PARTE SECONDA Averno

1

Migliaia di chilometri sopra la Terra il Pianto volante raggiunse l’orbita di Averno, segnalò il fatto con una sequenza musicale, spense i motori e cominciò la serena caduta libera per raggiungere il satellite. Il Mago, nient’affatto deliziato dall’assenza di peso, piantò gli stivali contro la grata del pavimento, si allacciò le cinture di sicurezza e sintonizzò lo schermo video sul notiziario. Nebraska sparì nella stiva per controllare che tutto fosse ben ancorato. Il Professore era steso su un fianco vicino al soffitto, con le braccia conserte, gli occhi chiusi, ascoltando un libro. Quasar si passava sulle unghie uno smalto color dell’uva nera, servendosi di un tubetto appositamente inventato per viaggiatori raffinati in caduta libera, e guardava da sopra la spalla del Mago. La Regina di Cuori abbassò lo schienale del sedile e schiacciò un pisolino.

— Non russa — commentò Quasar dopo mezz’ora, provocando la rapida rotazione del Mago.

— Come?

— La Regina di Cuori. Russate tutti. Ma lei non si tradisce mai, nemmeno quando dorme. Guardala. Comme le chat.

Suo malgrado il Mago lanciò un’occhiata alla Regina di Cuori. — Quasar…

Merde - esclamò Quasar sorpresa. Il Mago si sentì sfiorare il viso da una minuscola gocciolina viola.

— Maledizione, Quasar!

Quasar se la prese con il tubetto di smalto, che tempestò delle sue antiche imprecazioni. — Une chose dérangée - concluse oscuramente. — Mi è costato una mano e un piede.

— Un occhio della testa.

— Ma perché?

— Quasar, vorrei guardare lo schermo.

— Tu non mi lasci fumare. Sono nervosa. Non mi piace lo spazio. È troppo grande, troppo vuoto. Il sole è troppo isolato, da qui. Voglio che domini il cielo, che esiga attenzione fra le nuvole. — Si soffiò sulle unghie. Il Mago sorrise, senza staccare gli occhi da un annunciatore del Settore Tramonto.

— Sei proprio una ragazza all’antica.

— C’era anche — disse Quasar, con un intervento inaspettatamente appropriato — una Coalizione Nazionale Regressista nel Settore Lumière. Ma a furia di litigare si sono smembrati. Parigi. Che razza di nome sarebbe?

— Città di amanti, di poeti — mormorò il Professore. Toccò il soffitto e fluttuò verso di loro, togliendosi l’auricolare del libro. — Cosa succede nel Settore Tramonto?

— Il GLM minaccia l’invio di truppe.

Plus ça change, plus c’est la même chose - disse il Professore, ricevendo da Quasar un’occhiata sbalordita.

— La tua pronuncia — disse lei, riprendendosi — è orribile.

— La mia pronuncia è di Parigi, la tua dei bassifondi. Comprends? E inoltre non mi piace il tuo smalto.

Quasar sorrise mettendo in mostra i denti viola. — Vieni in cucina. Ti troverò qualcosa che ti piacerà.

— Sei in forma — disse allegramente il Professore. Il Mago alzò il volume.

«…Fonti ufficiali dicono che il GLM proseguirà nella linea dura per soffocare la CNR prima che le sue idee possano turbare altri Settori. Il nazionalismo, ha dichiarato oggi il segretario alla Difesa Marie Juneau, ha creato le armi che ci hanno costretti a istituire il Governo Libero Mondiale. Senza il GLM ci sarebbe stata la guerra totale. La Coalizione Nazionale Regressista, ha detto la signora Juneau, non vuole altro che il ritorno alla precaria situazione dalla quale è nato il GLM e che ha condotto alla storica presa di potere nell’ultimo summit mondiale. Il GLM, ha dichiarato il segretario alla Difesa, ha prevalso allora e prevarrà oggi, e non esiterà ad attuare la propria linea politica. «Nelle altre notizie di oggi…»

— Il pugno di ferro — mormorò il Mago.

— Che altro può fare? — disse il Professore. — Il GLM, per quanto doloroso possa essere, è riuscito a farci sopravvivere per più di cent’anni. Se non ci fosse stato, saremmo già saltati tutti in aria.

— Forse no.

— Certo, forse saremmo ancora vivi e continueremmo a litigare. Ma chi ha voglia di far la prova?

— Io no — disse il Mago. — Mi chiedo solo per quanto tempo ancora il GLM potrà mantenere il controllo sul mondo. È in parte democratico, in parte tirannico, in parte socialista, in parte apertamente paternalistico, e finora si è mantenuto in vita grazie al nostro ricordo del rischio di annientamento. Quando il ricordo sbiadirà, chissà se la burocrazia continuerà a funzionare.

— Magico Capo — disse il Professore con una smorfia. — Ogni governo della Terra ha cominciato così.

— Verissimo. — Abbassò di nuovo il volume, fissò lo schermo. — Se la sono vista brutta già qualche anno fa, per un mostruoso incidente… Chi era stato? Ah, sì, un militare di leva del GLM. Terra Viridian.

— La pazza del Settore Deserto.

— Prese un colpo di sole e massacrò un mucchio di gente, poi scomparve e quelli del GLM le scatenarono dietro tutti i loro segugi. Alla fine la trovarono in un bidone per la spazzatura del Settore Costadoro… Fu il processo più stupido della storia del GLM. Anche un bambino avrebbe capito che le erano saltate le valvole, ma la Corte la dichiarò sana di mente per poterla sbattere legalmente nell’Anello Scuro e placare…

— Magico Capo — disse nervosamente Quasar. — Chiudi il becco. Non mi piace sentir parlare di Averno. Ci suoniamo e andiamo via. È tutto quello che voglio sapere.

Il Mago la guardò. Dietro di lei vide il viso addormentato della Regina di Cuori. Il segreto che Quasar aveva intuito sotto quell’oro brillante e inespressivo attirò all’improvviso la sua attenzione: dietro le palpebre accuratamente verniciate c’era una mente sveglia, in ascolto.

La Regina di Cuori aprì gli occhi l’istante successivo, ammiccando, senza aver l’aria di accorgersi dell’attenzione del Mago. — Dove siamo? — Consultò il quadro comandi, poi si passò con aria stanca e assente le dita fra i capelli e continuò finché la capigliatura le galleggiò attorno languidamente, come un’alga marina. Adesso tutti la guardavano incantati, persino Quasar.

— Ancora un’ora — disse il Mago.

Lei annuì, soffocò uno sbadiglio, con gli occhi sullo schermo. — Avevo dimenticato quant’è bello, quassù — mormorò. — Non ero più stata nello spazio dalla tournée dei Cygnus, due anni fa.

— Quando hai imparato a fare l’ufficiale di rotta — disse il Mago. Lei sembrò cogliere una sfumatura insolita nella sua voce; si girò verso di lui, sorridendo, ma esitò leggermente prima di rispondere, e lui non riuscì a penetrare il sorriso di quegli occhi.

— Quando ho imparato a navigare nello spazio. Sì. Vi ho portati fin qui, Magico Capo. Non ho dimenticato quello che ho appreso, vero? È come guidare una bicicletta. Almeno, così dicono; in vita mia non ho mai guidato una bicicletta. Ma come mai secondo te ci sono cose che bisogna studiare e ristudiare, e cose che non si dimenticano più? Si può dimenticare una lingua, ma non si dimentica l’addizione e la sottrazione. O i suoni… non si dimentica la differenza fra il canto di un uccello e la voce umana.

— Non lo so — disse il Mago, confuso dalla sua affabile parlantina. — Sarà l’istinto.

— La matematica non è istinto — disse il Professore in tono sprezzante.

— Pensavo più che altro alla bicicletta. Il senso dell’equilibrio collegato all’istinto di sopravvivenza.

— Che cos’è… — cominciò Quasar; il Professore le rispose senza lasciarle finire la domanda.

— Come respirare. Respiri per vivere; smetti di farlo, e muori. Ma non è un atto compiuto consapevolmente. Finché vivi, respiri. O lo fa il tuo corpo. Come allontanare di scatto la mano dal fuoco. O scappare da un pericolo.

Quasar annuì, esaminando una rigatura sull’unghia. Prese di tasca il tubetto di smalto. — Mi è capitato di scappare da un pericolo. E quella volta ho imparato una cosa bizzarra. Quando scappi, scappi verso il passato, non raggiungi mai il futuro. Il passato corre più veloce di te, e aspetta che tu lo raggiunga. Devi sottrarti al pericolo camminando, devi uscire dal passato. Perché quando scappi guardi indietro, ma quando cammini guardi al futuro.

Il Professore e il Mago si scambiarono un’occhiata. — Direi che è un istinto di sopravvivenza — disse il Professore.

La Regina di Cuori raccolse i capelli fluttuanti e se li legò alla nuca. — Come fai a sapere queste cose? — chiese a Quasar. La sua voce suonò brusca, quasi sgarbata, all’orecchio del Mago. Quasar rimise a posto il pennello con uno scatto secco.

— Le so. — Guardò il puntino di luce davanti a loro, sulla rotta del Pianto volante. Poi sorrise, con occhi cupi, irridenti. — Guarda te stessa. Noi eravamo nel tuo passato. Sei tornata da noi. Il Giocatore ti ha trovata e ti ha riportata indietro. Perché?

“Perché la musica del Mago doveva essere suonata.”

— E questo — mormorò il Professore — rende il Mago un megalomane, né più né meno che il GLM.

— Come? — disse il Mago, sorpreso. Il Pianto volante cantò delicatamente; il Mago distolse lo sguardo dallo schermo e ruotò sul seggiolino per accostarsi al quadro comandi e rispondere al messaggio sulla tastiera. Tornò nella posizione di prima; il Professore ruppe il silenzio.

— Ebbene?

— Ebbene, cosa?

— Cos’ha detto?

— Oh, due parole di cortesia. Una spaziolancia è entrata nel campo dell’analizzatore. — Alzò improvvisamente lo sguardo. — Cos’è questa storia che sono un megalomane?

— Quasar ha mai detto qualcosa che avesse un senso? — ribatté il Professore. — I suoi occhi si spalancarono, mentre lei toglieva di nuovo il cappuccio al tubetto di smalto. — No! Non farlo! Ritiro tutto, scusami…

— Non basta per ammansirmi.

— Vieni in cucina. No, meglio ancora, nella stiva. Nebraska ha messo laggiù tutto lo scotch.

— Mi trascinate in un carcere spaziale. Non mi permettete di fumare. E poi mi insultate. Per questo, inonderò tutto il Pianto volante di goccioline viola galleggianti.

Adesso il Mago le dedicava tutta l’attenzione; metà allarmato, metà ridendo, con le mani alzate a palme aperte in segno di pace, la supplicò senza parlare. Lo sguardo bruciante di Quasar mandò un lampo folle. La Regina di Cuori sollevò languidamente la mano e le sottrasse abilmente il tubetto di smalto.

— Che cos’è? Ma è meraviglioso! Non ho mai visto niente di simile. È nuovo? Hai altre tinte? Non hai un colore che si intoni ai miei capelli?

— Non hai un colore che si intoni al mio fulmine? — chiese umilmente il Professore. Quasar, divertita, rabbonita, lo guardò in cagnesco, poi scaricò la sua irrequietezza sulla Regina di Cuori.

— Ho un colore che si intona alla tua maschera.

La Regina di Cuori si sfiorò la guancia con aria incerta. — La mia vernice per il viso?

— La tua maschera. So quel che dico. Non te la togli mai, davvero. Nemmeno per fare l’amore.

— Quasar — disse il Mago, anche se nello stesso tempo la sua mente si soffermava a esplorare quella possibilità.

— Vedete la vernice — disse Quasar, testarda. — Ma non vedete i suoi occhi.

— Certo che li vedo — disse il Professore. — Sono spalancati davanti a me, e sorridono. Non è altro che il suo viso da palcoscenico. Il viso di uno dei migliori cubisti del mondo. La gente lo riconosce dappertutto. È un simbolo.

— Cos’è un simbolo?

— Il suo viso d’oro. Qualcosa che significa qualcos’altro. Qualcosa a cui reagisci senza pensare. Come un istinto, ma culturale, anziché biologico.

Comment?

— Un oggetto fisico o un disegno che rappresenta un’emozione, una credenza, un rituale, un’esperienza culturale…

— Che lingua parli? — chiese gelidamente Quasar. Il Professore sospirò.

— Magico Capo…

Il Mago aprì una tasca nel bracciolo del seggiolino del comandante. Sul palmo della mano galleggiava oro. Lui alzò l’oggetto fra indice e pollice: un piccolo cerchio perfetto. Il Professore glielo prese, sorridendo.

— Un anello nuziale. Dove l’hai trovato?

— Apparteneva alla mia bis-bisnonna. Una volta l’ho portato davvero. Ora è solo carburante di riserva, se mai mi trovo bloccato da qualche parte senza crediti. — Aggiunse, rivolto a Quasar: — È un simbolo: un uomo e una donna si scambiano un anello d’oro come promessa di amarsi e fare l’amore solo fra loro per tutta la vita.

Quasar sollevò le sopracciglia, disgustata. — Tu non l’hai mai fatto, Magico Capo. Vero? — Il Mago storse la bocca. Ripose l’anello. Nebraska fluttuò su di lui come un angelo. — Fatto cosa? — chiese interessato.

— Sto cercando di spiegare a Quasar cos’è un simbolo — disse il Professore.

— Perché?

— Lasciamo perdere.

— È facile — disse Nebraska, lisciandosi un baffo fuori posto. — È come un ferro di cavallo. Inchioda un ferro di cavallo sulla porta, e ti porterà fortuna.

— Questa è superstizione, non un simbolo.

— D’accordo, l’arcobaleno, allora. È un simbolo di buona fortuna. Oppure un quadrifoglio.

— Cercavo un esempio un pochino più profondo.

Nebraska si diede un’ultima tirata di baffi e infilò la mano nella scollatura della tuta. Un filo d’argento si contorse per aria. Lui se lo tirò sopra la testa e lo spinse giù verso il quadro comandi. Una sottile catenella d’argento con un portafortuna a forma di triangolo fluttuò oltre il viso della Regina di Cuori. Lei alzò la mano, le sue dita si impigliarono nell’argento, e il triangolo si girò lentamente a trafiggerla con il suo occhio.

— Che cos’è? — Il tono brusco della voce li stupì tutti. Il Mago prese la catenella dalle sue mani e aggrottò le sopracciglia.

— L’ho visto in una banconota americana pre-GLM — disse Nebraska in tono di scusa. — L’occhio dentro il triangolo. Mi è piaciuto, così l’ho fuso in argento. Non so esattamente cosa sia.

— È l’occhio di Dio — disse il Mago, come se riconoscesse una persona conosciuta casualmente. Il Professore allungò la mano per prenderlo; il Mago guardò la Regina di Cuori, inarcando le sopracciglia con aria interrogativa. La ragazza rideva di nuovo, e le sue dita scavavano solchi fra i capelli, tirandoseli sul viso fino a nasconderlo quasi completamente, e il Mago vide un unico occhio grigio.

— Naturalmente l’ho già visto — disse lei. — Naturalmente. Però non ricordo dove.

— Nemmeno io — disse il Professore. — È buffo. L’abbiamo visto, non sappiamo da dove viene, eppure lo riconosciamo tutti, e significa qualcosa. Qualcosa di inesprimibile, qualcosa che viene dal passato.

— Come una croce — disse Nebraska.

— O una stella. La Stella di Davide, il pentacolo di…

— Una volta ho incontrato un tale che credeva a queste storie — intervenne Quasar. — Voleva convincermi dell’esistenza di un luogo chiamato paradiso. Poi mi ha detto che sarei andata all’inferno. Non mi ricordo cos’ho combinato per farlo arrabbiare. Qualcosa. Non mi piace il passato.

— La luce delle stelle è sempre nel passato — mormorò il Mago. La spaziolancia parlò di nuovo, un breve arpeggio d’arpicordo; e intanto nell’intercom si accese un pulsante luminoso. Il Mago lo premette e l’aria fu subito piena di scariche elettrostatiche.

— Identificarsi — disse una raschiante voce femminile. — Imperativo. Identificarsi…

Il Mago trasalì al rumore. — Spaziolancia ID960PCS, il Pianto volante. Provenienza Settore Cost…

— Nome.

— Con chi parlo? — chiese lui urbanamente. Le unghie di Quasar gli si conficcarono nel braccio.

— Polizia.

Il Mago batté le palpebre, diventando di colpo inespressivo, e spostò uno schermo angolare sopra il finestrino. Tutti videro il lungo oggetto massiccio che si frapponeva tra la loro lancia e Averno, le vivide luci della spaziomobile. Il Mago sussurrò in fretta: — Maledizione, Quasar, se hai portato a bordo qualcosa di illegale…

— No, Magico Capo, ti giuro…

— Qui la spaziomobile di pattuglia GM11F proveniente da Averno. Trasmettete i codici di navigazione per tutti i porti oltre la Terra.

Il Mago mormorò qualcosa e lanciò uno sguardo alla Regina di Cuori. La ragazza si teneva eretta, ma aveva le mani contratte sui comandi. — Signora dei Cuori. — Lei distolse gli occhi dalla spaziomobile, fissò il Mago senza vederlo. — Vogliono il nostro itinerario.

— Oh. — Di colpo le sue mani si rilassarono; cominciò a trasmettere. — Scusami, Magico Capo, scusami…

— Sta’ calma. — Si sentirono scambi di frasi sotto le scariche elettrostatiche; il Mago decifrò le parole, incredulo. «Riesci a intercettare qualcosa?»

— Dichiarate lo scopo della vostra visita su Averno.

— Siamo in tournée — disse il Mago, sconcertato. — Il complesso Nova. Averno, Helios, Rimrock, Moonshadow. Abbiamo prenotato tramite l’agenzia della Costadoro, abbiamo ottenuto permessi, passaporti, orari e codici d’atterraggio…

— Restate in collegamento.

Il Mago rimase in attesa, stringendo le labbra. Si girò verso Quasar, la fissò negli occhi.

— Quasar — disse piano Nebraska — possono perquisirci all’atterraggio, e se hai nascosto qualcosa nella stiva devi solo farmi vedere…

— No! Non ho niente!

— Proprio quello che ho sempre desiderato — disse il Professore. — Una stanzetta tutta per me su Averno.

— Magico Capo, stavolta non sono io! Io…

— Calma, calma. Stiamo trasmettendo qualche segnale che loro hanno intercettato, ma non capisco come sia successo. Signora dei Cuori, non hai notato qualcosa di insolito quando hai…

La voce del poliziotto lo interruppe, con un tono appena meno brusco di prima. — Permesso e codice d’entrata per il Pianto volante registrati. Come mai la vostra ricevente è aperta alla frequenza di Averno?

— Non sapevo che fosse aperta — disse il Mago in tono piatto.

— Chi è il padrone della lancia?

— Sono io.

— Dove l’avete acquistata?

— Nel Settore Costadoro, da un rivenditore di spaziolance usate. Tutte le sue registrazioni erano…

— Sotto il quadro comandi c’è un numero di serie. Leggetemelo, e datemi i numeri della patente e della carta d’identità.

Il Mago sospirò in silenzio. Quando terminò, il silenzio si protrasse ancora più a lungo. Attesero. Un tonfo improvviso provenne dalle viscere del Pianto volante, e un trillo d’arpicordo. Il Mago sobbalzò, lo zittì con una manata.

— Roger Restak. CI4069PC1114.

— Sì.

— Tutti i sistemi di comunicazione delle spaziomobili di polizia vendute a privati cittadini sono modificati in modo da ricevere solo frequenze legali. Perché state intercettando i nostri codici?

— Nient’affatto! Non avevo idea…

— Numero di identità di tutte le persone a bordo.

— Sono già registrati su Averno. Siamo nei pasticci?

I disturbi radio sembrarono un pochino più umani. — È possibile che sia stato commesso un errore nelle modifiche precedenti la vendita. Siete il primo proprietario civile?

— No.

— Verificileremo i passaggi di proprietà. Roger Restak. Stato legale: proprietario e comandante della spaziolancia sospetta Pianto volante. Non siete accusato formalmente. Procederete secondo i programmi fino ad Averno. Ogni tentativo di deviare dal programma di atterraggio sarà considerato atto criminale. Domande?

— No.

— Qui Sunbird. Chiudo.

La spaziomobile accelerò e uscì dall’orbita, permettendo una chiara visione di Averno. Quasar deglutì rumorosamente.

— Magico Capo.

— Puoi fumare nella stiva.

— Vengo anch’io — disse Nebraska, seguendola.

— Un luogo nient’affatto amichevole — disse il Professore. — Roger.

Il Mago fece una smorfia. — Qui non si può nascondere niente al GLM. Signora dei Cuori, non avevi fatto ricerche alla banca dati della biblioteca per aggiustare la ricevente? Da qualche parte c’era scritto che i privati cittadini non possono sintonizzarsi sulla frequenza di Averno?

Lei scosse la testa. — No. — Le mani le tremavano ancora. Non guardò il Mago, ma l’incombente carcere spaziale, la gigantesca ruota di luce e di tenebra che girava in continuazione sotto l’occhio del Sole. — No — ripeté a bassa voce. Il Mago allungò finalmente la mano e sfiorò la ragazza. Di nuovo fu turbato dall’oro inespressivo che si girava verso di lui.

— Scusami, Magico Capo.

— Continui a chiedermi scusa — disse, rendendosi finalmente conto delle sue parole. — Non hai fatto niente. Non ne avevi la possibilità, se ti sei limitata a seguire i diagrammi meccanici.

— C’erano due… c’erano due piccoli sigilli di rame con il marchio di Averno. Non erano riportati sui diagrammi. Allora ho pensato… ho pensato che erano lì per sbaglio. Così li ho eliminati.

Il Mago brontolò qualcosa. Toccò un pulsante luminoso a caso, così lievemente che non ottenne alcuna reazione. — Per cui — disse piano — probabilmente hai attivato una trasmittente subsonica, oltre ad aprire la frequenza di Averno. Peccato che non stessimo ascoltando…

— Siamo fortunati — disse il Professore con fervore — a non aver ascoltato. Controlleranno le registrazioni di bordo.

— A questo… a questo non avevo pensato, Magico Capo. — Gli posò la mano sul braccio e sostenne il suo sguardo, con un’aria così angosciata che il Mago scosse lievemente la testa, muto, preoccupato. — Non intendevo metterti nei guai.

— Vuoi calmarti? — supplicò lui. — Mi fai diventare nervoso. Non siamo nei guai.

— Glielo dirò — disse lei, giungendo a una decisione improvvisa, sorprendente. — Su Averno. Glielo dirò. — Ma lui scosse la testa, con decisione.

— No. Assolutamente.

— Allora cosa farai?

— Siamo qui per suonare. Quando ce ne andremo, ce ne andremo tutti insieme, costi quel che costi. Non è colpa tua. Come possono credere che tu sia a conoscenza di frequenze non riportate sui diagrammi?

— Allora cosa farai? — chiese lei ancora. Il Mago sorrise, le diede un colpetto sulla spalla.

— Dirò loro quello che vogliono sentirsi dire. È la cosa in cui riesco meglio. Su col morale. È stato un errore in buona fede. Anche se non credono alle mie bugie, non ci sbatteranno mai nell’Anello Scuro solo per questo.

— È stato un errore — mormorò lei. — È stato un errore venire qui.

Lui restò in silenzio, sopraffatto di colpo dalle confuse emozioni della ragazza, e senza riuscire a capirle.

Il Professore disse con gentilezza: — Suoneremo, e ce ne andremo. Semplicissimo.

Lei non rispose. Il Pianto volante parlò di nuovo, annunciando la scorta d’atterraggio. Il Mago alzò incredulo la testa, sentendo nella lancia una nota che non aveva programmato. Ma riascoltandola mentalmente comprese che quel suono spurio non era nella musica, ma nella visione che il Professore aveva del loro futuro.

2

Nella sala computer del Mozzo, Jase guardò il Pianto volante atterrare. La stanza era in ombra, quasi priva di suoni; il suo viso era colorato dalla luce che veniva da un grazioso spiegamento di nebulose e galassie, una fantasiosa ricostruzione del cosmo realizzata da qualche artista sconosciuto. Gli piaceva passare qualche momento di libertà lì dentro, nel cervello di Averno, sapendo che a ogni secondo il computer prendeva innumerevoli decisioni per garantire che sul satellite tutto filasse liscio, proprio come il corpo prende decisioni tacite e precise per mantenersi in vita. Normalmente trovava consolante trovarsi accanto a un potere così grande. Ma ancora non era stato inventato un computer con il tormentoso dono della premonizione.

— Parola d’ordine.

Nacque con il dono del riso e la sensazione che il mondo fosse pazzo.

— Parola d’ordine.

E=mc2.

— Parola d’ordine.

Flash Gordon.

— Codice d’accesso 6B. Canale nove. Starcatcher, scortate il Pianto volante alla Stazione C. Pianto volante, seguite esattamente le istruzioni, pena la distruzione. Confermate.

— Confermato.

— Permesso di entrata in Averno.

L’immenso portello esterno si spalancò scivolando sui cardini, poi si richiuse. La rossa ragnatela di luci d’avvertimento attorno ai due vascelli divenne a poco a poco color oro. I vascelli atterrarono.

Jase esaminò il Pianto volante. Era una spaziomobile sorpassata, un macinino Terra-Luna, d’aspetto tozzo e goffo; c’era gente che giurava che fosse il miglior modello mai progettato. Nessuno degli occupanti era ancora sceso. Per prima cosa una squadra di tecnici l’avrebbe esaminato controllando la ricevente difettosa. Non credeva che qualcuno a bordo avesse messo le mani nell’apparecchiatura. Erano musicisti, venuti a suonare su Averno per un’unica sera, che il giorno dopo a colazione sarebbero stati solo un ricordo. Erano il complesso scelto da Sidney Halleck, non un gruppetto di cospiratori che intendeva usare le apparecchiature di Averno per entrare illegalmente. Erano ospiti, giunti in buona fede… — E allora perché — chiese al computer del Mozzo — me ne sto qui al buio ad aspettare che tutte le spie d’allarme di Averno si spengano?

“Perché”, si rispose in silenzio da solo, “sono appena atterrati e già le coincidenze sono troppe.”

— Direttore Klyos.

Premette un pulsante dell’intercom. — Sì?

— Qui il capotecnico Rethro, signore. Abbiamo controllato la ricevente del Pianto volante. Mancano i sigilli con il marchio. Ritengo che l’abbiano mandato sulla Terra senza modificarlo. Un errore da parte nostra. Sul loro giornale di bordo non è registrato niente che riguardi la FA.

— Bene — disse. — Bene. Lasciateli liberi, e mandate una squadra per aiutarli a scaricare le attrezzature. Halpren è lì a riceverli?

— Signorsì. Scusate, signore, il concerto è solo per i prigionieri o può assistervi chiunque?

— Chiedetelo a Halpren. L’idea è sua. Per me può portarci tutte le guardie di sicurezza che vuole, purché siano fuori servizio.

— Grazie, signore.

— Ancora una cosa. — Si interruppe, soppesando un ultimo misero particolare.

— Signore?

— Controllate i dati di riparazione di quella spaziomobile prima dell’invio sulla Terra per la vendita.

Ci fu un brevissimo istante di silenzio. — Signorsì. Pensate…

— E mettete qualcuno a fare ricerche sui passaggi di proprietà. No. Non penso niente. Voglio solo sapere.

— Signorsì.

— Chiudo.

Attraversò il corridoio e andò in ufficio. Nils, seduto alla scrivania, sorseggiava caffè con aria assonnata.

— Cosa fai ancora sveglio? — chiese Jase.

— Mi sono messo di servizio al concerto.

— Capisco. — Alzò un sopracciglio. — Forse chiederò a Jeri di realizzare un programma di riabilitazione per il personale.

— Sarebbe una battuta, signore?

— No — rispose, sorpreso. — Mi lamento tanto già io, che dimentico che potrebbero lamentarsi anche altri. Siamo tutti chiusi qui senza via di fuga. Forse potremmo metterci d’accordo con quelli di Helios, per andare a pescare nei loro fiumi oppure…

— In cambio di che cosa?

Jase ridacchiò. — Qualcosa troverò. — Si sedette, diede un’occhiata alle schede dei visitatori, che l’archivio gli aveva mandato per i controlli di routine.

Nils disse: — Signore? — Il tono insolito della voce fece capire a Jase che c’era qualcosa di bizzarro nella sua immobilità. Riprese a respirare, battendo le palpebre, ma nelle schede non era cambiato nulla.

— Accidenti — mormorò.

— Cosa c’è?

— Non lo so… Rintracciami una Regina di Cuori, Settore Costadoro, hai voglia?


— Come diavolo ci riesce? — chiese il dottor Fiori al soffitto.

— Dottore, forse è la macchina.

— È lei.

Terra li fissò senza battere le palpebre. Non si era mossa per mezz’ora. L’immagine sullo schermo era cambiata due volte. Nessuna delle due immagini aveva un significato evidente. La prima immagine, avevano stabilito, era il volto gonfio e pesante del pianeta che incombeva su Terra quando era ancora bambina. La seconda immagine era una conchiglia marina.

— È la conchiglia di un nautilo — disse Reina, pronta. Il dottor Fiori fece un gesto di stizza.

— È solo l’immagine che il computer ha accoppiato con il concetto di conchiglia.

— Forse alla fine è impazzita del tutto.

— Se non hai suggerimenti più validi…

— Credevo che lo fosse.

— Non può farlo. Come fa a farlo?

— Si sta concentrando.

— Su una conchiglia?

— Dottore, forse è la macchina.

— Signore — disse Nils. — Sullo schermo c’è un rapporto dell’archivio.

— Leggimelo.

— Dice che la scheda meccanica di 12 anni fa, relativa alla spaziomobile PA29548YP, indica che tutte le riparazioni, compresa la disattivazione della FA, sono state effettuate prima della vendita sulla Terra. — Alzò lo sguardo, perplesso. — Che abbiano commesso un errore? Oppure uno degli acquirenti…

— Lo saprò quando avrò l’elenco dei proprietari.

— Quindi prendete la cosa sul serio.

— È un presentimento.

— Di cosa, sant’Iddio?

— Non lo so ancora. Allora, chi è la Regina di Cuori?

Nils scosse la testa, muovendo le dita sulla tastiera. — È la Regina di Cuori.

— Be’, cosa…

— Tutto qui. Sette anni fa non esisteva.

Jase sospirò. Disse pazientemente: — Be’, trova il nome che aveva prima.

— Signore — disse Nils con altrettanta pazienza. — Non esistono registrazioni.

— Non esistono? Fa parte del complesso, non è una bambina di sette anni…

— Allora, signore, perché non lo chiedete a lei?

Per un istante si fissarono negli occhi. Poi Jase brontolò: — Ah, è troppo facile. Segui il mio ragionamento. L’archivio ha tutte le schede di tutti i cittadini che si siano mai tagliati le unghie dei piedi nel sistema solare. Prova i conti correnti, le tasse, le contravvenzioni, qualsiasi cosa. Lei è qui su Averno, e noi non ne sappiamo neanche il nome.

— Signore.

— Che c’è?

— Perché?

Jase aprì la bocca. Poi si passò le dita sugli occhi e fra i capelli. — Nils, se ti dicessi la verità mi consiglieresti lo psichiatra.

Nils si appoggiò alla spalliera. — Davvero? — chiese, incuriosito. — Allora otterreste il trasferimento e io potrei avere il vostro posto?

— Esattamente.

— È un’idea tanto folle?

— Uh-uh.

Nils fischiò. — D’accordo, però non ho trovato quella donna nelle sezioni normali. Semplicemente non esiste, prima di quella data.

— Va bene. — Si avvicinò a guardare lo schermo da sopra la spalla di Nils. — Prendi la prima data in cui ha usato quel nome. Richiama vecchi titoli di giornale, rapporti di polizia del Settore Costadoro, incarichi speciali, criminali in libertà, qualsiasi cosa che ti sembri rilevante… — Esaminò le parole che scorrevano sullo schermo. D’un tratto emise un rumore e le dita di Nils si bloccarono. — Ecco qui. Guarda cosa puoi cavarne.

Sullo schermo era comparsa una foto di giornale poco chiara: una giovane donna con il viso girato a metà per sottrarsi al fotografo. Nils fissò la foto, poi Jase.

— Richiama i suoi dati.

Lessero tutt’e due in silenzio.

— Aggiornamenti.

— Nessuno.

— Niente del tutto?

— Niente — disse Nils. Si schiarì la voce. — Dopo quella data. Sette anni, tre settimane e due giorni fa… — Rivolse a Jase un’occhiata incredula. — Come fate a tirar fuori il coniglio dal cilindro? Come facevate a sapere… — Ritornò bruscamente allo schermo. — Dio mio. È la sorella gemella di Terra Viridian. Qui. In giro per Ayerno.

“La Regina di Cuori preparò le crostate…” — Be’ — disse stancamente Jase — non c’è ancora una legge che lo vieti.

— Ma come facevate a saperlo? Perché avete voluto a tutti i costi fare ricerche?

“Perché”, pensò Jase, “stavo parlando con un genio musicale di nome Sidney Halleck a proposito di vecchie filastrocche e il suo nome mi è venuto in mente per caso, e lei faceva parte di un complesso che Sidney per caso mi ha raccomandato, e adesso lei per caso si trova su Averno, e che io sia dannato se so cosa succederà dopo.”

— Te lo spiegherei — disse — ma mi faresti rinchiudere in manicomio.

— Be’, e adesso? Non possiamo arrestarla, ma non possiamo neppure lasciar perdere. Sarà solo una coincidenza, ma lei è venuta qui sotto falso nome, su una lancia sospetta, che per caso è una vecchia spaziomobile di Averno…

Jase annuì. — Cominci a vedere quello che vedo io. — Rimase in silenzio un momento, battendo senza rumore le nocche sulla scrivania di Nils, fissando corrucciato il vuoto. — Almeno possiamo farle sapere che sappiamo. — Toccò un pulsante dell’intercom. — Klyos. Infermeria, il dottor Fiori.

Sullo schermo il dottore aveva un’aria leggermente stravolta, come se fosse stato vicino a Terra per troppo tempo. — Sì — rispose con aria assente.

— Dottor Fiori, la vostra paziente è interessata a visitatori?

— Al momento è interessata solo alle conchiglie.

— Ah. Be’, uno degli ospiti di stasera è sua sorella. È arrivata inaspettatamente. Non ha fatto nessuna richiesta di vedere Terra, ma mi è sembrato opportuno farvelo sapere, casomai foste interessato.

— Lo sono, ma non vedo… Che genere di rapporti aveva con Terra?

— Come diavolo faccio a saperlo?

— Me l’immaginavo.

— Sono gemelle, è tutto quello che…

— Gemelle! — esclamò in tono esplosivo il dottor Fiori. — Perché non c’era sulla scheda?

Jase si strinse nelle spalle. — C’è sulla nostra.

— Non avevo… Lei vuole vedere Terra?

— Non lo so. Ho intenzione di chiederglielo.

— Potrebbe strappare la mente di Terra dalla conchiglia.

— Conchiglia?

— Si è attaccata a un’unica immagine. Avete idea di quanto sia difficile pensare a un’unica cosa per più di…

— È pazza. D’accordo. Parlerò a Michelle e…

— A chi?

— A sua sorella. Michelle Viridian.

— Michelle! — gridò il dottor Fiori. — Non conchiglia! Non seashell! Michelle! — Poi rimase per un momento in silenzio, pieno di stupore. — Terra sa che lei è qui!

3

Il Mago, seguendo Jeri Halpren lungo il corridoio che curvava allontanandosi dallo scalo, sbatté le palpebre all’improvviso velo di sudore che gli aveva inondato il viso appena posto piede su Averno. Stanchezza, pensò, ma sapeva che non era dovuta all’atmosfera e all’immutabile luce silenziosa che sembrava scintillare come se il livello dell’ossigeno fosse troppo alto, o alle ombre delle roboguardie che sembravano allungarsi, nere e rigide, come avvertimenti sotto i suoi piedi. Jeri Halpren, un tipo chiacchierone e noioso, stava spiegando le meraviglie del suo programma di riabilitazione. Per fortuna non pretendeva risposte, visto che nessuno sembrava disposto a parlare, nemmeno Quasar, che lo guardava con occhi stupefatti come se appartenesse a un sesso mai incontrato prima. Di tanto in tanto il Professore emetteva un monosillabo cortese, con la mente altrove. Nebraska era rimasto ad aiutare la squadra addetta allo scarico delle attrezzature. La Regina di Cuori era stranamente silenziosa, tanto che il Mago una volta si girò indietro per vedere se c’era ancora.

Jeri Halpren aprì finalmente una porta che dava su un appartamento piccolo e comodo.

— Locali per ospiti di riguardo — disse con orgoglio. — Un vecchio modello del 20° secolo, completo di maniglie e serrature. In fondo al corridoio c’è il refettorio aperto giorno e notte, e dall’altra parte la sala giochi. Vi si chiede di non andare in giro oltre questi limiti. Adesso farò in modo che il vostro tecnico del suono trovi la sala adatta. Ci sono domande? — Rivolse loro un altro balenio di denti candidi e si congedò.

— Dov’è lo scotch? — chiese il Mago, quando la porta si richiuse.

— Sei nervoso? — chiese sorpreso il Professore. — Magico Capo, credevo che i tuoi nervi fossero corde di pianoforte.

Il Mago si era accostato alla parete opposta e aveva aperto le tende, prima di fermarsi a riflettere. La stanza non aveva finestre, ma solo la raffigurazione di una nebulosa che creava stelle simili a schegge di zaffiro contro il nero dello spazio. Rimase a fissarla, sospirando in silenzio.

— Per niente — rispose in tono deciso, a beneficio di Quasar. — Ho solo voglia di bere.

— Nei bagagli.

— Il posto più stupido. — Finalmente si girò; Quasar, con un guizzo negli occhi, aveva captato la sua inquietudine. Andava su e giù lungo un piccolo ovale immaginario compreso fra due divani; la precisione di quel percorso affascinava il Mago, e lo sgomentava. La Regina di Cuori si era raggomitolata nell’angolo di un divano. Sembrava non pensare a niente, non vedere niente; il suo insolito. silenzio infastidiva il Mago almeno quanto l’andirivieni di Quasar, su e giù come in prigione. Solo il Professore, che aveva circondato con un braccio Quasar per farla smettere, sembrava immune al nuovo ambiente.

— Animo, gente! — disse il Professore. — Siamo su Averno. Terra di mostri con cento occhi e cani con tre teste, di musicisti, di poeti, e del fiume dell’oblio.

Tu es fou - disse Quasar in tono scontroso. — Chi ha mai sentito parlare di un cane con tre teste?

— Cerbero, guardiano dell’Averno.

— Che bisogno c’era di un guardiano, all’inferno? Da chi doveva proteggerlo?

— Dai vivi.

Fou. - Ma il braccio robusto e la fantasia del Professore sembrarono calmarla. Si guardò le unghie. — Verde, direi, per stasera… verde cedro.

Il Mago smise anche lui di passeggiare, cercando di mettere a fuoco un ricordo. — Non c’era una vecchia storia di un musicista che liberò qualcuno dall’Averno? Ricordi? C’era un tranello…

Il Professore abbandonò Quasar e si lasciò cadere sul divano vicino alla Regina di Cuori. Contemplò le stelle turbinanti. — Un greco pre-GLM… Orfeo. La donna che amava morì e lui la seguì fino all’Averno. Suonò per i morti con tanta bravura che alla moglie fu permesso di seguirlo nel ritorno. Ma lui doveva aver fede. Se avesse perso la fede e si fosse guardato indietro per vedere se lei lo seguiva, avrebbe perso la possibilità di riportarla con sé. Il tranello era: non guardarti indietro.

— Be’ — disse la Regina di Cuori dopo qualche istante — cosa successe? — La sua voce suonò fragile e inattesa come quella di una bambina nell’Averno. — Riuscirono a fuggire?

— Certo che no — disse allegramente il Professore. — Lui era così felice, la sua donna era così bella, che si guardò indietro. In quale altro modo poteva finire? Nessuno torna indietro dall’Averno.

Il Mago non parve convinto. — Ne sei sicuro? — chiese, perplesso. — Finisce proprio così?

La Regina di Cuori emise una breve risata, insolita quanto lo era stata la sua voce. — Io ci credo — disse. Il Mago, cercando di ritrovare nelle sue parole tutte le vaghe cadenze e le modulazioni alle quali era abituato, rimase immobile, puntandole lo sguardo addosso. Lei guardava in alto, come se riuscisse a scorgere oltre il soffitto del piccolo appartamento l’enorme labirinto tutto curve degli anelli. — Questo posto è così grande — mormorò. — E c’è solo una via per entrarci.

Il Mago ricordò allora un’immagine riposta con noncuranza in un angolo della mente, come un sogno bizzarro, durante le ultime, intense settimane: la visione che aveva avuto nel club di Sidney Halleck, la premonizione che un giorno Averno si sarebbe rivelato il punto focale di tutti i suoi pensieri, e quel giorno, da qualsiasi parte guardasse, qualsiasi musica suonasse, Averno gli avrebbe riempito gli occhi, la mente; le sue tenebre avrebbero compiuto la loro rivoluzione non attorno alla Terra, ma attorno a lui stesso.

E ora lui si trovava lì.

Il suo corpo emise un improvviso lampo livido di terrore.

Il Professore sbatté rumorosamente i piedi contro il pavimento, alzandosi. Qualcuno bussò alla porta; il Professore, in silenzio, con il respiro affannoso, riusciva solo a fissare il Mago. Il colpo alla porta risuonò di nuovo.

— Sarà lo scotch — disse debolmente il Mago. Visto che nessun altro sembrava capace di muoversi, si girò notando nello stesso tempo che la stanza sembrava sollevarsi gentilmente e sedimentarsi attorno a lui come se entrasse aria da una porta aperta. Il bagaglio non si vedeva da nessuna parte.

Sulla soglia c’era un uomo. Aveva i capelli neri spettinati, le maniche rimboccate. Era di statura normale, leggermente grasso, e avrebbe potuto essere chiunque — un uomo dell’equipaggio, l’addetto alla manutenzione — se non fosse stato per gli occhi. Quegli occhi sembrarono assimilare il passato del Mago insieme al suo taglio di capelli e alle vecchie macchie sulla tuta di volo.

— Sono Jason Klyos, direttore di Averno. — Gli occhi si mossero sui visi immobili alle spalle del Mago. Trovarono quello che cercavano, e l’uomo parlò ancora, diretto, impassibile. — Michelle Viridian?

La mente del Mago si svuotò; cercò di ricordare quali fossero i loro nomi, abbandonati in un passato confuso. Poi si sentì soffocare. Si fece da parte, guardando senza volerlo la Regina di Cuori che si alzava lentamente dal divano come in sogno. Il viso della donna era immutabile come sempre. “Non è niente”, pensò rassicurato, “un problema secondario, una confusione nelle schede…” Poi la sua mente collegò insieme due particolari totalmente estranei fra loro.

Terra Viridian. La frequenza d’atterraggio.

Il suo corpo, per il momento, sembrava aver esaurito l’impulso di malinconia. Si sentì di nuovo la fronte imperlata di sudore. Cercò di deglutire, ma era come se avesse la gola piena di polvere. La Regina di Cuori gli si fermò vicino, con il suo viso d’oro che celava una donna scomparsa dal mondo.

Gli occhi del direttore cambiarono leggermente quando la esaminarono. Il Mago poteva avvertire il tremito della donna.

— Signora Viridian. Non vi abbiamo informata prima perché nessuno è riuscito a rintracciarvi, ma qui da noi c’è un certo dottor Fiori di Nuovorizzonte che lavora con vostra sorella Terra in via sperimentale…

Le mani le scivolarono lungo le braccia, si chiusero. — Sperimentale?

— Un’esperienza innocua, non dolorosa; vi ho assistito. Si tratta solo di una macchina che registra le sue… ah… visioni. L’UIGLM ha dato il permesso. Ho detto al dottore che voi eravate qui, stasera. Mi ha chiesto di condurvi a vedere Terra. Volete vederla?

— Voglio…

— Vedere vostra sorella.

Le sue dita si aprirono, si serrarono ancora. — Sì — mormorò. — Come… come sta?

— Nessun cambiamento, direi. — Rimase in silenzio, continuando a esaminarla; di colpo la sua voce perse il tono di fredda gentilezza. — Come avete fatto? — chiese con curiosità. — Come siete riuscita a scomparire così?

— La gente fa certe cose… perché deve farle. — Si interruppe per deglutire. — Terra… Eravamo molto simili, sette anni fa. Avevo bisogno di intimità. Da lei.

Lui annuì senza sorpresa. — Lo immagino. Credo che persino gli indigeni del Settore Foresta Tropicale avrebbero riconosciuto Terra Viridian, sette anni fa. — Si girò verso il Mago. — Siete il capo del complesso, signor Restak?

Il Mago ci mise qualche secondo a riconoscere il proprio nome. — Quando ci serve un capo.

— Sapevate il suo nome?

— Non lo sapeva nessuno — disse con fervore la Regina di Cuori. — Nessuno.

Klyos aprì di nuovo la bocca, esitò scorgendo qualcosa. — Allora — disse molto piano — non avete mai saputo perché l’ha fatto.

— Se l’avessi saputo, non avrei dovuto nascondermi. — Si sottrasse al suo sguardo, fissò il tappeto con occhi spalancati, ciechi. Il Mago la guardò, incapace di muoversi. Ma lei non pianse; la maschera resse. Alle loro spalle Quasar si accese una sigaretta; persino lei era senza parole.

— Volete accompagnarla, signor Restak? — Per un istante la domanda non ebbe alcun senso. Far visita a Terra Viridian non compariva in nessuno dei futuri che aveva intravisto. Il direttore parlava ancora, agitando la mano. — Il dottor Fiori non sa come Terra potrebbe reagire alla presenza di sua sorella. Però, e non chiedetemi come, lei sembra sapere che sua sorella è qui. — Lasciò cadere la mano e ripeté al Mago la domanda. — Verrete anche voi? Preferirei che con lei ci fosse qualcuno.

Il Mago annuì brevemente. — Sì. — Si rivolse al Professore sforzandosi di assumere un’aria di efficienza. — Appena puoi, comincia a preparare. Non so quanto ci metterò.

Il Professore annuì, sempre in silenzio. Il Mago chiuse la porta e seguì la sua cubista nell’Anello Scuro di Averno.

Dopo i primi cinque minuti rinunciò a tenere a mente il percorso per tornare indietro nel caso che la strategia d’attacco di Michelle Viridian includesse una rapida evasione. C’erano ascensori, montacarichi, nastri trasportatori, schermi monitor dappertutto, guardie dappertutto, comprese le due che il direttore aveva raccolto per strada; e dove non c’erano guardie umane c’erano robot. Dopo dieci minuti il Mago non aveva più idea se stavano salendo, scendendo o si muovevano lateralmente dentro gli anelli. La Regina di Cuori gli camminava davanti, a fianco del direttore. Una volta si girò per vedere se il Mago continuava a seguirla. Lui riuscì bene o male a rivolgerle un sorriso, anche se la rivedeva con la tuta macchiata addosso, sotto il quadro comandi, spietatamente indaffarata a mettere a repentaglio il Pianto volante. Percorsero un altro breve tratto su nastro trasportatore lungo la parete ricurva dell’Anello. Poi ci fu un altro ascensore, un altro corridoio, un’altra coppia di guardie, un’altra entrata.

Infermeria, padiglione D411.

Il padiglione era poco illuminato, pieno di sagome bizzarre e di movimento. Un dottore cominciò a parlottare con Michelle, mentre la donna che faceva parte del gruppetto dei tre assistenti lanciava al Mago una rapida occhiata e tornava a dedicarsi alla consolle e agli schermi che aveva davanti. Tutti gli schermi mostravano in continuazione differenti inquadrature a colori di Terra, tranne uno, che mostrava solo una conchiglia. Il Mago vide che quest’ultima immagine ondeggiava. Si girò, con la pelle d’oca, e solo allora distinse fra le ombre alle sue spalle la presenza della donna ripresa sugli schermi. Fissò affascinato la bolla gigantesca sospesa in un angolo della stanza. La Regina di Cuori avanzò di un passo. Di un altro.

C’era una sagoma rosa dentro il globo: un essere nudo, smagrito, appiattito contro la parete trasparente quasi fino a perdere forma, fuso attorno alle mani che si sforzavano di uscirne fuori. La voce era sottile come quella di un bambino, esausta.

— Michelle?

Il Mago si sentì gelare il viso e le mani. La Regina di Cuori gli passò davanti, con la vernice del viso macchiata da lacrime improvvise, e afferrò le mani dentro la bolla. — Terra — disse. — Terra. — La voce era scossa dalla commozione. Il Mago chiuse gli occhi. Ma continuava a vederle, due donne con l’identico viso, tutt’e due intrappolate dal passato, impossibilitate ad aiutarsi. Udì una voce lontanissima esclamare: — Guardate la Macchina dei Sogni!

E allora, dietro ai suoi occhi chiusi, ricordi che non gli appartenevano, vividi, precisi e casuali, gli turbinarono nella mente come un mazzo di carte lanciate in aria.

Il viso di Michelle o di Terra, molto più giovane; un minuscolo sgorbio di luna rimpicciolito dal confronto con la rossa faccia rigonfia del pianeta; il pannello di guida di una navetta da minatore; l’aria umida e soffocante di una serra; una fruttiera d’arance; una poesia su uno schermo; forcine nere a forma di cuore; una stella rossa; il deserto sotto un’ardente stella gialla; una parete nera stagliata contro un nero più intenso; le ombre di una fila di soldati in marcia sulla sabbia; una costellazione sconosciuta; uno schermo di luce abbagliante, pericolosa; una bambina dai corti capelli chiari che si disegnava stelle azzurre sul viso; un coltello piegato; un ovale piegato su sabbia ametista lambita da un mare rossastro…

Le immagini rotearono come una pellicola cinematografica fatta scorrere troppo velocemente, poi si bloccarono, si strapparono. La mente del Mago si svuotò.

Finalmente riuscì a vedere di nuovo. Accanto a lui, dietro di lui, tutti fissavano lo schermo. Ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sagoma dentro la bolla, più in alto. Vide il viso di Terra, velato da pareti trasparenti. Michelle l’aveva lasciata andare; la bolla aveva riacquistato una forma sferica. Terra si stava ritraendo nell’ombra, ma mentre si spostava incontrò i suoi occhi.

Il Mago si sentì rizzare i capelli. Era troppo stupito persino per tremare. “Tu”, dissero gli occhi di Terra. “Tu.” Lui chiuse di nuovo gli occhi, sentendo un rivolo di sudore gelido lungo la schiena. Ma i ricordi erano ancora nella sua mente: i ricordi di lei. Vide dov’era nata, vide il deserto in cui aveva ucciso, vide il colore dei suoi capelli da bambina. Come un ragno lei aveva intessuto una tela, spinta dal bisogno, e l’aveva catturato.

— Niente immagini — disse uno dei due assistenti maschi del dottore. — L’abbiamo persa?

— Michelle — disse gentilmente il dottor Fiori. — Ditele qualcosa.

— Terra. — La voce si inceppò, stridente. — Terra. — Michelle tremava di nuovo. Il Mago sembrava aver messo radici dove si trovava quando gli occhi di Terra l’avevano sfiorato. Michelle era sola con Terra, completamente dimentica di tutto. Le lacrime le rigavano il viso, e lei di tanto in tanto se le asciugava senza rendersene conto. — Terra. Puoi parlarmi?

Dalla bolla provenne un sussurro. — Michelle?

— Sì, Terra.

— Io sono un vento solare, nato dal fuoco.

Il dottor Fiori mormorò qualcosa. Michelle disse, senza girarsi: — È il verso di una poesia. L’ha scritta quando aveva 12 anni. Terra. Sei così magra! Non mangi?

— Quale?

— Come, quale?

— Quale parte di me? Io mangio e io non mangio. Non in questo momento. Non prima della fine.

— Quale fine?

— La fine della visione.

Il Mago si sentì oscurare la vista da un tenue tramonto viola. Si girò, con occhi annebbiati, colto dal panico, e scorse la propria visione proiettata sullo schermo. Qualcuno disse, guardandolo: — Ancora la nebbia d’ametista… un significato ce l’ha di sicuro, ma quale?

Il Mago respirò con più calma, mentre la luce si affievoliva. Sentì uno sguardo su di lui, e scoprì che il direttore Klyos lo fissava dalla soglia. Si accorse di avere la bocca secca, le mani strette a pugno. Forse doveva cercare di parlare, ma Terra lo attirò di nuovo, catturò ancora tutta la sua attenzione.

La sua voce perse il tono di distacco. — Michelle.

— Sì?

— Ascoltami. Ascolta.

Una scogliera a strapiombo nera come spazio profondo. Un confuso cielo rossastro sullo sfondo. Un ovale ripiegato su se stesso, di tutti i colori o di nessun colore, disteso su sabbia ametista. Una sfocata visione di una stella rossa. La scogliera. L’ovale. Il sole rosso… Il bisogno, il primigenio, prepotente, schiacciante bisogno… La visione.

Il Mago cessò perfino di respirare. Si accorse di tenere gli occhi sbarrati. Il viso magro, gli occhi enormi, che scorgevano visioni, che vedevano nei suoi, che lo costringevano a vedere…

Michelle mormorò: — Ti ascolto. — Era una domanda. Lei attendeva ancora, capì il Mago, aspettava ancora di udire quello che era stato appena detto… E infine giunse di nuovo la voce di Terra, quasi persa dentro la bolla.

— Sono così stanca. Così stanca.

— Parlatele — mormorò il dottor Fiori.

— Lei…

— Parlatele. Fate in modo che ricordi.

— Terra. — Si interruppe, cercando a tentoni il passato. — Ti… ti ricordi quando arrivammo al Settore Costadoro? Vedemmo l’erba sotto il sole per la prima volta. E grandi giardini di fiori sbocciati senza bisogno di serre. Ti ricordi?

— Uccelli… zanzare…

— Sì.

— Ragnatele stagliate contro la luce del mattino.

— Alberi di limone. Non avevamo parole sufficienti per tutte le cose che vedevamo.

— Parole.

— Avevamo 16 anni. Appena giunte sulla Terra. Eravamo tristi, dapprima. Ma dopo un po’ cominciammo a ridere di nuovo.

— Tu suonavi musica. Sempre, sempre… la sognavi, l’amavi, ne eri ossessionata… Era la tua visione.

— E tu badavi a tutt’e due. Mi giustificavi a scuola, cucinavi, mi compravi persino i vestiti…

— Tu guidavi l’elicar. Tu riparavi le cose. Tu avevi il sogno.

— Tu avevi…

— Non avevo nessun futuro.

— Tu…

— Aspettavo. Un futuro inesistente. Un luogo dove mi avrebbero tagliato i capelli.

— Ricresceranno…

— Non qui. Mai, nell’Anello Scuro. E non me ne andrò mai.

Michelle fece per parlare. Poi si portò le mani alla bocca, ingobbita, travagliata da un’angoscia muta. Il Mago, mosso a compassione, le si avvicinò di un passo. Ma un’ombra fiorì nella sua mente e lo bloccò. La figura si appiattì come una goccia di pioggia sul selciato, poi si raccolse su se stessa e sgattaiolò via dalla spiaggia viola. Fu seguita da un’altra. Un’altra. Dentro di lui crebbe un suono. Chiuse gli occhi, ma le ombre continuarono a fiorire. “Terra”, supplicò. “Terra.” E, sorprendentemente, le ombre si arrestarono.

— Si sta smarrendo. Continuate a parlarle, Michelle. — La voce del dottor Fiori era bassa, insistente. — Michelle. Chiedetele del Settore Deserto.

— No. — Scosse la testa vivacemente. — No.

— Chiedeteglielo.

“Buon Dio, no,” pensò il Mago, terrorizzato.

— Chiedeteglielo. Con cautela.

Michelle si girò, stravolta, tormentata; il dottor Fiori disse ancora: — Con cautela. Senza turbarla.

— Come? — Sospirò con un brivido. — Come posso chiederglielo senza turbarla?

— La conoscete meglio di noi.

— Non la conosco! Non l’ho mai conosciuta!

— Sst. Fatelo con dolcezza. Tentate. Per amor suo.

Lei si voltò ancora verso Terra, e la sua voce si ridusse a un mormorio appena intelligibile. — Terra, mi senti?

— Michelle.

— Quasi non vedo il tuo viso. Non hai freddo, lì dentro?

— Freddo. Qui non c’è freddo.

— Ricordi… ti ricordi dell’ultima volta che ci vedemmo? Sette anni fa? — Dentro la bolla ci fu silenzio. Il Mago udì il proprio cuore martellare. “Posso uscire da qui”, pensò, “posso andare lontano.” Ma il suo corpo aveva le stesse reazioni di una pietra. E ora per lui non c’era nessun luogo dell’universo oltre agli occhi di Terra, la visione di Terra.

— Terra. Ti ricordi?

— Non c’è tempo. — Le parole erano un sussurro.

— Mi desti un bacio d’addio. Indossavi l’uniforme.

— No.

— Terra, tentai… tentai di vederti, dopo. Io… loro non mi permisero…

— Lo so.

Nella stanza nessuno fiatava.

— Come potevi sapere? Non mi permisero di vederti, dissero che eri pericolosa, dissero…

— Il tuo viso non era nella visione, ma lo sapevo. Il resto… — Un braccio sottile si mosse. — Il resto era niente. — Si accartocciò sul pavimento della bolla, stringendosi le ginocchia, scuotendo la testa avanti e indietro. — Facce. Voci. Domande. Rumori. La visione.

— Terra. Il Settore Deserto. Cosa accadde? — Silenzio. — Terra, mi dicesti addio e ti recasti in quel settore e io non… io mai… non tornasti mai indietro, tu…

Il sole era scuro, nella mente del Mago, sullo schermo della Macchina dei Sogni.

— Andasti nel deserto e…

La visione era luce.

Le labbra del Mago si aprirono. Soffocato, cieco nelle tenebre agognò la luce, sognò la luce, immaginò la luce. Creò la luce.

— Terra. Tu eri… — La voce si spezzò. Si coprì il viso. — Non posso — mormorò. — Non posso, non posso, non posso…

— La visione — disse il dottor Fiori. — Chiedetele cos’è la visione. Chiedeteglielo, Michelle.

— Terra, che cosa… che cos’è la visione? Cosa vedi?

Terra nascose ancora il viso contro le ginocchia. Emise un respiro stridente, esausto. Deglutì. — Parole. Domande. Parole senza suono — disse infine.

— Parole senza suono… — Michelle si girò finalmente a guardare con stupore la Macchina dei Sogni. Una macchia viscosa, vagamente giallastra, ribollì fra gli spruzzi nella mente del Mago. Si acquietò e svanì nel litorale crepuscolare, dove giaceva l’ovale piegato, di nessun colore o di tutti i colori, isolato e immutabile come una luna. Il Mago desiderò affidare il corpo immobile al tempo, annegare la mente nella fresca acqua viola.

— Una parola senza suonò — sussurrò Michelle. — Ma cosa significa?

— La visione.

Il Mago vide sabbia d’ametista, scabra, traslucida; si ritrovò nella sabbia; fu lui la sabbia. Non vide niente, non udì niente. Poi l’occhio di Dio, il sole rosso, squarciò le tenebre, e lui sentì un comando che lo trascinava come un’onda di marea sulla sabbia, che revocava il passato, trasformava i confini del mondo. Non riuscì a parlare, non percepì sensazioni. C’era solo la fame, inesorabile e assoluta; e con la fame, la visione.

La visione era luce. Fiammeggiò nella sua mente da cento direzioni; dove era ingoiata dalle vuote tenebre inanimate, lì irraggiava di nuovo, ancora, combattendo la lunga notte finché il buio non si arricciò via per rivelare caos e altra luce. Il sole giallo contro un violento cielo azzurro… che fissava in basso un paesaggio cangiante in cui confuse sagome ossessivamente familiari si trasformavano in luce. La sabbia, smorta, arida, divenne all’improvviso una distesa ardente di vetro fuso. Sotto l’occhio giallo anche l’ovale si fuse.

Divenne un viso di bambina stravolto in un muto urlo di terrore. E poi l’urlo non fu più muto.

Terra si era alzata; batteva i pugni contro la parete della bolla, urlando lo stesso urlo della bambina. Il Mago, barcollando, allungò le mani alla cieca. Colpì lo spigolo della Macchina dei Sogni, e poi due persone che lottavano.

— No. Non c’è nessun pericolo. Non può farsi male.

— Lasciatemi! — Era la sua cubista, ricordò, la Regina di Cuori. Il dottor Fiori le rispose rapidamente, cercando di calmarla. — Va bene, va bene, ora vi lascio andare.

Le due persone si separarono; il Mago si staccò da loro, riacquistò l’equilibrio e la capacità di vedere. Per un secondo il dottor Fiori abbandonò l’inesorabile inseguimento di Terra e si girò verso di lui.

— State bene? — chiese sorpreso. — Sembrate un cadavere. — Prima che il Mago potesse rispondere, aggiunse: — Ce la fate a resistere? Comincia a ricordare. Comincia ad affrontare la realtà. Avete visto com’è cambiato il simbolo.

— Simbolo. — Michelle, con il viso bizzarramente sporco di lacrime e di colori, lo fissava, cercando di capire il senso delle sue parole.

— Sta mascherando le proprie azioni dietro uno schermo di simboli che sono per lei più accettabili. Voi l’aiutate ad affrontare la verità.

Lei lo fissò ancora per un attimo, poi guardò le ombre, il computer, la detenuta rapata e piangente, gli assistenti e le guardie, il segmento del vasto anello ricurvo che li circondava. Altre lacrime le rigarono il viso. — A che scopo? — gli chiese. — Vi prego, ditemelo. A che scopo?

4

Durante il tragitto di ritorno dall’infermeria, il Mago non vide niente, non disse niente, finché, dopo esser stati scortati dalle guardie nei quartieri degli ospiti, si arrestò davanti a una porta che non si apriva da sola.

— La maniglia — disse piano Michelle Viridian, e la girò.

— Oh.

Dentro c’erano i bagagli; ma non gli altri componenti del complesso. Il Mago immaginò che fossero da qualche parte a sistemare il palco. Credeva di non essersi mosso; si sentiva dentro qualcosa che lo bloccava. Invece aveva attraversato la stanza; aveva aperto una valigia; stava svitando il tappo di una bottiglia. Ci fu un altro istante vuoto, tranquillo, silenzioso. Poi sentì in gola il gusto dello scotch. Posò la bottiglia e d’un tratto rabbrividì violentemente.

Si girò. La Regina di Cuori era seduta su un divano, e continuava a piangere, muta, assente. La vernice del viso le macchiava le mani. Nel pallore della sua pelle, nei suoi occhi grigi, ossessionati, che guardavano senza vedere, il Mago scorse un soprannaturale riflesso del viso di Terra.

Bevve ancora. Poi trovò nel bagno un bicchiere, lo riempì di scotch e lo spinse fra le mani di Michelle.

— Bevi. — Aspettò. Michelle fissò il bicchiere sulle sue ginocchia, poi lo alzò e inghiottì un sorso. Si scostò con le dita i capelli dagli occhi, striandoli d’oro. Una forcina a cuore si staccò; lei fissò il cuore sul palmo della mano, il duro, lucido acrilico nero, di nessun valore. Nella mente del Mago si insinuò un ricordo che non gli apparteneva: forcine a cuore disseminate fra capelli così chiari che sembravano brillare qua e là di fuoco bianco.

Disse: — Queste forcine a forma di cuore. Appartenevano a Terra.

Lei annuì. Poi, senza sollevare la testa dalla forcina, lo guardò con la coda dell’occhio, come un bambino messo sul chi vive da una forma intravista nell’ombra. — Sì — mormorò.

Rimase in silenzio per un istante; sollevò il viso con cautela, verso le tenebre. — L’hanno rapata a zero. Magico Capo, come hai fatto a scorgere le forcine nei suoi capelli?

Lui alzò di nuovo la bottiglia. Sudava ancora; sentiva il gelo sul viso, lungo la schiena. — Perché non mi hai mai parlato di Terra?

— Non… non potevo.

— Cosa temevi che facessi? Non l’hai mai detto a nessuno?

— No.

— Oddio, Signora dei Cuori. — Si sedette in equilibrio sul bracciolo del divano accanto a lei, con la bottiglia sulle ginocchia. — Michelle. — Le toccò la spalla, e fu sopraffatto dalla duplice solitudine: una donna imprigionata in una visione, l’altra dietro una maschera. Con la mente ancora piena degli occhi di Terra, del potere di Terra, la sollecitò: — Parlami di lei.

— C’è ben poco da dire. Quasi niente.

— Dimmi dove è cominciato.

— Non lo so! — Ancora una volta i suoi occhi si riempirono di lacrime. — Non lo so.

— Dimmi quello che sai, allora. Non sei nata sulla Luna. Non sulla nostra. Dimmi.

Lei trasse un lungo sospiro; la sua voce era scossa. — Dove siamo nate, c’era l’orizzonte ristretto di una luna. Spazio. Notte. La faccia del pianeta. Il pianeta rosso. C’era un suono costante, sempre lo stesso. Il battito del cuore. I generatori. Non si fermavano mai. Come lo scorrere del sangue. Il primo suono che abbiamo udito. Per me divenne il rullio dei cubi. Per lei, restò sempre il battito del cuore. — La voce si affievolì. Il Mago la sfiorò, supplicando.

— Dimmi quello che ricordi. Qualsiasi cosa. Tutto. Parlami delle forcine a forma di cuore.

— Le forcine… Todd le regalò a Terra… Magico Capo, siamo nate a un minuto di distanza. Per anni, quando guardavo negli occhi di Terra, vedevo me stessa. Un’estensione di me stessa. Per anni non ci sono state separazioni, fra noi, né di mente né di corpo. Conoscevamo tutti, nella colonia. Tutti gli altri 18 bambini, tutti gli adulti. Erano la nostra famiglia, il nostro mondo. L’intero universo era in quei corridoi curvi piastrellati di bianco e nelle minuscole stanzette, nel pulsare dei generatori, nei visi familiari, nell’immensa faccia del pianeta sovrastante, che fu la prima cosa che sognai… Vivevamo spensieratamente, senza capire o credere davvero che eravamo due persone, non una. Per anni. Fino alla separazione. La prima.

— Quale?

— Perdemmo la testa tutt’e due insieme, quella volta. Lei si innamorò di Todd MacNeal. Io mi innamorai della musica. — Sorseggiò ancora lo scotch, in silenzio, sfiorandosi il viso, segnato da una ruga di stanchezza fra le sopracciglia. — Fu la prima volta. Che i pensieri di una non rispecchiavano quelli dell’altra. Fu la prima volta che ascoltai i nastri di musica di mia madre, e da allora udii il suono dei generatori, il suono del mio mondo, in ogni canzone che ascoltavo. Volevo produrre quel suono. Sognavo la musica, suonavo i cubi nel sonno. Picchiavo su qualsiasi cosa potesse emettere suoni. Udivo i cubi in qualsiasi cosa facessi risuonare. Era… era…

— Una visione — disse piano il Mago, e lei annuì.

— Una specie di follia… Sembra che quell’età sia fatta apposta per le follie. Terra si limitò a innamorarsi. — Esitò. Il Mago beveva lo scotch direttamente dalla bottiglia, e attendeva.

— Terra.

— Lei… è sempre stata sensitiva, intuitiva. Non me n’ero mai accorta finché non cominciammo a vivere come due persone diverse. Prima non badavo mai a chi di noi facesse una data cosa. Ma ora era lei che scriveva poesie. Era lei che percorreva un corridoio come se danzasse lungo la Via Lattea. I suoi capelli sembravano sempre scompigliati dal vento, sempre infuocati dalla luce del sole, anche dentro uno stabilimento lunare. Lei vedeva tutti noi dall’altro capo dell’universo, dall’altro capo del tempo. Non scorgevo più il mio viso nel suo. Non vi scorgevo il desiderio, l’impazienza, l’amore disperato. I suoi occhi non erano più per me. Erano per Todd.

“Una notte udii i nostri genitori parlare di noi. Mia madre disse: «Cosa dobbiamo fare, con loro? Michelle, e i suoi coperchi di casseruola; Terra, che cerca di avere la sua prima relazione sentimentale in uno stabilimento farmaceutico su un pezzo di roccia così piccolo che non ci si può nemmeno pisciare in privato». Mi ricordo di aver pensato: ecco allora cos’è accaduto a Terra. Quando il mio pensiero si staccava dai cubi, lei non c’era più; era quasi un’estranea. Mi mancava. Ma i cubi… — La voce le tremò di nuovo. — I cubi. La musica. La visione era tutto. Mia madre disse a mio padre che era meglio rimandarci sulla Terra. Mio padre rispose che lì eravamo felici, che saremmo rimaste. Mia madre disse: «Terra, forse. Ma questa luna non è abbastanza grande per Michelle». Allora non sapevo cosa volesse dire. Tutto quello che volevo era una batteria di cubi. E che restassimo tutti insieme per sempre sulla nostra luna privata…”

— E Terra? Cosa voleva, Terra?

— Terra… — Si interruppe, non vedendo altro che Terra, distorcendo il tempo per tornare al passato. Le parole giunsero più in fretta, tutte le parole che la Regina di Cuori aveva ammassato dietro la maschera per sette anni. — Terra aveva quel che voleva, tutta la magia del primo amore. Non poteva fare niente di sbagliato; per lei tutte le regole naturali venivano sospese. Se faceva tardi a cena a causa di Todd, la cena stessa cambiava orario. Se sottraeva tempo alle lezioni di laboratorio, quel giorno il suo terminale decideva di guastarsi. Per lei le porte non erano mai sprangate. Se tornava a casa tardi, i nostri genitori erano ancor più in ritardo. Era presa nella trama magica che avvolge il mondo. Era… era dentro la propria visione. Ma una visione che tutti capivano. Tutti l’avevano avuta, o pensavano di averla avuta, o la desideravano, o la sognavano, o la rimpiangevano. Lei mutò quello stabilimento in una favola, e poi anche lei entrò a farne parte. Divenne bellissima. Todd si fece più alto; smise di arrossire; cambiò il tono di voce. Ridevano a ogni occasione. Si aiutavano fra loro a crescere, trasformarsi. Forse… Quando ci ripenso, a volte credo che fosse quello di cui aveva bisogno per rimanere sana di mente. Per rimanere felice. Se solo fosse riuscita a concludere la sua favola, se le cose avessero raggiunto la loro fine naturale, se avesse sposato Todd, o fosse maturata, lontano da lui; se, in un modo o nell’altro, la favola fosse giunta alla fine.

— Cosa accadde?

— Sognò il fuoco… — Michelle rimase immobile, impassibile. Il Mago l’aveva vista in quello stato molte volte, senza farci caso: era il suo modo di proteggersi. Adesso capiva. La toccò con gentilezza.

— Una premonizione?

— Una visione — mormorò lei. — Era un’altra separazione. Lei stava diventando sensitiva. A me non è successo. Lei sognò il fuoco, e seppe che i nostri genitori stavano per morire…

“Erano andati sul pianeta in una navetta merci, a passare due o tre giorni in una località di villeggiatura. Mi svegliai e trovai Terra seduta sul pavimento in cucina. Non voleva andare a lezione, non voleva parlare con nessuno. Nemmeno con Todd, quando venne a cercarla. Allora dopo le lezioni mi sedetti accanto a lei sul pavimento e attesi…

“La navetta merci aveva avuto un guasto in fase d’atterraggio. Terra aveva sognato l’esplosione.

“Così, fummo mandate via dalla colonia. Lontano da casa nostra, dal nostro mondo, da tutti quelli che ci conoscevano. Un giorno Terra era amata e innamorata. Il giorno dopo, volava nel silenzio e nelle tenebre lontano da tutto quello che aveva amato. Eravamo nate nello spazio. Io sapevo guidare una navetta mineraria come ogni altro. Terra sapeva coltivare qualsiasi cosa. Ma avevamo 15 anni. Secondo le regole del GLM, eravamo troppo giovani per lavorare nello spazio.

“Quindi fummo mandate sulla Terra.”


— Mangia — disse il Mago. Aveva portato dal refettorio tramezzini e minestra calda. Michelle mordicchiò una crosta, il Mago rimestò la minestra una volta. Nessuno dei due mangiò.

— Volevano che incidessi dei nastri — disse Michelle — dopo l’accaduto. Volevano che scrivessi un libro. Fuoco nel deserto, della sorella di Terra Viridian. Volevano che partecipassi a spettacoli televisivi. Con i miei cubi e videoregistrazioni di mamma e papà e i piccoli Viridian. Questo avvenne ancora prima del processo.

“Ero stata in giro a suonare. Arrivai a casa tardi. Avevo un nuovo paio di scarpe color argento. Tornai a casa da sola… Ricordo le scarpe perché me le tolsi e mi preparai un panino, e fu lì che le lasciai, vuote scarpe d’argento sul bancone della cucina, quando finalmente lasciai l’appartamento e me ne andai 500 chilometri a nord del Settore Costadoro. Per quanto ne so, sono ancora lì. Scappai perché avevo acceso la tele per guardare il notiziario mentre mangiavo, e d’un tratto c’era il suo viso. Solo, i capelli erano molto più corti, perché era di leva, e portava la divisa color kaki e la targhetta d’identificazione. Mi aveva spedito una fotografia identica qualche mese prima, scherzandoci sopra.

“Dissero che aveva ucciso più di mille persone ed era fuggita. Non erano ancora sicuri, allora, di quante fossero le…

“«Questo non è nella visione» fu tutto quello che disse quando la trovarono. «Questo non è nella visione…». — Toccò un tramezzino, poi se ne dimenticò, fissando invece il vivido intrico di polvere e di stelle sulla parete opposta. — La visione… ho continuato a pensare che dopo aver vissuto 21 anni insieme a lei avrei dovuto sapere di cosa parlava. Quale visione? Il sole le aveva dato di volta al cervello? Si trattava di droghe? O c’era sempre stata una visione, qualcosa che solo lei poteva scorgere con la coda dell’occhio, un’ombra che seguiva solo lei, giorno, dopo giorno, mentre crescevamo? Chiunque penserebbe che dovevano esserci stati dei precedenti, che magari scuoiava gatti nel Settore Costadoro e ne bolliva le ossa, o che andava in giro nuda per le strade a predicare le sue visioni. Chiunque penserebbe che doveva esserci stato qualche indizio, una traccia. Non è così?”

— C’era?

— Niente — mormorò. — Mai.

Il Mago lasciò uscire il fiato in silenzio, convinto di non far rumore. Ma lei lo udì, lo fraintese, allungò la mano, scostandolo.

— Non c’è stato davvero nessun preavviso, Magico Capo. Vivevamo insieme, terminate le scuole. Lei era impiegata presso un’agenzia di collocamento che dava consigli alla gente in procinto di lasciare la Terra per andare a lavorare nello spazio. Io suonavo i cubi con qualsiasi complesso mi offrisse un ingaggio. Lei cucinava, teneva in ordine la casa. Io recuperavo la forchetta che bloccava il riciclatore, sistemavo gli scaffali, riparavo le tubature che perdevano. L’unica cosa strana nel suo modo di vivere era che non guardava mai al futuro. Non pensava mai a cosa avrebbe fatto nei 50 anni a venire. Non portava mai a casa lo stesso uomo più di due volte. Lasciava che i suoi amici si allontanassero. La gente la trovava simpatica, cercava di far amicizia. Ma lei era così distante. Come se fosse fatta di vetro. Niente le restava attaccato, niente poteva infastidirla. Io le ero più vicina di chiunque altro. Ma non parlava mai del passato, nemmeno con me. Mai. Né di Todd, né dei nostri genitori, né della vita nello spazio… niente. Fin da quando eravamo molto piccole mi aveva sempre raccontato i suoi sogni. Invece ora, quando glielo chiedevo, mi diceva che sulla Terra non sognava mai…

— Hai detto che era sensitiva.

Michelle annuì. Spalancò nuovamente gli occhi, gonfi di lacrime represse. — Le volevo bene, Magico Capo. Pensavo davvero che non fosse cambiata molto, da quando eravamo arrivate sulla Terra. Era sempre stata brava, buona di carattere… Ma adesso capisco cosa faceva. Si nascondeva. Non solo dal passato, ma anche dal futuro che vedeva arrivare. Diceva che non sognava mai, ma penso che si limitasse a seppellire quello che sognava, perché erano cose insopportabili da guardare. Il suo futuro. La strage nel Settore Deserto, Averno, la solitudine e la follia… Se intravedeva queste cose nel suo futuro, non c’è da stupirsi che dicesse… non c’è da stupirsi…

Il Mago le mise la mano sulla spalla, strinse forte sentendo il lungo sospiro convulso. — Era sensitiva in altri modi? Oltre che in sogno?

Lei si raddrizzò, allungò la mano verso il bicchiere. — Sapeva sempre cosa avrei indossato al mattino, prima ancora che decidessi. Poteva dire chi aveva chiamato solo guardando la spia luminosa dei messaggi. Dava un’occhiata alla spia e diceva: «Era per te… ha chiamato Will». Fece così, il giorno in cui la arruolarono. Guardò la spia luminosa quando entrammo. Solo che quel messaggio provocò in lei una reazione bizzarra. Perché disse: «Credo che sia per me». Come se sapesse che era il punto d’inizio della sua metamorfosi…

“Così il mattino dopo andò al Centro di Reclutamento. E sei settimane dopo era nel Settore Corrente del Golfo, per l’addestramento. E poi due mesi più tardi era all’aeroporto, e io le dicevo addio proprio prima che salisse sulla navetta trasporto truppe.

“Ecco quando l’ho vista.” Rimase seduta in silenzio per qualche momento, il viso di nuovo immobile, la spalla abbandonata sotto la mano del Mago.

— Voglio dire, quando ho visto cos’era diventata. Non sembrava più… quello che era sempre stata. Paziente, allegra, distante. Era bellissima, come la pubblicità per l’arruolamento, come il tipo di donna che ha una vita interessante. Allora compresi cosa si era lasciata alle spalle nella colonia lunare. Seppi che tutto ciò che aveva sempre desiderato le era stato già dato, e strappato via. In lei non era rimasta una sola scintilla per riaccendere l’interesse nella vita.

“Disse… disse: «Si tratta solo di una faccenda tecnica del GLM. Lavorerò in un ufficio per un anno, poi tornerò a casa. Abbi cura di te. Scrivimi. Mi mancherai». Mi salutò con un bacio e si girò. Dalla spalla le pendeva un fucile laser.

“Ho guardato il processo. — La voce era quasi scomparsa, roca, priva di forza. — Ero tornata a sud, per cercare di vederla dopo che la catturarono, ma dissero che era troppo pericolosa. I giornalisti, gli avvocati, si precipitarono tutti su di me quando tornai. Volevano che raccontassi loro il segreto di Terra, la sua bizzarra seconda vita, che dicessi loro che odiava nostra madre, che odiava nostro padre, che era stata lei a sabotare la navetta merci in cui erano morti, che odiava gli uomini, che maltrattava i bambini, che… Volevano un motivo. Volevano che dicessi loro qualsiasi cosa, tranne che un normale essere umano come lei poteva improvvisamente impazzire senza preavviso e trovarsi impegolato in un processo per strage.

“Non potevo dir loro queste cose. Volevano che assistessi al processo, ma io scappai di nuovo al nord. Ormai non la conoscevo più. Guardai il processo, da sola, nella stanza che avevo affittato… Non processavano Terra. Ma una donna magra e pallida che parlava di visioni, che diceva che, sì, aveva ucciso, ma non era importante. «La visione è tutto». Non era Terra.

“Però aveva il mio viso.”

Il Mago era silenzioso, e ricordava un bar grande come una scatola da scarpe nel nord del Settore Costadoro… una sera di sette anni prima, quando una ragazza con il viso d’oro e le forcine a cuore di Terra nei capelli, aveva attraversato la sua visione personale, strappando la sua attenzione dalla musica che creava…

— Quella sera ti incontrai…

Lei alzò lo sguardo stanco, istupidito dal dolore. — Magico Capo, avevo appena ventun anni. Di tutte le persone che amavo davvero, due erano morte e una era impazzita. Avevo… avevo deciso che non sarei vissuta a lungo. Ma volevo suonare un’ultima volta. Indossai il costume e andai in cerca dell’ultimo complesso. Sentii la tua musica. — Le sue labbra si mossero in silenzio; il viso era di nuovo impietrito, cereo. — Tu mi desti il nome, Magico Capo — disse piano. — E mi desti un motivo per restare e superare l’alba.

Il Mago le tolse lentamente la mano dalla spalla. Si alzò, rigido, attraversò la stanza finché la parete non lo bloccò. Rimase a fissare la ragnatela di stelle, fino a quando gli sembrò che si accendesse e scintillasse sotto i suoi occhi. Disse: — Sei venuta con noi per portare Terra fuori di qui.

— Sì. Tu avevi la spaziolancia, io ho aperto la frequenza di Averno per imparare le procedure d’atterraggio.

— Dove intendevi portarla?

— Non lo so. Magico Capo, quando ho visto questo posto, ho capito subito che non potevo farne uscire Terra. Come non potevo fare un salto fino al Sole”. Il Professore ha ragione. Non si torna indietro da Averno. E poi… e poi ho visto Terra. Per anni ho pensato che mi avrebbe dato una risposta, se solo le avessi chiesto perché. Credevo che si fosse limitata a indossare un travestimento, come me; che da qualche parte dentro di lei continuasse a esistere la Terra che conoscevo. Fa sempre parte di me stessa, Magico Capo. Anche se adesso so che non esiste più una parte di lei che io capisca ancora. È semplicemente impazzita. Questa è la separazione finale.

Il Mago aprì la bocca e la richiuse. Allungò la mano, sfiorando una stella morente. — Michelle. — La sua voce suonò bizzarra; e così il nome di lei. — Non ho visto affatto lo schermo del computer quand’eravamo con lei. Ha trasferito la sua visione nella mia mente.

Alle sue spalle il silenzio fu così profondo che si girò chiedendosi se lei non fosse scomparsa, come una particella inosservata. Era ancora lì, e lo fissava. — Magico Capo — mormorò.

— Le cose che doveva dire, il sole rosso, la sabbia viola, l’ovale distorto… non erano cose esprimibili a voce. Non a parole, comunque. Me le ha date senza parole.

— È entrata… — Il Mago vide che rabbrividiva; il bicchiere che aveva in mano si rovesciò. — È entrata nella tua mente.

— C’era qualcosa che aveva bisogno di dire. Per caso io ero in grado di ascoltare.

— Cosa? — Si era alzata in piedi, stupita, incredula. — Cosa poteva volerti dire? L’assassinio di tutte quelle persone…

— Il sole era scuro.

— In mezzo al deserto in un caldo giorno d’estate!

— La visione era luce.

— Magico Capo, solo una pazza poteva stare sotto il sole ardente e pensare che fosse scuro! — Allora gli si accostò; e il Mago avvertì il terrore che le ispirava, il terrore della speranza. Michelle gli afferrò i polsi con la forte stretta del cubista. — Magico Capo, cosa pensa? Riuscivi a capire? Per favore. Per favore. Riuscivi a capirla?

— Oh, Dio — mormorò lui. — Dio m’aiuti, la capivo. Hai visto anche tu quello che mi ha detto. Sullo schermo del computer. Ma il computer non poteva afferrarlo.

— Afferrare cosa?

— L’ardente desiderio. L’assoluto, ossessivo bisogno.

— Di cosa?

— Di cambiare. Di completare la visione.

— Quale visione? — Cominciò a scuoterlo, piangendo di nuovo. — Quale visione?

— La sua visione. La visione di qualcun altro. A chiunque appartenga, deve essere completata. — Parlava ora con voce calmissima, spassionata; a giudicare dall’espressione del viso, degli occhi, avrebbe potuto essere lì ad ascoltare musica antica. — Non esiste il tempo, nella visione. Il tempo non è ancora cominciato… C’è un unico imperativo, e rappresenta un bisogno assoluto come il respiro: completare il cambiamento. Tutto il resto non conta. Tutto il resto non esiste. Esiste solo quest’impulso verso il tempo. Verso la vita.

— Magico Capo. — Le lacrime le scorrevano di nuovo sul viso. Si teneva stretta a lui come se uno dei due stesse per annegare. — Parli come Terra.

5

Nel suo ufficio, Jase batté ancora una richiesta di trasferimento. Il Settore Tundra, aveva sentito dire, era un luogo tranquillo, se non si badava al freddo. Più rapide delle sue dita sui tasti, più vivide dei suoi sogni di libertà, le immagini che aveva visto sulla Macchina dei Sogni si frapposero fra lui e le righe. Alla fine rinunciò, appoggiò la fronte alla mano. Il silenzio del Mozzo lo avviluppò come nebbia. Di solito era lieto del silenzio. Ma ora, al declinare del giorno, tutti i folli pensieri di Terra gli ossessionavano la mente, e il silenzio lo turbava. Fissò lo schermo della consolle, vide il proprio riflesso nebuloso, poi la sabbia ametista.

— Quale visione?

Sobbalzò al suono della sua stessa voce. Lanciò un’occhiata truce alla sua ombra. Il dottor Fiori aveva ragione. La donna mascherava i propri pensieri; non c’era alcun mistero, solo una pazza che non poteva affrontare il risultato delle proprie azioni.

— Non riesce nemmeno a dare al sole il colore giusto — brontolò. Rimase di nuovo in silenzio, completamente immobile. Il sole rosso. La sabbia viola. Il mare… — Non ci sono mari nel Settore Deserto…

La spia luminosa dell’intercom lampeggiò; lui premette il pulsante. — Klyos.

— Nils, signore. Il poliziotto del Settore Costadoro è appena arrivato. Aaron Fisher. Volete vederlo subito?

— Non adesso. Lasciagli il tempo di riflettere.

— Ha chiesto il permesso di assistere al concerto. Signore, non credo che sappia con precisione perché è stato chiamato quassù.

— È sospettato di cospirazione — disse severamente Jase.

— Un’accusa ufficiale?

— No. Una intuizione. Non voglio che compaia nelle registrazioni finché non l’avrò formalizzata. Non è in arresto, ma non l’ho nemmeno invitato qui per un concerto. Dagli da mangiare e sistemalo nel dormitorio delle guardie. Basterà a tenerlo fuori dai guai.

— Dovrebbe… — Si interruppe. — Avete parlato con Michelle Viridian. È…

— Tutta diversa da una cospiratrice incallita. Non è tanto pazza da pensare di poter fare evadere sua sorella, anche se sospetto che l’idea le sia venuta.

— Assomiglia a Terra?

Jase sospirò, ricordando le mani tese attraverso la bolla verso Michelle. Provò un improvviso senso di depressione, il peso di un’atmosfera umida e soffocante.

— No — disse, rispondendo alla domanda indiretta di Nils. — In lei non c’è niente che possa aiutare a capire Terra. Ammesso che qualcuno lo desideri. Vorrei davvero che Fiori l’avesse lasciata stare.

— Vi sentite bene? Qualcosa non va?

— Per il momento no.

Ci fu un’altra pausa. — Volete che venga lì? — chiese improvvisamente Nils. Jase scosse la testa.

— No. Va’ ad ascoltare la musica. Forse ci andrò anch’io, prima di cominciare ad aver paura delle ombre.

— Non c’è assolutamente niente che faccia paura a uno come voi — disse in tono serio Nils.

Più tardi Jase si fermò sulla soglia del circolo ricreativo del Livello D, l’unico locale abbastanza grande per un concerto. Avevano coperto la piscina, rimosso le attrezzature. Lungo le pareti era allineata una doppia fila di guardie di sicurezza, volontari per un buon 80 per cento. I detenuti sedevano sul pavimento e sulle sezioni mobili di parete che coprivano la piscina. Le loro teste rapate riflettevano bizzarri colori sotto lo spettrale splendore delle luci del palco. Non parlavano molto, quasi non si muovevano, tranne quando qualcuno qua e là lanciava di nascosto un’occhiata rapida e incredula alla zona delimitata da corde che costituiva il palco.

La scena meritava davvero un’occhiata. L’arpa a canne, una specie di lisca di rame e ottone, occupava tre quarti del palco. Dietro, i grandi cubi traslucidi erano impilati come una scultura aliena. I gas contenuti nel loro interno cominciavano a scaldarsi, ad acquistare lentamente colore. Nebraska era ancora alle prese con le luci, e inondava l’aria di viola, verde, arancione. Il Mago si era dipinto il viso con una galassia di colori turbinanti e accordava, tra tutte le cose possibili, un antico pianoforte ammaccato. Pizzicò un’ultima nota, fece scorrere il pollice sui tasti in un vivace glissando che provocò movimento di teste e riflessi colorati. Nebraska provò a suonare una canna. Il rame sputò azzurro elettrico verso una seconda canna; il vetro emise un’alta nota risonante. Nebraska oscurò il palco.

L’attimo seguente tutta la sala si oscurò. La breve oscurità aumentò la tensione. Il mormorio delle guardie cessò; Jase udì lo scricchiolio del cuoio, lo stridore del metallo. Che stupido, si disse, pensando alle catene e alle sbarre ancora attaccate alle pareti. Stupido, stupido… avrò la pelle di Jeri, per questo! Poi il locale fu un’eruzione di luce.

La Regina di Cuori scosse capelli rosso-rosa dal viso modellato in oro puro e abbassò le bacchette sui cubi. Il cubo colpito fumò di scarlatto. Lei creò un battito di cuore dal rosso scarlatto e dal blu scuro, fuoco e notte, che infranse come vetro il silenzio di Averno. Quasar, con i capelli splendenti dei colori dell’arcobaleno, saltò sul palco con un grido da strada che doveva provenire direttamente dalle fogne del Settore Lumière. Il Mago, incandescente, iniziò un duetto fra il piano e i suoi neurocavi. Nebraska, alla cassa sonica, con i capelli lisci e i baffi pendenti imperlati dalla luce, regolò le onde sonore dei neurocavi, riducendo lo stesso Mago a uno strumento. La luce giocava sulle gelide ossa dell’arpa a canne. Una corrente d’energia scricchiolava lungo la struttura portante. Il Professore intessé un glissando di note selvagge fra i colori del Mago.

La voce di Quasar, bassa e roca, guizzò nella trama:

Prendi la carta della Fortuna,

scopri la Regina di Cuori;

ascolta il monito della Fortuna,

copri l’Asso di Picché.

E vola, vola, vola

a quell’oscuro mazziere nel cielo.

L’amore fugge, la notte scende,

Nova ti irretisce di luce…

Una canna andò in pezzi alle vibrazioni soniche; il Professore allontanò i frammenti con un calcio senza fermarsi, traendo suoni secchi e carezzevoli dalle ossa. Un’altra canna si spezzò con una scarica luminosa. Quasar lanciò un altro grido. Il Mago svanì in una negazione di luce. Il palco si mutò in un nebbioso azzurro cupo di mezzanotte. Dal buio provenne un dolce, tranquillo fraseggio di musica antica.

Jase applaudì, sorpreso. Non c’erano teste chine fra il pubblico: nessuno avrebbe potuto dormire durante un’esecuzione del genere. Indugiò, con la voglia si ascoltare ancora. D’un tratto vide Jeri Halpren sorridergli con aria trionfante. Ma continuò lo stesso ad ascoltare.

La musica veleggiò in reami più caldi; i cubi rullarono un pulsare illanguidito. Quasar cantò una ballata d’amore, lenta e intima, che richiamò alla mente di Jase, per la prima volta in molti anni, l’immagine di se stesso seduto sulla riva di un fiume nel Settore Mediano con una compagna di giochi, una ragazzina dagli occhi verdi come rane, dai capelli gialli come raggi di sole che continuavano a ricaderle sul viso. La canzone seguente li condusse nel gelido spazio scintillante. I suoni si librarono nella tenebra notturna: le perpetue scariche di statica, il mormorio di metallo gelido di un’astronave aliena alla deriva, uno spruzzo di eruzioni solari, il debole e costante pulsare della coscienza: il battito del cuore. L’arpa a canne passava di colore in colore. I cubi risplendevano luminosamente di gas stellare. Le note si raccoglievano in un unico suono; la voce di Quasar echeggiava colori increspati dall’aura del Mago. Uno schema lottò per emergere dalla nebbia, emerse finalmente mentre il Mago si perdeva in maree cangianti: la gentile, misurata musica del passato.

Il palco divenne rosa; i musicisti si ritirarono per rifarsi il trucco. Jase si allontanò nel disciplinato silenzio di Averno, ancora sorpreso. “Dovrò raccontarlo a Sidney Halleck”, si disse. “Non avrei mai creduto che mi piacesse.”

Ritornò al Mozzo. Ancora un piccolo, fastidioso dettaglio e poteva andare a letto. Tutti quanti, pensò scontrosamente, sono così maledettamente innocenti. Persino il poliziotto convocato su Averno non provava affatto l’impulso di nascondersi per il rimorso; voleva divertirsi. “Se non c’è niente di cui preoccuparsi”, pensò, “perché mi preoccupo? E non c’è niente.”

Convocò Aaron Fisher e si sedette ad aspettarlo.

“Non c’è niente. C’è una donna in un complesso, c’è una vecchia spaziomobile che non è mai stata modificata adeguatamente, c’è un bravo e onesto poliziotto che ha girato la schiena al proprio computer nel momento sbagliato.”

Non c’era niente.

Oppure qualcosa c’era. E qualsiasi cosa fosse, girava attorno a Terra Viridian, il detenuto più pericoloso di tutto Averno.

Congedò le due guardie che avevano accompagnato Aaron Fisher e per qualche istante esaminò l’uomo, in silenzio. Era più alto di quanto Jase si aspettava. Indossava una uniforme impeccabile. Il viso, magro e segnato, era rasato di fresco. Affrontò lo sguardo di Jase senza dimostrare timore né sfida, ma sembrava perplesso. Non aveva, decise Jase, la minima idea del perché era stato condotto sotto scorta alla presenza del direttore di Averno. Oppure era capace di motivi e azioni segrete che superavano completamente qualsiasi limite professionale.

— Sedetevi.

Aaron si sedette. Jase si appoggiò allo schienale della poltrona e attaccò senza preamboli. — Siete qui perché abbiamo fatto una ricerca di routine a proposito di una richiesta avanzata tramite la banca dati della biblioteca del vostro distretto, sul vostro computer, volta a ottenere un’informazione top secret riguardante Averno. Perché avete chiesto un’informazione del genere?

Aaron batté le palpebre. Per un momento il suo viso restò immobile, probabilmente per forza d’abitudine. Poi si rilassò e assunse semplicemente un’aria sorpresa. — Non l’ho fatto.

— Chi altri ha accesso al vostro computer?

— Nessuno, signore.

— Nessuno? Dove si trova, in una cella?

— No, si trova… — La voce gli mancò, a quel punto. Aaron guardò in silenzio Jase per qualche istante; e Jase pensò stancamente: “C’è qualcosa.” Quando rialzò la testa le linee attorno alla bocca si erano accentuate.

— Si trova in un vecchio rifugio antiatomico — disse. — Sulla costa.

— È lì che abitate?

— No, voglio dire, a casa possiedo un sistema più piccolo collegato però al computer principale. — Si interruppe ancora, Jase lo guardò.

— Volete costringermi a scoprirlo da solo?

Aaron trasse un respiro. Sul suo viso c’era una sfumatura di colore. Gli occhi erano cambiati; guardavano un vuoto interiore. Poi i suoi muscoli si rilassarono leggermente; i suoi occhi passarono in rassegna la minuscola stanza silenziosa. — No — sospirò. — Penso che sarebbe molto stupido.

— Lo credo anch’io.

— Solo… non ne ho mai parlato. A nessuno.

— Vi suggerisco di cominciare.

Il tono di voce di Jase strappò Aaron ai suoi ricordi. Il poliziotto fissò il direttore negli occhi. — Sono un agente. Un buon agente. L’ultima cosa al mondo che mi interessa sono informazioni segrete su Averno.

— Cosa vi interessa allora, signor Fisher? — brontolò Jase.

— Mi… — Strinse le mani a pugno, le riaprì. Parlò rapidamente, con voce priva di espressione. — Sette anni fa mia moglie fu assassinata. Era di leva nel Settore Deserto. Fu uccisa da Terra Viridian. Era… era incinta. Ho continuato a usare il computer nel rifugio per compiere una ricerca. Ammetto che si tratta di una cosa non del tutto legale. Ho tentato di trovare la sorella di Terra Viridian. Volevo… volevo sapere… — La voce gli tremò e lui deglutì, lasciando che Jase continuasse a fissare il suo viso rigido.

Dopo un istante Jase ritrovò la voce. — È per questo che stasera volevate assistere al concerto?

— Come? — Aveva un’espressione stupita, come se Jase avesse usato una lingua antica. Il suo viso era pallido; le emozioni represse gli affollavano gli occhi. Jase si raddrizzò, muovendosi appena, come se non volesse disturbare l’aria.

— Vendetta?

— No.

— Perché, allora?

— Lei… non aveva senso. Perché è stata uccisa. Volevo solo sapere il perché. Cercare di capire. Io… io l’amavo.

“Lascialo andare”, si disse Jase, colpito da un improvviso, pressante lampo di preveggenza. “Lascialo andar via senza che sappia. Non ce n’è bisogno. L’ha detto lui stesso.”

Però c’era ancora la faccenda delle procedure d’atterraggio. Disse con circospezione: — È un comportamento insolito per un agente, no? Dovete averci dedicato un mucchio di tempo.

— All’inizio ne avevo ricevuto l’incarico. La teoria della congiura, il paravento del GLM per il processo che l’ha mandata quassù.

Jase annuì. — Ricordo l’incarico.

— Ho detto alla gente… alla gente cui chiedevo di aiutarmi, che avevo ancora l’incarico.

— Capisco.

— Nessun altro…

— Ho capito. Non sto indagando sul vostro rimestare informazioni in teoria riservate, ma vi raccomando fortemente di strisciar fuori dal vostro rifugio antiatomico e cercarvi un’occupazione più salutare prima che qualcuno si metta davvero a fare indagini. Forse siete un agente di prima classe, signor Fisher. Lo dice il vostro stato di servizio, lo dicono i vostri superiori. Ma mi piacerebbe che rispondeste a questa domanda. Se non siete stato voi a chiedere informazioni sul sistema d’atterraggio, allora chi ha usato il vostro computer?

— Nessuno… — Si interruppe. Fissò lo spazio che li separava, e ancora una volta il colore sembrò svanirgli dal viso, e persino dagli occhi. Jase stese la mano sulla scrivania.

— Chi, signor Fisher?

— Solo un’altra… che io sappia, l’ha usato solo un’altra persona. — Aveva la voce roca. Deglutì, ma il dolore rimase. Aveva il viso segnato da una sofferenza nuova, e Jase si mosse sulla sedia, sospirando in silenzio.

— Chi, signor Fisher?

— Una donna. L’ho condotta nel rifugio. Aveva bisogno di dati per riparare una ricevente di spaziomobile che non funzionava a dovere…

Jase si sfiorò gli occhi. “Maledizione”, pensò, avvertendo che il tempo sembrava restarsene bizzarramente sospeso, come se avessero raggiunto il luogo in cui il suo ciclo terminava e ricominciava. — Maledizione! — mormorò, e si alzò. Aaron continuava a fissarlo. Sul suo viso ogni espressione era morta. Aveva l’aspetto, pensò Jase, di chi è appena divenuto l’uomo che temeva di diventare.

— Il concerto. — Adesso le parole gli venivano facilmente, spontaneamente. — Mi avete chiesto del concerto. Lei è nel complesso.

Jase si sedette di nuovo, sentendo la stanchezza nelle ossa. Tutto avvenne in un giorno d’estate…

Terra era lì davanti a lui.

6

Rimase ferma sulla soglia abbastanza a lungo da mutare con gli occhi Jase in pietra. Reggeva un fucile laser. Aaron si girò, accorgendosi dell’immobilità dell’altro. Gli occhi alieni, drogati dalla visione, si spostarono su di lui e lo costrinsero a immobilizzarsi, a trattenere il respiro. Terra lo lasciò libero, fondendosi con le ombre, silenziosamente com’era venuta.

Jase restò impietrito per un’altra frazione di secondo, e finalmente si mosse. Azionò l’allarme del Mozzo. — Fisher! — gridò rivolgendosi ad Aaron, che si dirigeva alla porta.

Aaron, rendendosi conto di avere il cinturone vuoto, abbassò lo sguardo, stupito. Jason gli lanciò uno storditore preso dalla scrivania. — State attento! — Il suo monitor mostrava una serie di sezioni diverse del Mozzo: uffici, sale computer, magazzini, alloggiamenti degli ufficiali; tutti tranquilli, tutti bui. — Dove diavolo sono tutti quanti? — L’allarme gli ronzava nelle orecchie. Uomini e donne cominciarono a uscire di corsa dal circolo ricreativo, dagli alloggiamenti. Lo schermo mostrò una porta, saldata alla parete dal laser. Poi la telecamera sopra la porta esplose.

— Cristo… — mormorò Jase. In lontananza udì colpi, grida. Ancora non compariva nessuno. Azionò l’intercom. — Passami Fiori. — Lo schermo dell’intercom diventò di colpo bizzarramente buio, ma la linea rimase aperta. — Dottor Fiori? Mi sentite?

— Direttore Klyos! Grazie al cielo! La…

— La detenuta è qui nel Mozzo. Siete ferito?

— No, ma ha saldato la porta. Non capisco cosa sia successo. Pensavamo che si stesse addormentando, l’abbiamo tolta dalla bolla e lei si è scatenata. Ha afferrato il fucile di una guardia e ha cominciato a sparare. Ha colpito due guardie e le telecamere del soffitto. Ha distrutto la Macchina dei Sogni. Poi ci ha chiusi dentro.

— Vi manderò qualcuno, resistete. — Il monitor gli mostrò il corridoio di trasporto, e lui imprecò, stupito. La squadra robot era ridotta a pezzi sparsi lungo la pista. — Non è umana — mormorò e si chiese d’un tratto se Aaron era ancora vivo. — Fisher!

— Direttore Klyos! — La voce di Nils, tesa, acuta, giunse dal canale di sicurezza. — Cosa succede?

— Nils, dove sei?

— Nel circolo del Livello D. Sto aiutando il complesso a sbaraccare. Che cosa…

— Terra Viridian gira per il Mozzo con un fucile in mano. Prendi Michelle e vieni qui.

— Jase — ansimò Nils. — Sparatele.

— L’idea mi è già venuta. Penso che sia bloccata fuori del Quartier Generale. Manda una squadra ad aprire la porta dei trasporti, porta qui Michelle anche se vi tocca volare attorno allo scalo del Mozzo, e procurami qualche guardia di sicurezza!

— Siete solo?

— C’è Fisher.

— Fisher? Nessun altro?

— Piantala di gridare e vieni qui come puoi. Ah, manda anche una squadra a liberare Fiori. — Lanciò un’occhiata all’esterno; nel corridoio le fumose pareti acriliche non mostravano alcun movimento. — Fisher!

Aaron spuntò dalla sala computer del Mozzo e attraversò con cautela il corridoio. — Non l’ho vista — disse. Aveva ancora un’aria sgomenta, ma la voce e le mani erano ferme. — Siamo soli?

— Ci ha isolati.

— Come… Chi è quella donna?

Jase lo fissò. Poi disse: — Non potevate riconoscerla. L’avete vista sette anni fa. Quella è Terra Viridian.

Per un secondo Aaron fissò Jase cóme se gli avesse appena detto che il mondo era piatto e Averno un luogo pieno di demoni cornuti. Poi il viso gli si imporporò di colpo. Girò su se stesso così in fretta che Jase ebbe appena il tempo di gridare: — Fisher!

Aaron si fermò di colpo sulla soglia, come se la voce di Jase gli si fosse attorcigliata attorno ai piedi. Non si girò, ma non proseguì neppure. Alzò la mano, afferrò lo stipite e vi si sostenne. Jase vide che tremava per lo sforzo di controllarsi.

Abbassò la voce. — Signor Fisher, se lei vi uccide, qui io resterò da solo. Vi voglio vivo. — Aaron disse qualcosa di inintelligibile. — Voi non conoscete il Mozzo. Se Terra non ci attacca avrà un motivo. Voglio che la situazione rimanga così. Ha distrutto 20 roboguardie armate nel tunnel di trasporto. Ha un dono particolare per rimanere in vita. Fareste la stessa fine dei robot.

— Non posso…

— Vi ucciderà prima che possiate uccidere lei. Mi servite vivo. Lei non è più umana. Vi ucciderà, morirete, e lei non si sarà nemmeno resa conto del motivo per cui avete cercato di ucciderla, non gliene frega niente di chi siete o di cosa vi ha fatto, e non importerà niente nemmeno a voi, perché sarete morto e lei sarà viva qui come lo sarò io. Se adesso obbedite agli ordini, fra cinque minuti lei sarà morta e noi due ancora vivi.

La mano aggrappata allo stipite allentò appena la stretta. Aaron lanciò da sopra la spalla un’occhiata a Jase. Le ombre gli avevano tolto il colore dagli occhi, che adesso sembravano quasi neri. Emise un altro suono senza parole. Jase gli si avvicinò e gli parlò a voce bassissima.

— Sapete pilotare una spaziomobile? — Fu costretto a ripetere la domanda, prima che Aaron gli rivolgesse in risposta un debole cenno d’assenso. Il suo viso era pallido per lo sforzo di mantenersi immobile, di ascoltare.

— Lo scalo del Mozzo si trova sopra la sala computer, proprio dall’altra parte del corridoio. C’è una scaletta sul soffitto. La farò scendere per voi, da qui. Salite e scaldate i motori.

— Ma…

— Sto per mettere il Mozzo in stato di difesa. Questo significa che il computer distruggerà qualsiasi cosa si muova, a meno che non possa identificarla con il controllo vocale o il codice. Voi non siete registrato. Avreste maggiori possibilità contro Terra, che contro le difese del Mozzo. Entro 60 secondi Terra sarà morta.

Aaron socchiuse le labbra. Inspirò e riuscì a pronunciare una frase intera. — Resterete qui da solo.

— Devo cambiare le parole d’ordine di atterraggio poiché siamo in stato d’allarme, e voi non dovrete essere più qui quando il Mozzo passerà all’azione di difesa. Sarò con voi entro due minuti. — Attese. — Signor Fisher. Siete fermo sulla soglia con la luce alle spalle. Volete che lei vi uccida?

La mano di Aaron scivolò lungo lo stipite. Finalmente si girò. Aveva l’aria, pensò Jase, di chi è appena stato picchiato senza ragione. — No — disse con voce rotta. — Avrei dovuto chiederglielo.

— Cosa?

— Il nome. Michelle Viridian. Ma davanti a una rosa non si chiede mai.

— Signor Fisher. Andate.

Lui annuì, e il suo viso tornò a mascherare le emozioni. Jase premette un pulsante polveroso sulla scrivania, vide la scaletta scendere rapidamente e senza rumore nella sala in penombra oltre il corridoio. Aaron controllò il corridoio. Niente si muoveva. Jase si piazzò sulla soglia e lo coprì con lo storditore finché non lo vide scomparire sul molo.

Il Mozzo era immerso nel silenzio. Jase tese l’orecchio in cerca di un rumore di passi, ma inutilmente. Niente si muoveva. Tornò alla scrivania e azionò l’intercom.

— Passami Nilson — disse a bassa voce.

— Eccomi, signore — rispose Nils. — State bene?

— Sì. Nils, l’ordine di portare qui Michelle è annullato. Stiamo per abbandonare il Mozzo.

— Bene. A ogni modo, non sono riuscito a trovarla.

— Seguo la procedura generale d’allarme e metto il Mozzo in stato di difesa. Poi esco. Ci vediamo a Scalo Uno.

— Signorsì.

Jase commutò l’intercom sul vocale. L’equivalente di un secolo di parole d’ordine era stato programmato nel sistema: nomi celebri, equazioni matematiche, citazioni prese da antiche opere letterarie, filmati, versi di canzoni, indovinelli e poesie, frasi di origine oscura e significato ancora più oscuro. Sullo schermo apparvero 50 possibilità di scelta. Si identificò fornendo nome e codice d’identità, ma il particolare cruciale era il suo schema vocale, inimitabile come la firma di un terremoto. Poi pronunciò il segnale in codice che comunicava a tutte le spaziomobili ormeggiate di registrare le nuove parole d’ordine per uno stato d’allarme di quarantott’ore. Era sul punto di leggere la prima parola d’ordine della lista, Oh, essere in Inghilterra ora che è spuntata la primavera, quando avvertì di fronte a sé un movimento. Alzò gli occhi, sentendosi la gola secca.

Era solo il Mago. Jase aveva già emesso un sospiro di sollievo quando fu colpito dalla stranezza del fatto. — Signor Restak — disse piano. — Che diavolo ci fate, qui?

— Mi ha condotto Terra — disse il Mago, in tono così calmo che per un istante le parole ebbero un significato normalissimo. L’attimo successivo persero ogni significato. Jase allungò il piede per premere il pulsante che avrebbe azionato lo schermo della porta. Ma il Mago era fermo sulla soglia, e Jase, per quanto sorpreso, non se la sentiva di fulminarlo.

— Entrate, signor Restak.

Lui scosse la testa. Jase perdette la calma.

— Signor Restak, siete impazzito? Come siete arrivato fin qui?

— Mi ha fatto entrare Terra.

— Quando?

— Appena prima di saldare la porta del tunnel di trasporto.

— Perché?

Il Mago non rispose. Dal suo viso scomparve lentamente ogni traccia d’espressione. Spalancò gli occhi; sembrò vulnerabile, assorto, come se sognasse a occhi aperti. Il delicato color viola che Jase aveva scorto nella visione di Terra lo avviluppò come una nebbiolina rada, e Jase ricordò in quel momento che il Mago era rimasto immobile nell’infermeria a fissare Terra per tutto il tempo, mentre ogni altro guardava la Macchina dei Sogni.

Si sentì rizzare i capelli per la sorpresa. Gli parve che la sua stessa voce arrivasse da molto lontano. — Signor Restak, se non vi togliete dalla soglia vi ucciderò. Sto per attivare lo schermo.

— Che mi uccidiate — disse il Mago — non è nella visione.

La scarica dello storditore, sparata senza mirare da sotto la scrivania, spinse via il Mago dalla soglia come una manata. — Dio del cielo — disse Jase, incredulo. E attivò lo schermo.

Lo schermo esplose in un bagliore lucente. Jase si buttò all’indietro, momentaneamente accecato. La soffice massa della sedia ad aria gli cadde addosso, intralciandogli i movimenti, come un goffo abbraccio d’amante. Poi gli pesò addosso, rifiutandosi di muoversi. Jase si ribellò a quella costrizione, meravigliato, imprecando. Poi la vista gli si schiarì. Si ritrovò a fissare la bocca di un fucile laser. Terra Viridian era acquattata accanto alla sedia, e i suoi occhi lo inchiodavano quanto il fucile. Il Mago, seduto sulla sedia rovesciata, si asciugava il sangue che gli colava da un occhio, e teneva intrappolato Jase. Con le dita sfiorava la tastiera.

— Magnifico — disse, senza più l’aria sognante. — Adesso ci serve solo un po’ di Bach.

Pochi minuti più tardi il Mago barcollò lungo il tunnel di trasporto in una nebbia onirica di ametista e sangue. Lungo la pista erano disseminati come bambole rotte i corpi fusi della squadra robot. Le telecamere di sicurezza, una decina di occhi del computer del Mozzo, il guardiano dai cento occhi, erano state accecate da Terra. Il Mago non aveva idea di dove fosse la donna. Lei l’aveva trovato; lei non gli aveva lasciato scelta. Lei gli aveva mostrato la strada attraverso il labirinto di Averno: la sua mente era stata il filo che lui aveva seguito. Adesso era scomparsa di nuovo, si muoveva di nascosto davanti a lui o dietro di lui, da qualche parte lungo il percorso che avrebbe dovuto portarlo al Pianto volante. Lui aveva suonato per la libertà della donna; quello di cui ora aveva bisogno era la fortuna degli idioti.

— Una Scala Matta — mormorò. La testa gli pulsava, il sangue continuava a colargli nell’occhio. La gola gli bruciava di sete. Poi vide il sole rosso, che proiettava una luce sanguigna su un mondo alieno. La visione è luce. “Dio”, pensò in un febbrile slancio filosofico, “beviamo la luce come aria. Come muteremmo, che sete svilupperemmo sotto un sole morente?”

I suoi passi risuonavano sordamente nel tunnel. Aveva lasciato il direttore Klyos legato e imbavagliato, ma per quanto tempo sarebbe rimasto in quelle condizioni? Una volta che fosse riuscito a liberarsi, o fosse stato liberato, cosa avrebbe fatto?

Avrebbe avvertito i moli.

Il Mago allungò il passo. Il raggio che univa gli Anelli al Mozzo sembrava non finire mai. Si mise a correre, aspettandosi di essere ucciso a ogni passo, aspettandosi che un robot morto si muovesse, si girasse verso di lui ed emettesse un lampo di luce, l’ultimo respiro. Ma il passaggio era una zona desolata, un deserto inaridito di cavi liquefatti, di circuiti fusi; la sua presenza era completamente inosservata. Fraseggi della musica che aveva suonato dopo aver scovato tutti i toni e i mezzi toni che l’enorme computer conteneva gli fornivano il ritmo su cui misurare la corsa.

“Funzionerà”, pensò meravigliandosi per il proprio genio. “Funzionerà. Se solo non mi uccidono prima. O se non uccidono Terra. Se solo…”

Vivide scintille tranciavano le ombre dietro i carrelli da trasporto vuoti. Poi, alzando le spalle al destino, il Mago avanzò, mentre l’aura si dissipava, finché fu semplicemente un ferito, sopravvissuto a un carnaio meccanico, alla ricerca disperata della propria razza.

La porta del tunnel si aprì con uno stridio di metallo. Il Mago continuò ostinatamente in quella direzione. La squadra di tecnici, con il viso schermato contro il riflesso del metallo incandescente, lo fissò senza espressione. Un piccolo esercito di guardie lo superò di corsa nei carrelli da trasporto.

Altre guardie cercarono di afferrarlo, senza brutalità ma con decisione. Si sentì puntare un fucile alla tempia. Qualcuno gli sfiorò il viso.

— È uno dei musicisti.

“Non sparate sul pianista”, pensò follemente. Un dito gli tastò l’occhio, facendolo sobbalzare.

— Cos’è capitato? Cosa combinano, là dentro?

— Qualcuno mi sparava addosso. Mi sono tuffato in uno squarcio della parete.

— Klyos è vivo?

— Era vivo quando l’ho visto.

— Cosa fate qui?

— Aveva chiesto di vedermi; non ho fatto in tempo a scoprire perché. — D’un tratto cominciò a tremare in modo molto convincente. — Dov’è un pronto soccorso? Non sopporto il sangue.

— Andiamo! — gridò una voce dai carrelli da trasporto, e lui rimase improvvisamente solo, fuori dal tunnel, mentre i carrelli sciamavano via e la squadra di tecnici raccoglieva gli attrezzi senza badargli. Mosse un passo. Una figura incappucciata si girò verso di lui.

— Mago! — Indicò con la mano. — C’è un pronto soccorso in fondo a quel corridoio. Vi suggerisco di restare nei vostri quartieri.

Lui continuò a camminare finché fu fuori vista. Poi si mise a correre.


Jase, sepolto sotto la sedia ad aria, la bocca piena di stoffa, lottò per liberarsi le mani dai neurocavi del Mago. “Bach”, pensò con furia. “Bach. Maledetti musicisti…”

Con la coda dell’occhio scorse uno stivale e smise di agitarsi.

Smise di respirare. Udì un’imprecazione sommessa. Poi sentì che gli toglievano di dosso la sedia ad aria, che qualcuno scioglieva il cavo che gli legava i polsi. Girò dolorosamente la testa e vide un’uniforme grigia con il sottile cordoncino d’oro lungo la cucitura: un’uniforme terrestre.

Aaron. Emise una protesta soffocata. Aaron gli liberò i piedi, gli tolse il cavo e il bavaglio. Per un istante lo tastò.

— Siete ferito?

— No — disse Jase acidamente. Si mise a sedere. — Che diavolo siete tornato a fare? Avreste potuto venir ucciso.

— Ho corso il rischio. Non siete ferito?

— No. — Si alzò in piedi, si chinò sulla scrivania, ma dell’intercom rimaneva ben poco. Aaron continuava a fissarlo.

— Terra non vi ha ucciso.

— Vi sembro un cadavere?

Ma Aaron aveva spostato bruscamente l’attenzione. Fissava il sottile cavo colorato che reggeva in mano. Fece per dire qualcosa, ma non emise suono. Jase premette a casaccio i pulsanti luminosi; non ottenne risposta.

— Forse sono ancora nel Mozzo, nascosti. Sbrighiamoci a…

— Sono? — disse bruscamente Aaron.

— Quel musicista pazzo…

— Michelle?

— No, il Mago. Restak. Possiamo ancora raggiungere Scalo Uno. Potrei mettere il Mozzo in stato di difesa, ma… — Si massaggiò una caviglia, pensando furiosamente. Aaron posò il cavo sulla scrivania.

— Il Mago.

— Ha programmato lui le nuove parole d’ordine d’atterraggio. Ha usato la mia impronta vocale: non c’è possibilità di annullarle.

— È stato il Mago.

— Sta portando via Terra. Ma non potrà più farlo, se riusciremo a precederlo a Scalo Uno. Dirò a Nils di mettere il Mozzo in stato di difesa quando arriverà qui, in caso di…

— Il Mago del complesso?

— Signor Fisher, il vostro cervello funziona sempre così rapidamente?

Aaron spostò lo sguardo dal cavo. Aveva di nuovo l’aria intontita, lo sguardo sofferente, stupito. Jase disse, teso: — Cosa c’è adesso?

— Siamo amici da anni. Non avrebbe mai… Non… È assurdo. A meno che non lo faccia per Michelle. Ma anche così…

— Signor Fisher — disse Jase, girando attorno alla scrivania. — Potete stare qui a fare congetture fino al giorno del giudizio, se volete, oppure potete venire con me e ottenere qualche risposta. Se hanno lasciato il Mozzo, si dirigono al Pianto volante, e dobbiamo intercettarli prima che decollino.

— C’è metà della flotta di Averno a Scalo Uno — disse Aaron, stupito. — Il Pianto volante è veloce, ma non potrà battere tutte le spaziomobili.

Jase si sentì montare il sangue agli occhi. — Ora come ora la flotta di Averno non riuscirebbe a raggiungere una bagnarola. Lui l’ha messa in trappola. Al completo. Ha bloccato tutti, tranne noi. Andiamo!


Il Mago attraversò in fretta la zona dello scalo, senza dar nell’occhio, evitando di posare lo sguardo sulle spaziomobili che lo circondavano, sulle squadre d’atterraggio, sugli uomini e donne che occupavano la sala di controllo più in alto e sembravano, a una rapida occhiata, svolgere con indifferenza il proprio compito. Il Pianto volante era aperto, a prua e a poppa. La Regina di Cuori trasportava custodie di cubi dentro il portello principale. Nebraska e il Professore spingevano il pianoforte su per la rampa di prua.

Per un istante il Mago provò un gelido, tormentoso spasimo di terrore. Avrebbero suscitato sospetti se avessero tentato di decollare abbandonando le attrezzature; ma non potevano imbarcare tutto in due minuti; se avessero completato il carico, se fossero riusciti a decollare, avrebbe portato con sé quasi tutti i Nova, e come avrebbe fatto a spiegare… Non lo avrebbero mai perdonato per averli coinvolti; Quasar non lo avrebbe mai perdonato per averla piantata lì…

«Non bisogna guardarsi indietro», aveva detto il Professore. Si lasciò alle spalle le paure come qualcosa di palpabile, il suo stesso corpo o un’ombra, e raccolse una custodia di cubi mentre raggiungeva il Pianto volante.

Michelle lo incontrò sulla rampa, tornando indietro. Senza il trucco di scena, il suo viso pareva bizzarro: più piccolo, più giovane. Lo fermò, gli posò una mano sulla spalla, aggrottando le sopracciglia nel vedere il taglio che aveva in faccia. Lui scosse in fretta la testa.

— Non farci caso. Porta dentro i cubi. Decolliamo.

— Subito? — Improvvisamente spalancò gli occhi, gli occhi di Terra, leggendogli nel pensiero. — Magico Capo — mormorò. — Cos’hai combinato?

Lui le lasciò cadere fra le braccia la custodia. — Sbrigati — disse, e lei si girò. Sulla rampa di prua il piano aveva una buffa inclinazione, metà dentro metà fuori il portello. Nebraska spinse; il piano scivolò dentro. Il Mago li seguì a bordo, ritrasse la rampa e chiuse il portello.

“Terra”, pensò. Quel nome era una pulsazione nel suo cervello. “Dove? Dove? Da qualsiasi parte. Da tutte le parti.” Lui aveva legato Klyos, e lei era scomparsa. Scomparsa, e basta. Ma era collegata alla sua mente come la coda di una cometa; avrebbe dovuto sapere dove lui si dirigeva. “È sul molo. È dentro il Pianto volante. Deve esserci.”

Mai guardarsi indietro.

Andò sul ponte. Vide Quasar intenta a darsi lo smalto e sorrise di sollievo. Lei gli lanciò un’occhiata, considerò per un momento lo stato del suo viso, e disse in tono caustico: — Non è il colore che avrei scelto io.

Entrò Michelle, portando una custodia. — È l’ultimo — disse. Il Mago sigillò la spaziomobile, con mani fredde, tremanti, e girò attorno alle custodie per raggiungere i comandi. Michelle lo osservò, immobile, senza deporre l’ultima custodia. Il Mago disse: — Siediti. Se ne occuperà Nebraska.

La ragazza si sedette sul sedile del navigatore. D’un tratto il pennello di Quasar si bloccò. — Mago, ce ne andiamo? E i costumi, e tutto il resto…

— Se ci tieni — disse lui — vatteli a prendere.

Quasar restò in silenzio. I motori rombarono.

Dalla coda della spaziomobile venne un grido di sorpresa. Il Mago si chiese se avevano scoperto Terra. La ricevente gracchiò subito dopo.

Pianto volante, qui Scalo Uno. La vostra partenza è in programma alle 7.00 ora terrestre.

— Scalo Uno, qui Restak — disse il Mago prontamente. — Abbiamo calcolato male il programma degli spettacoli. Dobbiamo essere a Rimrock prima di quanto pensavamo. Non siamo abituati allo spazio. Chiediamo il permesso di decollare.

Il pannello di controllo restò muto. “Proprio nel bel mezzo di un allarme”, pensò il Mago. “Con Terra in libertà e il Mozzo bloccato. Certo, Magico Capo, vattene pure. Congedati. E portati via anche la nostra detenuta.”

Pianto volante, vi serve una scorta di decollo — disse gentilmente Scalo Uno. — Chiederemo il permesso al direttore Klyos. Restate in attesa.

— Grazie — disse il Mago, traducendo tra sé: “muoviti di un millimetro, Magico Capo, e salti in aria.” Un liquido salato gli penetrò nel taglio sull’occhio; fece una smorfia. Poi pensò: l’intercom del Mozzo è fuori uso. Non riusciranno a mettersi in contatto. Chiameranno i soldati.

— D’accordo — disse con decisione. Fece scivolare via il pannello di protezione dalla tastiera. Nebraska, con il fiato grosso, arrivò sul ponte. — Cosa succede? — chiese stupito. — Magico Capo, non ci hanno ancora pagato. I bagagli…

— Zitto — disse il Mago con molta calma — o finiamo all’altro mondo. — Sul Pianto volante scese il silenzio. Tutti i suoi pensieri abbandonarono il mondo circostante, il passato, il futuro, il pericolo e la confusione, e si concentrarono sulla musica che aveva in mente. Batté sui tasti un codice di scalo, collegò il Pianto volante al computer del Mozzo. — Qui Pianto volante. Chiediamo il permesso di lasciare Averno.


— Come? — chiese Aaron. — Come diavolo ha fatto? — Jase si sedette accanto a lui nella lancia del Mozzo. Finalmente aveva visto delle guardie nella sala computer, proprio mentre ritirava la scaletta. Ma non aveva tempo di dire loro cosa intendeva fare. L’intercom della lancia era muto; non poteva chiamare lo Scalo Comando dall’interno di Averno. La lancia del Mozzo era veloce, non sofisticata. Non aveva armamento, non aveva luci girevoli; bastava la voce di Jase per farla decollare.

— Non chiedetemelo — rispose Jase, disgustato. Aaron rimase in silenzio, fissando le luci rosse d’avvertimento. Jase gli rivolse un’occhiata, e trovò un istante di tempo per comprendere lo stupore di Aaron. Disse: — Mi spiace d’avervi cacciato in questi pasticci, signor Fisher. Le mie intenzioni erano ben altre. Ma ormai è fatta, e visto che avete già rischiato la vita per me un paio di volte, farò in modo che questo risulti sul vostro stato di servizio.

Aaron lo guardò, poi tornò a osservare le luci. — Grazie — disse in tono piatto. E poi: — Le luci sono passate al giallo.

— Klyos. Identificazione.

— Identificato — disse la lancia. — Camera stagna in fase d’apertura.

— Non riesco proprio a crederci — disse all’improvviso Aaron.

— Assurdo. Tutti quelli che conosco impazziscono da un giorno all’altro. Come può… come può accadere senza che me ne accorga? Il Mago… Paga le multe addirittura prima dei termini. E la… E Mi… — Chiuse la bocca, di nuovo senza parole. Jase terminò la frase per lui.

— La Regina di Cuori. Fino a che punto eravate amici?

— Lei. — Il sangue gli salì al viso; i suoi occhi diventarono neri come il cielo oltre la paratia che si spalancava. — Via libera. — Lasciò cadere senza rumore il pugno sul pannello e la lancia schizzò nell’ombra di Averno.

Jase premette nello stesso istante il pulsante dell’interponi.

— Klyos a Scalo Uno. Identificazione. Suonate l’allarme molo. Allarme molo. — La comunicazione era ancora ostacolata, pareva, dalla massa di Averno. — Nessun decollo. Ripeto: Klyos a Scalo Uno. Identificazione. Nessun decollo…

— Annullato — disse Scalo Uno con la voce stessa di Jase. Il direttore trattenne il respiro, poi lo lasciò uscire con furia e imprecò.

— Via.

La lancia acquistò velocità. Rimasero in silenzio, sentendo la voce del Mago.

— Permesso di lasciare Averno.

Ancora la voce del direttore di Averno.

— Parola d’ordine.

Silenzio. Poi un delicato brano di musica antica.

— Parola d’ordine.

Un altro fraseggio, breve, in chiave minore.

— Parola d’ordine.

Un terzo brano, dolce e completamente sconosciuto. La lancia del Mozzo superò la curva di Averno appena in tempo per scorgere la vasta cupola dello scalo che cominciava ad aprirsi, schiudendo le stelle.

Pianto volante, avete il permesso di lasciare Averno.

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