9. Viene scoraggiato un robot

«Così vince ancora il potenziale più alto» commentò Baley. «Pur di mantenermi vivo, mi faresti del male.»

«Non credo che sarà necessario farti del male, collega Elijah. Sai che ti sono superiore in forza e non tenterai un'inutile resistenza. Comunque, se diventasse necessario, sarei spinto a farti del male.»

«Potrei disintegrarti lì dove sei» disse Baley. «Adesso! Nel mio potenziale non c'è nulla che mi trattenga.»

«Mi era venuto in mente che avresti potuto prendere questo atteggiamento a un certo punto della nostra relazione, collega Elijah. Con più precisione, il pensiero mi è venuto durante il viaggio verso questa casa, quando in macchina sei diventato temporaneamente violento. In relazione alla tua salvezza, la mia distruzione è poco importante, ma tale distruzione alla fine ti causerebbe dei fastidi e disturberebbe i piani dei miei padroni. Quindi, durante il tuo primo periodo di sonno, è stata mia cura immediata togliere la carica al tuo fulminatore.»

Baley serrò le labbra. Era rimasto senza un fulminatore carico! La mano gli corse istantaneamente alla fondina. Estrasse l'arma ed esaminò il contatore delle cariche. Segnava zero.

Per un istante soppesò l'inutile massa di metallo, come se pensasse di tirarla direttamente in faccia a Daneel. Ma a che sarebbe servito? Il robot si sarebbe scansato con efficienza.

Rimise l'arma nella fondina. Avrebbe potuto ricaricarla in seguito.

Lentamente e pensosamente disse: «Non m'imbrogli, Daneel».

«In che modo, collega Elijah?»

«Sei troppo il padrone. Sono completamente bloccato da te. Sei davvero un robot?»

«Hai già dubitato di questo precedentemente.»

«L'anno scorso sulla Terra dubitavo che R. Daneel Olivaw fosse un robot. Ed è saltato fuori che invece lo era. Credo che lo sia ancora. Comunque la mia domanda è: sei R. Daneel Olivaw?»

«Sì.»

«Sì? Daneel era stato progettato imitando uno spaziale in tutti i particolari. Perché non dovrebbe uno spaziale imitare Daneel?»

«Per quale motivo?»

«Per venire qui a condurre un'investigazione con maggiore iniziativa e capacità di quelle di un robot. E poi, assumendo il ruolo di Daneel, avresti potuto tranquillamente tenermi sotto controllo lasciandomi la falsa consapevolezza che ero io il padrone. Dopo tutto lavori attraverso di me, e io devo essere considerato malleabile.»

«Questo non è vero, collega Elijah.»

«Provalo» disse Baley, spostandosi lentamente a un'estremità del tavolo e sollevando un eliminatore di rifiuti. «Puoi farlo abbastanza facilmente, se sei davvero un robot. Fa' vedere il metallo sotto la pelle.»

«Ti assicuro…» incominciò Daneel.

«Mostra il metallo» disse vivace Baley. «È un ordine! O non provi l'impulso di obbedire agli ordini?»

Daneel si sbottonò la camicia. La liscia pelle bronzea del suo petto era coperta di una leggera peluria. Le dita di Daneel esercitarono una ferma pressione proprio sotto il capezzolo destro e pelle e carne si divisero incruentemente per tutta la lunghezza del petto, rivelando sotto lo scintillio del metallo.

E, mentre accadeva questo, le dita di Baley cessarono la loro inerzia per azionare di colpo un interruttore. Quasi immediatamente entrò un robot.

«Non ti muovere, Daneel» gridò Baley. «È un ordine! Congelati!»

Daneel rimase immobile, come se la vita, o la sua imitazione robotica, lo avesse abbandonato.

Baley gridò al robot: «Puoi far venire altri due della servitù senza andartene? Se puoi, fallo».

«Sì, padrone» rispose il robot.

Chiamati con l'interradio, entrarono altri due robot. I tre si allinearono fianco a fianco.

«Ragazzi!» gridò Baley. «La vedete questa creatura che pensavate fosse un padrone?»

Sei occhi rossastri si appuntarono solennemente su Daneel. Dissero all'unisono: «La vediamo, padrone».

«Allora vedete anche» proseguì Baley «che questo cosiddetto padrone, visto che dentro ha del metallo, è un robot come voi. È stato solo progettato simile a un uomo.»

«Sì, padrone.»

«Non siete costretti a obbedire a ogni ordine che vi dà. Lo capite questo?»

«Sì, padrone.».

«Invece io» continuò «sono un uomo.»

Per un istante i robot esitarono. Baley si chiese se, avendo mostrato loro che una cosa può sembrare un uomo ed essere un robot, avrebbero accettato come uomo qualunque cosa in apparenza umana.

Ma poi un robot disse: «Tu sei un uomo, padrone» e Baley ricominciò a respirare.

«Molto bene, Daneel» disse. «Ora puoi rilassarti.»

Daneel assunse una posizione più naturale e disse, sempre calmo: «Comprendo che tu abbia espresso dubbi sulla mia identità, allora, solamente per esibire la mia natura a questi altri».

«E così è stato» disse Baley, guardando altrove. Pensò: quella cosa è una macchina, non un uomo. Non c'è nulla di male nell'imbrogliare una macchina.

Eppure non riusciva a reprimere completamente una sensazione di vergogna. Anche stando lì col petto aperto, Daneel gli sembrava ancora qualcosa di umano, qualcosa capace di subire un tradimento.

«Chiuditi il petto, Daneel,» ordinò «e ascoltami. Fisicamente non ti puoi misurare con tre robot. Lo vedi da solo, no?»

«È chiaro, collega Elijah.»

«Bravo!… Ora, ragazzi,» e si girò di nuovo verso gli altri robot «non dite a nessuno, neanche a un padrone, che questa creatura è un robot. In nessun momento, senza ulteriori istruzioni mie e mie soltanto.»

«Ti ringrazio» intervenne sommesso Daneel.

«Comunque,» proseguì Baley «a questo robot simile a un uomo non è permesso interferire in alcun modo con le mie azioni. Se tenta una tale interferenza, glielo impedirete con la forza, badando di non danneggiarlo, a meno che non sia assolutamente necessario. Non permettetegli di entrare in contatto con altri esseri umani se non con me, né con altri robot, se non con voi, sia vedendo che visionando. E non lasciatelo mai solo. Le vostre attuali mansioni sono sospese fino a nuovo ordine. È tutto chiaro?»

«Sì, padrone» risposero in coro.

Baley tornò a voltarsi verso Daneel. «Ora non c'è nulla che tu possa fare, quindi non cercare di fermarmi.»

Le braccia di Daneel gli pendevano inerti lungo i fianchi. «Non posso permettere che tu riceva danno per la mia inazione, collega Elijah. Eppure in queste circostanze solo l'inazione è possibile. Una logica inattaccabile. Non farò nulla. Ho fiducia che rimarrai incolume e in buona salute.»

Ci siamo, pensò Baley. La logica era la logica e i robot non avevano altro. La logica aveva detto a Daneel che aveva le mani completamente legate. La ragione avrebbe potuto dirgli che raramente si possono predire tutti i fattori e che l'opposizione avrebbe potuto essere un errore.

Nulla di tutto questo. Un robot è soltanto logico, non ragionevole.

Di nuovo Baley sentì una punta di vergogna e non poté evitare un tentativo di consolazione. «Senti, Daneel,» disse «anche se camminassi in mezzo a pericoli di ogni sorta, il che non è,» si affrettò ad aggiungere dopo una rapida occhiata agli altri robot «sarebbe solo il mio lavoro. È quello per cui sono pagato. Il mio lavoro è prevenire che tutta l'umanità riceva danno, come il tuo è prevenire che lo ricevano gli individui. Capisci?»

«No, collega Elijah.»

«Questo è perché non sei fatto per capire queste cose. Se tu fossi un uomo, capiresti, credimi sulla parola.»

Daneel chinò il capo in segno d'acquiescenza e rimase in piedi immobile, mentre Baley andava lentamente alla porta. I tre robot si divisero per farlo passare, continuando a tenere gli occhi fotoelettrici puntati su Daneel.

Baley camminava verso una specie di libertà, e il cuore gli batteva mentre pregustava il fatto; poi perse un battito: dall'altra parte della porta stava arrivando un robot.

Forse qualcosa era andato storto?

«Che c'è, ragazzo?» scattò.

«È stato consegnato un messaggio per lei, padrone, dall'ufficio del Facente Funzioni del capo della Sicurezza Attlebish.»

Baley prese in mano la capsula personale e questa si aprì immediatamente. Ne uscì srotolandosi una striscia di carta finemente scritta. (Non era meravigliato. Solaria aveva in archivio le sue impronte digitali e la capsula era predisposta ad aprirsi al tocco di particolari circonvoluzioni.)

Lesse il messaggio, con la faccia che rispecchiava la soddisfazione. Era il permesso ufficiale di combinare interviste “visive”, previo assenso degli intervistati, che nondimeno erano invitati a dare la massima cooperazione agli “agenti Baley e Olivaw”.

Attlebish aveva capitolato, fino al limite di mettere il nome di Baley per primo. Era un eccellente auspicio per cominciare, finalmente, un'investigazione condotta come avrebbe dovuto esserlo.


Baley era ancora su un veicolo aereo, come in quel viaggio da New York a Washington. Questa volta però c'era una differenza: il veicolo non era ermeticamente chiuso. I finestrini erano stati lasciati trasparenti.

Era un giorno chiaro e luminoso e da dove Baley sedeva i finestrini apparivano come tanti riquadri blu. Spietatamente senza particolari. Cercò di non aggomitolarsi. Seppellì il capo tra le ginocchia solo quando non poté più assolutamente farne a meno.

La sfida era stato lui a sceglierla. Quasi lo pretendevano il suo stato di trionfo, l'insolito senso di libertà per aver battuto prima Attlebish e poi Daneel e l'aver sostenuto la dignità della Terra contro gli spaziali.

Aveva incominciato attraversando uno spazio.aperto fino a un aereo in attesa, con la testa leggera che gli girava in modo quasi piacevole, e aveva ordinato di non schermare le finestre in una specie di maniacale sicurezza di sé.

Devo abituarmici, aveva pensato, e aveva continuato a fissare il blu finché il cuore non gli si era messo a battere rapidamente e il groppo in gola non gli si era gonfiato oltremisura.

Dovette chiudere gli occhi e seppellire il capo sotto la protezione delle braccia a intervalli sempre più brevi. Lentamente la sua sicurezza svanì e neppure il contatto con là fondina del fulminatore appena ricaricato poté invertire la corrente.

Tentò di tenere la mente applicata al suo piano di attacco. Per prima cosa imparare gli usi del pianeta. Disegnare il sottofondo contro cui ogni cosa doveva essere collocata, pena il continuare a non capirci nulla.

Vedere un sociologo!

Aveva chiesto a un robot il nome del sociologo più eminente di Solaria. E c'era stato il conforto che i robot non fanno domande.

Il robot aveva dato nome e curriculum e si era fermato a far notare che probabilmente il sociologo sarebbe stato a pranzo e che quindi sarebbe stato possibile che chiedesse di ritardare l'incontro.

«A pranzo!» aveva esclamato Baley. «Non essere ridicolo. Non sarà mezzogiorno prima di due ore.»

«Sto usando il tempo locale, padrone» aveva chiarito il robot.

Baley era rimasto un istante a fissarlo, poi aveva capito. Sulla Terra, con le sue Città sepolte, giorno e notte, dormendo e svegliandosi, c'erano periodi a misura d'uomo, adatti alle necessità delle comunità e del pianeta. Su un pianeta come questo, esposto al sole senza riparo, giorno e notte non erano affatto una questione di scelta, ma un'imposizione all'uomo, volente o nolente.

Baley aveva cercato di rappresentarsi un mondo come una sfera accesa e spenta man mano che girava. Vi era riuscito a malapena, disprezzando i cosiddetti superiori spaziali che lasciavano che una cosa essenziale come il tempo fosse imposta loro dalle bizzarrie dei movimenti planetari.

«Chiamalo lo stesso» aveva detto infine.


Quando l'aereo atterrò c'erano dei robot ad aspettarlo e, uscendo di nuovo all'aperto, Baley si trovò a tremare come una foglia.

«Fammi appoggiare al tuo braccio, ragazzo» borbottò al robot più vicino.

Il sociologo lo aspettava all'altra estremità di una lunga sala, sorridendo teso. «Buon giorno, mister Baley.»

Baley annuì senza fiato. «Buon giorno, signore. Le dispiacerebbe schermare le finestre?»

«Sono già schermate» rispose il sociologo. «Conosco un po' degli usi della Terra. Vuole seguirmi?»

Baley si costrinse a farlo senza aiuto dei robot, attraversando un labirinto di saloni. Quando finalmente poté sedere in una grande ed elaborata sala, fu felice dell'opportunità di riposare.

I muri della sala erano pieni di alcove curve e profonde. Ogni nicchia era occupata da una statua in rosa e oro: figure astratte che compiacevano l'occhio senza rendere un significato immediato. Un grosso aggeggio a forma di scatola con bianchi oggetti cilindrici che tintinnavano e numerosi pedali dava l'impressione di essere uno strumento musicale.

Baley guardò il sociologo che stava in piedi davanti a lui. Lo spaziale aveva lo stesso aspetto di quando Baley l'aveva visionato qualche tempo prima. Era alto e sottile, con i capelli completamente bianchi. Aveva un sorprendente volto triangolare, col naso prominente e gli occhi vivi e infossati.

Si chiamava Anselmo Quemot.

Continuarono a fissarsi l'un l'altro, finché Baley non fu certo che la voce gli era tornata ragionevolmente normale. E le sue prime parole non avevano nulla a che fare con l'investigazione. In effetti non erano quelle che aveva intenzione di dire.

Disse: «Potrei avere un drink?».

«Un drink?» La voce del sociologo era un po' troppo acuta per risultare piacevole. «Desidera dell'acqua?»

«Preferirei qualcosa di alcolico.»

Lo sguardo del sociologo era sempre più infelice, come se gli obblighi dell'ospitalità fossero qualcosa cui non era abituato.

E questo, pensò Baley, era vero alla lettera. In un mondo in cui ci si visionava, non esistevano divisioni di cibo e di bevande.

Un robot gli portò una piccola e delicata tazzina smaltata. Il drink era leggermente rosaceo. Baley lo odorò con cautela, poi lo assaggiò con una cautela anche maggiore. Il piccolo sorso di liquido gli evaporò caldo in bocca e gli mandò un piacevole messaggio per tutta la lunghezza dell'esofago. Il sorso successivo fu più sostanzioso.

«Se ne vuole un altro…» disse Quemot.

«No, grazie, non ora. È stato gentile, signore, ad accettare di vedermi.»

Quemot tentò di sorridere, senza visibilmente riuscirci. «È passato un sacco di tempo, da quando ho fatto una cosa del genere. Sì.»

Quasi si contorceva mentre parlava.

«Immagino che lo troverà piuttosto duro.»

«Completamente.» Quemot si voltò di scatto e andò a rifugiarsi nel lato opposto del salone. Girò una sedia in modo da essere più voltato altrove che verso Baley e sedette. Intrecciò le mani guantate, con le narici che sembravano fremergli.

Baley finì il suo drink. Sentiva calore sulle labbra e anche tornargli la fiducia in se stesso.

«Che cosa prova esattamente» disse «con me qui, dottor Quemot?»

«Questa è una domanda molto personale» borbottò il sociologo.

«Lo so. Ma credo di averle spiegato, quando l'ho visionata prima, che sono stato incaricato di investigare su un omicidio, e che vorrei farle molte domande, alcune delle quali sono necessariamente personali.»

«L'aiuterò se posso» disse Quemot. «Sperò solo che le domande siano decenti.» Mentre parlava continuava a guardare altrove. Quando gli occhi gli si posavano sul volto di Baley, non indugiavano, ma scivolavano subito via.

«Non voglio parlare delle sue sensazioni» disse Baley «per curiosità. È essenziale ai fini investigativi.»

«Non vedo come.»

«Su questo mondo devo sapere più che posso. Devo capire come si sentono i solariani relativamente alle questioni di tutti i giorni. Capisce?»

Ora Quemot non guardava più Baley, nemmeno per sbaglio. Disse lentamente: «Dieci anni fa è morta mia moglie. Vederla non era mai stata una cosa facile, ma col tempo uno impara a sopportare certe cose e lei non era invadente. Non me n'è stata assegnata un'altra, poiché ormai avevo passato l'età del… del…» guardava Baley come se gli chiedesse di completare la frase e, poiché Baley non lo faceva, proseguì con voce più bassa «generare. Senza nemmeno una moglie ho perso sempre di più l'abitudine a questo fenomeno del vedere».

«Ma come ci si sente?» insistette Baley. «Le viene il panico?» Pensava a se stesso nell'aereo.

«No. Niente panico.» Quemot girò leggermente il capo per dare un'occhiata a Baley e lo ritirò quasi all'istante. «Ma sarò franco, mister Baley. Ho l'impressione di sentire il suo odore.»

Automaticamente Baley si ritrasse sulla sedia, con un senso di penosa autocoscienza. «Il mio odore?»

«Del tutto immaginario, naturalmente» disse Quemot. «Non posso dire se lei ha un odore né quanto possa essere pungente ma, anche se l'avesse pungente, i filtri che ho nel naso non me lo farebbero percepire. Eppure l'immaginazione…» Scrollò le spalle.

«Capisco.»

«E c'è di peggio. Lei mi perdonerà, mister Baley, ma con l'effettiva presenza di un essere umano io mi sento fortemente come se qualcosa di melmoso stesse per toccarmi. Continuo a ritirarmi per il disgusto. È molto spiacevole.»

Baley si fregò l'orecchio pensierosamente e lottò per non seccarsi. Dopo tutto era la nevrotica reazione dell'altro a un semplice stato d'affari.

«Ma se è così,» obiettò «sono sorpreso che lei abbia acconsentito tanto prontamente a vedermi. Certo aveva previsto questa spiacevolezza.»

«Infatti. Ma, sa, ero curioso. Lei è un terrestre.»

Baley pensò sardonicamente che quello avrebbe potuto essere un altro argomento contro il fatto di vedersi, ma si limitò a dire: «E come mai?».

Nella voce di Quemot apparve una specie di scattante entusiasmo. «Non è cosa che possa spiegare facilmente. Neanche a me stesso, in realtà. Ma sono dieci anni che esercito la sociologia. E ha funzionato. Ho sviluppato proposizioni del tutto nuove e sorprendenti, pur restando vere alla base. È una di quelle proposizioni che mi fa provare il massimo interesse per la Terra e per i terrestri. Vede, se considerasse con attenzione la società di Solaria con i suoi usi e costumi, le diventerebbe ovvio che detti costumi e società si sono modellati in modo diretto e immediato su quelli della Terra stessa.»

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