Di tutte le martellate psicologiche che gli scienziati del ventesimo secolo dovettero sopportare, forse la più terribile — e inaspettata — fu la scoperta che nulla è tanto affollato quanto lo spazio cosiddetto «vuoto».
L’antica massima aristotelica secondo cui la Natura aborre il vuoto era perfettamente vera. Anche togliendo da un determinato volume di spazio tutti gli atomi di materia per così dire solida, rimaneva un inferno ribollente di energie inconcepibili, per intensità e scala, dalla mente umana. Al confronto, anche la materia più densa — la materia di cui è fatta una stella a neutroni, la cui massa è di centinaia di milioni di tonnellate per centimetro cubico — era un fantasma impalpabile, una perturbazione a malapena percettibile della struttura incredibilmente densa, e pur sempre spumosa, del» superspazio».
Che lo spazio fosse qualcosa di molto più complicato di quanto non apparisse a livello semplicisticamente intuitivo l’aveva già dimostrato lo studio classico compiuto da Lamb e Rutherford nel 1947. Studiando il più semplice degli elementi — l’atomo di idrogeno — i due studiosi avevano scoperto che succedeva qualcosa di molto strano quando l’elettrone solitario orbitava attorno al nucleo. Lungi dal percorrere un’orbita regolare, l’elettrone si muoveva come continuamente urtato da onde incessanti di lunghezza sub-submicroscopica. Malgrado il concetto apparisse quanto mai elusivo, esistevano delle fluttuazioni nel vuoto stesso.
Fin dall’età classica i filosofi avevano seguito due diverse scuole di pensiero: da una parte chi riteneva che i fenomeni naturali dovessero avvenire senza sbalzi, e dall’altra chi sosteneva che questa altro non era che un’illusione; tutto accade secondo salti o balzi ben definiti, troppo piccoli perché li si possa percepire normalmente. La teoria dell’atomo rappresentò un trionfo per questa seconda scuola di pensiero; e quando la teoria dei quanti di Planck dimostrò che anche la luce e l’energia hanno una natura corpuscolare e non continua, il secolare dibattito finalmente ebbe fine.
In ultima analisi, il mondo della Natura appariva corpuscolare e discontinuo. Anche se all’occhio dell’uomo una cascata è cosa ben diversa da un carico di mattoni scaricato da un camion, in realtà le due cose erano molto simili. I minuscoli «mattoni» di H2O erano troppo piccoli perché fossero visibili a occhio nudo, ma erano chiaramente discernibili con il sussidio degli strumenti dello scienziato.
Dopo di che, l’analisi venne condotta ancora più in là. Ciò che rendeva così difficilmente accettabile l’idea che anche lo spazio avesse una natura corpuscolare non era tanto il fattore dimensioni — una scala, cioè, subsubmicroscopica — quanto la violenza delle energie in gioco.
Nessuno era in grado di immaginarsi davvero un milionesimo di centimetro, ma il milione — mille migliaia — era una quantità a tutti familiare. Dire che ci volevano un milione di organismi microscopici, dei virus ad esempio, messi uno accanto all’altro per raggiungere la lunghezza di un centimetro, era cosa che la mente era perfettamente in grado di concepire.
Ma un milionesimo di milionesimo di centimetro? Era questa grosso modo la dimensione dell’elettrone, che era proprio impossibile visualizzare. La si poteva forse comprendere razionalmente, ma non certo intuitivamente.
Eppure gli eventi che riguardavano la struttura stessa dello spazio avvenivano a una scala ancora incredibilmente inferiore a tal punto che, in confronto, una formica e un elefante avevano, in pratica, le stesse dimensioni. Se ci si immaginava la struttura dello spazio come una massa schiumosa, formata da tante bollicine (un modello questo fuorviante in modo quasi irrimediabile, ma pur sempre una prima approssimazione alla verità) allora queste bollicine avevano un diametro di…
… un millesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo…
… di centimetro.
E ora ci si immagini che queste bolle esplodano liberando energie paragonabili a una bomba atomica, e che poi riassorbano queste energie e di nuovo le liberino, e così via per sempre.
Questo era il modello, qui esposto in modo rozzamente semplificato, che secondo alcuni fisici della seconda metà del secolo ventesimo meglio descriveva la struttura fondamentale dello spazio. Che si potessero mai sfruttare queste energie dev’essere apparsa, a quei tempi, una congettura ridicola.
Così appariva, alla generazione precedente, l’idea di sfruttare le forze contenute nel nucleo dell’atomo; ciò che invece era diventato realtà nel giro di trenta o quarant’anni. Imbrigliare le «fluttuazioni quantiche» legate alle energie dello spazio stesso era un compito infinitamente più difficile — ma che avrebbe procurato vantaggi incommensurabilmente più grandi.
Ciò avrebbe dato all’umanità, tra le altre cose, il dominio dell’universo.
Un’astronave sarebbe stata in grado di accelerare praticamente per sempre, giacché non avrebbe avuto bisogno di carburante di alcun genere. L’unico ostacolo che in pratica avrebbe limitato la velocità sarebbe stato lo stesso contro il quale dovevano lottare i primi aeromobili, e cioè l’attrito col mezzo circostante. Nello spazio interstellare sono presenti quantità misurabili di idrogeno nonché di altri atomi, cosa che avrebbe potuto dare noie molto prima di raggiungere la velocità massima possibile nell’universo, e cioè la velocità della luce.
Il motore quantico si sarebbe potuto costruire in ogni momento a partire dal 2500, e la storia delle specie — come era accaduto molte altre volte nel tortuoso processo del progresso scientifico — osservazioni sbagliate e teorie erronee avevano ritardato l’esito finale di almeno mille anni.
I secoli febbrili degli Ultimi Giorni videro arte grandissima — per quanto spesso decadente — ma scarsi progressi nelle scienze. Inoltre, i molti insuccessi avevano convinto quasi tutti che sfruttare le energie dello spazio era, come il concetto di moto perpetuo, un’idea impossibile anche in teoria, figuriamoci nella pratica. A differenza del moto perpetuo, però, questa impossibilità non era ancora stata dimostrata scientificamente, e fino a quando non si fosse avuta questa dimostrazione rimaneva una speranza.
Solo centocinquant’anni prima della fine, un gruppo di studio del satellite di ricerca a gravità zero Lagrange Uno annunciò di poter dimostrare l’impossibilità di sfruttare le immense energie del superspazio.
Nessuno mostrò soverchio interesse per questa puntualizzazione che faceva ordine in un oscuro cantuccio della scienza.
Un anno dopo, da Lagrange Uno venne un imbarazzato colpetto di tosse. Nella dimostrazione era stato compiuto un piccolo errore. Non era la prima volta che una cosa del genere succedeva nella storia, ma mai prima una svista aveva avuto conseguenze così enormi.
Un meno era stato per sbaglio trasformato in un più.
Da quel momento tutto il mondo cambiò radicalmente. La via verso le stelle era ormai aperta, e mancavano cinque minuti alla mezzanotte.