3. La parata

Con molta cautela tirò fuori la bambola dalla tasca. Prima aveva le gambe tese, ne era certo. Ora invece aveva un ginocchio lievemente piegato. Il viso era calmo e serio, avrebbe detto inespressivo, se non avesse amato quel viso così tanto. Le labbra erano leggermente incurvate.

— Ah, tu ammira dea!

Quasi inconsapevolmente, lui annuì.

— Ah, molto bene! Io vede?

Il cinese allungò la mano, e con un certo fastidio lui gli porse la bambola.

— Oh, molto bella! Molto bella! Lunghe gambe, piccoli piedi! — Il cinese ridacchiò. — Tu non piace Sheng tiene bambola. Sheng capisce.

Solo dopo averla riposta nella tasca si decise ad ammettere di aver temuto che lui non gliela restituisse.

— Presto Sheng mostra. Prima beve tè. — Il drago di fumo bianco della pipa si confuse, azzuffandosi, con il selvaggio drago di vapore del bollitore del tè. L’acqua bollente sgorgò nella teiera, seguita da una spruzzata di foglie fragranti.

— Presto — disse Sheng. — Molto presto. Piace teiera? Molto bella, poco cara. Porcellana di Nanchino, vecchia cento anni. Ho altre.

Lui annuì. — Come mai è arrivato fin qui, signor Sheng?

Il cinese sorrise. — Costruzione ferrovie. Quando giovane, pensa che lontano tutto è meglio. — Una mano sottile attorcigliò i baffi pensierosa. — Torna a casa ricco — disse il cinese con un sospiro.

— E vorrebbe ancora tornare a casa? — All’improvviso si accorse di essere rimasto incantato dalla storia di quell’ometto di mezza età dalla pelle scura. Era come se stesse osservando il suo stesso futuro in uno strano specchio orientale. — Anche lei era d’accordo con me che il suo scantinato fosse il paradiso.

— Paradiso per giovane. Così lui sogna. Lavora in ferrovia. Strappa camicia. — Il cinese si fermò pensieroso.

— Niente ago. Chiede amico, tu ha ago? Ha filo? Lui non ha…

— E allora?

— Va in città. Sabato. Compra filo. Chiede ago, negoziante non vende ago. Vende pacchetto, venti aghi. Sheng allora compra. Poi dice: tu vuole ago? Paga dieci centesimi. Così ecco Sheng. — Con un rapido gesto della mano dalle dita affusolate indicò il negozietto, poi afferrò lesto la teiera. Un liquido profumato si riversò nelle tazze. — Paradiso di Sheng.

— Capisco.

— Poi Sheng sogna altro paradiso, tanti bambini, tanti figli che prega per povero Sheng. Giovane Sheng sogna così, questo Sheng no. Legge Celeste dice: a un uomo, solo un paradiso.

Lui annuì, sorseggiando il tè bollente e domandandosi come avesse potuto distrarsi così facilmente dalla sua ricerca di Lara.

Senza alzarsi, il cinese allungò un braccio verso uno dei ripiani e prese una scatola laccata. — Ora Sheng mostra. Tu vuole tocca, va bene, tu tocca. Ma Sheng piace meglio tu non tocca.

Lui annuì, appoggiando la tazza. Il coperchio della scatola aveva delle scanalature lungo i bordi. Si ricordò vagamente di aver visto una scatola di biglie in un negozio di oggetti antichi che si apriva nello stesso modo. Dentro la scatola c’era una bambola, accuratamente vestita, non più lunga della sua mano.

— Questa Heng-O — spiegò il cinese. — Uguale tua.

Si chinò in avanti per guardarla meglio. Era senza dubbio lo stesso viso, come se un orientale avesse scolpito Lara, aggiungendo inconsciamente i tratti somatici che un artista orientale troverebbe normali e attraenti. Era vestita di pura seta; un costume che avrebbe potuto essere indossato da una minuscola imperatrice, punteggiato di uccelli ricamati e bestie strane.

— Com’è bella — disse al cinese. — Molto, molto bella.

— È così. — Il coperchio si richiuse silenziosamente. — Quando luna piena, lei è qui. Brucia joss. Fa solamente questo. Quando funerale Sheng, cuoce riso su tomba Sheng, lei vede me, sorride e dice: “Tu brucia joss per me”. Felice per sempre.

Lui annuì di nuovo e scolò il resto del tè, grato per il suo confortevole tepore. I loro sguardi s’incrociarono per un istante e lui capì che il cinese era suo fratello, nonostante le abissali differenze e che il cinese lo sapeva già fin da quando si erano incontrati nel vicolo.

— Ho abusato fin troppo della sua ospitalità, signor Sheng — disse. — Ora devo andare. — E si alzò.

— No, no! — Il cinese sollevò le mani coi palmi rivolti all’insù. — Tu non va, prima Sheng mostra merce!

— Se proprio insiste…

L’espressione impassibile del suo viso si aprì in un grande sorriso. — Tu vede tante cose. Dice amici. Loro viene e compra da Sheng. Sicuro!

Cercò di pensare ai suoi amici. Non ne aveva. — Mi dispiace, lei è il solo amico che ho, signor Sheng.

— Tu allora vive troppo solo. Tu guarda! — Era un mazzo di carte.

— Amuleto magico, porta amici! Tu impara poker, bridge, ramino. Tu va e dice. “Io vuole gioca, nessuno vuole?”. Presto, molto presto, tanti amici!

Lui scosse la testa. — Buona idea, ma io sono troppo timido.

Il cinese sospirò. — Niente amuleto per timidi. Niente licenza per vende liquori. Tu piace posta?

— Sì, molto.

— Bene! Uomo timido tanta posta. Amuleto magico! — Il cinese sollevò una radice rinsecchita e appiattita.

— E quella mi farà davvero ricevere posta?

— Sì! Radice posta — disse il cinese. (O forse “radice tosta”.) La prese fra le dita; era ruvida e sottile. Nella penombra avrebbe potuto giurare di tenere in mano una busta.

— Vorrei comprarla — disse. Doveva comunque a Sheng qualcosa per averlo salvato dalla polizia.

— Tu no compra! Niente soldi! Altra volta, tu compra. — La radice secca era legata a un filo di seta rossa. — Tu mette collo e tiene sotto camicia. Tanta posta.

Fece come gli aveva detto. Un rombo ritmico, silenzioso ma cupo, risuonò all’esterno. Avrebbe voluto chiedere cosa fosse, ma il cinese lo precedette.

— Tu guarda! — dispiegò un rotolo di carta rivelando l’immagine di un uomo di dimensioni ridotte. — Brucia su tomba. Poi ha buoni servitori in altro posto. — Il cinese fece un altro sorriso. — Tu muore presto?

— Spero di no.

— Allora no serve. Più tardi, forse. Che dice di cavallo? — Era l’immagine di un cavallo robusto e selvaggio schizzata con pochi tratti veloci.

— Non ne ho mai cavalcato uno — ammise.

— In altro posto tu impara. Ha tanto tempo.

Lo sguardo gli cadde su una spessa mazzetta di banconote da cinquanta dollari avvolta in una fascetta di carta marrone. — Non dovrebbe lasciare queste cose in giro, signor Sheng.

Il cinese ridacchiò. — Soldi finti! Tu brucia su tomba, altro posto tanto ricco! Tu vuole?

Lui si avvicinò a una finestrella impolverata. Erano banconote vere, semi nuove. Quando le estrasse dalla fascetta di carta, il volto del generale Grant gli apparve netto e chiaro.

— Tu vuole?

Sulla fascetta c’era scritto SICURPOL-TRASPORTO VALORI. Accanto a queste parole un carattere cinese in inchiostro nero e la cifra dieci centesimi.

— Sì — disse. — Mi piace molto. Ma deve lasciarmi pagare. — Tirò fuori dieci centesimi, sentendosi un ladro. Il cinese prese la moneta senza nemmeno guardarla, e gli mise la mazzetta di banconote nella tasca del soprabito, opposta a quella dove teneva la mappa.


Fuori la strada non era quella che aveva lasciato per entrare nel vicolo, era più piccola e più stretta, costeggiata da auto parcheggiate e da edifici di mattoni fuligginosi. Vide che stava passando una parata. Le majorette sfilavano impettite roteando le bacchette con le gambe nude striate di blu per il vento invernale. I soldati in giubba verde brillante si mettevano e si toglievano i fucili dalle spalle; gli uomini politici sorridevano e salutavano con la mano offrendosi l’un l’altro sigari e caramelle. Squillavano le trombe. Carri enormi avanzavano lentamente come tanti colossi multicolori, evidentemente instabili, oscillavano come narcisi mentre graziose fanciulle con abiti ornati di fiori, piume e lustrini ballavano da sole o in gruppo.

Un tamburo rullava sordo al ritmo del suo cuore.

Una piccola folla di uomini e ragazzi, e solo qualche donna, seguiva l’ultimo carro, convinti forse di far parte della parata. Gli balenò l’idea che se la polizia lo stava ancora cercando — anche se gli pareva impossibile — quel gruppetto sparso gli offriva l’occasione di sfuggire alla ricerca. Si unì alla folla, spingendosi nel mezzo fino a trovarsi a camminare proprio dietro il carro. Nessuno dai lati della strada avrebbe potuto individuarlo.

Una pattinatrice in tutù rosa piroettava quasi sul bordo della piattaforma. Quando lo vide si fermò e gli sorrise dirigendosi verso i tre scalini metallici che sporgevano dal retro del carro.

Lui pensò che lo stesse invitando a raggiungerla e gridò: — Non ho i pattini!

Lei annuì, continuando a sorridergli, e gli indicò una porta inghirlandata di rose.

Lui esitò un istante. Se avesse raggiunto con un balzo gli scalini, sarebbe rimasto visibile finché non oltrepassava la porta, ma una volta dentro il carro sarebbe stato completamente al sicuro.

La pattinatrice sorrise ancora e gli fece cenno di raggiungerla. Era bionda con gli occhi azzurri, guance rosse come due mele nel vento tagliente.

Non appena salì gli scalini, il gruppetto che era dietro di lui cominciò a fischiare, ad applaudire e acclamare.

Anche il pubblico lungo i marciapiedi acclamava, uno dei ballerini accese la miccia di un fuoco d’artificio che esplose in una cascata di scintille dorate proprio mentre la pattinatrice apriva la porta inghirlandata di rose per farlo entrare.

— Faccio in un attimo — disse. — Il tempo di sfilarmi i pattini.

Si ritrovò nel retro di un camper. C’erano due ampie cuccette a castello, sedili girevoli, un piccolo lavello e uno scrittoio con un lavandino incorporato. Al volante c’era una donna di mezza età che non si voltò nemmeno a guardarlo; ma lui incrociò il suo sguardo nello specchietto retrovisore, sguardo che lo seguì, almeno così gli sembrò, più del dovuto.

Il soffitto era fastidiosamente basso. Si mise a sedere cercando di guardarsi intorno, ma le fiancate del carro oscuravano tutti i finestrini. Sentiva ancora le acclamazioni della folla all’esterno e il rimbombo dei fuochi d’artificio.

La porta si aprì. La pattinatrice entrò senza far rumore a piedi scalzi. Gli accarezzò il viso con la punta delle dita, indugiando sullo zigomo. — Non sono una di quelle che ti puntano una pistola alla testa — disse lei. — Se dovessi cambiare idea…

Lui disse: — Mi piace questo posto.

— Bene. Anche a me. — Indossava un pullover di seta azzurro orlato di pelliccia bianca intorno al collo e sui polsi. Se lo sfilò dalla testa con un unico movimento languido e morbido, rivelando un piccolo reggiseno di pizzo color pesca. — Vuoi che ti spogli io? So che a qualcuno piace… Come’ vuoi, farò qualunque cosa tu abbia desiderato durante tutti questi anni.

Mentre si alzava ascoltò la sua voce come se stesse ascoltando parlare qualcun altro. — Ho sempre desiderato Lara.

Lei rimase un attimo in silenzio, con le mani ferme sui bottoni del suo soprabito. — Lara?

— Io l’amo — disse lui; e poi: — Ma tu non sei lei, e io proprio non immaginavo che sarebbe andata in questo modo. — Fece un passo indietro.

Lei rimase a bocca aperta. Per un istante il suo volto divenne una maschera di incredulità e disappunto. L’odio la consumò come il fuoco disintegra una foresta; i suoi occhi azzurri fiammeggiavano e lampeggiavano.

— È meglio che me ne vada — disse lui.

Uno dei cassetti sotto al lavandino tintinnò; lei gli si avventò contro con un coltello da cucina. Lui fece uno scarto di lato, e il coltello affondò nella sottile parete divisoria. Le afferrò un braccio con una mano e con l’altra la spinse da parte.

La porta si aprì facilmente e per fortuna verso l’esterno. Corse fuori senza ricordarsi della pista di ghiaccio dove lei pattinava.

Le gambe gli mancarono e cadde dal carro. Per un assurdo istante pensò di stare precipitando dal mondo, e di volare nello spazio. L’asfalto nero lo colpì come un pugno.

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