2. Inferno o paradiso? Chissà?

Il locale era rivestito di scaffali con i ripiani disposti alla distanza di venti, ventidue centimetri. Sui ripiani c’erano dei lettini. In ogni letto, una bambola.

— È venuto per una bambola, signore?

Fece finta di non aver sentito. “Che posto interessante. Credo di non averne mai visto uno simile in vita mia. Piacerebbe molto a Lara” si trovò a pensare. Poi, ad alta voce, aggiunse: — Sono tutte rotte?

— Ma no — disse il negoziante. L’uomo aveva circa la sua età, ma era quasi ingobbito e sembrava non essersi accorto che i capelli, lunghi fino alle spalle magre, stavano diventando radi.

— Allora perché…

— Erano rotte quando le hanno portate qui — spiegò il negoziante. Sollevò la coperta e il lenzuolo della bambola più vicina. — Ora sono in perfette condizioni.

— Capisco.

— Se ha una bambola da aggiustare, deve lasciare un deposito che le sarà restituito quando tornerà a ritirarla.

— Avete incassato un deposito per tutte queste bambole?

Il negoziante allargò le braccia magre. — In qualche modo dobbiamo pur guadagnare per tenere aperto il negozio. Prima facevamo pagare le riparazioni, ma quasi nessuno tornava a riprendersi le bambole, quando erano pronte. Così ora abbiamo deciso di farci dare un deposito piuttosto sostanzioso e non ci facciamo pagare le riparazioni. Se il proprietario o, come avviene quasi sempre, la madre del proprietario, torna per ritirare la sua bambola, liberiamo un posto nello scaffale e gli restituiamo per intero il deposito. Altrimenti… — Il negoziante si strinse nelle spalle.

— Non vendete mai le bambole?

Il negoziante annuì. — Quando il proprietario muore.

— Allora alcune bambole restano qui per molto tempo.

Il negoziante annuì di nuovo. — Ce ne sono alcune che sono qui da quando abbiamo aperto il negozio. Ma qualche volta succede che quando diventa adulto, un ragazzo si ricordi della sua bambola. Qualche volta gli capita di trovare la ricevuta fra le carte di sua madre. Quando ci consegnano le bambole prendiamo nota del nome dei proprietari e poi controlliamo gli annunci mortuari. — Il negoziante allungò il braccio fino al ripiano più alto e prese un lettino. — Questa per esempio è in vendita. Se conosce qualcuno…

Era Lara…

Lara in miniatura, alta venticinque centimetri. Ma Lara, senza ombra di dubbio… i suoi capelli rosso scuro, le lentiggini, gli occhi, il naso la bocca e il mento.

Riuscì a dire: — Sì — e tirò fuori il portafoglio.

— È una bambola piuttosto costosa, signore — disse il negoziante. — Non solo cammina e parla… ma fa di tutto.

— Sta scherzando? — cercò di sollevare un sopracciglio.

— Ma no, signore. È una di quelle che vanno bagnate con una soluzione salina che agisce da elettrolito. Adesso temo, però, che sia completamente a secco. Lei capisce, è rimasta qui per molto tempo.

— Capisco. — Esaminò la bambola da vicino. Sulla camicetta era ricamato un nome, Tina.

— È la dea, naturalmente — disse il negoziante. — La dea a sedici anni. Era di un ragazzo che è morto otto anni fa. Malicapata. Piuttosto triste, non è vero? Ma ora farà la gioia di qualche altro bambino per molti anni ancora. La vita continua.

— Qualche volta — disse lui.

— Prego?

— E dove posso trovare la vera dea?

— A Overwood, credo. Se vuole la bambola, il prezzo è centocinquanta.

— Devo farle un assegno.

Il negoziante ebbe un attimo di esitazione, poi disse: — Va bene.

La bambola entrava facilmente nella tasca anteriore del soprabito e la sua figuretta snella si adattava a perfezione alla forma allungata della tasca.

Sul marciapiede si guardò intorno per orientarsi. Ai cinque angoli dell’incrocio altrettanti edifici: un negozio di alimenti integrali, un’agenzia immobiliare, una libreria, un ufficio legale, un negozio di liquori, una boutique con l’insegna “fiori finti di vera seta” e un negozio di oggetti antichi. Le strade che trafiggevano l’orizzonte gli sembrarono del tutto sconosciute. Un tram rosso sferragliò lì accanto e lui si ricordò che i tram non c’erano più nemmeno quando era un bambino.

Come se la sua mente non avesse spazio che per un solo interrogativo, gli venne in mente la soluzione del primo.

Quando era uscito dalla clinica delle bambole aveva preso la strada sbagliata e ora si trovava a un incrocio diverso.

Tornò sui suoi passi e, davanti alla vetrina, salutò con la mano il negoziante. Divertito, notò che c’era già un’altra bambola fra le lenzuola del lettino di Tina.

— Ma non le cambiano mai? — mormorò.

— No, sono sempre le stesse — disse l’uomo con la faccia paonazza che gli camminava accanto indicando un negozio.

Lui vide che in quella vetrina erano esposti spartiti di canzoni ingialliti e polverosi. “Il vero amore” diceva il titolo di una canzone scritto nei caratteri floreali in voga all’inizio del secolo. In un angolo del foglio era appiccicata una mosca morta.

— La solita zuppa — disse. Era l’espressione che usavano nel negozio dove lavorava quando volevano parlar male dell’operazione commerciale di un concorrente.

— Ha bisogno di qualcosa? — disse l’uomo dalla faccia paonazza ridendo.

Il ghiaccio era rotto e lui era ansioso di fare una domanda: — Sa dirmi come posso arrivare a Overwood?

L’uomo si fermò e si voltò a guardarlo. — No — disse. — Non lo so.

— Non fa niente.

— Però… — l’uomo alzò un dito. — Posso dirle come fare per arrivare da quelle parti. Una volta là, può chiedere indicazioni più precise.

— Benissimo! — disse lui. (Ma dov’era Overwood e perché il negoziante aveva chiamato Lara “la dea”?)

— …alla stazione. Marea è là, ai piedi delle montagne.

Quando sarà lì potrà trovare qualcuno che sia in grado di dirle dove si trova Overwood.

— Bene.

L’uomo dalla faccia paonazza indicò col dito. — Guardi dall’altra parte della strada… c’è una cartografia. Forse lì può trovare una mappa.

Anche se era piccolo, il negozio aveva il soffitto molto alto. Il proprietario aveva sfruttato questa caratteristica per mettere in mostra alcune carte topografiche molto grandi. Una era la mappa della città. Come lui aveva pensato, c’erano molti incroci a cinque strade; attraversò il negozio per esaminarla meglio, con la speranza di riuscire a riconoscere il tragitto dal suo appartamento al ristorante Capini e di lì al Centro di Igiene Mentale.

Ma non riuscì a individuare la zona dove abitava e nemmeno i grandi magazzini dove lavorava; anche se il negozio non aveva finestre, era sicuro che si trovasse vicino al fiume. Nella mappa si notavano diversi corsi d’acqua tortuosi e a un certo punto due sembravano intersecarsi, ma nessuno era largo come il fiume che ricordava o altrettanto diritto.

Una commessa disse: — Cosa desidera? — Lui si voltò a guardarla. Era una ragazza piccola dall’espressione vivace e i capelli castani.

— Una mappa di Overwood.

La ragazza sorrise: — È raro che qualcuno voglia andare in quel posto.

Nel suo aspetto c’era qualcosa che non andava, pensò.

Aveva l’espressione di una commessa che mantiene un atteggiamento cortese mentre cerca disperatamente di richiamare l’attenzione del caporeparto. — Non ho detto che voglio andarci — le disse. — Vorrei solo una mappa del posto.

— Sono molto costose, ma non possiamo garantire che siano accurate.

— Andrà bene lo stesso.

La ragazza annuì. — Come vuole. Mi segua, per favore.

Gli prese un accesso di ilarità. — “Mi segua per favore”, disse la lumaca alla lepre. — Era una vecchia battuta a cui aveva dovuto obbligatoriamente ridacchiare un centinaio di volte.

Lei lo ignorò o, più probabilmente, non lo sentì. — Eccoci arrivati, signore. Slumberland, Disneyland, Cleveland e Paradiso, Inferno e Limbo… tutti e tre sulla stessa mappa. — Gli lanciò un’occhiata ironica. — Un bel risparmio.

— No — disse lui. — Overwood.

— Overwood. — La ragazza dovette alzarsi in punta di piedi per tirar fuori la mappa dallo scomparto più alto.

— È l’ultima che abbiamo. Dovremo riordinarle. Fa ventinove e novantotto più le tasse.

— Prima voglio essere sicuro che sia quella che cerco. — Aprì un lembo della mappa che era voluminosa e ripiegata in modo alquanto complicato.

— Questa è la zona di Overwood — disse la commessa indicando col dito. — La Gola di Cristallo, la Foresta d’Acciaio, eccetera.

Lui fece un cenno col capo, chino sulla mappa.

— Fa ventinove e novantotto più le tasse.

Sulla mappa non erano segnati né sentieri, né strade, né edifici. Tirò fuori il portafoglio… un biglietto da venti, uno da dieci e uno da cinque.

La commessa diede un’occhiata e scosse la testa. — Ma questi non sono soldi veri. Non qui, almeno. Da dove viene?

Lui disse: — Cosa intende dire? Ho appena comprato una bambola in un negozio qui vicino. — Poi si ricordò di averla pagata con un assegno.

La commessa si affrettò verso la cassa e schiacciò un pulsante. — Signora Peters, credo sia meglio che lei venga qui.

Lui cominciò a ripiegare la mappa. Fra un momento non ci sarebbe stato più nulla da fare.

— Aspetti un momento! — gli gridò dietro la commessa. — Ehi!

Lui era già fuori della porta e correva per la strada.

Non aveva immaginato che lei gli andasse dietro, ma la ragazza lo fece, correndo come una forsennata, le scarpe nere con i tacchi alti in mano, e la gonna sollevata fin sopra le cosce. — Fermatelo!

Una donna allungò l’ombrello cercando di farlo inciampare, lui barcollò ma continuò a correre. Un ciccione urlò: — Dai, Fulmine! — Si sentirono i clacson mentre un poliziotto spronava il suo cavallo scalpitante in mezzo al traffico.

Un vicolo. In televisione i criminali che fuggono si infilano sempre in qualche vicolo, ma quando ci fu dentro si rese conto che probabilmente quelli dovevano conoscere bene i vicoli in cui si infilavano.

Questo si andava restringendo a ogni passo, curva dopo curva, come se non dovesse più sboccare in nessuna strada.

Il frastuono degli zoccoli dietro di lui sembrava la carica di cavalleria in un film. Sentì il rumore ritmico interrompersi di colpo quando il cavallo saltò lo stesso bidone della spazzatura rovesciato che lui aveva scavalcato un attimo prima. Poi sentì l’urlo disperato dell’animale e un rumore sordo mentre gli zoccoli ferrati scivolavano sul selciato ghiacciato.

Continuò a correre, la mappa che gli sventolava in una mano e la bambola che rimbalzava sul suo petto ansante, ogni volta che riprendeva fiato. Un gatto nero sibilò arrampicato in cima a una staccionata cadente; un cinese gli sorrise benevolmente, sdraiato su un vecchio divano a fumare quella che sembrava una pipa di oppio.

Lui svoltò l’angolo e si trovò di fronte a un vicolo cieco.

— Tu vuole uscire? — domandò il cinese.

Lui girò la testa per guardarlo al di sopra della spalla.

— Sì. Devo… uscire… di qui.

Il cinese si alzò in piedi, lisciandosi un baffo spiovente. — Va bene. Tu viene.

Entrarono in una porta sbilenca che portava in uno scantinato. Quando il cinese la richiuse, la stanza piombò nel buio rischiarato solo dal minuscolo bagliore rosso del fornello della sua pipa.

— Dove ci troviamo? — domandò lui.

— Ora nessun posto — gli disse il cinese. — Con buio, chissà?

Il fumo dolciastro della pipa contrastava l’aria che sapeva di muffa; poteva quasi vederlo avvolgersi attorno a lui come un serpente bianco, un pallido drago cinese.

Mentre cercava di ripiegare la mappa si accorse di farlo nel modo sbagliato; subito dopo infilò l’involto malfatto in tasca.

— Forse paradiso. Forse inferno. Chissà?

Lui disse: — Lo saprei, se avessi un fiammifero.

Il cinese ridacchiò e il suono di quella risata somigliava al tintinnio di nove biglie d’avorio nelle bocche di nove leoni d’avorio. Sentì che gli metteva in mano una scatoletta di fiammiferi dura e squadrata. — Fiammiferi. Tu accende, poi tu sa.

Scosse la testa, ma si rese conto che il cinese non poteva vederlo. — Potrei appiccare un incendio.

— Allora inferno. Tu accende fiammifero.

— No — disse lui.

— Io accende — gli disse il cinese. Uno strofinio secco e un lampo di luce. Stavano accanto a un mucchio di materassi. Lo scantinato era ingombro di barili, bidoni, sporte, scatole e pile di libri. I travetti del soffitto erano appena a tre centimetri dalla sua testa, forse meno.

— Paradiso? Inferno? — domandò il cinese. — Ora sa.

— Paradiso.

— Ah! Tu saggio! Tu viene sopra, e beve tè. Uomo polizia guarda fuori e non trova.

Seguì il cinese su per una rampa di scalini ripidi, attraverso una botola, fino a una bottega zeppa di mercanzia. Lanterne di carta scarlatta con scritte in caratteri cinesi neri dondolavano dal soffitto e lunghi rotoli appesi a ganci sulle pareti mostravano tigri sinuose come serpenti.

— Tu vuole vende? Sheng compra. Tu vuole compra? Sheng vende — gli disse il cinese. — Tè no. Tè per niente, per amici.

Accese un altro fiammifero e il gas sbocciò violetto su un anello di ferro in una stanza minuscola dietro la tenda di perline.

— Ti sei già fatto un amico — disse lui.

— Tu vuole qualcosa, viene da Sheng. Bene! Tu vuole, Sheng dà. Se Sheng non ha, trova. Tu vuole siede?

Lui si mise a sedere in una fragile sedia di bambù che sembrava fatta per un bambino. Anche se fuori faceva freddo, sentì che stava sudando.

— Tè, spezie, fuochi artificio, medicine. Molte, molte cose, poco prezzo.

Lui annuì mentre si domandava quanti anni avesse il cinese. Era la prima volta che incontrava un cinese che non parlava correntemente americano. Se qualcuno glielo avesse chiesto (ma nessuno lo aveva mai fatto) avrebbe sicuramente risposto che c’erano centinaia di milioni di persone che non lo parlavano, e che non conoscevano altra lingua che la loro.

Ora si rendeva conto che esiste una bella differenza fra conoscere e comprendere.

Il cinese batté la pipa sul tavolo, la riempì di nuovo e l’accese sulle lingue di fuoco violetto. Dopo una o due tirate, mise un bollitore di rame tutto ammaccato sul fuoco. — Sheng dice: paradiso, inferno? Tu dice paradiso.

— Perché tu… cosa c’è?

La bambola si era mossa.

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