XXV L’ATTACCO AGLI IERODULI

Nonostante ci trovassimo all’aperto, dove generalmente i rumori si disperdono nell’infinità del cielo, udii lo sferragliare prodotto da Baldanders mentre fingeva di lottare con le catene. Il pubblico commentava, e riuscivo a sentirlo… parlava del dramma, e vi trovava dei significati che non solo io non ero riuscito a cogliere, ma nemmeno il dottor Talos, credo, aveva immaginato. Ancora, la gente parlava di un caso legale che un tale con l’accento strascicato sosteneva sarebbe stato giudicato in modo errato dall’Autarca. Mentre ero intento a girare l’argano della ruota producendo un gran fracasso, mi azzardai a gettare un’occhiata di traverso su coloro che assistevano al nostro spettacolo.

Non erano stati occupati più di dieci sedili, ma ai lati della platea e dietro si distinguevano maestose figure. Vidi delle donne con vestiti di corte simili a quelli che avevo notato nella Casa Azzurra, vestiti scollatissimi e con le gonne ampie, i più con lo spacco o con dei pannelli di pizzo. I capelli erano acconciati con semplicità ma ornati da fiori, gemme o larve luminescenti.

La maggior parte degli spettatori parevano essere uomini e altri stavano ancora arrivando. Molti erano alti come Vodalus, o ancora di più. Si avvolgevano nei mantelli come se la tiepida aria primaverile fosse troppo fredda per loro. I loro volti erano nascosti dai petasi dalle tese ampie e dalle cupole piatte.

Le catene di Baldanders si infransero con uno schianto e Dorcas lanciò un urlo per farmi capire che si era liberato. Mi volsi verso di lui, quindi arretrai levando dal supporto la fiaccola più vicina per tenerlo sotto controllo. La fiaccola si attenuò quando l’olio contenuto in essa rischiò di annegare la fiamma, poi si riprese crepitando allorché lo zolfo e i sali minerali che il dottor Talos aveva messo intorno all’orlo presero fuoco.

Il gigante si fingeva pazzo, come richiedeva il copione. I capelli ruvidi gli coprivano gli occhi, che comunque ardevano talmente da riuscire a luccicare dietro la velatura. La bocca era semichiusa, perdeva bava e mostrava i denti ingialliti. Le braccia, lunghe il doppio delle mie, si allungarono verso di me.

Devo riconoscere che ero spaventato e che rimpiangevo di non avere fra le mani Terminus est invece della fiaccola di ferro, soprattutto a causa di quella che posso solo chiamare l’espressione che traspariva sotto l’inespressività della sua faccia. Era come l’acqua nera che talvolta si riesce a scorgere sotto il ghiaccio quando il fiume gela. Baldanders godeva infinitamente di quel ruolo e quando mi voltai verso di lui, per la prima volta compresi che non stava affatto fingendo la pazzia, piuttosto fingeva la razionalità e l’umiltà nella vita di tutti i giorni. Mi domandai fino a che punto avesse influenzato la stesura del dramma, anche se probabilmente la verità era che il dottor Talos conosceva il suo paziente meglio di me.

Logicamente, non si dovevano impaurire i cortigiani dell’Autarca come avevamo fatto con i campagnoli. Baldanders mi avrebbe strappato di mano la fiaccola e avrebbe finto di rompermi la schiena, poi la scena sarebbe finita. Ma non accadde. Non so se il gigante fosse pazzo come richiedeva il suo ruolo o se si fosse veramente infuriato contro il pubblico sempre più numeroso. Forse successero entrambe le cose.

Qualsiasi fosse la verità, mi tolse la fiaccola e si voltò verso gli spettatori, agitandola finché l’olio infiammato gli volò intorno come una pioggia di fuoco. La spada che avevo usato per minacciare il collo di Dorcas pochi istanti prima era ai miei piedi; istintivamente mi chinai per prenderla. Quando mi raddrizzai, Baldanders era sceso in mezzo alla folla. La fiaccola si era spenta e lui la faceva roteare come una mazza.

Qualcuno gli sparò un colpo di pistola. Il suo costume prese fuoco, ma credo che il corpo rimase illeso. Diversi esultanti avevano sfoderato le spade e qualcuno, non riuscii a vedere chi fosse, sguainò l’arma più rara di tutte, un sogno. Si mosse come fumo tirio, ma molto più in fretta, e in un istante avviluppò Baldanders. Parve che fosse stato imprigionato da tutto quello che apparteneva al passato e da molte cose che non erano mai esistite; dal suo fianco apparve una donna con i capelli grigi, una barca da pesca gli fluttuò sopra il capo e un vento freddo colpì le fiamme che lo circondavano.

Eppure queste visioni, che pare lascino i soldati frastornati e impotenti, simili a pesi inutili, non sembravano sortire alcun effetto sul gigante. Baldanders continuò la sua avanzata, facendosi largo fra la gente con la fiaccola.

Poi, nell’istante stesso in cui guardai dopo aver ritrovato l’autocontrollo necessario per scappare lontano da quella folle rissa, notai diverse figure che gettavano via il mantello e, così mi parve, anche il volto. Sotto quelle facce, che mi apparivano incorporee come le notule, colsi delle mostruosità inimmaginabili: una bocca circolare contornata da denti simili ad aghi; occhi che erano in realtà mille occhi insieme, raggruppati come le scaglie delle pigne; zanne che facevano venire in mente delle tenaglie. Quelle immagini sono rimaste impresse nella mia memoria come tutto il resto e ho potuto contemplarle spesso nelle notti insonni. E mi rallegro, quando finalmente me ne distolgo e volgo lo sguardo verso le stelle e le nubi intrise di chiaro di luna, di avere visto solo quelle più vicine alle luci della nostra ribalta.

Ho già detto che fuggii. Ma quel breve istante di esitazione nel quale afferrai Terminus est e mi attardai a guardare il folle attacco di Baldanders rischiò di costarmi molto caro: quando mi volsi a cercare Dorcas, era scomparsa.

Fuggii, non tanto per allontanarmi dalla follia del gigante o dai cacogeni che si trovavano in mezzo al pubblico o dai pretoriani dell’Autarca, ma per ritrovare Dorcas. La chiamai e la cercai, ma non vidi altro che boschetti, fontane e pozzi; alla fine, senza fiato e con le gambe stanche, rallentai il passo.

Mi è impossibile spiegare l’amarezza che mi invase allora. Aver ritrovato Dorcas e averla persa un’altra volta, così presto, mi pareva insopportabile. Le donne pensano, o per lo meno fingono di crederlo, che la nostra tenerezza per loro nasca esclusivamente dal desiderio; che le amiamo quando è un po’ di tempo che non le possediamo e che non ce ne interessiamo quando siamo soddisfatti o, per maggior precisione, esausti. Non è vero. Spinti dal desiderio tendiamo a simulare una grande tenerezza, per poter soddisfare il desiderio stesso; ma in nessun’altra occasione trattiamo le donne con analoga brutalità e siamo tanto privi di altre emozioni. Mentre vagavo per i giardini bui, non desideravo Dorcas fisicamente (anche se non la possedevo da quando avevamo dormito nella fortezza dei dimarchi, non lontano dai Campi Sanguinari): mi ero sfogato con Jolenta sulla barca. Ma se fossi riuscito a ritrovarla, l’avrei soffocata di baci; e mi accorsi di provare anche un certo affetto persino per Jolenta, che avevo sempre giudicato abbastanza antipatica.

Non trovai nessuna delle due e non vidi soldati in corsa e nemmeno i cortigiani festanti che eravamo venuti a divertire. Il tiaso, era chiaro, era stato limitato a una parte del giardino dalla quale ero ormai distante. Ancor oggi non conosco bene i confini della Casa Assoluta. Sono state redatte delle mappe, ma sono incomplete e contraddittorie. Non esistono invece mappe della Seconda Casa e lo stesso Padre Inire mi ha confessato di aver dimenticato parte dei suoi misteri. Girando per i suoi angusti corridoi, non ho mai incontrato un lupo bianco; ho trovato invece delle scale che conducono a cupole sotto il fiume e botole che si aprono in mezzo a foreste apparentemente vergini. (Alcune di queste botole sono segnate, sul terreno, da stele di marmo in rovina e ricoperte dalla vegetazione, altre no.) Quando ho richiuso queste botole e ho fatto ritorno, con grande rammarico, nell’atmosfera artefatta ancora pregna degli odori di quella vegetazione viva e in disfacimento, mi sono spesso chiesto se qualche corridoio non arrivi fino alla Cittadella. Una volta il vecchio Ultan mi aveva detto che la sua biblioteca si estendeva fino alla Casa Assoluta. Cosa vuol dire questo, se non che la Casa Assoluta si estende fino alla sua biblioteca? Esistono parti della Seconda Casa che ricordano i corridoi nei quali avevo cercato Triskele; potrebbero essere gli stessi corridoi e, se lo sono, quella volta avevo corso un rischio maggiore di quello che credevo.

Non so se queste mie riflessioni siano fondate e no; comunque, non le feci nel momento che vi sto raccontando. Nella mia ingenuità immaginavo che i confini della Casa Assoluta, che si estendevano nello spazio e nel tempo molto più di quanto gli ignari potessero supporre, fossero ben definiti e che io fossi ormai vicino a essi, o che presto li avrei raggiunti, se non li avevo già oltrepassati. Così, camminai per tutta la notte e mi diressi verso nord orientandomi con le stelle. E mentre camminavo pensavo alla mia vita, come cerco di non fare quando aspetto il sonno. Ancora una volta io, Drotte e Roche nuotammo nella cisterna scivolosa sotto il Forte della Campana; ancora una volta sostituii il folletto-giocattolo di Josephina con un ranocchio rubato; ancora una volta allungai la mano per prendere l’impugnatura dell’ascia che avrebbe ucciso Vodalus e avrebbe quindi salvato Thecla, allora libera; ancora una volta vidi il nastro scarlatto insinuarsi sotto la porta di Thecla, Malrubius che si chinava su di me, Jonas che spariva nell’infinito tra le dimensioni. Giocai nuovamente con i ciottoli nel cortile vicino al muro crollato, mentre Thecla evitava gli zoccoli delle cavalcature delle guardie di mio padre.

Continuai a temere i soldati dell’Autarca ancora a lungo dopo aver visto l’ultima balaustrata; in seguito, quando non avvistai più nemmeno una pattuglia in lontananza, iniziai a disprezzarli, considerando che la loro inefficienza doveva far parte della disorganizzazione capillare che avevo avuto modo di notare tante volte nel Regno. Con il mio aiuto o senza, conclusi, Vodalus avrebbe annientato quegli inetti… anzi, avrebbe anche potuto farlo in quello stesso momento, se solo avesse attaccato.

Eppure l’androgino con il vestito giallo che conosceva la parola d’ordine di Vodalus e a cui era destinato il mio messaggio era senza dubbio l’Autarca, il capo di tutti quei soldati e del Regno intero, nella misura in cui quest’ultimo riconosceva un capo. Thecla l’aveva visto spesso; i suoi ricordi erano diventati miei e quell’uomo era l’Autarca. Se Vodalus aveva già vinto, perché mai rimaneva nell’ombra? Oppure Vodalus non era altro che una creatura dell’Autarca? (In tal caso, per quale motivo Vodalus mi aveva parlato di lui come di un servitore?) Cercai di convincermi che i fatti accaduti nella camera del quadro e nel resto della Seconda Casa non erano stati altro che un sogno; ma sapevo che non era vero, e non avevo più l’acciarino.

Pensare a Vodalus mi fece tornare in mente l’Artiglio, che lo stesso Autarca mi aveva sollecitato a restituire all’ordine delle pellegrine. Lo estrassi. La sua luce era tenue, né luminosa come nella miniera degli uomini-scimmia né opaca come quando io e Jonas l’avevamo studiato nell’anticamera. Nonostante stesse nel palmo della mia mano, mi parve una grande polla di acqua azzurra, più pura della cisterna, molto più pura del Gyoll, e nella quale mi sarei potuto tuffare… anche se, facendolo, avrei inspiegabilmente compiuto un tuffo verso l’alto. Era contemporaneamente consolante e perturbante. Lo rimisi nello stivale e proseguii.


L’alba mi colse lungo un angusto sentiero che percorreva una foresta più imponente, nella sua decadenza, di quella che circondava le Mura di Nessus. I freschi archi di felci che caratterizzavano quella erano assenti, ma le liane dalle dita carnose si avviluppavano come etere agli enormi mogani e alle piante della pioggia, trasformando i lunghi rami in ricche, ondeggianti cortine verdi spruzzate di fiori. Uccelli a me ignoti cinguettavano sui rami più alti e una scimmia che, se non fosse stato per le quattro mani, avrei potuto confondere con un vecchio rugoso dalla barba rossa e avvolto da una pelliccia, mi osservava da una biforcazione alta come un campanile. Quando le forze mi vennero meno, trovai un angolino asciutto e fresco, in mezzo alle radici grosse come colonne, e mi strinsi nel mantello.

Frequentemente ho dovuto inseguire il sonno come se si trattasse della più fuggevole fra le chimere, per metà fiaba e per metà aria. In quel momento, invece, mi assalì di colpo. Avevo appena chiuso gli occhi quando mi rividi dinnanzi il gigante impazzito. Brandivo Terminus est, che però era poco più di una bacchetta. Al posto di trovarci su un palcoscenico, eravamo su uno stretto bastione. Da un lato brillavano le torce di un esercito, dall’altro un precipizio terminava in un vasto lago che era e nello stesso tempo non era la polla azzurra dell’Artiglio. Baldanders sollevò la terribile fiaccola e io mi trasformai, non so come, nella figura infantile che avevo visto in fondo al mare. Le donne gigantesche, lo avvertivo, non erano molto lontane. La mazza si avventò.


Era pomeriggio e le formiche avevano creato una carovana lungo il mio petto. Dopo aver camminato per due o tre turni di guardia in mezzo a quella nobile foresta condannata, mi imbattei in un sentiero più largo: dopo un altro turno di guarda, mentre le ombre si allungavano, mi fermai, fiutai l’aria e mi accertai che l’odore che avevo percepito dipendesse veramente da un fuoco. Ero dilaniato dalla fame, e mi affrettai ad andare avanti.

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