4. Appare una aonna

Finalmente riuscì a dormire. Non ricordava quando era avvenuta l'effettiva transizione al sonno. C'era stato un periodo in cui i pensieri avevano incominciato a vagare sempre di più e poi la testiera del letto brillava e il soffitto risplendeva di una luce simile a quella del giorno. Guardò il suo orologio.

Erano passate delle ore. I robot che gestivano la casa avevano deciso che per lui era ora di svegliarsi e avevano agito di conseguenza.

Si chiese se Daneel fosse sveglio e si rese immediatamente conto dell'illogicità di questa idea. Daneel non poteva dormire. Baley si chiese se avesse finto il sonno come parte del ruolo che stava giocando. Si era spogliato e si era messo il pigiama?

Lupus in fabula, Daneel entrò. «Buon giorno, collega Elijah.»

Il robot era completamente vestito e aveva il volto del tutto riposato. «Hai dormito bene?» continuò.

«Sì,» rispose Baley asciutto «e tu?»

Uscì dal letto per camminare pesantemente fino al bagno, per farsi la barba e per il resto del rituale mattutino. «Se un robot viene a farmi la barba,» gridò «rimandalo via. Mi danno sui nervi. Mi danno sui nervi anche quando non li vedo.»

Mentre si radeva fissava il suo volto, meravigliandosi un poco che assomigliasse a quello che vedeva nello specchio di casa sua sulla Terra. Se solo l'immagine fosse stata un altro terrestre con cui consultarsi, invece di una sua imitazione luminosa… Se solo avesse potuto andarsene con quello che aveva saputo, per quanto fosse poco…

«Troppo poco! Trova dell'altro!» borbottò rivolto allo specchio.

Venne fuori asciugandosi la faccia e s'infilò i pantaloni sopra le mutande pulite. (I robot fornivano tutto, maledetti.)

«Vorresti rispondere a qualche domanda, Daneel?» chiese.

«Come ben sai, collega Elijah, rispondo a tutte le domande al meglio della mia conoscenza.»

O alla lettera delle tue istruzioni, pensò Baley. «Perché su Solaria ci sono solo ventimila persone?» continuò.

«È solo un fatto» rispose Daneel. «Un dato. Una cifra che è il risultato di un conteggio.»

«Sì, ma tu stai cambiando discorso. Il pianeta può mantenerne milioni… E allora perché solo ventimila? Hai detto che Solaria considera ventimila un optimum. Perché?»

«È il loro modo di vivere.»

«Vuoi dire che controllano le nascite?»

«Sì.»

«E lasciano il pianeta vuoto?» Baley non era sicuro del perché continuasse a insistere su quel punto, ma la popolazione del pianeta era uno dei pochi fatti obiettivi che era venuto a sapere e c'era poco altro su cui potesse far domande.

«Il pianeta non è vuoto» rispose Daneel. «È suddiviso in tenute, ciascuna delle quali è supervisionata da un solariano.»

«Vuoi dire che ciascuno vive nella sua tenuta. Ventimila tenute, ciascuna con un solariano.»

«Di meno, collega Elijah. Dividono le tenute con le mogli.»

«Niente Città?» Baley sentiva freddo.

«Neanche una, collega Elijah. Vivono completamente separati e non s'incontrano mai, se non in alcune circostanze assolutamente straordinarie.»

«Eremiti?»

«In un certo senso sì; in un altro, no.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Ieri l'agente Gruer ti ha visitato via immagine tridimensionale. I solariani si visitano liberamente in quel modo e in nessun altro.»

Baley fissava Daneel. «Questo include noi?» chiese. «Sì aspettano che anche noi viviamo in questo modo?»

«È l'uso di questo pianeta.»

«E come facciamo a investigare in questo caso? Se voglio vedere qualcuno…»

«Collega Elijah, da questa casa puoi ottenere l'immagine tridimensionale di chiunque sul pianeta. Non ci sarà problema. Anzi, ti solleverà dalla seccatura di lasciare questa casa. Ecco perché quando siamo arrivati ti ho detto che non sarebbe stato necessario per te affrontare l'esterno. E questo è bene. Qualunque altra sistemazione ti sarebbe riuscita sgradevole.»

«Lo giudico io, quello che è sgradevole per me» dichiarò Baley. «Oggi, per prima cosa, entriamo in contatto con quella Gladia, la moglie dell'ucciso. Se questa faccenda tridimensionale fosse insoddisfacente, andrò a casa sua di persona. Dipende da quello che decido.»

«Vedremo quello che è meglio e quello che è più fattibile, collega Elijah» disse Daneel evasivo. «Faccio preparare la colazione.» E si voltò per andarsene.

Baley fissava l'ampia schiena robotica ed era quasi divertito. Se le istruzioni impartite a Daneel erano d'impedire che Baley venisse a conoscenza di più di quanto non fosse necessario, allora avevano messo un jolly in mano a Baley.

L'altro era soltanto R. Daneel Olivaw, dopo tutto. Tutto quello che era necessario era dire a Gruer o a qualunque altro solariano che Daneel era un robot e non un uomo.

D'altra parte la pseudoumanità di Daneel avrebbe potuto essere molto utile. Un jolly non dev'essere giocato necessariamente subito. Qualche volta è più utile tenerselo in mano.

Aspettiamo e vediamo, pensò, e seguì Daneel a fare colazione.

«Come si fa a stabilire un contatto tridimensionale?» chiese Baley.

«Presto fatto, collega Elijah.» Le dita di Daneel raggiunsero uno degli interruttori per chiamare i robot.

Un robot entrò immediatamente.

Chissà da dove vengono, si chiese Baley. Quando uno vagava senza meta per il labirinto disabitato che costituiva la casa, non se ne vedeva neppure uno. Si mettevano fuori tiro non appena si avvicinava un essere umano? Si mandavano messaggi l'un l'altro per sgombrare il percorso?

Eppure, non appena si faceva una chiamata, uno appariva senza indugio.

Baley fissava il nuovo venuto robotico. Era levigato senza essere lucido. La superficie aveva una rifinitura grigiastra, con uno schema a scacchiera sulla spalla destra, unica nota di colore. I quadrati bianchi e gialli (in realtà oro e argento, per lo splendore metallico) erano collocati secondo uno schema che sembrava casuale.

«Portaci al parlatorio» disse Daneel.

Il robot si inchinò e si voltò, senza dir nulla.

«Aspetta, ragazzo» disse Baley. «Come ti chiami?»

Ora il robot stava di fronte a Baley. Parlò con voce chiara e senza esitazione. «Non ho nome, padrone. Il mio numero di serie» e un dito metallico si sollevò ad appoggiarsi sulla decorazione della spalla «è ACX-2745.»

Daneel e Baley lo seguirono in una grande stanza, che Baley riconobbe come quella che il giorno prima aveva contenuto Gruer e la sua sedia.

Li aspettava un altro robot, con quella eterna e paziente incapacità di annoiarsi propria della macchina. Il primo fece un inchino e se andò.

Mentre questi s'inchinava, Baley aveva paragonato le decorazioni sulle spalle dei due. Gli schemi oro e argento erano diversi. La scacchiera era composta di sei per sei quadrati. Il possibile numero di combinazione sarebbe stato 236, allora, cioè settanta miliardi. Più che abbastanza.

«Si direbbe che ci sia un robot per ogni cosa» commentò Baley. «Uno che ci porta fin qui. Uno che aziona il trasmettitore.»

«C'è molta specializzazione robotica su Solaria, collega Elijah.».

«Con tutti quelli che ci sono, riesco a capire anche perché.» Baley guardò il secondo robot. Tranne che per la decorazione sulla spalla e, presumibilmente, per gli invisibili circuiti positronici all'interno dello spugnoso cervello di platino-iridio, era la copia esatta del primo. «E il tuo numero di serie?» chiese.

«ACC-1129, padrone.»

«Ti chiamerò ragazzo. Ora voglio parlare alla signora Gladia Delmarre, moglie del defunto Rikaine Delmarre… Daneel, c'è un indirizzo, un modo qualsiasi d'indicare la località?»

Daneel disse gentilmente: «Non credo che servano altre informazioni. Se posso chiedere al robot…».

«Lascia che lo faccia io» lo interruppe Baley. «Va bene, ragazzo, sai come si può raggiungere la signora?»

«Sì, padrone. Ho in memoria lo schema di connessione con tutti i padroni.» Questo venne detto senza orgoglio di sorta. Era un semplice fatto, come se avesse detto: sono fatto di metallo, padrone.

Daneel interloquì: «Non è poi così sorprendente, collega Elijah. Ci sono meno di diecimila connessioni da fare nei circuiti della memoria, e questo è un piccolo numero».

Baley annuì. «E se per caso c'è più di una Gladia Delmarre? Ci potrebbe essere possibilità di confusione.»

«Padrone?» Dopo la domanda il robot rimase in passivo silenzio.

«Credo» spiegò Daneel «che questo robot non capisca la tua domanda. È mia convinzione che a Solaria non vi siano nomi doppi. I nomi vengono registrati alla nascita e nessun nome può essere adottato finché non è vacante.»

«Va bene» disse Baley. «Ogni minuto se ne impara una. Ora vediamo, ragazzo, dimmi come funziona qualunque cosa si supponga che io debba far funzionare; dammi lo schema di connessione, o comunque tu lo chiami, e poi esci.»

Prima che il robot rispondesse, ci fu una percettibile pausa. Poi disse: «Vuole fare un contatto da solo, signore?».

«Esatto.»

Daneel tirò leggermente Baley per la manica. «Un momento, collega Elijah.»

«Che c'è, ora?»

«È mia convinzione che il robot potrebbe stabilire il contatto con la massima facilità. È la sua specializzazione.»

«Sono certo» disse Baley sogghignando «che può farlo molto meglio di me. Facendolo da solo potrei anche combinare un bel pasticcio.» Fissava negli occhi l'impassibile Daneel. «Preferisco lo stesso essere io a fare il contatto. Li do io gli ordini o no?»

«Li dai tu, collega Elijah, e ai tuoi ordini si obbedirà, se lo permetterà la Prima Legge. Comunque, con il tuo permesso, vorrei darti qualche informazione che conosco sui robot di Solaria. I robot solariani sono specializzati più che su qualsiasi altro mondo. Anche se sono fisicamente capaci di molte cose, mentalmente sono equipaggiati in modo massiccio per un solo tipo di lavoro. Per operare funzioni al di fuori della loro specialità ci vuole l'alto potenziale prodotto dalla diretta applicazione delle Tre Leggi. E per loro non eseguire il dovere per cui sono equipaggiati richiede la diretta applicazione delle Tre Leggi.»

«Bene, allora un mio ordine diretto mette in azione la Seconda Legge, no?»

«Esatto. Però il potenziale rilasciato è “spiacevole” per il robot. Di solito la questione non si pone nemmeno, perché un solariano non interferisce quasi mai con il lavoro quotidiano dei robot. Intanto, al lavoro dei robot non fa nemmeno caso, e poi non ne sentirebbe la necessità.»

«Daneel, stai cercando di dirmi che se il lavoro lo faccio io, questo fa male al robot?»

«Come ben sai, collega Elijah, il dolore in senso umano non è applicabile alle reazioni robotiche.»

Baley scrollò le spalle. «E allora?»

«Nondimeno,» proseguì Daneel «l'esperienza a cui va incontro un robot è per lui sconvolgente come il dolore per un essere umano, per quel che posso giudicare.»

«Tuttavia,» disse Baley «io non sono solariano. Sono terrestre. E non mi piace quando i robot fanno qualcosa che vorrei fare io.»

«Considera anche» ribatté Daneel «che causare disagio a un robot potrebbe essere ritenuto un atto di maleducazione da parte dei nostri ospiti, visto che in una società come questa ci dev'essere un certo numero di convinzioni più o meno rigide su quale sia la maniera corretta di trattare un robot. Offendere i nostri ospiti non renderebbe certo più facile il nostro compito.»

«Va bene» si arrese Baley. «Lasciamo fare il suo lavoro al robot.»

Si era calmato. L'incidente non era stato senza costrutto. Era un esempio educativo di quanto spietata potesse essere una società robotica. Una volta creati, i robot non si potevano escludere con tanta facilità, e un essere umano che desiderasse farne a meno, sia pure temporaneamente, non poteva.

Con gli occhi semichiusi osservava il robot che si avvicinava al muro. Che i sociologi della Terra esaminassero quello che era appena successo e ne traessero le loro conclusioni. Lui cominciava ad avere idee per conto suo.


Metà muro scivolò da una parte, rivelando un pannello di controllo che avrebbe reso giustizia alla centrale di energia di zona di una Città.

A Baley mancava enormemente la pipa. Era stato avvertito che su Solaria, dove non si fumava, fumare sarebbe stata una tremenda infrazione all'etichetta, cosi non gli era stato permesso di portare con sé nulla che lo ricordasse. Sospirò. C'erano dei momenti in cui la sensazione del cannello tra i denti e il fornello caldo nella mano sarebbero stati infinitamente confortanti.

Il robot lavorava con rapidità, adattando qua e là resistenze variabili e intensificando, secondo uno schema adatto, i campi di forza con rapidi tocchi delle dita.

Daneel spiegò: «Prima è necessario fare segnali alla persona che si desidera incontrare. Questo messaggio, naturalmente, lo riceverà un robot. Se la persona chiamata è disponibile e desidera ricevere l'immagine, allora viene stabilito il contatto pieno».

«Ma sono necessari tutti questi comandi?» chiese Baley. «La maggior parte del pannello il robot non la tocca nemmeno.»

«Le mie informazioni sull'argomento non sono complete, collega Elijah. Comunque c'è ogni tanto la necessità, quando capita il caso, di realizzare immagini multiple e immagini mobili. Le ultime, in particolare, richiedono complicati e continui aggiustamenti.»

Il robot disse: «Padrone, i contatti sono stati stabiliti e approvati. Quando lei è pronto, saranno completati».

«Pronto» grugnì Baley, e come se la parola fosse stata un segnale, metà della stanza si ravvivò di luce.


Daneel si affrettò a dire: «Ho trascurato di far specificare al robot che tutte le aperture visibili sull'esterno fossero schermate. Me ne scuso e vedrò di…»

«Non importa» fece Baley con una smorfia dolorosa. «Mi arrangerò. Non interferire.»

Era una stanza da bagno che stava fissando, o almeno la giudicò tale dai suoi accessori. A un'estremità c'era, tirò a indovinare, una specie di salone di bellezza e vide con l'immaginazione un robot (o dei robot?) che si occupava con infallibile prontezza dei particolari della pettinatura e dei dettagli esteriori dell'immagine che una donna presenta al mondo.

Su alcuni ammennicoli si limitò ad arrendersi. Non c'era modo di giudicarne l'uso, mancandogli ogni esperienza. I muri erano ricoperti di uno schema complicato che prima di ricadere nell'astrazione induceva l'occhio a credere che vi fosse rappresentato qualche oggetto naturale. Il risultato era calmante, quasi ipnotico nel modo con cui monopolizzava l'attenzione.

Quella che avrebbe potuto essere la doccia, molto grande, non era schermata da nulla che potesse sembrare materiale, ma piuttosto da un trucco luminoso che instaurava una specie di muro di opacità. Non c'era in vista alcun essere umano.

Lo sguardo di Baley s'indirizzò al pavimento. Dove finiva il suo locale e dove cominciava l'altro? Era facile a dirsi. C'era una linea in cui cambiava la qualità della luce, e doveva essere là.

Camminò fino alla linea e, dopo un momento di esitazione, fece passare la mano al di là.

Non sentì nulla, niente di più che se avesse cacciato la mano in una delle rozze immagini tridimensionali della Terra. Ma là, almeno, la sua mano avrebbe continuato a vederla; forse un po' nebulosa e sovrapposta all'immagine, ma l'avrebbe vista. Qui era sparita completamente. Per la sua vista il braccio gli finiva bruscamente al polso.

Se avesse attraversato la linea con tutto il corpo? Probabilmente anche la vista avrebbe cessato di funzionargli. Sarebbe stato in un mondo di completa oscurità. L'idea di essere recluso in modo tanto efficiente era quasi piacevole.

Una voce lo interruppe. Alzò gli occhi e retrocedette, quasi inciampando per la fretta.

A parlare era stata Gladia Delmarre. O almeno Baley suppose che fosse lei. La parte superiore della copertura di luce sulla doccia era svanita ed era chiaramente visibile una testa.

Sorrise a Baley. «Ho detto salve, e scusi se l'ho fatta aspettare. Mi asciugo subito.»

Aveva un volto triangolare che si allargava sugli zigomi (che a loro volta diventavano sporgenti quando lei sorrideva) per poi restringersi in una curva gentile all'altezza delle labbra piene e del piccolo mento. La testa non era situata molto in alto. Baley giudicò che dovesse essere alta uno e sessanta. (Questo non era tipico. Almeno non per il modo di pensare di Baley. Si supponeva che le donne spaziali tendessero a essere alte e imponenti.) E la sua capigliatura non era bronzo-spaziale. Era castano chiara con sfumature bionde, e di lunghezza moderata. In quel momento era rialzata in quello che Baley immaginò essere una corrente d'aria calda. Tutta l'immagine era molto piacevole.

Confuso, Baley esclamò: «Se vuole interrompere il contatto e aspettare di aver finito…».

«Oh, no. Ho quasi fatto, e frattanto possiamo parlare. Hannis Gruer mi ha detto che si sarebbe fatto vivo. Lei viene dalla Terra, ho saputo.» Se lo beveva con gli occhi.

Baley annuì e sedette. «Il mio compagno è di Aurora.»

Lei sorrise, continuando a fissarlo come se rimanesse lui la curiosità, e naturalmente, pensò Baley, era proprio così.

La donna alzò le braccia sulla testa, agitando le dita nell'aria calda e allargandole come se volesse affrettare l'operazione di asciugatura. Aveva braccia sottili e ben fatte. Molto attraente, pensò Baley.

Poi pensò ancora, a disagio: a Jessie tutto questo non piacerebbe.

La voce di Daneel s'intromise. «Non sarebbe possibile, signora Delmarre, fare polarizzare o schermare la finestra? Il mio collega è disturbato dalla luce del giorno. Sulla Terra, come certo avrà sentito…»

La giovane donna (Baley stimava che fosse sui venticinque, ma lo affliggeva il pensiero che l'età apparente degli spaziali potesse essere molto ingannevole) portò le mani alle guance ed esclamò: «Oddio, sì, lo sapevo. Che stupida. Mi perdoni, la prego, ci metterò un momento. Faccio venire un robot…».

Uscì dalla cabina, con la mano tesa verso l'interruttore, ancora parlando. «Penso sempre che dovrei avere più di un interruttore di chiamata in questa stanza. Una casa non è ben fatta se non hai un interruttore a portata di mano dovunque tu sia… Diciamo non più in là di un metro. È proprio… Ma che le succede?»

Fissava scioccata Baley che era scattato in piedi, facendo cadere la sedia, era arrossito fino alla radice dei capelli e si era affrettato a voltarsi.

Daneel parlò calmo. «Sarebbe meglio, signora Delmarre, se, dopo aver ottenuto il contatto con il robot, ritornasse nella cabina o, in mancanza di questo, procedesse a indossare alcuni articoli di vestiario.»

Sorpresa Gladia abbassò gli occhi a contemplare la propria nudità e disse: «Be', naturalmente».

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