XXXI PURIFICAZIONE

— Puoi dire al tuo padrone che ho consegnato il messaggio — dissi.

Hildegrin sorrise. — E non hai un messaggio per me, armigero? Rammenta, io vengo dai penetrali delle querce.

— No — risposi. — Nessun messaggio.

Dorcas sollevò il capo. — Io ne ho uno. Un tale che ho incontrato nei giardini della Casa Assoluta mi ha detto che qualcuno avrebbe profferito queste parole e io avrei dovuto rispondergli: «Dopo che le foglie saranno cresciute, la foresta marcerà verso nord.»

Hildegrin avvicinò l’indice al naso. — Tutta la foresta? Ha detto proprio così?

— Mi ha detto la frase che ti ho ripetuto e niente altro.

— Dorcas — domandai io, — perché non me l’avevi detto?

— Non abbiamo praticamente avuto l’opportunità di parlare da soli, da quando ci siamo incontrati al crocevia. E poi, avevo capito che era pericoloso conoscere il messaggio e non vedevo alcun motivo per far ricadere tale pericolo su di te. A conferirmi tale incarico era stato l’uomo che aveva dato tutti quei soldi al dottor Talos. Ma il messaggio l’ha detto solo a me… lo so perché ho ascoltato la loro conversazione. Ha detto solo che era tuo amico.

— E non ti ha detto di riferirmelo?

Dorcas scosse il capo.

La risata gutturale di Hildegrin parve uscire dalle viscere della terra. — Bene, adesso non ha più importanza, giusto? Il messaggio è stato riferito e, per quanto mi riguarda, posso solo dire che avrei preferito che fosse passato ancora un po’ di tempo. Ma qui siamo fra amici, a parte forse la ragazza ammalata, che comunque non penso sia in grado di ascoltarci; e del resto non ci capirebbe. Come hai detto che si chiama? Non riuscivo a sentirti molto bene, nascosto dall’altra parte del tetto.

— Non l’hai sentito perché non l’ho detto — precisai. — Il suo nome è Jolenta. — Mentre pronunciavo il suo nome la guardai e, alla luce del fuoco, capii che non si trattava più della bella donna che Jonas aveva amato.

— L’ha morsa un pipistrello? Da un po’ di tempo sono diventati particolarmente forti. Anch’io sono stato morso da loro, un paio di volte. — Fissai bruscamente Hildegrin e lui aggiunse: — Oh, sì, ho avuto modo di vederla prima, giovane sieur, nello stesso modo in cui ho visto te e la piccola Dorcas. Non avrai creduto che tu e l’altra ragazza abbiate lasciato i Giardini Botanici da soli, vero? Parlavi di recarti a nord e di batterti a duello con un Septentrion. Ti ho visto combattere e decapitare quel tale… tra l’altro, ho collaborato alla sua cattura, perché ero convinto che venisse veramente dalla Casa Assoluta… ed ero in mezzo alla folla che guardava te sul palcoscenico, quella notte. Ti ho seguito fino all’incidente alla porta, il giorno dopo. Ho visto voi due e lei, sebbene ormai di lei non rimangano altro che i capelli, e forse neanche.

Merryn domandò alla Cumana: — Devo dirlo, Madre?

La vecchia assentì. — Se riesci, figlia.

— La donna era soggetta a un incantesimo che la rendeva bella. Adesso l’incantesimo sta svanendo velocemente a causa del troppo sangue perduto e delle fatiche sopportate. Domani mattina ne sarà rimasta solo qualche traccia.

Dorcas arretrò: — Una magia?

— La magia non esiste. Esiste solo la conoscenza, più o meno occulta.

Hildegrin stava guardando Jolenta con espressione pensierosa. — Non immaginavo che l’aspetto di una persona potesse mutare tanto. Potrebbe essere utile, è vero. La tua padrona è in grado di farlo?

— Potrebbe fare molto di più, se volesse.

Dorcas mormorò: — Ma come è possibile?

— Sono state immesse nel suo sangue delle sostanze estratte dalle ghiandole di certi animali che hanno modellato la sua figura. Le hanno conferito una vita sottile, seni grossi come meloni e così via. Probabilmente le hanno persino ingrossato le gambe. Una pulizia profonda e dei decotti risanatori le hanno ringiovanito il volto. Anche i denti sono stati puliti e alcuni sono stati sostituiti con false corone… una adesso è caduta, se guardi bene. I capelli sono stati tinti e resi più folti grazie a fili di seta colorata cuciti sulla cute. Sicuramente la maggior parte dei peli corporei è stata eliminata e almeno questo miglioramento resterà immutato. E soprattutto, le è stata promessa una grande bellezza, mentre era sotto incantesimo. Simili promesse vengono credute più intensamente di quanto possa fare un bambino, e la sua convinzione suscitava la convinzione altrui.

— Non si può fare più niente per lei? — domandò Dorcas.

— Io non ne sono in grado e la Cumana non fa niente di simile se non in casi estremi.

— Ma sopravviverà?

— Te l’ha detto anche la Madre… anche se lei forse non lo vorrebbe.

Hildegrin si schiarì la voce e sputò oltre il tetto. — Allora è tutto a posto. Per lei è stato fatto tutto il possibile. Adesso possiamo parlare del motivo per cui siamo qui. Come tu hai detto, Cumana, è un bene che siano arrivati loro tre. Mi hanno riferito il messaggio e sono amici del Signore delle Fronde, come me. L’armigero può aiutarmi a portare questo Apu-Punchau e, dal momento che i miei due compagni hanno perso la vita durante il viaggio, la sua collaborazione mi sarà gradita. Cosa ci proibisce di proseguire?

— Niente — mormorò la Cumana. — La stella è all’ascendente.

— Se dobbiamo aiutarvi a portare a termine qualcosa, non abbiamo forse il diritto di sapere di cosa si tratta? — chiese Dorcas.

— Si tratta di riportare in vita il passato — rispose Hildegrin con solennità. — Rituffarci nel tempo della trascorsa grandezza di Urth. Qualcuno viveva esattamente qui dove ci troviamo adesso e sapeva cose che potrebbero mutare tutto. Io ho intenzione di riesumarlo. Sarà il punto culminante, se lo posso dire, di una carriera già ritenuta piuttosto stupefacente negli ambienti informati.

— Hai intenzione di aprire la tomba? — domandai. — Sicuramente, anche servendosi dell’alzabo…

La Cumana allungò una mano per accarezzare la fronte di Jolenta. — Noi la chiamiamo tomba, ma non lo era. Era la sua casa.

— Ecco, vedi — spiegò Hildegrin, — ho fatto alcuni favori a questa Castellana, di tanto in tanto. Più di uno, se lo posso dire, e più di due. Alla fine ho pensato che fosse arrivato il momento di ricevere una ricompensa. Ho parlato della mia idea al Signore della Foresta, stai tranquillo. Ed eccoci qui.

— Mi sembra di aver capito che la Cumana servisse Padre Inire — dissi.

— Lei paga i suoi debiti — annunciò Hildegrin orgogliosamente. — La gente di un certo livello lo fa sempre. E non è necessario essere una veggente per capire che qualche amico dall’altra parte può essere utile, nel caso che quella parte esca vincitrice.

— Chi era Apu-Punchau? — domandò Dorcas alla Cumana. — E per quale motivo il suo palazzo è ancora integro mentre tutto il resto della città è in rovina?

Vedendo che la vecchia esitava a rispondere, Merryn disse: — Non è più nemmeno una leggenda, perché nessuno ricorda questa storia, neanche gli eruditi. La Madre ci ha raccontato che il suo nome significa Testa del Giorno. Comparve qui in mezzo al popolo negli coni più antichi e insegnò molti meravigliosi segreti. Scompariva spesso ma tornava sempre. Alla fine non fece più ritorno e gli invasori devastarono la sua città. Adesso tornerà per l’ultima volta.

— Veramente? Senza magia?

La Cumana guardò Dorcas con occhi che rilucevano come stelle. — Le parole non sono altro che simboli. Merryn preferisce definire la magia come ciò che non esiste… quindi non esiste. Se tu intendi definire magia quello che stiamo per compiere, la magia esiste, mentre la mettiamo in pratica. Nell’antichità, in una terra lontana, esistevano due imperi separati dalle montagne. Uno vestiva i propri soldati di giallo, l’altro di verde. Combatterono per cento generazioni. Ma vedo che l’uomo che è insieme a te conosce questa leggenda.

— Dopo cento generazioni — continuai io, — venne in mezzo a loro un eremita che consigliò l’imperatore dell’esercito giallo di vestire i suoi soldati di verde e viceversa. Ma la battaglia andò avanti senza mutamenti. Nella mia borsa ho un libro intitolato Le meraviglie di Urth e del cielo e riporta questa storia.

— È il più saggio fra i libri scritti dagli uomini — disse la Cumana. — Nonostante siano pochi coloro che riescono a trarre beneficio dalla sua lettura. Figlia, spiega a quest’uomo, che è destinato a diventare un saggio, cosa faremo questa notte.

La giovane strega assentì. — Il tempo esiste in tutta la sua estensione. Le leggende narrate dagli epopti si basano su questo principio. Se il futuro non esistesse già, come potremmo incamminarci incontro a esso? E se il passato non esistesse ancora, come potremmo abbandonarcelo alle spalle? Durante il sonno la mente è accerchiata dal tempo ed è per questo che a volte sentiamo le voci dei nostri morti e ci vengono date notizie sugli avvenimenti che devono ancora avvenire. Quelli che, come la Madre, hanno imparato a mettere la propria mente in quella condizione anche da svegli, vivono circondati dalla propria vita, come l’Abraxas che riduce tutto il tempo a un istante eterno.

Soffiava un leggero vento, quella notte, ma in quel momento notai che era completamente calato. L’aria era immobile e silenziosa, così la voce di Dorcas, per quanto sommessa, sembrò squillare. — È questo che intende fare la donna che tu chiami Cumana? Entrerà in questa condizione mentale e chiederà al morto ciò che desidera conoscere?

— No, non può. La Cumana è molto vecchia, ma la città finì molte ere prima della sua nascita e lei è circondata solo dal suo tempo, che la sua mente conosce per esperienza diretta. Per far rinascere la città ci occorre una mente che abbia vissuto in quell’epoca.

— Ed esiste qualcuno tanto vecchio?

La Cumana scosse la testa. — No. Eppure una mente simile esiste. Guarda là, figlia, sopra le nuvole. Quella stella rossa è detta la Bocca del Pesce, e sul suo unico mondo ancora vivente dimora una mente antica e pronta. Merryn, prendimi una mano e tu, Hildegrin, prendi l’altra. Torturatore, stringi la destra della tua amica ammalata e quella di Hildegrin. La tua amata prenda invece l’altra mano della malata e quella di Merryn… Adesso siamo uniti, gli uomini da una parte e le donne dall’altra.

— E ci conviene fare in fretta — borbottò Hildegrin. — Credo che stia per arrivare un temporale.

— Faremo più in fretta possibile. Adesso mi servono tutte le vostre menti, anche se quella della malata mi sarà di scarso aiuto. Mi sentirete controllare i vostri pensieri. Fate quello che vi dirò.

Lasciando per un istante la mano di Merryn, la vecchia donna (se era una donna) si frugò nel corpetto e ne tolse un’asta le cui estremità scomparivano nella notte come se raggiungessero i confini del mio campo visivo, anche se in realtà non doveva essere più lunga di un piccolo pugnale. Aprì la bocca e io credetti che volesse stringere l’asta fra i denti: invece la ingoiò. Dopo un momento vidi la sua sagoma luminosa, sfumata di cremisi, apparire sotto la pelle molle della gola.

— Chiudete gli occhi… tutti… Qui c’è una donna che non conosco, una donna alta, incatenata… non ha importanza, torturatore, adesso ho capito. Non lasciare la mia mano… Nessuno di voi deve staccarsi.

Nella particolare condizione in cui ero caduto dopo il banchetto di Vodalus, avevo sperimentato che cosa significasse dividere la mente con un altro. Ma quella notte non fu la stessa cosa. La Cumana non mi apparve come l’avevo conosciuta, e nemmeno come una versione ringiovanita di se stessa, né come altro… o per lo meno così mi sembrò. Mi accorsi, piuttosto, che il mio pensiero era avvolto dal suo, come un pesce immerso in una vaschetta nuota in una bolla d’acqua invisibile. Thecla era insieme a me, ma non riuscivo a vederla completamente: era come se fosse in piedi alle mie spalle, e vidi la sua mano posarsi su di me e dopo un momento avvertii il suo respiro sulla guancia.

Poi Thecla svanì, e tutto scomparve con lei. Il mio pensiero fu lanciato nella notte, smarrendosi fra le rovine.


Quando tornai in me ero sdraiato sulle tegole vicino al fuoco. Mi sentivo la bocca piena di saliva e di sangue, segno che dovevo essermi morsicato le labbra e la lingua. Ero troppo debole per reggermi in piedi, ma riuscii a sedermi.

In un primo momento credetti che gli altri se ne fossero andati. Il tetto sotto di me era solido, ma i miei compagni erano diventati incorporei come spettri, ai miei occhi. Hildegrin sembrava un fantasma sdraiato alla mia destra… gli posai una mano sul petto e sentii il suo cuore palpitare come una falena in fuga. Jolenta era la più vaga di tutti, a malapena presente. Il trattamento di bellezza era stato molto più drastico di quanto aveva detto Merryn: sotto la sua pelle scorgevo fili e fasce metalliche, appena visibili. Poi mi guardai le gambe e i piedi e vidi che riuscivo a scorgere l’Artiglio, ardente come una fiamma azzurra, attraverso il cuoio dello stivale. Lo presi, ma le mie dita erano inerti e non riuscii ad estrarlo.

Dorcas pareva addormentata. Le sue labbra non erano sporche di bava e ai miei occhi sembrava più reale di Hildegrin. Merryn giaceva accasciata come una bambola vestita di nero, talmente sottile ed esile che Dorcas, nella sua fragilità, appariva robusta al confronto. Adesso che l’intelligenza non animava più quella maschera d’avorio, mi resi conto che non si trattava che di una pergamena tesa sulle ossa.

Come avevo immaginato, la Cumana non era una donna, pur non essendo uno degli orrori nei quali mi ero imbattuto nei giardini della Casa Assoluta. Qualcosa, liscio come un rettile, si avvolgeva intorno all’asta luminosa. Cercai la testa ma non la trovai, nonostante ogni disegno sul dorso del rettile raffigurasse una faccia e gli occhi di ogni volto fossero sperduti nell’estasi.

Dorcas si svegliò mentre osservavo i miei compagni. — Cos’è successo? — chiese. Anche Hildegrin stava iniziando a muoversi.

— Penso che stiamo vedendo noi stessi da una prospettiva diversa rispetto a quella di un singolo istante.

Lei aprì la bocca ma non udii alcun grido.

Nonostante le nuvole minacciose non avessero portato il vento, nelle strade sotto di noi la polvere turbinava. Non saprei come descriverlo se non come uno stuolo innumerevole di minutissimi insetti, grandi la centesima parte di un moscerino, che dopo essere rimasti nascosti nelle crepe del lastricato fossero stati attratti dal chiaro di luna e si fossero lanciati in un volo nuziale. Non si udiva alcun rumore e i loro movimenti non erano regolari; dopo un po’ tuttavia nella massa indifferenziata si crearono sciami che andavano avanti e indietro, sempre più grandi e fitti, e infine piombarono sulle pietre frantumate.

Mi sembrò allora che gli insetti avessero smesso di volare e che strisciassero uno sull’altro cercando di raggiungere il centro dello sciame. — Sono vivi — dissi.

Ma Dorcas sussurrò: — Guarda, sono morti.

Aveva ragione. Gli sciami che un istante prima ardevano di vita mostravano le costole sbiancate; i granelli di polvere, componendosi come frammenti di vetro antico messi insieme dagli studiosi per ricreare una finestra colorata distrutta da millenni, andarono a formare dei teschi che rilucevano verdi nel chiaro di luna. Animali… ailurodonti, massicci animali spelei e sagome furtive alle quali non sapevo dare un nome, tutte ancora meno consistenti di noi che le guardavamo dal tetto, si muovevano in mezzo ai morti.

Uno alla volta i morti risorsero e le bestie scomparvero. In un primo momento lentamente, iniziarono a ricostruire la loro città; le pietre vennero rimesse al loro posto, le travi modellate di cenere vennero inserite nelle intercapedini dei muri restaurati. Quelli che durante la resurrezione erano sembrati cadaveri ambulanti si rinvigorirono con il lavoro e diventarono esseri con le gambe storte che camminavano come i marinai e facevano rotolare pietre immense con la forza delle larghe spalle. La città fu rimessa a nuovo e noi restammo in attesa degli eventi.

Il silenzio della notte venne infranto dal suono dei tamburi; dai loro toni capii che quando avevano suonato l’ultima volta, la città doveva essere circondata dalla foresta, perché riecheggiavano come i suoni fanno solo fra i tronchi dei grandi alberi. Per la strada passò uno sciamano con la testa rasata, nudo e completamente ricoperto da pittografie eseguite in caratteri che non avevo mai visto, ma talmente espressivi che parevano urlare il loro significato.

Dietro di lui venivano i danzatori, cento o più, che volteggiavano al passo, incolonnati tenendo ciascuno la mano sulla testa di chi lo precedeva. I loro volti erano tesi verso l’alto e io mi domandai (cosa che faccio di frequente anche adesso) se per caso non stessero imitando nella danza il serpente dai cento occhi che noi chiamavamo Cumana. Girarono lentamente su e giù per la strada, intorno allo sciamano, quindi tornarono indietro fino a raggiungere l’ingresso della casa sopra la quale ci trovavamo noi. La lastra della porta cadde con uno schianto simile a un tuono e si diffuse un odore di mirra e di rose.

Un uomo uscì per accogliere i danzatori. Se avesse avuto cento braccia o se avesse avuto la testa sotto le mani non mi sarei meravigliato tanto, perché il suo volto mi era noto fin dall’infanzia: era il volto del bronzeo monumento funebre riposto nel mausoleo in cui avevo giocato da bambino. Indossava massicci bracciali d’oro, tempestati di giacinti e di opali, di corniole e di lampeggianti smeraldi. Avanzò a passi misurati fino a raggiungere il centro della processione, con i danzatori ondeggianti intorno a lui. Poi si voltò verso di noi e alzò le braccia. Ci guardò e io compresi che lui solo, fra tutte le centinaia di presenti, ci vedeva davvero.

Quello spettacolo mi aveva talmente affascinato che non mi ero accorto quando Hildegrin aveva abbandonato il tetto. Lo vidi sfrecciare in mezzo alla folla — se un uomo tanto grosso può sfrecciare — e afferrare Apu-Punchau.

Non so come descrivere quello che successe poi. In un certo senso lo si potrebbe paragonare al piccolo dramma consumatosi nella capanna gialla dei Giardini Botanici, ma era molto più strano, se non altro perché allora sapevo che la donna, suo fratello e il selvaggio erano vittime di un incantesimo. Lì invece pareva quasi che fossimo noi, Dorcas, Hildegrin e io, a essere presi da una magia. I danzatori, ne sono certo, non riuscivano a vedere Hildegrin, anche se in un certo senso erano consapevoli della sua presenza e inveivano contro di lui percuotendo l’aria con le clave dai denti di pietra.

Apu-Punchau, al contrario, lo vedeva come aveva visto noi sul tetto e come Isangoma aveva scorto me e Agia. Probabilmente però ne aveva una visione diversa dalla nostra e credo che gli apparisse strano come la Cumana era apparsa strana a me. Hildegrin lo stringeva ma non riusciva a vincerlo; Apu-Punchau lottava e si divincolava senza potersi liberare. Hildegrin sollevò la testa verso di me in cerca d’aiuto.

Non so per quale motivo risposi al suo appello. Non desideravo più servire Vodalus e i suoi scopi. Forse fu a causa dell’effetto residuo dell’alzabo o solo del ricordo di Hildegrin che accompagnava me e Dorcas in barca sul Lago degli Uccelli.

Cercai di allontanare gli uomini dalle gambe storte, ma uno dei loro colpi sferrati nel vuoto mi centrò la testa e mi fece cadere in ginocchio. Quando mi rialzai mi sembrò di non riuscire più a trovare Apu-Punchau in mezzo ai danzatori che saltavano e gridavano. Vidi invece due Hildegrin, uno che lottava contro di me e uno che si batteva contro qualcosa di invisibile. Rabbiosamente scagliai lontano il primo e cercai di andare in aiuto del secondo.


— Severian!

La pioggia che mi batteva sulla faccia mi svegliò… grosse gocce gelate che colpivano come grandine. Il tuono rombava sulle pampas. Per un istante pensai di aver perso la vista, poi il bagliore del fulmine mi mostrò l’erba sferzata dal vento e le pietre in rovina.

— Severian!

Era Dorcas. Cercai di alzarmi e la mia mano toccò fango e stoffa. Presi la stoffa e la liberai… una lunga e sottile striscia di seta bordata di nappe.

— Severian! — Era un urlo di paura.

— Sono qui! — risposi. — Quaggiù! — Un secondo lampo mise in luce l’edificio e la figura frenetica di Dorcas stagliata sul tetto. Perlustrai i muri ciechi fino a trovare la scala. I nostri destrieri erano spariti. Anche le streghe erano sparite, sul tetto. Dorcas era sola, piegata in avanti sul corpo di Jolenta. Alla luce dei lampi vidi il volto morto della cameriera che aveva servito il dottor Talos, Baldanders e me nel caffè di Nessus. Era completamente privo della sua bellezza. Alla fine, rimane solo l’amore, solo questa divinità. Il nostro imperdonabile peccato è proprio quello di riuscire a essere solo ciò che siamo.


Qui mi fermo di nuovo, lettore, dopo averti portato di città in città… dal piccolo villaggio minerario di Saltus fino alla desolata città di pietra il cui nome era perduto da tempo immemorabile nel vortice delle ere. Saltus per me era stata la porta del mondo al di fuori della Città Imperitura. La città di pietra era a sua volta una porta per me, la porta verso le montagne che avevo intravisto oltre i suoi archi diroccati. Da quel momento mi sarei aggirato per le loro gole e i loro balzi, fra i loro occhi ciechi e i loro volti cupi lungo una strada molto lunga.

Qui faccio una sosta. Se non desideri seguirmi oltre, lettore, non ti rimprovero. Non è una strada facile.

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