fumo. — Non possiamo andare senza il Giocatore — disse lei con noncuranza, ma evitò di guardarlo negli occhi.
— Andiamo lo stesso.
— Ma…
— Il Giocatore verrà con noi o ci troverà un sostituto. Buono quanto lui.
— Buono come me? — disse il Giocatore, dubbioso. Il Mago spostò lo sguardo da Quasar quanto bastava per lanciargli un’occhiata inviperita.
— E lo troverai in fretta. — Tornò a girarsi verso Quasar, concentrando su di lei tutta l’attenzione, perché mentre le sue sopracciglia inarcate con grazia suggerivano indifferenza, gli occhi erano cupi, inespressivi, e il movimento della sigaretta troppo brusco. La ragazza non avrebbe tradotto la propria riluttanza in parole, eppure quella sensazione restava sospesa tra loro, tangibile come la nebbiolina di fumo che la circondava.
— Suoneremo per i detenuti — le disse, perché la donna si opponeva all’autorità costituita istintivamente e senza rimorso. — Quelli dell’Anello Chiaro; non per i poliziotti. — E poi se ne accorse: i suoi movimenti aspri e nervosi confinati in uno spazio troppo stretto, i suoi occhi che si sforzavano di penetrare un’oscurità artificiale.
Respirò a fondo in silenzio; allora lei lo guardò, con un pallido sorriso che prendeva malignamente in giro il proprio terrore.
— Se lo vuoi tu, Magico Capo — disse, rilanciandogli l’avvertimento. Lui non fece niente per intercettarlo.
— Lo voglio — disse. Voleva anche prenderle la mano, baciargliela in segno di gratitudine. Non si mosse, ma in qualche modo bizzarro l’aria tutt’attorno trasmise il suo impulso: lei sembrò sorpresa, e il suo sorriso divenne di colpo più fresco.
— Bene! — disse Nebraska, dimentico degli ostacoli. — Quando partiamo?
— Fra tre… fra meno di tre settimane.
— Userai il Pianto volante?
— Certo.
— È àncora in grado di volare? — chiese il Professore.
— Certo che vola — disse il Mago, indignato. — Ha solo un problemino di ricetrasmittente.
— Un problemino grande quanto?
— Lo sistemerò io.
— L’ultima volta che hai avuto un problemino, l’impianto di refrigerazione si scassò e passammo due settimane senza birra gelata.
— Birra — mormorò Nebraska. — L’intervallo è quasi terminato.
— Ci riuniremo domani sera, per mettere a punto i particolari e scegliere i pezzi da suonare. Se — aggiunse in tono glaciale — con noi ci sarà un cubista.
Nebraska si tormentò i baffi. — Potremmo narcotizzarlo per il viaggio — suggerì. Il Giocatore, come se avesse preso la scossa, si allontanò di scatto dal palco in direzione del bar più vicino, con lo sguardo pensieroso del Mago puntato fra le scapole.
Il Professore scosse la testa. — Come faremo a suonare senza di lui? Suona quei cubi come se fosse dentro la nostra testa e ascoltasse in anticipo la nostra musica.
Il Mago non rispose. Ancora corrucciato, udì i rumori sconnessi e caotici del club svanire lontano, come un’onda di riflusso. Un debole rullio di cubi lo colpì, o forse era solo il fantasma di una musica d’un altro tempo.
Finalmente si mosse, verso quella musica, gli parve. — Andiamo a bere una birra, finché c’è tempo. Non preoccuparti — aggiunse, rivolto allo stupito Professore. — Avremo un cubista.
Aaron, fuori servizio, sorseggiava scotch in uno dei bar più tranquilli: un ampio semicerchio di mogano e ottone che gli ricor dava vagamente antiche navi a vela. Mentalmente esaminava degli elenchi: elenchi di operai, di personale di cliniche private, di reclute dell’esercito, elenchi di nomi che potevano essere inventati, o di vite che potevano essere completamente false, tranne che per un’incongruenza, un particolare trascurato nel momento della falsificazione. Fra 5,2 miliardi di persone sparse dalla Terra agli asteroidi, come poteva trovare qualcuno che non voleva farsi scoprire? Forse lei raccoglieva riso nel Settore Drago, dava da mangiare agli uccelli e alle tigri albine in uno zoo, guidava giri turistici della barriera corallina nel Settore Tramonto. Forse studiava per diventare sacerdote. Rifletté un attimo su quest’ultima possibilità. Ma anche i sacerdoti avevano conti di credito, carte d’identità, cartelle delle tasse. Lei aveva cambiato nome, ma non poteva falsificare ogni singola registrazione del suo passato, e doveva pur esserci quell’unico momento in cui le due cose, il passato e il futuro, si sovrapponevano nella sua complessa identità. Fissò lo scotch, quasi troppo stanco per pensare di berlo. “Perché dovrei prendermela? Dopo sette anni? Che cosa me ne faccio, se mai la trovo? Le sparo perché la sua sorella pazza ha ucciso mia… Voglio trovarla. Devo avere qualcosa da lei. Ne ho bisogno.”
Calmò i suoi pensieri e subito fu avviluppato dai ricordi. Assaporò il fantasma di un bacio. “Aveva un vestito color kaki, l’ultima volta. Mi ha salutato con un bacio e se n’è andata, colpendomi quasi con il fucile mentre saliva sul trasporto truppe. Tre mesi dopo mi telefonò. Era incinta, rideva, la lasciavano tornare a casa prima della scadenza… Disse che avevo un viso da pirata, che non voleva che lo cambiassi mai. Una volta mi tirò contro una padella. Aveva occhi di un nero così intenso che potevi volarci dentro…”
Qualcosa gli colpì gli stivali. Strisciò fuori dal tunnel del passato e ritornò al presente, nel Paese delle Meraviglie di Sidney. Chinò lo sguardo, stupito. Ai suoi piedi erano sparse sei rose. Si lanciò un’occhiata alle spalle, vide una figura completamente avvolta in un bozzolo di lustrini d’oro a parte un braccio nudo ancora graziosamente teso nel gesto del lancio. Anche le ciglia brillavano d’oro. Gli occhi neri sorridevano, ma non c’era modo di dire a quale sesso apparteneva il braccio sottile. Aaron, che diffidava delle ambiguità, lasciò le rose per terra.
— Cos’è successo all’arte della conversazione cortese? — mormorò al suo fianco Sidney Halleck. — È scomparsa insieme al controfagotto. — Si chinò, raccolse le rose dal pavimento e le lasciò cadere sul bancone. Aaron ne sfiorò una: liscio, lucente acrilico nero. Erano tutte perfette e non sarebbero mai appassite.
— A volte è più facile restare in silenzio… Niente confusione, niente imbarazzo, niente ferite… e niente domani.
— Davvero?
— La regola della rosa: una sola notte, niente domande, niente complicazioni…
— Niente nomi?
Si strinse nelle spalle. — Non ha importanza; nessuno ti crederebbe nemmeno se dicessi il tuo nome vero. È la più semplice delle menzogne.
— Sul serio? — Raccolse le rose, le lasciò ricadere con grazia. Aaron sentì che l’affabile espressione del suo viso diventava tesa di colpo.
— È niente spine — aggiunse con tono leggero. — Niente con cui ferirsi.
— Io vedo spine — disse Sidney. Aaron lo guardò. Il viso energico e gentile gli strappò improvvisamente un sorriso stanco.
— Anch’io le vedo. Ma se prendo una rosa, la prendo per quello che vale, e a volte questo significa aggrapparsi con un solo dito all’orlo della vita ancora per un giorno… — Si interruppe, meravigliato di se stesso, e prese il bicchiere. Sidney chiese con un gesto una birra.
— Capisco — disse piano. — Sono così critico solo perché mi intasano gli aspirapolvere. — Sorrise quando Quasar, vestita di cuoio nero dalla testa ai piedi, si avvicinò a loro. Poi diventò tutto rosso quando lei gli buttò le braccia al collo e gli lasciò una macchia di rossetto arcobaleno sulle labbra. Quasar girò sui tacchi a fronteggiare Aaron, aspirò a fondo dalla sigaretta e gliela buttò ai piedi. Lui la schiacciò, con aria serena, mentre lei si allontanava. Sidney si pulì le labbra, con l’aria di chi ha appena visto uno dei suoi robocomplessi pop darsi alla lirica.
— Impulsiva — commentò Aaron. I Nova si sparpagliarono attorno al bar, e il Mago gli fu a fianco.
— Penso — disse Sidney, emergendo da dietro la salvietta — che potrebbe davvero aver successo. Un dinosauro sociale che torna di moda, battendo alla distanza anche le rose.
— Ma di cosa parla? — chiese il Mago ad Aaron.
— Del bacio.
— Sempre a proposito di gesti sociali, la sigaretta mi ha lasciato di stucco. Significa che le piaci, o che non le piaci?
— Significa che vuole darmi fuoco agli stivali.
— È più facile che un giorno o l’altro dia fuoco al mio locale. — Si rivolse al Mago. — Allora, i Nova vanno su Averno?
Il Mago annuì con aria un pochino corrucciata. — In un modo o nell’altro. Il Giocatore soffre di mal di spazio, e Quasar… È schedata, Aaron?
— Sì — disse Aaron. Poi posò il bicchiere, arrossendo un pochino. — Come facevi a sapere…
— Una volta mi hai detto che avevi controllato perfino me, quando ci incontrammo la prima volta. Per quale tipo di reato? Le daranno il passaporto spaziale? La lasceranno entrare su Averno? E dopo la lasceranno uscire?
Aaron annuì. — Ha avuto una gioventù piuttosto scapigliata nel Settore Lumière. Ha vissuto sotto terra, nelle vecchie fognature e nei tunnel della metropolitana. L’hanno accusata di un mucchio di cose, ma gli unici reati che riuscirono a provare sono danneggiamento di proprietà e disturbo della quiete pubblica.
— È stata in prigione?
— Per due o tre mesi. È successo tanto tempo fa che non dovrebbero esserci problemi. A meno che non ne crei qualcuno lei stessa. Non le piacciono i poliziotti.
— Penso che tu le piaccia — disse il Mago, con un insolito lampo di genio. — Quello che non le piace è che tu le piaci.
— Ripeti.
— Lascia perdere. Un pensiero brillante ma fuggevole. Pensare alla gente mi confonde i circuiti. Sei mai stato su Averno?
— Solo una volta. Ho fatto delle ricerche nei loro archivi. Non lasciano entrare gente della Terra. È un posto sorprendente. Tranquillo come un obitorio e efficiente come la morte.
— Ho avuto una piacevole conversazione con il direttore di Averno — commentò Sidney. — Abbiamo parlato di filastrocche.
— Klyos? — disse Aaron, stupito. — Filastrocche?
— Lo conosci?
— No. Ma ne dicono tante su di lui, perfino che sia umano.
— È una cosa così strana? — In un carcere grande come quello, con un simile potenziale di disastro, sì. — Scosse la testa. — Filastrocche. Come hai fatto a ottenere che il direttore di Averno ammettesse anche solo di essere nato?
— Non sono arrivato fino a questo punto — disse Sidney. Il Mago voltò la testa verso il palco dei Nova un attimo prima che la cortina di luce lo avvolgesse e poi si risollevasse, segnalando che mancavano due minuti. Nebraska controllò l’orologio.
— L’intervallo è finito — esclamò allegramente. — Si torna alle miniere di sale.
Il Mago posò il bicchiere. — Ti fermi ancora un po’, Aaron?
Aaron scosse la testa e terminò lo scotch. — Stasera no. C’è troppo casino. Ma presto passerò a trovarti sul Pianto volante, a vedere come te la cavi con quella ricevente.
— Grazie. — Cominciò a girarsi, poi si bloccò. — Stai bene?
— Sì — rispose Aaron, e si accorse che il suo viso si irrigidiva. — Grazie. Sono solo stanco.
Guardò il Mago che attraversava il locale, lo perdette fra la folla, poi lo ritrovò quando prese posto sul palco. Ci fu una cascata di viola; i Nova sparirono nella luce, e Aaron trattenne il fiato di fronte all’improvvisa, possente e assurda visione della luce, una mano aliena che li aveva afferrati come per nasconderli in eterno entro mondi segreti e misteriosi, che si sovrapponevano alla Terra.
Si era conficcato le dita nel muscolo del braccio. Lasciò ricadere le mani, meravigliandosi di se stesso. Troppi messaggi inutili nel rifugio antiatomico? Troppo poco sonno, troppi sogni in un letto solitario? Scoprì che Sidney lo guardava, tutto serio. Fece un sorriso obliquo e raccolse una rosa nera.
— Forse una di queste potrebbe servirmi.
— Parla con Quasar — suggerì Sidney.
— No. Preferisco l’anonimato, di questi tempi. — Guardò corrucciato la sala con occhi socchiusi e critici, poi alzò le spalle, sentendo che la noia gli premeva sulle ossa come la forza di gravità. Soffocò uno sbadiglio, desiderando di essere nel rifugio silenzioso a fare altri elenchi, a cercare nuove tracce. — Sono stanco stasera. Lavoro troppo.
— Aaron, se c’è qualcosa che ti preoccupa…
— Sto benissimo, solo… — Si interruppe, stupito del tono di voce che aveva usato per rispondergli. Si scostò dal bar, e dall’amichevole curiosità di Sidney. — Qualche volta sembra peggio. Sono solo stanco, ma grazie. Buonanotte.
Si immerse nel mucchio di facce, profumi, stoffe metalliche, belletti, voci; mormorò qualche saluto, raddrizzò un ubriaco, scansò innamorati e robocamerieri. Raggiunse infine la porta ed era a metà strada nella notte quando si accorse che in mano stringeva qualcosa. Si sentì pungere il pollice. Avvertì il dolore, e insieme colse un leggero, elusivo profumo. Si fermò, battendo le palpebre.
Qualcuno gli aveva dato una rosa vera.
— D’accordo — disse il dottor Fiori, sfregandosi con le dita gli occhi iniettati di sangue. — D’accordo, d’accordo, d’accordo. Forse non ne avremo mai la certezza. Forse non sapremo mai se quello che vediamo è esattamente ciò che lei pensa. Ma dovete ammettere che è difficile dire “manzo arrosto” e pensare contemporaneamente a un elefante.
— E allora perché ci dà in risposta un sole rosso? — chiese Reina.
— Io ho detto “rosso”.
— Perché non un fuoco?
— Perché è pazza.
— E allora come mai… — Reina si interruppe, confusa, restando a bocca aperta. Terra, rannicchiata contro la curvatura della bolla, ascoltava senza interesse le loro parole. Il dottor Fiori sospirò: — Scusami. È una spiegazione stupida. È logico che le sue risposte appaiano un pochino distorte sullo schermo, chissà fino a che punto. Ma io ho detto rosso, e lei ha pensato rosso. La Macchina dei Sogni ha raccolto le sue reazioni cerebrali alla parola “rosso” e le ha registrate. La macchina funziona.
Tutt’e due guardarono la detenuta: sia la giovane donna alla consolle, con la lucida uniforme argentea e le labbra truccate ancora aperte, sia il dottore dall’aspetto arruffato, con i capelli dritti a furia di passarci dentro le dita.
— In lei non riesco a trovare niente di sbagliato — aggiunse il dottor Fiori. — Né lesioni, né squilibri chimici, né escrescenze anomale, né caratteristiche insolite nella comunicazione fra i lobi cerebrali. Dovrebbe essere in perfetta salute. L’unica aberrazione che i test hanno individuato è quella che potremmo definire un “disturbo cerebrale”. Un’eccitazione degli impulsi elettrici senza scopi o risultati apparenti. Non ho mai visto niente del genere… Ma questi disturbi si manifestano a intervalli; fra l’uno e l’altro non c’è motivo per non considerarla cosciente e lucida. E invece lei sembra assuefatta a questi “disturbi cerebrali” e alle immagini che apparentemente si portano dietro. Perché? Forse, vedendo anche noi quelle immagini, potremo conoscerla meglio. — Sorrise a Terra con aria rassicurante, quasi con affetto. E sorprendentemente lei parlò, in tono di ostinata e annoiata sopportazione.
— Nella visione non c’è.
Reina lanciò un’occhiata a uno schermo più piccolo, che mostrava in continuazione mutevoli spaccati a colori vivaci del cervello di Terra. — È presente. Nessuna interferenza.
— Terra — disse il dottor Fiori gentilmente. — Terra Viridian.
— Sì?
— Come ti senti?
— Non sono pazza.
Fiori rimase un attimo in silenzio. — Le tue percezioni della realtà sono distorte. Stiamo cercando di analizzare questo fatto, di aiutarti a vedere più chiaramente. Sai dove ti trovi?
— Non sono qui.
— Sei in un padiglione dell’infermeria di Averno, ormai da cinque giorni. Finora ti ho mostrato delle figure. Adesso è il tuo turno. Ti rivolgerò parecchie domande; voglio che tu mi mostri i tuoi pensieri, i tuoi sogni. Se lo fai, aiuterai te stessa, e forse aiuterai anche altri malati come te. Capisci?
Lei lo fissò con occhi enormi, smarriti. — Vedo — sussurrò.
— Capisci?
— Siete voi a dover capire. La visione è tutto. La visione. La visione è conoscenza. La visione è vita.
— Quale visione?
— Bruchi.
— Cosa?
— Genesi.
— Le tue parole non hanno senso, per me.
— Forma. Prendere forma. Qualcosa ha bisogno di prendere forma.
— Che cosa ha bisogno di prendere forma?
— Una cosa… nella mente.
— Nella tua mente?
— Sì.
— Che cosa?
— Non lo so. C’è solo la visione. L’Anello Scuro non è niente, non esiste. La visione è tutto.
— Allora sai dove ti trovi.
— No. So solo la visione.
La testa della donna crollò stancamente contro la parete della bolla. Un’immagine comparve nell’occhio della Macchina dei Sogni: un bizzarro ovale distorto sopra una sabbia granulosa viola chiaro.
Il dottor Fiori si tirò i capelli con aria assente, rimasticando il linguaggio che lei creava. — Sabbia. Sabbia del Settore Deserto? Lo stai registrando? Audio e video.
— Sì, dottore.
— Diventa sempre più complicato.
— Sì, signore. Che cos’è l’ovale?
— La testa di qualcuno? Un ricordo della strage, forse, distorto in un simbolo innocuo. — Guardò lo schermo mutevole. — Adesso cosa c’è?
— Sembra un muro.
— O una scogliera? Si innalza dalla sabbia.
— Ma è completamente nero.
— Un muro, allora, immagino.
— È troppo irregolare — obiettò l’assistente, guardando affascinata lo schermo, come il dottore e Terra.
— È un muro della stazione militare, distorto nel ricordo. Qualcosa ha bisogno di prendere forma… È la sua memoria che ha bisogno di prendere forma. La verità che la terrorizza. È il tentativo di sottrarsi alla verità, che la rende pazza.
— Ma era già pazza prima di uccidere tutta quella gente, altrimenti perché l’avrebbe fatto? A meno che non fosse sana di mente, e allora merita davvero di essere rinchiusa qui.
— Quindi prima le è successa una cosa ancora più orribile… Terra, mi senti? Qual è la prima cosa che ricordi? Il primissimo ricordo della tua vita. — Lo schermo cambiò immagine. Restarono in silenzio. — Acqua?
— Un oceano?
— Lei è nata lontana dalla Terra — disse il dottor Fiori, perplesso. — Non ci sono oceani, su Marte.
— Non è del colore giusto. Dottore, forse sarebbe bene sottoporla a un altro test sui colori.
— Sst. Terra, ripensaci. Sei nata su una minuscola luna che ruota attorno a un pianeta senza mari. Cosa ricordi?… Cosa succede?
— Scariche elettriche.
— Da dove vengono? Dall’apparecchiatura?
Reina sfiorò i pulsanti. — No, è lei. Una specie di… disturbo cerebrale, credo. — Guardarono lo schermo. — Blu elettrico su sfondo nero. Grazioso…
— Va bene. Proviamo con un’altra domanda. Terra, che cosa ha bisogno di prendere forma? Che cos’è? Puoi mostrarcela?
La voce di lei gli giunse da dietro le spalle, facendolo sobbalzare, perché lui aveva parlato allo schermò. — Io ho bisogno di prendere forma. — La voce era molto debole, distante. — Io ho bisogno.
— Quale forma?
Lei restò in silenzio. Lo schermo diventò buio. Il dottor Fiori si sedette.
— D’accordo — disse piano, pazientemente. — Proviamo qualche altra cosa.
Un’ora dopo camminava su e giù. Terra sedeva contro la parete a bolla, guardandolo con indifferenza da sotto le palpebre socchiuse. L’immagine sullo schermo era rimasta quasi uguale negli ultimi dieci minuti. — Che cos’è? — chiese Fiori. — Non ti ho fatto la domanda giusta? D’accordo. Non importa. La tua mente è la tua stanza segreta, chiusa a chiave; non posso entrarci a forza. Devo convincerla ad aprirsi usando la chiave giusta. Ho un milione di chiavi, un milione di parole, ma una sola è quella giusta… — Si fermò davanti allo schermo, fissò il muro nero, lo sfondo rosso in ombra. Cominciava a svanire. — E adesso? Reina, cosa sta combinando?
L’assistente batté le palpebre. Controllò il monitor. — Si sta addormentando. Era venuto sonno anche a me. Cosa stavate dicendo, dottore?
— Niente — rispose lui, in tono pentito. — Scusami.
Reina aggrottò le sopracciglia. — Siamo andati avanti per 14 ore filate. A questo ritmo, si ammalerà; è già magra come un chiodo. Cominceremo ad avere allucinazioni tutti quanti.
Fiori si lasciò cadere con riluttanza su una sedia. — D’accordo. Chiama le guardie. La rivoglio qui fra nove ore. Di’ a Ng che lo voglio al tuo posto, fra nove ore.
— Certo, dottore. — Spense la Macchina dei Sogni e si stiracchiò.
— Chissà se riusciremo a mettere a punto un sistema per registrare su nastro i suoi sogni… — disse Fiori.
— Verrò di nuovo io — disse improvvisamente Reina. — Non c’è nient’altro da fare, su Averno. Nat e Pietro giocano a carte con le guardie nel refettorio. Preferisco starmene qui a guardare.
Lui sorrise. — D’accordo.
— È interessante. Continuo a chiedermi… qualcosa a proposito dei colori che lei vede.
— Che cosa?
Reina fissò lo schermo vuoto, continuando ad aggrottare le sopracciglia. — Non ci sono scogliere in quel Settore. E perché il cielo è rosso?
Una manciata di gocce viscose multicolori che si allungavano lentamente cadendo. Una linea orizzontale, scura sopra, chiara sotto. Qualcosa che tremolava, sfocato, contro una superficie gialla. Un fulmine o un osso distorto, irrigidito in un rosso nebbioso. Una grotta piena di denti multicolori, una boccata di gemme. L’ovale piegato…
La detenuta sedeva ancora una volta dentro la bolla e creava immagini. Anche Jase era stato attirato dallo spettacolo; appoggiato contro la parete, con le braccia conserte, osservava freddamente lo schermo. Il dottor Fiori, con l’aria un po’ meno esausta, ruotava come una trottola su uno sgabello, controllando Terra e i suoi incomprensibili pensieri.
— Quella — disse infine Jase, parlando della cosa che fluiva e si increspava formando una superficie agitata — è la cosa più bizzarra che abbia mai visto. Dottor Fiori, siete sicuro che la macchina funzioni?
— L’ho controllata — disse il dottor Fiori. Si picchiò con il dito la testa, distrattamente. — I miei stessi pensieri. Variazioni secondarie…
— A Terra dà fastidio se parlo?
— Guardatela. Non sa nemmeno che siete qui. Voi non siete nella visione.
— La visione — ripeté piano Jase. La vita, gli sembrava, era un grappolo di visioni. Le proprie, quelle di qualcun altro, e tutte esigevano attenzione, tutte si collegavano o contrastavano con un altro ostinato miscuglio di aspirazioni ed esperienze. “Io ho la visione di non lavorare qui”, pensò”, “che rimbalza contro la visione di qualcun altro che invece mi vede lavorare qui. La mia visione sgomita la sua, la sua sgomita la mia… Mentre aspettiamo di vedere quale delle due visioni è più forte, il lavoro viene eseguito. Quando la tua visione è così forte che non scorgi più il mondo, quando vedi solo ciò che è dentro la tua testa, allora diventi pazzo. Oppure cambi il mondo”, aggiunse dopo un momento di riflessione.
Esaminò la detenuta, afflosciata su se stessa, troppo persa nella sua stessa mente perfino per battere le palpebre. Non era nemmeno in grado di cambiarsi le calze da sola.
E poi lei gli restituì lo sguardo, guardandolo in faccia con occhi rannuvolati, e lui si sentì venire la pelle d’oca. Distolse lo sguardo e vide sullo schermo un viso d’uomo, con le sopracciglia scure, gli occhi intensi, severo pur essendo paffuto; l’individualità era andata perduta nella trasposizione dagli occhi di Terra alla macchina, ma era ancora il suo viso.
“Al diavolo”, pensò stupito. “Funziona.” — Terra — disse il dottor Fiori gentilmente — puoi parlarci delle immagini che ci hai appena mostrato? Cosa significano?
— Significano… — La voce si affievolì, stancamente. Poi tornò. — Quello che sono.
— Ma che cosa sono?
— Sono quello che esiste.
— Dove?
Lei deglutì. Agitò appena le mani nell’ombra. — Sono i messaggi. Sono le vie d’accesso.
— Vie d’accesso a che cosa?
— Al cambiamento.
— Chi cambierà? Tu?
— Sì. Io.
Un caso disperato, pensò Jase. Ma il dottor Fiori sembrava compiaciuto.
— Quando sono cominciate le immagini?
— Quel giorno — disse Terra.
— Quale giorno? — Si interruppe, poi aggiunse piano: — Quel giorno nel deserto?
Terra strinse i pugni, mosse la testa avanti e indietro. — No. No. No…
— Terra.
— No.
— Terra!
— Quello era nella visione.
— Era… — Il dottore si interruppe di nuovo, a bocca aperta, come se cercasse qualcosa a tentoni. Reina lo guardò, e nel suo viso calmo e sereno le sopracciglia erano sollevate. “Per lei è un gioco”, pensò Jase. “Per lei Terra non è umana, è un puzzle scomposto nei suoi tasselli. Una cosa del genere non potrebbe mai capitare a una donna in tuta argentea chiamata Reina, finché si mette il rossetto ad arte e usa in una frase parole come genesi.” Ad alta voce, disse: — Premeditato? — Il dottor Fiori gli lanciò un’occhiata vaga, come se a parlare fosse stata una sedia.
— Terra, quale giorno, allora? In quale giorno ebbe inizio la visione?
— Il giorno in cui le arance diventarono rosse.
— Il giorno in cui… Terra, puoi mostrarmelo? Cos’altro successe quel giorno? Che cosa vedevi? Rifletti. Ricorda. Cosa successe quando le arance diventarono rosse? Perché diventarono rosse? Mostracelo.
Arance in una fruttiera azzurra. Il loro riflesso su un tavolo cromato. Più in alto, l’orlo di una tendina bianca. Una mano, tesa a prendere un’arancia. Un’ombra rossa a ricoprire il tutto.
— Ebbe inizio — disse Terra semplicemente.
— Cercate di capire — disse il dottor Fiori nel refettorio, davanti a una tazza di brodo. — Sta cercando a tentoni una via d’uscita dalla pazzia. Sta inventando un proprio linguaggio simbolico, ma ha paura di adoperarlo, di adattarvisi fino in fondo. Ha paura di ricordare la causa prima che l’ha condotta alla pazzia. Quello che accadde il giorno in cui le arance diventarono rosse.
— Quindi non fu il massacro in sé — disse Jase cortesemente.
— Non credo. Anche se — ammise — è difficile concepire un evento più traumatico di quello. Qualcosa ha offeso gravemente il suo senso della realtà, il suo senso di equilibrio nel mondo.
— Volete dire che le è successo qualcosa che può giustificare le sue azioni nel Settore Deserto?
— No, no — disse subito il dottor Fiori. — Non cerco giustificazioni. Mi interessa in primo luogo il linguaggio che lei usa, e se è possibile farle superare il trauma. — Sorseggiò il brodo e aggiunse: — A tutti capitano cose terribili. La maggior parte trova un modo per assimilare l’esperienza, per adattarvisi. Noi… Non ve ne importa niente — disse in tono d’accusa. Jase si accorse di portare ancora sul viso una maschera di cortesia e la lasciò finalmente cadere.
— Credo di no — rispose lentamente. — Ha rovinato tutto con le arance. Fino a quel momento riuscivo a seguire un pochino il vostro modo di vedere; forse le immagini bizzarre potevano proteggerla da qualcosa. Ma se la causa prima è stata una fruttiera d’arance, allora penso che non abbia importanza dove lei sia rinchiusa, nell’Anello Scuro o a Nuovorizzonte… È semplicemente fuori di senno, e non riuscirete mai… — Si interruppe, con un gesto della mano. — Cosa ne so, io? Siete voi il dottore. Penso che la vostra macchina sia incredibile, ma con lei perdete il tempo.
— Forse — disse il dottor Fiori, chinando il viso sopra la tazza di brodo bollente. — Come mai avete tanti pregiudizi per una fruttiera d’arance?
Jase si lasciò andare contro la spalliera. — Ha massacrato tutte quelle persone perché un’arancia è diventata rossa. L’idea mi lascia freddo. Non riesco a provare niente per lei in quanto essere umano. Non potrebbe importarmene meno.
— Allora prima ve ne importava.
Lui scosse la testa. — Non me ne importava neanche prima. Qui ha avuto quello che meritava… anzi, meno. Eppure…
— Eppure.
— Non è una criminale. Nelle sue azioni non c’è malignità, interesse, rabbia, nessuna motivazione umana. Non si possono provare sentimenti per una persona così aliena. Tranne forse paura.
— Di lei? O di voi stesso?
Jase guardò il dottore. Già da tempo aveva scoperto che la migliore difesa contro domande del genere era quella di rispondere. — Penso — disse infine — che la mente delle persone sia come una casa. Piena di camere da letto, cantine, soffitte, sgabuzzini, cucine, soggiorni eleganti, giardini… Piena di porte. Quando avrete raggiunto la mia età, è molto probabile che abbiate già aperto tutte le porte. Che sappiate in quali sgabuzzini sono racchiusi i mostri, quali esseri orribili vivono in cantina, quali impulsi sanguinari si nascondono dietro la porta della soffitta. Saprete, allora, quanto valgono per voi. Io sono a mio agio, in casa mia. Se qualcuno suona il campanello, lo faccio entrare.
Il dottor Fiori posò la tazza e sorrise. — La prima volta che ho parlato con voi non credevo che vi avrei trovato simpatico.
— Be’ — disse Jase a disagio. — Non si può mai sapere.
— Non dovreste giudicarla troppo frettolosamente, a questo punto. Le fruttiere d’arance non fanno impazzire la gente. Nel suo cervello non c’è niente di sbagliato. È lei stessa che si rende pazza. E ci dirà perché. Non può parlare. Le parole la terrorizzano. Sono troppo precise, o troppo imprecise, chissà. Oppure non abbiamo ancora inventato le parole per esprimere quello che lei ha visto. Per cui racconta la sua storia in un linguaggio che è muto, nella speranza che qualcuno impari ad ascoltare.
Il Mago sedeva da solo nel Constellation Club, ad ascoltare. Suoni che gli ricordavano altri suoni. Attorno a lui il silenzio diventò gradatamente stratificato e intessuto di musica. Le pareti erano color indaco. Fra le tre e le quattro del mattino il mondo era più immobile che mai. Il Mago poteva persino udire il lontano ululato lamentoso dell’ultima sirena che continuava a mettere in guardia contro la nebbia. Le sue dita trovarono sulla tastiera le due note di basso fra cui si nascondeva il gemito della sirena. Sfiorò i tasti, sovrapponendo le due note alla sirena, continuando ad ascoltare.
Allungò la destra verso la chiave di soprano, un’increspatura di nebbia sullo sfondo del basso triste e pensieroso. Nella sua mente udì la voce vivace e irrequieta dell’arpa a canne, il tuono dei cubi. Il viso latteo della nebbia profilato contro l’azzurro cupo del cielo, il frastuono tumultuante della marea, la sirena che gemeva, con la sua voce personale e insistente, di cose invisibili, segrete, inaspettate, che potevano o non potevano essere racchiuse nella nebbia…
Un rumore di passi dissipò la nebbia. Sorpreso, il Mago si girò sullo sgabello del piano. Attorno a lui le cupe pareti del locale si riformarono. Al loro interno c’era un silenzio vuoto. Sul palco l’arpa a canne e i cubi, coperti per non prendere polvere, avevano suonato solo nella sua mente.
Aaron, in uniforme, si bloccò a metà di un passo. — Scusami — disse. — Ho visto che la porta esterna era aperta. Ho pensato bene di controllare… È tardi per stare ancora qui.
Il Mago annuì e si alzò per sgranchirsi le gambe. — Abbiamo tenuto una riunione dopo la chiusura. Io mi sono fermato per accordare il piano. Credo di essermi distratto. Certe notti questo posto è molto tranquillo. Più tranquillo anche dello scalo della lancia.
— Ho interrotto il genio al lavoro?
Il Mago rise. — Figuriamoci. Ascoltavo la sirena per la nebbia.
Aaron attraversò la sala e si lasciò cadere sulla rampa del palco. — È una notte tranquilla — commentò. — Una volta all’anno tocca anche a noi una notte così. Niente luna piena, zuffe, guidatori indisciplinati, baruffe familiari. Teppisti e cecchini, e persino le bande da strada, se ne stanno a casa. La persona più pericolosa che ho visto stanotte sei tu.
— Un po’ tocco ma inoffensivo — mormorò il Mago. Aaron lo guardò premere un tasto, chinarsi verso la corda ed effettuare una microscopica regolazione.
— Sei pronto per la tournée?
— A parte la ricevente che è impazzita del tutto, uno schermo riflettore ammaccato, un rumore non identificato nelle tubature, un’ex-detenuta come cantante e un cubista catatonico, siamo pronti.
— Il Giocatore viene con voi?
— Lui sostiene di no. Forse saremo costretti a rapirlo.
Aaron emise un brontolio. — Conoscerai pure qualcuno.
Il Mago scosse la testa e accordò un’altra nota. — Nessuno bravo come lui. Andiamo lo stesso, comunque.
— E come? Senza il cubista?
In risposta risuonò ripetutamente un sol basso. Aaron rimase in ascolto, ma il minuscolo cambio di tono gli sfuggì. Si appoggiò stancamente su un gomito. Una chiamata di servizio gli risuonò nell’orecchio, facendolo irrigidire di nuovo; la chiamata non era per lui. Comunque il suo corpo si agitò, poi si calmò. Aveva bisogno di un intervallo, e dentro quel silenzio azzurro cupo poteva quasi sentire la musica della serata appena trascorsa, e della serata seguente, che si librava in attesa al limitare del tempo.
Si scoprì a sbadigliare; il Mago smise di suonare un la bemolle.
— Hai l’aria di chi non ha dormito — commentò. Aaron alzò appena le spalle.
— Continuo a sognare. — Il Mago gli dedicò un’attenzione impersonale, e lui aggiunse, come se parlasse fra sé: — A volte attraverso periodi di brutti sogni… Sei mai stato sposato?
— Una volta. — Ridacchiò, per qualche motivo. — Ci siamo lasciati da amici. E tu?
— Una volta. — Attese che un’altra nota si spegnesse. Il viso del Mago era calmo, assorto. La nota si arrestò. Nel silenzio tutta la musica si arrestò improvvisamente.
Aaron alzò la testa, vide che il Mago lo fissava. Il respiro gli si fermò; si sentì rizzare i capelli. Per un attimo il fantasma di una donna si era levato, non richiesto, fra loro. Il Mago, con il viso pallido, gli occhi spalancati, sembrava scorgerla, sembrava aver raccolto dal luogo più intimo della mente di Aaron un’eco del suo tormento. Aaron, irrigidito sotto lo sguardo del Mago, aspettava come un condannato che lui la riportasse indietro con le parole.
Ma era stata poco più di una semplice sfumatura di angoscia. Gli occhi del Mago tornarono di nuovo al tasto che sfiorava.
— Un incidente?
Aaron deglutì. — Sì.
— Mi spiace. È questo che continui a sognare?
— Ritorna, di tanto in tanto.
— Non me ne hai mai parlato.
— No. — C’era un duro avvertimento nella sua voce. Il Mago chinò la testa sul lavoro. Il si bemolle risuonò una volta, due. Aaron sospirò. Parlò di nuovo e la nota si smorzò. — È… Ho sempre trovato difficile parlare di cose del genere. Forse è per questo che sono costretto a sognarle.
— È probabile. Scusa se te l’ho fatto ricordare.
— Non sei stato tu — disse Aaron disperatamente. — Ti sei limitato a tirarmelo fuori dalla testa. Ti sei limitato…
Il Mago lo guardò di nuovo, cercando di ricordare. Il tasto si muoveva ancora sotto le sue dita. Il suo viso aveva perso il colorito e la serenità; gli occhi si erano leggermente socchiusi, come sotto un vento gelido. — Era nella tua voce.
Aaron scosse la testa, ostinato. — Era nel silenzio che ha seguito la mia voce.
Il si bemolle risuonò ancora una volta. Poi il Mago alzò la mano, si toccò gli occhi con le dita. Si avvicinò al bordo del palco e si lasciò cadere vicino ad Aaron.
— Non lo so. Può darsi.
— Sei cresciuto con questo dono?
— Che mi ricordi, non l’ho mai fatto di proposito. Non ci bado affatto. A volte sento delle cose, tutto qui. Succede a tutti. Anche a te.
— Io non ti tiro fuori cose dalla mente.
— Perché non ci conservo molto, oltre alla musica — disse il Mago, in tono così ragionevole che Aaron sorrise. — In questo momento ci conservo il suono di quel si bemolle. Lo ascoltavo, ne sentivo la vibrazione nell’aria quando ti sei messo a parlare; forse ho anche raccolto accidentalmente da te qualche sfumatura sottintesa. — Si interruppe, rimettendosi in ascolto, o scandagliando il silenzio. Aaron resistette all’impulso di scostarsi da lui. Tenne gli occhi fissi su una porta lontana per escludere il Mago dalla sua vista e lasciò che il suo silenzio escludesse il Mago dalla sua mente.
Non udì il Mago muoversi; il si bemolle risuonò ancora, delicato, remoto. Si accorse di aver ripreso a respirare, di aver ripreso colore. Allora desiderò che le parole tornassero, perché perfino lui riusciva a sentire il gelo che il Mago aveva lasciato nell’aria. I fantasmi, ricordò, emanano freddo. Si girò, senza sapere se le parole avrebbero superato l’irrigidimento che si sentiva in gola. Ma il Mago si era di nuovo chinato sul piano, lasciando Aaron alla sua intimità. Aaron si girò di nuovo, fissò la porta aperta, e per un attimo gli parve che fosse un ingresso verso il nulla, verso un mondo in cui scorrazzavano fantasmi, alla ricerca del passaggio inesistente che li avrebbe riportati al passato.
La porta si spalancò.
Aaron si bloccò sulla rampa, intrappolato, nonostante tutto il suo allenamento, da un’ambiguità. Una donna apparve fra le ombre; lui la guardò, senza muoversi, senza respirare. Lei lanciò un’occhiata al palco, al Mago perso dentro il piano, intento a rafforzare e ingentilire quell’unico piccolo suono che ne traeva. Si richiuse piano la porta alle spalle. Uscì dall’ombra, e Aaron riprese a respirare.
La donna indossava un’argentea tuta sgualcita. La sacca rigonfia che portava a spalla traboccava di cose bizzarre: merletto nero, seta rossa, un tacco coperto di strass, un paio di bacchette per cubi dipinte di rosa. Il suo viso ammiccò nella luce, il luccichio dei capelli rispecchiò la lucente maschera di vernice d’oro così liscia e ricca che Aaron provò un desiderio improvviso di toccarla per vedere se era calda come sembrava. I suoi capelli, lunghi, scompigliati, scarlatti come il colore d’una carta da gioco, gli solleticarono la memoria. E allora lei lo vide; i suoi passi rapidi persero il ritmo, attardandosi. La sua testa si girò verso di lui; i suoi occhi, ben distanziati, profondi, grigio opaco, gli restituirono lo sguardo. “Conosco quegli occhi”, pensò lui, nuovamente all’erta, mentre il ricordo si sforzava di emergere. “Li conosco”. Passarono secondi, o forse intere ore fra un passo e l’altro, mentre lui estraeva il ricordo da se stesso, da lei. Gli occhi della donna cambiarono, oscurati come da un improvviso mutare della luce, e Aaron finalmente capì ciò che credeva di riconoscere in lei: lo stesso tormentato mondo interiore in cui anche lui viveva.
Poi lei lo chiuse fuori, lo lasciò a fissare la maschera. Il suo passo divenne di nuovo veloce; girò la testa verso il Mago, cominciando a sorridere mentre lui cercava a tentoni un altro tasto. Il sorriso divenne una risata, forte, esuberante, e il Mago si scostò dal piano girando di scatto la testa verso di lei.
— Signora dei Cuori!
Eccola qui, pensò Aaron, ricordando la mano di poker di Sidney. Scala matta.
Lei rise ancora mentre il Mago balzava giù dal palco, e gli gettò le braccia al collo. Degli oggetti caddero per terra: una bacchetta per i cubi, e dai capelli una forcina a forma di cuore. Era una donna dello spazio, si rese conto Aaron. Muscoli snelli e ossa lunghe, il tipo di corpo fatto per librarsi nell’assenza di peso.
— Magico Capo, sei ancora qui! Dopo tutti questi anni! Non riesci a strapparti dai pianoforti di Sidney?
— Continua a trovarmene di nuovi. — La tenne scostata, per guardarla meglio. — Dove vai girando, alle quattro del mattino? L’ultima volta che ho sentito parlare di te, eri in tournée con i Ramjet.
— Non ho potuto venire prima — disse lei vagamente. — I Ramjet… Oh, li ho lasciati un mese fa.
— Perché?
Lei alzò le spalle; un’altra forcina a forma di cuore cadde per terra. — Mi ero stufata.
— Nel bel mezzo di una tournée completa del Settore?
— Be’ sì, ma sono rimasta fino alla fine del giro. Magico Capo, sembri… sembri… — Gettò le braccia in aria, rise di nuovo, gli toccò le spalle. — Sei uno spettacolo per i miei occhi, come tornare a casa o roba del genere. Ho sentito la mancanza delle tue esecuzioni di Bach. Nessun altro suona il piano. Oh, qualche complesso lo fa, ma non così. Non come te. Comunque. Ti ho visto. Ma non avuto tempo di… Suono qualche isolato più avanti. Lo so che non ascolto la tua musica da un pezzo, ma ho suonato di tutto. Persino… — Guardò Aaron, continuando a sorridere. — Il Profondo rosso mentale. Non Ultimo rosso, non è morto nessuno, ma è stato uno spettacolo lo stesso. Un frastuono incredibile, però. Non sono durata a lungo. Mi sono stufata di strumenti rotti. Non gli avrei lasciato toccare i miei cubi, comunque, e siccome ero io, non mi hanno fatto…
— Hai suonato il PRM? — chiese incredulo il Mago. Aaron, affascinato dal delicato turbinio di parole, si chiese se la ragazza avesse sniffato qualcosa. No, si disse poi. Pareva che il Mago ci fosse abituato.
— Be’, volevo suonare ogni tipo di musica.
— Il PRM non è…
— Magico Capo, possiamo discuterne più tardi, davanti a un barile di birra. Oppure bevi ancora scotch? Comunque, se vuoi, puoi venire a sentirmi suonare prima di dire sì o no, e non mi offenderò se… dopo tutto, quanti anni sono? Cinque anni, da quando suonavo con te? E poi…
— Sì o no a che cosa? — chiese il Mago, completamente sbalordito.
— A me. Ho incontrato il Giocatore l’altra sera allo Starshot, dove ho suonato quest’ultima settimana. Si era attaccato al bar come se fosse sua madre, e sembrava uno spaventapasseri terrorizzato. Lo sai che aspetto ha. Non sopporta l’alcool, deve avere qualcosa a che fare con il suo senso dell’equilibrio. Comunque, mi ha detto della tua tournée su Averno, e allora gli ho detto che se prendeva il mio posto allo Starshot avrei partecipato io. Alla tournée spaziale. — Si toccò una forcina a cuore. — Su Averno.
Per un istante il Mago rimase talmente immobile che Aaron si chiese se non gli fosse venuto un colpo. Poi l’aria tutt’intorno si tinse improvvisamente di rosso, come se il cuore del Mago l’avesse spruzzata di sangue. Il corpo di Aaron si tese, mentre una parola gli nasceva e gli moriva in gola. Prima che potesse muoversi, l’aura era sparita. La ragazza, anche lei di colpo senza parole, tastò l’aria dietro il Mago.
— Magico Capo, non hai staccato i neurocavi?
Il Mago, dimentico, alzò le mani e la abbracciò, sollevandola con delicatezza, come se lei potesse tramutarsi in fumo all’improvviso. — Tu? Vieni tu?
Lei rimase in silenzio. Un lieve sorriso affettuoso le cambiò ancora gli occhi. — Se mi vuoi, Magico Capo. Mi piacerebbe suonare di nuovo con te. La tua musica mi manca.
— Se voglio. Dio santo — disse reverentemente — ho minacciato di morte il Giocatore, se non avesse trovato un sostituto. Non avrei mai pensato che trovasse te. — Le diede un rapido bacio sulla guancia. — Grazie. — Si accorse di Aaron, che sorrideva dietro la ragazza. La posò a terra, la guidò sulla rampa, e Aaron scese con un salto dal palco.
— Ti presento Aaron Fisher, un mio caro amico. Aaron, questa è la migliore cubista del 14° Settore: la Regina di Cuori.
Lei tese una mano sottile, dalle dita lunghe; aveva la stretta robusta del cubista. I suoi occhi, rivolti al viso di Aaron, sorridevano, nuovamente opachi. — Non ho orecchio per la musica — disse Aaron. — Riconosco appena gli accordi dell’ascensore. Ma ho già sentito il vostro nome.
— Be’, sono stata in tanti di quei complessi, in tanti di quei posti… ma mai — aggiunse in tono serio — in ascensore. No. Sono sicura. Il Mago vi offriva un concerto? È per questo che ve ne stavate sulla rampa?
Aaron sorrise. — Sono solo entrato a vedere chi aveva lasciato la porta aperta. — Il trucco del viso, anche visto da vicino, era senza pecche; resistette ancora al desiderio di toccarla. Si scoprì a dire oziosamente: — È un complimento eccezionale, Magico Capo, quello che ti fa la miglior cubista del 14° Settore: lasciar perdere tutto per venire a suonare con te.
Lei scosse la testa; forcine a cuore scivolarono e si impigliarono; un colletto di crinolina nera cadde dalla sacca. Lei lo raccolse distrattamente e se lo infilò al braccio come una giarrettiera. — Ho suonato dappertutto, certo, sugli asteroidi, negli alberghi galleggianti, in club così minuscoli che era difficile muovere le bacchette dei cubi senza far cadere i faretti dal palco. Ho compiuto tre giri completi del Settore, ognuno con un complesso diverso. Forse crederete che nessuno vuole più avere a che fare con me, perché finisco sempre con l’andarmene. Però li lascio migliori di come erano, e la gente dice che mi porto dietro la fortuna. La Regina di Cuori, la Signora Fortuna. — Rise piano, senza traccia d’amarezza. — Non so se sia vero. Però sono stata dappertutto, ho suonato ogni cosa. E niente mi è mai rimasto in mente come la musica del Mago. Così sono ritornata. — Si interruppe; gli altri due attesero, in un silenzio incantato. — Qui. — Inaspettatamente i suoi occhi cambiarono, si spalancarono, brillando lievemente. Si chinò rapidamente a raccogliere la bacchetta per i cubi. — Qui.
Una scarpa le cadde dalla sacca. Aaron si chinò a raccoglierla; quando si rialzò, lei si era nuovamente barricata dietro quel suo sorriso. Rigirò mollemente la scarpa fra indice e pollice; le pagliuzze di strass mandarono lampi di luce.
— Suoni ancora Bach, Magico Capo?
— Oh, certamente.
— E il Pianto volante? — Le pagliuzze improvvisamente restarono immobili; il suo viso, dietro il sorriso, era immobile. — Ce l’hai ancora?
— Lo useremo per la tournée — disse il Mago, e le luci rotearono ancora nella mano di lei. — Proveremo qui dopo l’orario tutte le sere delle prossime due settimane. Ce la fai?
— Certo.
— Di’ a Nebraska dove sono i tuoi cubi e lui ti aiuterà a trasportarli. Domani chiamerò l’agenzia per farti avere un passaporto spaziale… No, non posso chiamare finché non avrò aggiustato quella maledetta ricevente…
— Al passaporto ci penso io — disse lei in fretta. — Magico Capo, ti serve aiuto per la riparazione? Da piccola rabberciavo la navetta spaziale di papà. Darò un’occhiata alla ricevente. Oh, sono anche capace di tenere la rotta, nello spazio. L’ho imparato in uno dei miei giri. Mi pare con i Cygnus. — Rise all’espressione del Mago. — Be’, mi annoiavo.
— Signora dei Cuori, sei un dono del cielo.
— Forse. Forse però il dono sei tu… — Infilò di nuovo la scarpa nella sacca, con il viso nascosto dai lunghi capelli spettinati, scarlatti.
— Dove siete nata? — chiese Aaron, piuttosto incuriosito.
Lei si tirò indietro i capelli con uno scatto della testa e lo guardò. Alzò la mano a sistemare una forcina. Disse lentamente: — Adesso mi ricordo di voi. Il Mago e Sidney Halleck giocavano a poker. Voi guardavate le carte di Sidney.
Lui annuì. — Sidney aveva anche la carta che vi raffigura.
Con le dita che tormentavano ancora la forcina, lei sembrò all’improvviso accorgersi di lui; la sua statura e il suo peso, il timbro della voce, le rughe del viso che testimoniavano la sua scelta di vita, l’ombra della barba del mattino sulla mascella. Aaron vide che agli occhi della ragazza era diventato qualcosa di più che un oggetto di scena nell’universo del Mago. Lei aprì bocca per dire qualcosa, si arrestò. Poi pronunciò la frase, in tono esitante, sorpreso: — Verrete a sentirmi suonare?
Aaron sorrise. Si sentì stanco, poi piacevolmente stanco, e seppe che, per motivi ancora insondabili, quel giorno avrebbe dormito senza sognare.
— Ne sarò felice — rispose.
Tornò la sera dopo, e quella dopo ancora, e tutte le sere seguenti, sottraendo tempo ai suoi turni di pattuglia per scivolare dentro la porta del Constellation Club alle due, alle tre, alle quattro del mattino, per guardare lei. A volte aveva l’occasione di parlarle, a volte no. Le sere in cui era fuori servizio rimaneva ad ascoltare le prove dall’inizio alla fine, seduto al bar accanto a Sidney Halleck, mentre la squadra delle pulizie girava senza far rumore per il vasto locale, aspirando, lustrando. Anche se non era in grado di distinguere un cubista dall’altro, a volte i potenti ritmi controllati delle sue bacchette lo scuotevano come se sentisse l’irrequietezza, le parole di un essere nascosto sotto di loro nelle profondità della terra. Circondata dai cubi caldi e splendenti, con il viso concentrato e assente, bagnata dalla luce d’oro e dai fuochi interiori dei cubi, la ragazza riuscì a evocare dalla mente di Aaron una parola che lui non sapeva nemmeno di conoscere.
— Sembra una fata…
Sidney, che sorseggiava birra accanto a lui, sorrise. — Forse lo è davvero. È comparsa dal nulla e ha esaudito il desiderio del Mago. Hai controllato in archivio se c’è qualcosa su di lei?
— No — disse Aaron, sorpreso. — Perché avrei dovuto?
— Lo fai sempre.
Aaron restò in silenzio. Si chiese se il mistero stava proprio lì, in una delle schede del GLM. Tutta la sua ossessione si riduceva a un’unica, arida frase: moglie… deceduta. Una frase che non diceva nulla. La fuggevole visione di un compagno di viaggio nel triste deserto gelido che conosceva così bene poteva essere spiegata in modo altrettanto conciso da una o due parole negli archivi del GLM, ammesso che riuscisse a riconoscerle. Oppure, secondo gli standard del GLM, forse non meritava neppure una parola.
— Questa volta — disse piano, distogliendo il viso da Sidney — preferisco chiedere.
La ragazza sembrava attirata da lui, e durante gli intervalli gli si avvicinava chiacchierando amichevolmente, come una barca che sfuggisse la tempesta in un porto tranquillo. Gli disse molte cose. Aveva percorso strade a lui familiari, aveva visto gli stessi bar rumorosi e pieni di fumo, gli stessi club sfarzosi e inebrianti, aveva udito gli stessi brandelli di musica uscire da porte aperte quando la foschia dell’estate non tornava al mare e la luna piena era appesa nel cielo come un’arancia insanguinata. E tuttavia non gli disse niente.
— Perché non rispondi mai a una domanda diretta? — le chiese Aaron una notte, mettendo da parte la prudenza. Lei si limitò a ridere.
— Per esempio?
— Come ti chiami? Dove sei nata? Ti togli mai il trucco di scena dal viso?
— No — disse lei. E poi: — Be’, a volte. Ma mai e poi mai in presenza di qualcuno. Sai come si chiama il Mago?
— Sì, ma ho giurato di mantenere il segreto.
— Be’, io no. Non gliel’ho mai chiesto. Non è importante. Come per Nebraska. Una volta gli chiesi dove si trovava il Nebraska, quando aveva ancora questo nome, e lui mi disse che era da qualche parte nel Settore Costa Orientale. Viene da pensare che sia nato lì, in quello che era il Nebraska pre-GLM, non è vero? Ma per i lunghi baffi e la pronuncia strascicata si è ispirato a qualche antico telefilm, e il luogo che lui riteneva il Nebraska era invece la Virginia Occidentale. Però qualcosa va perso, se si conosce tutta la storia, non credi? Qualcosa di piccolissimo, ma importante. A modo suo.
— Tu dove sei nata?
— Sulla Luna.
— Ah… — Sidney alzò una spalla, coperta da un velo di sudore che di colpo fece svanire ogni pensiero coerente dalla mente di Aaron. — Mi hai rivolto una domanda. Ti ho risposto.
Nel suo subconscio la cercava, come cercava guai nella città irrequieta; ogni pulsazione di cubi che udiva sembrava provenire da lei. In qualsiasi cosa fosse impegnato — servizio di aeropattuglia, dispacci, rapporti, risse per le strade o inseguimenti all’impazzata — finiva inevitabilmente per entrare nel Constellation Club nelle ore in cui c’erano i Nova. Sono come drogato, pensò disperatamente. Intossicato da una cubista con il viso d’oro. Lei non pretendeva nulla: abitava nella sua mente ma non interferiva con il suo lavoro. Si limitava a essere presente nei suoi pensieri, perché lui lo voleva, fino al momento in cui entrava nel club e scorgeva i suoi occhi esplorare le luci e le ombre finché non lo trovava e smetteva di cercare.
Aaron saltò l’ultima seduta di prove. Incidenti e rapporti da redigere con cura lo tennero lontano finché, quasi all’alba, entrò stancamente nel club. Sidney c’era ancora, in quell’ora perduta, non reclamata né dalla notte né dal mattino. Aaron si unì a lui. Sul palco il Mago, colorandosi di verde, scosse la tastiera in un ultimo accordo. Un fiotto di luce schizzò dall’arpa a canne. La Regina di Cuori incorniciò il proprio viso con le bacchette e le calò con uno schianto. Il palco si oscurò. Ci fu un attimo di silenzio. Poi dal buio provenne un unico, dolce fraseggio di Bach.
Aaron e Sidney applaudirono. Nebraska riaccese le luci del palco. Quasar si lasciò cadere sulla rampa, scosse selvaggiamente i capelli riempiendo l’aria di bagliori.
— Merde - disse raucamente. — Che ore sono?
La risposta di Nebraska si mutò in uno sbadiglio. Il Mago lanciò un’occhiata al polso, ma la sua mente sembrava ancora avvolta dai colori e non registrò niente. Sidney disse: — Le quattro e mezzo. Buon giorno, Aaron. Chi ti ha strappato le tasche?
— Merde - ripeté Quasar. Si girò, rivolse un ghigno maniacale pieno di riflessi argentei alla Regina di Cuori. — Hai suonato magnificamente.
La Regina di Cuori fece per appoggiarsi alla parete, poi si ricordò che non c’era nessuna parete. I suoi occhi avevano trovato Aaron, oltre la luce. Lui inspirò silenziosamente perché, come quando l’aveva vista per la prima volta, si sentiva pietosamente in balia e del passato e del futuro. Ecco l’assuefazione, pensò, la liberazione dai ricordi, da se stessi. Ecco che lei lo riportava con forza al limitare del territorio nascosto dietro i suoi occhi. Lei non sorrise; i suoi occhi, sopra i cubi luminosi che si raffreddavano lentamente, acquistarono una sfumatura più cupa.
Il Mago si avvicinò al banco del bar. — Com’è andata? — chiese a Sidney. — Siamo all’altezza di Averno?
— Probabilmente provocherete una disgregazione permanente delle sue onde sonore.
— Non è quello che vogliono? — Allungò la mano oltre Aaron per prendere una salvietta. — Cos’è successo ai tuoi calzoni?
— Non sono stato abbastanza veloce — disse distrattamente Aaron, guardando la Regina di Cuori che scendeva dal palco. Il Mago gli lanciò uno sguardo incuriosito. Nascose dietro la salvietta il sorriso improvviso che gli saliva alle labbra. Sidney, amabile stregone del suo stesso reame, andò dietro il banco a versare birra.
La Regina di Cuori si unì a loro. Non guardò Aaron, ma gli si fermò vicino, e lui capì con un sussulto quanto poco mancava alla partenza. La domanda di lei, genericamente indirizzata all’universo, era rivolta a lui: — Ti è piaciuto? — Finalmente lo guardò. Nelle ombre fumose e ingemmate i suoi occhi erano color dell’aria.
— Immensamente — disse Aaron.
Lei sorrise. — Ma tu non c’eri!
— C’ero io — disse Sidney. — Sei stata fantastica.
Il Professore si drappeggiò sopra il banco. — Sono morto e sulla strada dell’Averno. Signora dei Cuori, ci hai trascinati a tal punto che temevo che la mia arpa si schiantasse.
— Siete stati voi a trascinare me — disse lei. Si alzò i capelli sulla nuca, se li raccolse sulla testa. — In occasioni come questa santificherei chi ha inventato la vernice per il viso a prova di sudore.
— L’agenzia si è messa in contatto con te? — chiese Sidney al Mago.
Il Mago scosse la testa da sopra il boccale di birra. — Perché?
— Oggi mi hanno detto che il tuo concerto a Helios sarà registrato via satellite e trasmesso sulla rete NSBC.
Nebraska restò a bocca aperta. — Scherzi! Noi? — Batté un colpo sulla schiena del Mago. — Andiamo in onda!
Il Mago si scosse dalle dita gocce di birra. — I Nova sono un complesso da club. Come diavolo hai ottenuto che i mass-media ci prendessero in considerazione?
— Interesse umano. Il primo complesso che suona su Averno, l’effetto sui detenuti nello spazio, eccetera. Imbastiranno una storia sul programma di riabilitazione, ma non sono riusciti a ottenere il permesso di portare una troupe su Averno, per cui vi filmeranno a Helios.
— Sidney, sei un genio.
— Lo so — disse Sidney, imperturbabile. Aaron si girò verso la Regina di Cuori, con il desiderio di guardare ancora i suoi occhi. Ma lei non era più al suo fianco. Si guardò attorno stupito e la ritrovò sul palco, intenta a vagare senza scopo intorno ai cubi. Si stupì del suo insolito silenzio, del distacco che aveva improvvisamente messo fra sé e gli altri. Fece per muoversi verso di lei, si fermò accanto al banco, poi comprese quanto era grande il vuoto che si lasciavano dietro le parole non dette, le azioni solo contemplate. Avvertì l’attenzione del Mago come un faro puntato addosso. Il vecchio impulso familiare di proteggere le proprie azioni, di nascondere la propria vita, lo trattenne ancora un istante al banco, a sorseggiare birra, senza ammettere niente.
E poi pensò: “Al diavolo tutto quanto.”
Posò la birra e attraversò il locale, salì la rampa fino al palco dove la Regina di Cuori continuava a fissare i suoi cubi. Quasi freddi, sfolgoravano ancora confusamente di tanto in tanto dall’interno, come stelle in via di estinzione.
Fermo accanto a lei, incerto, disse la prima cosa che gli venne in mente. — Hai già aggiustato la ricevente?
Lei scosse la testa all’improvviso, quasi con rabbia, come se rispondesse a una domanda rimasta inespressa. Forcine a cuore scivolarono via; lei le raccolse. Lui l’aiutò. Le sue dita le sfiorarono una volta la guancia, e il viso di lei seguì la carezza, cercandola. Incrociò lo sguardo di lui, d’un tratto turbato, vulnerabile. Aaron le prese la mano, le aprì le dita, le riempì il palmo di cuori.
— No — disse lei. Inspirò profondamente. — È più complicata di quanto credevo.
— Io ho accesso alle informazioni sulle spaziomobili da pattuglia, ai manuali di manutenzione per veicoli venduti a privati. Le otterresti egualmente dalla banca dati della biblioteca, ma così non dovrai pagare la tariffa di consultazione. Il Mago lo apprezzerà.
Lei sorrise debolmente. Il sorriso non le arrivava agli occhi. — Non voglio… È tardi. Ossia, presto. Sei ancora in servizio.
— Fra 30 minuti ho l’intervallo per la colazione. Aspettami qui.
— Aaron… — Si interruppe, scosse ancora la testa. Ma non sottrasse la mano, non si mosse. Lui infilò la mano nell’unica tasca non strappata, le aprì l’altra mano e le mise sul palmo una rosa, sbiadita fino a diventare di un polveroso color borgogna e tuttavia ancora lievemente profumata. Lei fissò il fiore; Aaron vide che deglutiva.
— Mi è capitata fra le mani dal nulla una notte. L’ho portata per te. — Lei era sempre silenziosa. Lui aggiunse, sentendosi all’improvviso incerto, inutile: — È solo una rosa appassita. Lo so. Non ci sono tariffe da pagare. Per me aveva un significato, tutto qui.
Lei lo guardò; senza parlare, gli disse finalmente qualcosa. Attorno a loro le pareti tenebrose cominciarono a turbinare di luce.
Volarono in alto sulla città, parlando, mentre la luna, enorme e pallido disco rifrangente, li fissava da sopra il mare, e il cielo orientale acquistava lentamente sfumature perlacee.
— I cubi — disse lei. La voce bassa era arrochita dalla mancanza di sonno. — Solo i cubi. Me ne sono innamorata quando avevo 13 anni.
— Sulla luna.
Lei guardò la luna per un istante, perplessa, come se si fosse intromessa inaspettatamente nella parte sbagliata del mattino. — La luna. Sì. Ho fatto girare i nastri musicali di mia madre fino a consumarli. Mi esercitavo in fraseggi e schemi con matite, forchette, coperchi di tegami. Andavo nella serra dove mia madre lavorava e capovolgevo i vasi vuoti e vi battevo sopra. Volevo forza nei cubi. Volevo che sembrassero vivi sotto il mio tocco, volevo che si scaldassero per me, che cominciassero a fumare, a cambiare colore… Ero ossessionata, innamorata. Vivevo in un sogno. Pensavo che se avessi posseduto una batteria di cubi sarei stata felice per tutta la vita. A suonare musica nel mio angolino privato di luna.
— Però l’hai lasciata, la luna — disse piano Aaron.
Lei chinò la testa; Aaron non poteva vedere la maschera d’oro nascosta dai capelli. — Sono morti. I miei genitori. In un incidente, quattro anni dopo. I regolamenti sociali del GLM dicevano che eravamo troppo giovani per stare da sole…
— Eravate?
Alzò la testa; si tirò indietro i capelli con tutt’e due le mani, aggrottando le sopracciglia alla luna. — È così perfetta — disse in tono sognante. — Così pura. Sembra l’occhio di Dio, lassù, senza ombre o ambiguità. Da vicino, le ombre ci sono… Io. E mia sorella. Lei adesso è su Rimrock; ha sposato un geologo. Per cui fummo mandate sulla Terra. Nel Settore Costadoro. Che possiede, come scoprii ben presto, una batteria di cubi in ogni angolo. Era come cadere in un lungo tunnel tenebroso e sbucare in una specie di paradiso malfamato…
— Un bar a ogni angolo — disse Aaron. — E una batteria di cubi ogni due bar.
Lei annuì, ridendo. Bagliori le percorsero i capelli. Aaron distolse gli occhi dalla ragnatela di luci lungo la costa buia, attratto dall’illusione di luce, di calore sul suo viso. Brevi linee si raccolsero, poi svanirono sotto i suoi occhi quando sorrise. Venticinque anni, immaginò, poi glielo chiese.
— Ventotto.
— Mi sembra poco per voltare la schiena alle tournée nel Settore.
Lei alzò le spalle. — Da un lato c’è fama e fortuna. Dall’altro la musica del Mago. — Scrutò dal finestrino la risacca spettrale. Sollevando sorpreso lo sguardo su di lei, Aaron si ritrovò a fissare l’oro sul lobo dell’orecchio e la lunga curva del collo.
— E allora sei venuta sulla Terra.
— Per ricevere un’istruzione. — La ragazza si riaccomodò sul sedile; un angolo della bocca si sollevò. — Secondo i regolamenti del GLM sulla tutela statale. Avevamo il denaro dei nostri genitori, l’assicurazione, l’accredito compensativo. Ed eravamo orfane, in un mondo mai visto prima. Ci diedero un’istruzione. Cominciai a suonare nei bar quando ancora frequentavo la scuola. Ero alta; mi truccavo il viso, uscivo la sera, e mai nessuno scoprì che non ero ancora maggiorenne.
— Ti dipingevi d’oro? Come adesso?
Per qualche motivo il suo viso si irrigidì. L’oro divenne nuovamente una maschera. — No. Questo è successo dopo. La notte in cui incontrai il Mago.
Aaron rimase in silenzio, a bocca aperta, e gli vennero in mente decine di domande. — Perché quella notte?
— Era la prima volta che ascoltavo Bach… Camminavo lungo la strada a mezzanotte, qualcuno aprì una porta e ne sgorgò una musica che non avevo mai udito prima, così la seguii e trovai il Mago. Mi unii al suo complesso e suonai i cubi per due ore. Mi chiese di rimanere, così restai.
— Siete stati amanti? — La domanda sembrò uscire dal nulla, e lo sorprese, come se a parlare fosse stato l’analizzatore. Diventò tutto rosso, poi sorrise imbarazzato alla sua risata. — Scusami. Non sono affari miei.
— No. Penso che avremmo potuto esserlo, ma avevo bisogno di lui per altre cose.
— Quali?
Lei fece un gesto vago, accigliandosi nuovamente; i suoi occhi, posati sulla vasta e tenebrosa distesa d’acqua, riflettevano il mare e sembravano nello stesso tempo familiari e enigmatici. — Lui — disse finalmente — e la sua musica… erano il luogo al quale ero tornata. Quando esci nel mondo, impari a suonare il PRM, vedi un milione di estranei di cui non saprai mai il nome, anche se loro, ognuno di loro, conosce il tuo… ci deve pur essere un luogo sicuro al quale fare ritorno. Ecco perché ho bisogno del Mago. Perché conservi per me quel luogo sicuro, quell’angolino privato di luna, dove nessuno è un estraneo, e la musica non cambia mai.
Aaron rimase in silenzio, pensando al rifugio antiatomico, il luogo sicuro in cui la vita non poteva raggiungerlo. “Cosa ti ha ferito?” pensò poi. Ma ora era lei a interrogarlo.
— Sei stato sempre un poliziòtto?
— Da dieci anni.
— Vivi con qualcuno?
— No.
— Perche no?
Si stavano avvicinando alla costa; Aaron rallentò la velocità dell’elicar e lo inclinò verso terra. Per un momento ebbe sulla lingua una risposta automatica. Poi, sorprendendo se stesso, disse: — Una volta ho amato una donna. È rimasta uccisa, sette anni fa. Da allora ho sempre vissuto da solo.
— Com’è morta? — Lui spense le luci dell’abitacolo mentre il sole sorgeva alle loro spalle. La luce incendiò il mare; il viso di lei era in ombra. La sua voce era molto bassa, quasi cupa. Aaron vide il cerchio di luci rosse che aveva sistemato sopra il rifugio e si diresse in quella direzione.
— Come?
Era entrato nel quartier generale della stazione, fischiettando; l’aria del mattino odorava di primavera. Un collega, che sorseggiava il caffè guardando il notiziario, aveva girato la testa bruscamente…
«Ehi, Fisher. Tua moglie non fa servizio nel Settore Deserto?»
Un improvviso sudore freddo gli inondò il viso; si sentì fisicamente male. Il viso della Regina di Cuori si sollevò. L’immutabile maschera d’oro, gli occhi immobili, avevano un singolare potere calmante. Ma lui non poteva dirglielo; non poteva parlare della moglie morta usando il passato remoto.
— Solo un bizzarro incidente.
Atterrarono. Aaron eseguì un controllo con la stazione di polizia, poi condusse la Regina di Cuori sotto terra. Riscaldò minestra e tramezzini, poi rintracciò nella banca dati della biblioteca i diagrammi meccanici di una spaziomobile da pattuglia del periodo del Pianto volante. Lei li esaminò attentamente, rosicchiandosi un’unghia smaltata di rosa, e prese appunti. Lui le offrì un tramezzino.
— Tieni. Dovrebbe essere migliore dello smalto per unghie.
Lei si guardò senza espressione le dita, poi prese il tramezzino, continuando a fissare lo schermo.
— Non è completo — disse improvvisamente.
— Come mai?
— Dentro la ricevente del Pianto volante ci sono due sigilli grandi come un’unghia, con sopra il marchio di Averno. Non sono riuscita a capire a cosa servono. Nel diagramma non c’è nessun sigillo.
— Ah. Semplice — disse Aaron a bocca piena. — Quando Averno vende le sue spaziomobili a privati, modifica la gamma di frequenza delle riceventi in modo che non sia possibile captare le trasmissioni della polizia o di Averno. I sigilli sono solo la prova che la ricevente è stata modificata per l’uso privato.
— Perché dovrebbero…
— Per tenere sgombro l’etere in caso di emergenza. E poi ci sono un mucchio di cose… procedure d’atterraggio, codici di pattuglia, altre informazioni estremamente riservate… che corrono sulla FA. La frequenza di Averno.
Lei diede un morso al tramezzino, masticò lentamente, sempre concentrata sul diagramma. — Quale ricevente raffigura? Quella originale, o l’altra?
— Quella modificata. Averno preferisce che i privati non sappiano neppure che esiste una FA. Quindi, per evitare migliaia di domande sui sigilli, che comunque non sono facili da individuare se non si sa dove cercare, non li indica nei diagrammi.
Lei alzò gli occhi, sorpresa. — Tu come lo sai?
— Mi piace sapere le cose. Caffè?
— Grazie. E questo posto… — Girò attorno lo sguardo, notando le costose attrezzature, l’intimità e l’immacolato ordine del rifugio. Si interruppe, chiedendosi quale menzogna o quale verità avrebbe ricevuto in risposta. Ma aggiunse solo: — È il posto in cui vieni a impararle…
Aaron si accostò al lavello e lavò le tazzine. Le lanciò un’occhiata, una volta; lei fissava il proprio riflesso sullo schermo che si oscurava, o il riflesso meno distinto dei movimenti di lui.
Tornò a occuparsi delle tazzine. Lei sfiorò la tastiera silenziosa e batté sui tasti.
Ricerca: Averno.
Le lettere cominciarono a scorrere sullo schermo, riflettendosi sul suo viso.
Carcere spaziale, satellite della Terra. Progettato da H. Kent Claus. Sovvenzionato dal Governo Libero Mondiale allo scopo di rinchiudervi ergastolani e detenuti comuni potenzialmente pericolosi. Completato nel 29 GLM. Capacità 500.000. Ulteriori informazioni non disponibili. Rivolgersi all’Ufficio Sicurezza GLM per autorizzazione e codici.
Disegno strutturale di Averno.
Informazione riservata.
Procedure di atterraggio.
Informazione altamente riservata.
Rivolgersi al direttore di Averno, Klyos Jason, per informazioni.
Lei cancellò la schermata. Aaron si avvicinò porgendole il caffè.
— Grazie.
— Hai terminato?
— Sì. — Reclinò la testa sulla spalliera della sedia e gli sorrise, e Aaron desiderò strapparla a quel luogo silenzioso, senz’aria, senza sole e portarla nell’alba piena di goccioline salmastre. Il sorriso di lei si irrigidì improvvisamente. La sua mano lo sfiorò appena, per la prima volta. — Non ti metterò nei guai, vero? Per aver usato il tuo computer?
— Mi piacciono i guai — disse lui.
La riportò indietro in volo nella città interna. Quando finì il turno di servizio, lei lo aspettava ancora, fra le ombre sgualcite e punteggiate di luce del suo letto. Commosso, non si fidò a parlare. Si sedette sul letto, stanco, sudato, e le baciò il palmo della mano. Lei si chinò verso di lui e strusciò la guancia d’oro contro la barba ispida, girando la testa finché le labbra si incontrarono. Lui le afferrò l’altra mano e le spalancò le braccia contro la luce. Lei lo tirò giù, giù, dentro un fiume d’oro e d’avorio pieno d’oblio.
Aaron udì la propria voce mormorare da lontano, o forse era solo nella sua mente. La luce gli colpì gli occhi. Udì le strida dei gabbiani fuori dalla finestra. Più tardi si scoprì con la guancia appoggiata a una coscia. Con una mano teneva coperto un seno, con l’altra stringeva un piede. Sollevò quel piede, incuriosito, come se avesse dimenticato di chi era, e ne baciò il collo. Qualcuno disse qualcosa.
— Come? — Sollevò la testa, battendo le palpebre. Il viso di lei, selvaggiamente dorato, lo fece trasalire. Lei lo guardò in silenzio, a lungo, con occhi profondi, indecifrabili. Poi riunì i pezzi di se stessa strappandoli alla sua stretta, gli mise le braccia al collo e lo baciò gentilmente.
— Hai dimenticato che ero io — disse. — Non è vero? Stavi pensando a…
Lui le strinse il viso fra le mani, la fissò pieno di sgomento. — Non vorrai sbattermi via dal letto per questo?
— Ho troppo bisogno di te. — Le sue mani si mossero; la sua voce si attenuò in un sussurro. — Ho bisogno di te, ti voglio, Aaron Fisher…
— Chi sei?
— La Regina di Cuori.
— Chi sei?
— Una cubista. Una donna che lavora duro, alla quale tu hai dato una rosa.
— Chi sei?
Il suo sussurro gli scivolò lungo il ventre, gli lambì l’inguine come fuoco. — Non chiedermelo, non chiederlo mai, è l’unica domanda che non devi mai farmi…. — Lui mandò un grido. Poi se la tirò addosso, muscolo contro muscolo, osso contro osso, come se gli ostinati confini che li dividevano fossero inconsistenti quanto l’aria.
Si svegliò lentamente, la vide destarsi con un mutare di respiro, un battere di ciglia. Il suo viso era quasi completamente nascosto dalle braccia e dai capelli; c’era solo la curvatura di un sopracciglio, un occhio. Fece scivolare la mano sotto l’ascella fino a sfiorarle la guancia e vide l’occhio sorridere.
La tirò su di sé; lei abbassò la testa, gli circondò la sua con le braccia. In quel rifugio sicuro si baciarono fino a restare senza fiato, e lasciarono fuori i fantasmi che li conoscevano e li cercavano invano.
Lei si sedette su di lui, guardandolo dall’alto. Le sue mani riposavano sulle sue cosce. Aaron si mosse, cominciò a dire qualcosa, poi rimase in silenzio, sorridendole. Lei gli passò le dita lungo le labbra, l’orecchio. Poi rimase di nuovo immobile, con le mani posate sul suo petto e la testa china, rispecchiando il sorriso di lui.
Quando Aaron si svegliò nuovamente, era solo. Erano le due del pomeriggio. La luce calda sembrava solidificata sul pavimento. Per la prima volta si accorse di quant’erano impolverate le finestre. Le pareti bianche erano spoglie. Il regolamentare tappeto del ghetto sembrava un deserto grigio e squallido. “Dovrei mettere un po’ d’ordine”, pensò con sorpresa. Per anni era vissuto spartanamente, senza desiderare nient’altro che l’elicar più veloce e le migliori apparecchiature per il rifugio. Si alzò a sedere, ammiccando ai suoi piedi, e cominciò pian piano a capire quanta parte di sé la Regina di Cuori avesse lasciato in quella stanza solitaria, nel suo cuore.
Qualcosa lo fissava. Girò la testa e vide il messaggio luminoso. Allungò la mano oltre il letto e lo toccò, sbadigliando.
Mentre rispondeva alla chiamata del Mago, ricordò che il Pianto volante era in attesa del decollo.
— Magico Capo? — disse mentre lo schermo del Mago si illuminava. — Sei ancora qui?
— Aaron — disse il Mago con aria trasognata; e Aaron gli ricordò: — Mi hai chiamato tu.
— Ah. — Il Mago ridacchiò. — La tournée comincia a darmi alla testa. Ho chiamato un paio d’ore fa, cercando la mia cubista. È già qui.
— Davvero? — Si strofinò gli occhi, ancora assonnato, cercando di schiarirsi le idee, mentre il Mago aspettava pazientemente. — Siete in partenza?
— Stiamo aspettando di essere rimorchiati in posizione di lancio.
Aaron rimase di nuovo in silenzio, senza pensare, lasciando che i sentimenti arrivassero. Si presentarono con semplicità, come la rosa tirata fuori di tasca. — Voglio venirvi a salutare.
Arrivò allo scalo con l’elicar, trovò la Regina di Cuori seduta sulla scaletta del Pianto volante, con il mento posato sul palmo della mano. Il resto del gruppo era dentro; udì i motori che si scaldavano.
Lei si alzò senza una parola, gli mise le braccia attorno al collo. I suoi odori erano diversi — sapone, profumo, vernice da viso — ma l’oscuro calore non era scomparso. Lui alzò finalmente la testa, aprì gli occhi alla lucentezza dei suoi capelli. — Be’ — disse. — Addio. — La maschera di lei era perfetta: il viso di una carta da gioco, oro, rosso, grigio luminoso, la Regina di Cuori, la dama che passa da una mano vincente all’altra.
— Addio.
Nessuno dei due si mosse. Alla fine lei gli tolse le mani dal collo; lui sentì la riluttanza, vide il vuoto improvviso dei suoi occhi. Deglutì, respirando affannosamente, sapendo che stava per inoltrarsi in un turbine di nebbia che poteva nascondere un terreno solido o una lunga caduta nel nulla. A stento si rese conto di dire: — Sono troppo vigliacco. Voglio vederti ancora.
— Sì — mormorò lei, e allora lui vide il sorriso con cui era nata. Poi lei si tirò indietro, gli occhi scuri, sorpresi, il viso stilizzato, elegante che nascondeva un conflitto sconcertante.
— Ti chiamerò. — La sua voce era turbata. — Al ritorno. Se. Quando. Aaron…
— Se…
— Se mi vuoi ancora.
— Perché…
— Voglio solo che tu sappia una cosa, prima.
— Prima di che?
Lei sospirò, chiuse gli occhi, cercò di vedere nel buio. — Voglio che tu sappia che sarai nella mia mente. Come i cubi. Come la musica del Mago. Sempre. Dimmi addio.
— Addio — disse lui, completamente confuso. Lei lo baciò e si girò. E allora il ricordo lo colpì, pieno di forza e di terrore, mentre il portello si apriva e si richiudeva alle sue spalle. Voleva gridarle dietro, battere i pugni contro il portello. “Ho detto addio già una volta!” Rimase impietrito, con la bocca asciutta, separando in fretta il passato dal presente, pregando il cosmo che fosse possibile, mentre lei, con la sua tenebrosa visione negli occhi, prendeva posto vicino al Mago per guidare il loro cammino verso Averno.
Il computer di Averno aveva registrato come al solito la richiesta di informazioni sui suoi segreti più gelosamente custoditi, e ne aveva presentato quel mattino una copia agli occhi annebbiati di Jase. Il direttore la fissò, sorseggiando il caffè. “Ragazzini”, pensò. “Compiti di scuola.” Ma non l’affidò agli archivi; rimase seduto a fissarla finché Nils, sul punto di terminare il turno, venne a guardare da sopra la spalla.
— Ragazzini — disse. Jase emise un rumore ambiguo senza aprire bocca. Alzò lentamente la mano, batté leggermente le dita sullo schermo.
— Rintracciane l’origine, per favore.
— Perché? — chiese Nils sorpreso. — Non vale la pena…
— Per favore.
Nils si sedette nuovamente e cominciò a battere sulla tastiera, avvicinandosi come non mai a brontolare sottovoce. — Siete solo nervoso a causa di Terra Viridian — disse. — Qualcuno alla banca dati della Biblioteca, premendo tasti per gioco…
— Può darsi — disse Jase.
— Le vostre intuizioni fanno gli straordinari.
— Lo so, e tu pure. Vuoi fare una scommessa?
Nils smise di inseguire la richiesta attraverso una piramide di codici, per guardarlo fissamente. Riprese a muovere le dita. — Settore Costadoro, ha risposto alla domanda la banca dati della Biblioteca Pubblica 5. Quanto vorreste scommettere? — Abbassò la testa sul lavoro. — Terminale privato… Le scommesse sono chiuse… Codice di identità… — Una vampata di rossore gli inondò il viso fino alla radice dei capelli rossi. Jase si sporse in avanti. — È successo di nuovo — disse Nils, incredulo.
— Chi?
— Aaron Fisher. CI. n. 2146WOSS. Poliziotto di classe AIA del Settore Costadoro. — Guardò Jase, con le dita a mezz’aria. — E ora cosa facciamo? La consideriamo oziosa curiosità?
Jase scosse la testa. — Un poliziotto di quel livello sa già da anni tutto quello che c’è da sapere su Averno. — Le parole si formavano con difficoltà, per la rabbia, la frustrazione; sentiva che qualcosa stava per accadere, come se un tenebroso pianeta fosse sfuggito dalla propria orbita, ma il suo avvicinarsi era silenzioso, e più buio della notte che attraversava nella sua caduta. Nils lo fissava, perplesso, a disagio.
— Perché un poliziotto di prima classe dovrebbe stuzzicare Averno per scoprire le procedure di atterraggio?
— Trova il suo ruolino — disse Jase. — Chiama il suo superiore. E portami quassù questo poliziotto. Lo chiederemo a lui.