XVII LA LEGGENDA DELLO STUDIOSO E DI SUO FIGLIO

Parte prima — La Città dei Maghi

Una volta, ai margini del mare inseminato, esisteva una città dalle torri pallide. In essa vivevano i sapienti. Ora, quella città aveva una legge e una maledizione. La legge era questa: per tutti coloro che dimoravano fra le sue mura, la vita offriva due sole possibilità: potevano entrare a far parte dei sapienti e indossare cappucci di innumerevoli colori, oppure dovevano abbandonare la città per avventurarsi nel mondo avverso.

Un tale aveva studiato a lungo tutta la magia conosciuta nella città, che era quasi tutta la magia nota al mondo, e si stava avvicinando al momento in cui avrebbe dovuto fare la sua scelta. Nel mezzo dell’estate, quando i fiori dalle corolle gialle e allegre spuntano persino dalle cupe mura affacciate sul mare, egli si recò da uno dei sapienti che aveva il viso velato da una miriade di colori da talmente tanto tempo che oramai quasi nessuno lo ricordava, e che pure da lungo tempo aveva insegnato allo studioso per il quale si stava approssimando il momento della scelta. — E gli disse: — Come potrò, pur non sapendo niente, ottenere un posto fra i sapienti della città? Io desidero studiare incantesimi che non sono sacri per il resto della mia vita e non intendo avventurarmi nel mondo avverso a scavare e a portare pesi per guadagnarmi il pane.

Allora il vecchio scoppiò a ridere e rispose: — Ricordi, quando eri poco più di un ragazzo, come ti insegnai l’arte in virtù della quale doniamo la carne ai figli, traendoli dalla sostanza dei sogni? Come eri abile a quei tempi e come eccellevi su tutti gli altri! Vai adesso, e dona la carne a un figlio, e io lo mostrerò agli incappucciati. Allora tu sarai uno di noi.

Ma lo studioso ribatté: — La prossima stagione. Lasciamo trascorrere un’altra stagione e poi farò tutto quello che mi hai detto.

Giunse l’autunno e i sicomori della città dalle torri pallide, che le alte mura proteggevano dai venti marini, persero le foglie simili all’oro lavorato dai loro padroni. Le oche selvatiche si ripararono fra le torri pallide, quindi arrivarono le ossifraghe e i lammergeir. Allora il vecchio fece chiamare nuovamente colui che era stato suo allievo e disse: — Ora, sicuramente, è il momento di donare la carne a una creatura dei sogni, come ti ho consigliato. Gli altri incappucciati si stanno spazientendo. A parte noi, tu sei il più vecchio della città ed e probabile che se non agirai ora, prima dell’inverno ti scacceranno.

Ma lo studioso rispose: — Devo studiare ancora per poter trovare quello che sto cercando. Non puoi concedermi un’altra stagione? — Il vecchio che era stato suo insegnante pensò alla bellezza degli alberi che per tanti anni avevano dilettato i suoi occhi al pari delle candide membra femminili.

Infine passò anche l’autunno dorato e l’inverno giunse altezzoso dalla sua gelida capitale, dove il sole rotola lungo l’orlo del mondo come una palla di gingilli e i fuochi che fluiscono fra le stelle e Urth infiammano il ciclo. Il suo tocco tramutò le onde in acciaio e la città dei maghi gli diede il benvenuto appendendo stendardi di ghiaccio ai balconi e ammassando neve sui tetti. Il vecchio mandò nuovamente a chiamare il suo discepolo e questi rispose come le volte precedenti.

Venne la primavera e recò gioia in tutta la natura; ma la città fu parata a lutto e sui maghi si abbatterono l’odio e la repulsione per i loro poteri, che rodono il cuore come vermi. Perché la città aveva una sola legge e una sola maledizione, e mentre la legge regnava per tutto l’anno, la maledizione prendeva il sopravvento in primavera. In quella stagione, le più belle fanciulle della città, le figlie dei maghi, venivano vestite di verde e mentre i tiepidi venti primaverili giocavano con i loro capelli d’oro, esse oltrepassavano scalze la porta della città e scendevano lo stretto sentiero che conduceva al porto per poi salire a bordo della nave con le vele nere che le stava aspettando. E dal momento che avevano i capelli d’oro e i vestiti di paglia verde, e poiché ai maghi sembrava che venissero mietute come cereali, venivano chiamate le Fanciulle Mais.

Quando l’uomo che era stato a lungo discepolo ma che ancora non indossava il cappuccio sentì le trenodie e i lamenti, e guardando dalla finestra scorse le fanciulle, abbandonò tutti i libri e iniziò a tracciare figure quali nessun uomo aveva mai visto, e prese a scrivere in molti linguaggi, come gli era stato insegnato in passato dal suo maestro.

Parte seconda — La nascita dell’eroe

L’uomo lavorò per giorni e giorni. Quando l’alba spuntava alla finestra, la sua penna faticava già da molte ore; e quando la luna s’incastrava con il dorso gobbo fra le torri pallide, la sua lampada risplendeva luminosa. In principio gli parve che tutta la scienza infusa in lui dal suo maestro l’avesse abbandonato, perché dalle prime luci del giorno fino al chiaro di luna era solo nella sua casa; l’unica compagna era una falena che talvolta andava a svolazzare intorno alla fiamma della sua candela, mostrandogli le insegne della Morte.

In un secondo tempo, quando gli capitava di addormentarsi al suo tavolo, nei sogni iniziò a penetrare un altro essere; e l’uomo, sapendo chi fosse, lo accoglieva con gioia, nonostante quei sogni fossero fugaci e ben presto li dimenticava.

Continuava a lavorare e quello che egli si sforzava di creare gli si radunava intorno come il fumo si riunisce intorno al combustibile gettato su un fuoco quasi spento. A volte (soprattutto quando lavorava molto presto o molto tardi e quando, dopo aver deposto tutti gli strumenti della sua arte, si stendeva finalmente sul piccolo giaciglio assegnato a coloro che non avevano ancora ricevuto il cappuccio multicolore) distingueva in una stanza vicina il passo dell’uomo che desiderava chiamare alla vita.

Con il passare del tempo tali apparizioni, dapprima rare e limitate quasi esclusivamente alle notti nelle quali il tuono rombava fra le torri pallide, si fecero più usuali; e lo studioso imparò a riconoscere i segnali legati alla presenza dell’altro: un libro che da decenni non veniva tolto dallo scaffale e che all’improvviso vedeva vicino a una sedia; finestre e porte che sembravano spalancarsi da sole; un antico alfange, che per anni era stato una decorazione poco più pericolosa di un dipinto trompe-l’oeil, perfettamente ripulito dalla sua patina, luminoso e affilato di recente.

In un dorato pomeriggio, mentre il vento giocava gli innocenti giochi dell’infanzia con i sicomori rivestiti delle nuove foglie, l’uomo sentì bussare alla porta dello studio. Senza avere il coraggio di voltarsi e di rivelare con la sua voce nemmeno la minima parte di quello che provava, e senza smettere di lavorare, gridò: — Entra.

Come le porte si aprono a mezzanotte quando nessun essere vivente si muove, la porta iniziò a schiudersi lentamente, poco alla volta. Ma, mentre si muoveva, sembrava acquistare energia, così che quando alla fine si aprì (a giudicare dal suono) abbastanza da poter infilare una mano nella stanza, sembrò che la brezza giocosa stesse entrando dalla finestra per infondere vita nel suo cuore di legno. E quando si aprì ancora di più, come l’uomo dedusse dal rumore, in modo che un ilota diffidente potesse entrare con un vassoio, parve che un vento marino di tempesta la prendesse e la sbattesse contro la parete. Allora l’uomo udì i passi rapidi e decisi alle sue spalle e una voce deferente e giovane, ma già profonda e matura, lo apostrofò dicendo: — Padre, io non amo disturbarti mentre sei intento al tuo lavoro. Ma il mio cuore è tristemente turbato, ormai da molti giorni, e per l’amore che mi porti ti scongiuro di perdonare la mia intrusione e di darmi consiglio nel mio dubbio.

Solo allora lo studioso ebbe il coraggio di voltarsi e vide dinnanzi a sé un giovane dal portamento maestoso, con le spalle larghe e la figura robusta. La bocca era autoritaria, gli occhi luminosi e intelligenti, e rutto il viso esprimeva coraggio. La sua fronte era ornata da quella corona che è invisibile a ogni occhio e che tuttavia può essere scorta anche dai ciechi; la corona senza prezzo che attira i coraggiosi intorno a un paladino e che rende valorosi i deboli. Allora lo studioso disse: — Figlio mio, non aver paura di disturbarmi, né ora né mai, perché non c’è nulla sotto il cielo che io gradisca vedere più del tuo volto. Cosa ti turba?

— Padre — rispose il giovane, — tutte le notti, ormai da molto tempo, il mio sonno è rotto dalle urla di numerose donne e spesso ho visto, come un serpente attratto dalle note di un flauto, una colonna verde scivolare sulla scogliera sotto la città, fino al porto. E a volte, in sogno, mi è concesso avvicinarmi, e allora vedo che tutte coloro che camminano in quella colonna sono donne bionde, che piangono, gridano e ondeggiano, e sembrano un campo di grano giovane e percosso da un vento lamentoso. Quale è il significato di questo sogno?

— Figlio mio — rispose lo studioso, — è giunto il momento di rivelarti quello che finora ti ho tenuto celato nel timore che, spinto dall’impulsività tipica della gioventù, tu osassi troppo prima del momento giusto. Sappi che questa città è dominata da un orco, il quale ogni anno esige in tributo le sue figlie più belle, come tu hai potuto vedere nel sogno.

A tali parole gli occhi del giovane lampeggiarono. — E chi è questo orco, quale è il suo aspetto e dove vive? — chiese.

— Nessuno conosce il suo nome, dal momento che nessuno gli si può avvicinare abbastanza. La sua forma è quella di un naviscaput, che agli uomini appare come una nave con un unico castello sul ponte, in realtà la testa sulle spalle, e con un solo occhio nel castello. Il suo corpo nuota nelle acque più profonde con la razza e lo squalo, e ha le braccia più lunghe dei più alti alberi delle navi e gambe simili a piloni che raggiungono il fondo del mare. Il suo porto è un’isola dell’occidente, dove un canale con molte diramazioni, dividendosi e dividendosi ancora, penetra nell’entroterra. È su quell’isola, così dice il mio sapere, che sono costrette a prendere dimora le Fanciulle Mais, e là egli sta all’ancora in mezzo a loro, girando gli occhi a destra e a sinistra per vederle in preda alla disperazione.

Parte terza — L’incontro con la principessa

Allora il giovane si mise a radunare intorno a sé altri giovani della città dei maghi per formare un equipaggio e ottenne da coloro che indossavano i cappucci multicolori una solida nave; per tutta quell’estate lui e i suoi compagni la corazzarono e montarono sulle sue fiancate l’artiglieria più potente, si esercitarono ad alzare e a regolare le vele e a sparare con i cannoni, finché la nave obbedì ai loro comandi come una giumenta domata. Spinti dalla pietà che provavano per le Fanciulle Mais, la chiamarono Terra delle Vergini.

Finalmente, quando le foglie dorate si staccarono dai rami dei sicomori (come l’oro fabbricato dai maghi infine cade dalle mani degli uomini) e le grigie oche selvatiche sorvolarono le torri pallide della città seguite dai lammergeir e dalle ossifraghe, i giovani partirono. Molte avventure che vissero lungo la strada delle balene non possono trovare posto qui, ma un giorno le vedette scorsero davanti a loro una terra di bionde colline costellate di verde e mentre si schermavano con le mani per guardarle, il verde aumentava. Allora il giovane a cui lo studioso aveva donato la carne capì che quella era davvero l’isola dell’orco e che le Fanciulle Mais si stavano affrettando verso la spiaggia perché avevano visto la sua vela.

Vennero preparati i grandi cannoni e le bandiere della città dei maghi, gialle e nere, furono issate sui pennoni. Si avvicinarono sempre più fino a quando, per paura di incagliarsi nella sabbia, virarono e iniziarono a costeggiare l’isola. Le Fanciulle Mais li seguirono, chiamando le loro sorelle fino a coprire tutta la terra come dei veri cereali. Ma il giovane non dimenticò quello che gli era stato detto: che l’orco viveva fra le giovani.

Dopo aver navigato per mezza giornata, doppiarono una punta e videro che la costa si divideva formando un profondo canale senza fine che si snodava tra le dolci colline dell’isola fino a scomparire allo sguardo. All’entrata del canale si innalzava un padiglione di marmo bianco circondato da giardini, e là il giovane ordinò ai compagni di calare l’àncora, quindi scese a terra.

Aveva appena posato il piede sul terreno dell’isola quando gli andò incontro una donna bellissima, con la carnagione olivastra, gli occhi splendenti e i capelli neri. Le rivolse un inchino e disse: — Principessa, o regina, vedo che non sei una delle Fanciulle Mais. I loro abiti sono verdi, i tuoi neri. E anche se indossassi un vestito verde, ti distinguerei comunque da loro perché i tuoi occhi non sono gonfi di dolore e la luce che vi splende non è quella di Urth.

— Tu dici il vero — rispose la principessa, — perché io sono Noctua, la figlia della Notte, e sono anche figlia di colui che tu sei venuto a uccidere.

— Allora non è possibile per noi essere amici, Noctua — disse il giovane. — Ma almeno non siamo nemici. — Infatti, pur non riuscendo a capirne il motivo, essendo fatto della sostanza dei sogni si sentiva attratto da lei; e lei, che aveva negli occhi la luce delle stelle, era attratta da lui.

A quelle parole la principessa allargò le braccia e spiegò: — Sappi che mio padre ebbe mia madre con la forza e mi trattiene qui contro la mia volontà; e avrei già perso la ragione se mia madre non venisse a me al termine di ogni giorno. Se tu non leggi angoscia nei miei occhi, è solo perché la tengo racchiusa nel mio cuore. Per acquistare la libertà, ti spiegherò come combattere contro mio padre in modo da poter vincere.

I giovani della città dei maghi tacquero e si radunarono intorno a lei.

— Per prima cosa devi sapere che i canali di quest’isola hanno talmente tante svolte che non è possibile farne una mappa. Non puoi assolutamente servirti delle vele per percorrerli, ma devi accendere le caldaie.

— Questo non è un problema — disse il giovane incarnato dai sogni. — Metà di una foresta è stata abbattuta per colmare la nostra stiva e le grandi ruote che vedi gireranno su queste acque con movimenti da gigante.

La principessa tremò e disse: — Oh, non parlare di giganti, perché non sai quello che stai dicendo. Molte navi uguali alla tua sono giunte qui, e adesso i fondali fangosi di quei canali infiniti biancheggiano di teschi. Mio padre le lascia vagare fra le isolette e gli stretti fino a quando terminano il carburante, per quanto copioso esso sia; poi di notte, quando può vedere gli equipaggi al chiarore dei fuochi morenti ma non può essere visto a sua volta, li annienta.

Il giovane incarnato dai sogni si turbò e disse: — Lo cercheremo come abbiamo giurato di fare. Ma non c’è un modo per sfuggire a una simile sorte?

La principessa fu colta da pietà per lui, perché tutti coloro che sono fatti della sostanza dei sogni appaiono belli alle figlie della Notte, e quel giovane era il più bello di tutti, così gli disse: — Per trovare mio padre prima di aver terminato la legna, non dovrai fare altro che cercare l’acqua più scura, perché ovunque egli passa il suo corpo smisurato solleva il fango immondo; se farai attenzione lo scoprirai. Ma dovrai iniziare la ricerca ogni giorno all’alba e interromperla a mezzogiorno, perché altrimenti potresti imbatterti in lui al tramonto e allora per te sarebbe la rovina.

— Per questo consiglio sarei pronto a dare la mia vita — disse il giovane, e i suoi compagni che l’avevano seguito a terra lo acclamarono. — Ora vinceremo sicuramente l’orco.

A sentire tali parole il volto della principessa si rabbuiò ulteriormente. — No, non è affatto sicuro, perché lui è un terribile rivale in ogni combattimento. Ma io conosco una stratagemma che ti potrà aiutare. Hai detto che sei ben fornito. Possiedi abbastanza catrame da poter turare le eventuali falle della nave?

— Ne ho molti barili — rispose il giovane.

— Allora, quando combatterai, mettiti in modo che il vento soffi verso di lui. E quando la battaglia sarà al culmine, come succederà poco dopo il suo inizio, ordina ai tuoi uomini di gettare il catrame nelle caldaie. Non posso garantirti che in tal modo vincerai, ma ti sarà di grande aiuto.

Allora tutti i giovani si profusero in ringraziamenti e le Fanciulle Mais, che si erano tenute timidamente in disparte mentre il giovane incarnato dai sogni parlava con la figlia della Notte, acclamarono come si addice alle giovani, senza chiasso ma con gioia sincera.

Quindi i giovani si prepararono alla partenza, accendendo i fuochi nelle grandi caldaie fino a quando lo spettro bianco che spinge avanti le navi da qualsiasi parte soffi il vento fece la sua comparsa. La principessa restò a guardarli da riva e diede loro la sua benedizione.

Ma quando le grandi ruote iniziarono a girare, all’inizio così adagio da apparire quasi ferme, la principessa chiamò il giovane incarnato dai sogni e gli disse: — Forse troverai mio padre. Se lo troverai, può essere che tu lo sconfigga, umiliando la sua forza. Tuttavia, anche in tal caso potrebbe essere difficile per voi ritrovare la strada che conduce al mare, perché i canali dell’isola sono incredibilmente tortuosi. Un modo esiste. Leva la pelle dalla punta dell’indice destro di mio padre. Vedrai mille linee aggrovigliate. Non ti scoraggiare e studiala con attenzione, perché quella è la mappa che ha usato per costruire i canali, allo scopo di tenerla sempre con sé.

Parte quarta — La battaglia con l’orco

Indirizzarono la prua verso l’entroterra e, come aveva predetto la principessa, ben presto il canale si divise, quindi si divise ancora, fino a formare mille canali biforcati e diecimila isolette. Quando l’ombra dell’albero maestro si ridusse a un cappello, il giovane incarnato dai sogni ordinò di gettare le ancore e di coprire i fuochi; aspettarono per tutto il lungo pomeriggio, oliando i cannoni e preparando la polvere e tutto quanto potesse servire nella battaglia più violenta.

Infine arrivò la Notte e i giovani la videro passare da un’isoletta all’altra circondata dai pipistrelli e con i terribili lupi come seguito. Non pareva più lontana di una bordata, eppure tutti notarono che non passava davanti a Espero e nemmeno a Sirio: erano quelle stelle a passare davanti a lei. Per un unico istante volse il volto verso di loro e nessuno riuscì a capire che cosa significasse il suo sguardo. Tutti invece si chiesero se veramente l’orco l’avesse presa contro la sua volontà, come aveva detto la figlia, e in tal caso se lei avesse superato il risentimento che poteva aver creduto di provare.

Alle prime luci dell’alba squillò la tromba e i fuochi nascosti furono riattizzati e alimentati di nuovo combustibile; ma quando la brezza dell’alba iniziò a spirare favorevole nel canale che stavano percorrendo, il giovane ordinò di alzare tutte le vele prima che le grandi ruote potessero iniziare a girare. E quando lo spettro bianco si innalzò, la nave procedette a velocità doppia.

Il canale si addentrava nell’isola per molte leghe, non in linea retta ma quasi, al punto che non fu necessario ammainare le vele e nemmeno orientarle. Incrociarono cento altri canali e ogni volta che ne incontravano uno i giovani studiavano l’acqua, ma la vedevano sempre trasparente come il cristallo. Per raccontare tutte le cose strane che videro su quelle isolette occorrerebbero dodici storie lunghe quanto questa: donne che sorgevano come fiori da lunghi steli si allungavano verso la nave e baciando i giovani cercavano di macchiare i loro visi con il polline delle guance; uomini che il vino aveva ucciso da lungo tempo giacevano vicino alle fonti del vino e ancora ne attingevano, troppo ebbri per comprendere che la loro vita era terminata; bestie che avrebbero potuto costituire dei presagi per il futuro, con le membra distorte e il pelo di colori mai visti, aspettavano battaglie, terremoti e assassinii dei re.

Finalmente il giovane che aveva le funzioni di secondo sulla nave si accostò al compagno incarnato dai sogni, al timone, e disse: — Siamo penetrati molto dentro questo canale e il sole, che non era ancora apparso quando abbiamo spiegato le vele, si sta approssimando allo zenit. Seguendo il suo corso abbiamo incontrato altri mille canali e in nessuno abbiamo trovato la minima traccia dell’orco. Non è probabile che abbiamo scelto il percorso sbagliato? Non sarebbe più saggio tornare indietro subito e provarne un altro?

Allora il giovane rispose: — Proprio in questo momento stiamo superando un canale a tribordo. Guarda e dimmi se le sue acque sono più offuscate delle nostre.

Il secondo obbedì e rispose: — No, sono più terse.

— Ecco, guarda, a babordo si apre un altro canale. A quale profondità riesci a vedere?

Il secondo aspettò fino a quando la nave fu di fronte al canale in questione e poi rispose: — Fino a vedere il fondo. Scorgo il relitto di una nave appartenente a un lontano passato, a numerose braccia dalla superficie.

— E riesci a vedere alla stessa profondità anche nel canale che stiamo percorrendo?

Allora il secondo guardò le acque che stavano solcando, divenute nere come l’inchiostro; persino gli spruzzi sollevati dalle ruote erano neri come scarafaggi o corvi. Capì immediatamente, e urlò a tutti i compagni di tenersi pronti ai cannoni: non poteva dir loro di prepararli, perché erano già pronti da molto tempo.

Dinnanzi a loro si ergeva un’isoletta più alta di tutte le altre, coronata da grandi piante scure; lì il canale faceva una leggera curva, così che il vento, fino a quel punto di poppa, era diventato di quarto. Il timoniere fece girare la ruota e l’equipaggio allentò alcune vele e ne serrò altre; la prua della nave aggirò veloce la curva della rupe.

Dinnanzi a loro si trovava una chiglia lunga e stretta, con un unico castello di ferro nel mezzo e un solo cannone, più grande dei loro, che sporgeva dall’unica apertura.

Il giovane incarnato dai sogni aprì le labbra per gridare l’ordine di sparare. Prima di riuscire a pronunciare quelle parole il grande cannone del loro nemico tuonò, in un modo diverso dal tuono e dagli altri suoni conosciuti agli orecchi umani; pareva piuttosto di trovarsi in un’alta torre di pietra crollata in un istante tutto intorno.

E la palla colpì la culatta del primo cannone della batteria di tribordo, frantumandola e rompendosi a sua volta, in modo che i frammenti piovvero sulla nave come foglie scure portate da un forte vento e uccisero molti giovani.

Allora il timoniere, senza aspettare ulteriori ordini, fece virare la nave in maniera che la batteria di babordo puntasse contro l’avversario, e ogni cannone sparò secondo la volontà di chi lo puntava, come i lupi che ululano nella luna. I proiettili volarono intorno al castello del nemico e alcuni centrarono il bersaglio, facendo risuonare rintocchi funebri in onore di quanti erano morti un momento prima. Alcuni caddero in acqua davanti allo scafo mentre altri ancora colpirono il ponte (anch’esso di ferro) e volarono in cielo stridendo.

A quel punto l’unico cannone del loro nemico sparò nuovamente.

E continuò così, per istanti che parvero anni. Finalmente il giovane ricordò il consiglio della principessa, la figlia della Notte: ma il vento, per quanto forte, spirava quasi a poppa della nave e per fare in modo che soffiasse da loro verso il nemico, come la principessa aveva detto, per un lungo momento nessun cannone avrebbe potuto sparare, a parte quelli di prua. Ancora, quando fosse stato possibile puntare nuovamente una batteria, si sarebbe dovuta usare quella di tribordo, nella quale un cannone era andato perduto e molti uomini erano morti.

Ma il giovane pensò che stavano combattendo come avevano fatto prima di loro centinaia d’altri, che erano tutti morti, le cui navi erano affondate e le cui ossa erano sparse nelle miriadi di canali intricati sulla faccia dell’isola dell’orco. Diede un ordine al timoniere, ma non ebbe risposta, perché il timoniere era morto e la ruota che egli aveva tenuto in quel momento teneva lui. Il giovane incarnato dai sogni afferrò il timone e offrì al nemico la stretta prua della nave. Così facendo dimostrò che le tre sorelle favoriscono gli audaci, perché il colpo seguente del nemico, che avrebbe potuto annientare la nave da prua a poppa, passò a babordo a un remo di distanza, e quello successivo alla distanza di una barca.

Il nemico, che fino a quell’istante era rimasto immobile e non aveva cercato né di scappare né di avvicinarsi, virò. Notando che stava cercando di allontanarsi, l’equipaggio innalzò un grido, come se avesse già in pugno la vittoria. Ma, incredibile a vedersi, l’unico castello che fino a quel momento tutti avevano creduto fisso, si voltò dall’altra parte e il grande cannone, più grande dei loro, continuò a tenerli sotto controllo.

Un istante dopo un proiettile colpì il centro della nave, strappando via dal suo supporto un cannone della batteria di tribordo, come un ubriaco potrebbe strappare un bambino dalla culla, e mandandolo a schiantarsi sul ponte, così che distrusse tutto quello che trovava sul suo percorso. Quindi i cannoni della batteria, quelli rimasti, proruppero in un coro di fuoco e di ferro. E dal momento che la distanza si era ridotta della metà (o forse semplicemente perché il loro nemico, mostrando la propria paura, si era indebolito nella sua essenza), la loro bordata non si limitò a colpire il castello con risonante clangore, ma causò un urto simile a quello che produrrebbe, rompendosi, la campana che annuncerà la fine del mondo; crepe irregolari iniziarono a mostrarsi nel nero oleoso del ferro.

Allora il giovane chiamò attraverso il boccaporto quelli che erano obbedientemente rimasti in sala macchine ad alimentare le caldaie con i tronchi d’albero e gli ordinò di buttare del catrame nelle fiamme, come aveva detto la principessa. In un primo tempo ebbe paura che fossero tutti morti, quindi che il suo ordine fosse stato coperto dal frastuono della battaglia. Ma quando un’ombra cadde sopra l’acqua rischiarata dal sole che si stendeva fra lui e il nemico, sollevò lo sguardo.

Un tempo, si dice, una bambina lacera, figlia di un pescatore, trovò sulla sabbia una bottiglia tappata e, rompendo il sigillo e levando il tappo, diventò regina di tutto, da polo a polo. Nello stesso modo, sembrò, un essere elementare in possesso della forza della creazione emerse dagli alti fumaioli della nave, rotolando con gioia oscura e accrescendosi velocemente, con la rapidità del vento.

E il vento giunse, e lo afferrò con le sue innumerevoli mani e lo portò come una massa compatta contro il nemico. Anche quando non riuscirono più a vedere niente — né lo scafo lungo e scuro con il ponte di ferro, né l’unico cannone la cui bocca aveva vomitato morte per tutti loro — non persero nemmeno un momento, ma si gettarono sulle batterie e spararono alla cieca. Di tanto in tanto sentivano il cannone del loro nemico sparare a sua volta, ma non scorgevano neppure un lampo e non sapevano dove quei proiettili andassero a finire.

È probabile che ancora oggi non abbiano colpito niente e girino intorno al mondo in cerca di un bersaglio.

I giovani spararono fino a quando le canne luccicarono come lingotti appena usciti dal crogiolo. Allora il fumo diminuì e coloro che si trovavano in sala macchine gridarono attraverso il boccaporto che il catrame era terminato; il giovane incarnato dai sogni ordinò di cessare il fuoco e gli uomini che avevano sparato con i cannoni si accasciarono sul ponte come cadaveri, troppo sfiniti persino per domandare un sorso d’acqua.

La nube nera si dissolse. Non come la nebbia che si dilegua al sole, ma come un esercito forte che si disperde dinnanzi a cariche ripetute, cedendo in un punto, resistendo accanitamente in un altro e radunando ancora un gruppo di combattenti quando pare che tutto sia ormai finito.

A quel punto cercarono inutilmente, sulle onde diventate trasparenti, il loro nemico. Non riuscirono a vedere nulla: né il suo scafo, né il suo castello, né il suo cannone, nemmeno una tavola o un pennone.

Adagio, con cautela come se temessero un nemico invisibile, avanzarono fino al punto in cui prima il nemico era all’ancora e trovarono gli alberi spezzati e il terreno dissestato dell’isoletta che stava dietro, sulla quale i loro colpi avevano esaurito l’energia. Quando giunsero nel luogo in cui si trovava il lungo scafo di ferro, il giovane incarnato dai sogni ordinò di invertire il movimento delle grandi ruote e finalmente si fermarono, restando immobili come aveva fatto il loro avversario. Poi si avvicinò al parapetto e guardò in basso, con un’espressione tale che nessuno, neppure il più coraggioso, osò guardarlo.

Quando infine rialzò gli occhi, il suo viso era fermo e scuro; senza rivolgere la parola a nessuno si portò nella sua cabina e chiuse la porta.

Allora il secondo ordinò di girare la nave per fare ritorno al candido padiglione della principessa e di curare le ferite, di mettere in funzione le pompe e di iniziare le riparazioni necessarie. Ma tenne a bordo i morti, per poterli seppellire in alto mare.

Parte quinta — La morte dello studioso

È probabile che il canale non fosse diritto come avevano creduto. Oppure, senza rendersene conto, avevano perso l’orientamento durante la battaglia. Oppure (come sostenevano alcuni) i canali si attorcigliavano come vermi quando nessuno li guardava. Qualsiasi fosse la verità, navigarono fino al tramonto a vapore — il vento era calato — e alle ultime luci della giornata si accorsero che stavano passando in mezzo a isolette sconosciute.

Restarono all’ancora per tutta la notte. Quando giunse il mattino, il secondo chiamò i compagni del cui consiglio si fidava di più; ma nessuno seppe suggerire altro che domandare al giovane incarnato dai sogni (sebbene fossero restii a farlo) oppure andare avanti fino a trovare le acque aperte e il padiglione della principessa.

Decisero di andare avanti e lo fecero per tutto il giorno, sforzandosi di mantenere una rotta diritta, ma furono obbligati a procedere in maniera tortuosa dalle numerose svolte dei canali. E quando sopraggiunse nuovamente la notte, non erano in una posizione più vantaggiosa.

Il mattino del terzo giorno il giovane incarnato dai sogni uscì dalla sua cabina e iniziò a camminare avanti e indietro sul ponte come era solito fare, osservando le riparazioni e domandando notizie ai feriti. Allora il secondo e i suoi consiglieri lo avvicinarono, gli spiegarono quello che avevano fatto e gli chiesero come fare per ritrovare le acque aperte, per seppellire i loro morti e fare ritorno alle loro case nella città dei maghi.

Egli levò gli occhi verso la volta del firmamento. Alcuni credettero che stesse pregando, altri che cercasse di tenere a freno l’ira nei loro confronti, altri ancora che fosse semplicemente in cerca di un’ispirazione. Continuò a fissare il cielo tanto a lungo che essi si spaventarono, come quando aveva guardato l’acqua, e alcuni si allontanarono in maniera furtiva. Poi il giovane rispose loro: — Guardate! Non vedete gli uccelli marini? Stanno accorrendo da ogni parte del cielo. Seguiteli.

Per quasi tutta la mattina seguirono gli uccelli, per quanto i canali tortuosi lo permettevano. Finalmente li videro volteggiare e tuffarsi nell’acqua, più avanti, in modo che le loro ali bianche e le teste d’ebano sembravano una bassa nube, chiara all’esterno ma tempestosa nel mezzo. Allora il giovane incarnato dai sogni ordinò ai compagni di caricare i cannoni solo con la polvere e di sparare; a quel boato tutti gli uccelli marini presero il volo gridando e stridendo. E là dove prima stavano gli uccelli l’equipaggio vide galleggiare un’enorme carogna, che sembrava appartenere a una bestia della terraferma perché possedeva una testa e quattro zampe. Ma era molto più grande di diversi elefanti messi insieme.

Quando si furono avvicinati, il giovane ordinò di calare in acqua una barca e quando vi fu salito i suoi compagni notarono che aveva infilato nella cintura un grande alfange la cui lama rifletteva la luce del sole. Il giovane lavorò a lungo sulla carogna e quando fece ritorno a bordo portava con sé una mappa, la più grande che gli altri avessero mai visto, tracciata su una pelle non conciata.

Prima di sera raggiunsero il padiglione della principessa. Tutti aspettarono a bordo mentre sua madre la andava a trovare e quando finalmente quella donna terribile se ne fu andata tutti coloro che erano in grado di camminare scesero a terra; le Fanciulle Mais si affollarono intorno a ioro, cento fanciulle per ogni giovane, e il giovane incarnato dai sogni prese fra le braccia la figlia della Notte e aprì le danze. Nessuno dimenticò mai quella notte.

La rugiada li trovò stesi fra le piante nel giardino della principessa, semisepolti tra i fiori. Per un po’ di tempo continuarono a dormire, ma quando il pomeriggio allungò le ombre degli alberi si svegliarono. Allora la principessa si congedò dall’isola e giurò che, per quanto fosse pronta a visitare ogni territorio percorso dalla madre, in quel luogo non avrebbe più fatto ritorno; e le Fanciulle Mais ripeterono il suo giuramento. Erano troppo numerose, forse, per poter salire tutte sulla nave; ma riuscirono ugualmente ad andare a bordo e tutti i ponti verdeggiavano delle loro vesti e brillavano dell’oro dei loro capelli. Vissero infinite avventure nel viaggio di ritorno verso la città dei maghi. Si potrebbe riferire come gettarono in mare i loro morti, onorandoli con la preghiera, e tuttavia li rividero più tardi, durante la notte, fra le sartie; o come alcune Fanciulle Mais sposarono quei principi che, avendo trascorsi molti anni in preda a incantesimi al punto da non voler più lasciare quel genere di vita, edificano palazzi sulle ninfee e difficilmente si lasciano vedere dagli uomini.

Ma per tutte quelle cose non c’è posto in questo racconto. Basti dire che, quando raggiunsero la rupe sulla cui sommità sorge la città dei maghi, lo studioso che aveva donato la carne al giovane dei sogni era sui bastioni a guardare il mare in attesa del loro ritorno. Quando vide le vele nere, oscurate dal catrame che era stato bruciato per accecare il nemico, pensò che fossero state annerite in segno di lutto per la morte del figlio e si gettò nel burrone trovando la morte. Perché nessun uomo può vivere a lungo quando muoiono i suoi sogni.

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