Paolo Villaggio RAG. UGO FANTOZZI CARO DIRETTORE, CI SCRIVO… Lettere del tragico ragioniere, raccolte da Paolo Villaggio

A lume di candela

Molto esimio e stimatissimo direttore, le scrivo a lume di candela: è scomodo, ma è anche molto romantico.

Penso solo alla fatica che han fatto tutti quelli che han scritto prima della luce elettrica e con gracchianti penne d'oca per di più, io almeno ho una bella biro che scivola via veloce… fin troppo veloce.

Le spiego tutto.

Sono da sette giorni nel Sud della Tunisia ai confini con l'Algeria nel deserto più deserto. Proprio dove cominciano le grandi dune di sabbia. Venire fin quaggiù è come fare un viaggio non solo nello spazio e nella scala sociale (a Roma sono indigente e qui sono ricchissimo), ma soprattutto un affascinante viaggio nel tempo: come se mi trovassi a Borgo San Lorenzo a Firenze nel 1240.

Sono accampato in un albergo di tende nell'oasi di Douz.

Questa sera alle cinque il sole è tramontato veloce mente: un enorme disco di rame grande come metà dell'orizzonte.

Sono andato a curiosare in un grande spiazzo che è una piccola pista d'emergenza per aerei da turismo.

Dei ragazzini davano calci a un pallone, sembravano formiche tanti erano e giocavano in una confusione incredibile. Vedo con stupore che giocano a piedi nudi, non vado a controllare ma penso che abbiano proprio i tacchetti direttamente attaccati alla pelle dei piedi nudi.

L'arbitro locale infatti quando un panchinaro, che poi in realtà era accovacciato sulla sabbia, entra in campo, gli controlla la pianta dei piedi e quindi credo anche i tacchetti.

La partita finisce perché il sole cala di colpo.

Anche il mio soggiorno qui sta per finire.

Meno male, cominciavo a sentire un po' di nostalgia: non dell'Italia, ma del campionato.

In questi ultimi anni ho scoperto che il calcio come spettacolo fa da parafulmine a tutte le sconfitte e alle profonde insoddisfazioni della mia vita irrisolta.

La domenica, che dovrebbe essere il giorno in cui raccogliamo i frutti del nostro lavoro e cioè la felicità, si risolve per me in una conferma di tutto il niente che mi circonda e della mia infelicità. Perché, secondo lei, noi italiani, specialmente dai quaranta ai sessant'anni, dedichiamo tutto il nostro tempo libero a parlare, a litigare, quasi a fare a botte per un gioco che non pratichiamo attivamente, ma che ci limitiamo soltanto a guardare? Le dico la mia: perché è l'unico tipo di attività che riaccende quella voglia di gioco che è la costante della nostra infanzia, della pubertà, della giovinezza e quindi ci rende più felici rispetto a tutto il resto.

E noti bene, lo guardiamo, ma in televisione.

Ecco il perché di tanto, tantissimo, troppissimo calcio parlato in tutte le reti commerciali e non. Secondarie e primarie da parte anche di non addetti ai lavori ma con un acciaccapesta di intellettuali, giornalisti, sacerdoti e belle donne.

A proposito di belle donne, la presenza di Alba Parietti, in una materia che non le compete culturalmente, ha inserito un motivo in più per sentirsi giovani: la tentazione dell'innamoramento. Noi, quasi sessantenni, questo sport di guardar calcio per di più lo pratichiamo nelle condizioni meno sacrali: da letto, in poltrona, in mutande, in cucina, seduti sul cesso.

Noi vecchi allo stadio non ci andiamo più da molti anni, solo i vecchi vip nel e tribune d'onore fanno bel a mostra del loro protagonismo e del a loro vanità.

Nelle curve i teppisti si accoltellano, fanno cattiva mostra di sé, anche loro protagonisti.

Ma noi guardatori mutandati e scalzi guardiamo i primi con invidia e rancore, i secondi con inorridito moralismo, comunque non ci inquadrano mai, non ci siamo mai e domenica dopo domenica in un triste e malinconico rosario consumiamo la nostra vita.


La vittoria della Samp mi fa l'effetto di un bicchierino di whisky: per un attimo mi dà alla testa, appena finisce l'effetto torna la paranoia.

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