John Varley Linea calda Ophiucus

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Daily Legal Bulletin, pubblicato dall’Ufficio Intersistematico di Ricerca sul Controllo Criminale, Aquarius 14, 568 o.e. Caso di Lilo-Alexander-Calypso contro Il Popolo della Luna. (Compendio Legale — Da distribuirsi immediatamente).

Lo Stato sostiene che Lilo-Alexander-Calypso, nel periodo di tempo dall’1/3/556 al 12/18/567, condusse, volontariamente e consapevolmente, esperimenti su materiale genetico umano con l’intenzione di provocare mutazioni artificiali su detto materiale. Lo Stato contende inoltre che l’imputata ha prodotto blastocisti ed embrioni umani che riflettono strutture potenziali atipiche rispetto allo spettro ammesso dell’Umanità, in violazione al Codice Unificato della Confederazione degli Otto Mondi, Articolo Tre» (Crimini Contro l’Umanità), Paragrafo Sette (Crimini Genetici). Lo Stato chiede la condanna alla morte permanente.


(Lettura di I Classe)

La pratica su Lilo venne aperta quando gli elaboratori CCR notarono che si era interessata a dati della Linea Calda Ophiucus che secondo l’analisi erano probabilmente collegati al DNA umano. Gli agenti Crimcon ottennero un mandato per poter esaminare le registrazioni delle sue richieste e le sue carte d’uso presso la StarLine, Inc., principale concessionaria dei dati elaborati dalla Linea Calda. La banca dei dati della corte suprema autorizzò ulteriori indagini sia tramite proiezione matematica con un computer, che tramite intervento diretto umano. In data 11/10/567 venne spiccato un mandato riguardante la sua casa, i suoi laboratori e la sua proprietà personale, compreso il suo corpo.


(Lettura di II Classe)

Gli agenti Crimcon lo sanno bene, «Lilo era una dura. Furba. Pensavamo di aver fatto centro quando buttammo giù la porta alla Biosystems Research. Niente. Un buco nell’acqua. Nastri, appunti, si cancellavano tutti quando li toccavamo. I decodificatori del CCR masticavano e sputavano. Zip. Fi. Niente. Riprovammo a casa sua; un altro fiasco. Ma era ricca. Dieci anni prima, brevetti genetici sugli Alberi Bananacarne ©. Un mucchio di soldi. Controllammo i viaggi che aveva fatto. Cinque volte su Janus. Saltammo su un cargo a 3-g e abbattemmo la porta, con i laser pronti. Non c’era nessuno, ma una delle sue trappole stava friggendo. Tornammo con due grammi di carne mutata. L’avevamo nel riciclatore. Con i raggi X niente da fare, ma l’aprimmo comunque, e cosa credete che trovammo? Un miliardo e una informazione avvolta intorno alla sua spina dorsale! Mangia la morte, sporca genetica! Il Foro ti aspetta!». Gli agenti Crimcon lo sanno bene, il crimine non rende.


(Lettura per analfabeti)

Fotofumetti e nastri olografici acclusi.


Le prigioni non sono più quelle di un tempo. Avevo fatto qualche ricerca sull’argomento, allorché mi resi conto che il mio lavoro avrebbe potuto portarmi a vederne una dall’interno. Alcune prigioni della vecchia Terra erano piuttosto barbare.

La mia cella non era niente del genere. Era migliore dell’appartamento medio di un secondino. C’erano tre stanze, ben ammobiliate. Avevo un videofono, se non mi disturbava il fatto che un secondino ascoltasse quello che dicevo. Non lo usavo.

In comune con le vecchie prigioni, la cella aveva la caratteristica essenziale: non potevo aprirne la porta. Dietro di essa ce n’erano dozzine di altre, e per me tutte erano chiuse. In ogni stanza c’era una telecamera che seguiva i miei movimenti.

Mi trovavo nell’Istituto Terminale per i Nemici dell’Umanità, tre chilometri al di sotto di Tolomeo, nel Lato Vicino. Ero lì da poco più di un anno. C’erano voluti sei mesi per raccogliere prove contro di me. Il processo aveva richiesto pochi millesecondi di tempo di computer, un mattino, quando ancora non mi ero svegliata. Mi venne comunicata la sentenza — nessuna sorpresa — e la mia esecuzione venne fissata per il mattino seguente. Poi il mio avvocato ottenne un rinvio di sei mesi.

Non mi facevo illusioni. Il rinvio era stato concesso, probabilmente, perché la mia esecuzione doveva avvenire prima della fine del semestre. Nell’Istituto c’era scarsità di Nemici dell’Umanità, e diverse tesi dovevano essere terminate. Due volte al giorno, una delle pareti della cella cambiava colore e cominciava a brillare. Dall’altra parte un professore teneva una lezione di psicologia. Se avvicinavo la faccia, potevo vedere file di studenti seduti in un’aula. Ma ben presto mi stancai di guardare.

Circa una volta alla settimana venivano a visitarmi gruppi di studenti già laureati. Si sedevano sul mio divano, nervosi, concentrati, una serie di ragazze e di ragazzi con volti seri e sopracciglia aggrottate. Mi facevano domande per un’ora, senza evidentemente sapere cosa pensare di me. Agli inizi mi ingegnavo di trovare risposte bizzarre alle loro domande, però mi stancai anche di quello. Talvolta restavo seduta tutta l’ora senza dire niente.

La mia vita si trascinava verso la sua fine.


Lilo-Alexander-Calypso aspettava il mattino seduta nella propria cella. Non aveva ancora deciso se sarebbe riuscita a salire quei gradini solitari. Un anno prima, quando non era così schifosamente imminente, le era stato facile comportarsi da coraggiosa. Adesso si rendeva conto che la sua spavalderia era derivata dalla convinzione profonda che era impossibile che qualcuno la uccidesse davvero. Ma aveva avuto tutto il tempo necessario per pensare. Camera a gas, forca. Sedia elettrica. Rogo. Plotone d’esecuzione. Appesa per il collo finché non sei morta, morta, morta, e possa Dio riciclare la tua anima.

Per fantasiosi che fossero, quei metodi avevano tutti uno scopo semplicissimo. Dovevano far cessare il battito di un cuore umano. In seguito il criterio per determinare la morte era diventato l’attività cerebrale.

Adesso non bastava più. Il fatto triste era che non si poteva più uccidere qualcuno ed essere assolutamente sicuri che quell’individuo non sarebbe riapparso. L’imminente esecuzione di Lilo era quindi soprattutto simbolica, dal punto di vista della società.

Dal punto di vista di Lilo, era invece molto di più. Stava considerando un’idea che le era venuta solo un’altra volta in vita sua: sei mesi prima, alla vigilia del rinvio dell’esecuzione. Stava pensando di suicidarsi.

«E perché no?» si domandò, sorprendendosi di parlare ad alta voce.

Perché no, effettivamente? Pochi anni prima avrebbe potuto trovare mille motivi perché no. Aveva poco più di cinquant’anni, era ancora giovane, la vita le si apriva davanti all’infinito. Ma adesso aveva cinquantasette anni, e di colpo era vecchia. Presto sarebbe stata morta. Morta. Non poteva diventare più vecchia di così.

Fisicamente Lilo aveva venticinque anni. Era popolare avere quell’età, e sebbene a Lilo non piacesse seguire le mode, non si era mai trovata bene con un aspetto più vecchio. Il corpo che aveva era in gran parte quello originale, con poche migliorie chirurgiche. I capelli erano castani chiari, gli occhi erano piuttosto distanti l’uno dall’altro e facevano posto a un naso largo e leggermente schiacciato. Era alta e magra, e le donava.

La sola concessione alla vanità erano le gambe, aveva aggiunto dieci centimetri alle ossa degli arti inferiori ed era diventata alta due metri e due, leggermente sopra alla media quindi. Aveva dei sottili peli marrone, come un cincillà, da metà polpaccio fino alla parte superiore del piede.

Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, agitata. Quello che la sorprendeva era che, una volta accettata l’idea di stare per morire, il suicidio cominciasse a sembrarle una prospettiva attraente. Allo Stato della Luna non interessava se lei si uccideva; il mattino dopo sarebbe andata nel Foro, morta o viva. Non era stato fatto nessun tentativo perché nella cella non ci fossero oggetti con cui fosse possibile ferirsi o peggio.

L’utensile che stava esaminando in quel momento era un coltello. Era molto bello. Acciaio inossidabile, lucente come uno specchio. Una simmetria di forme che l’affascinava. Il manico era coperto da scanalature incrociate che permettevano di afferrare saldamente il freddo metallo. Se lo passò sulla gola, senza pensare a niente. Si portò le dita al collo con mano tremante. Niente sangue.

Pensò alle due alternative che le si offrivano.

Domani sarebbe stato un momento emozionante. Era sicura che niente poteva uguagliare quello che avrebbe sentito prima di salire i gradini del Foro. Aveva il terrore di crollare completamente, di dover essere tenuta e gettata al di là dell’orlo.

Adesso, tuttavia, era ragionevolmente calma. Aveva perduto ogni speranza. Sarebbe riuscita ad affrontare la morte in quel momento, di propria mano, in privato? Era meglio andarsene in quel modo?

Le sembrò di sì. Se lo ripeté tre volte di seguito e afferrò il coltello. Se lo passò su un polso. Rabbrividì e sentì il cuore batterle in tumulto. Aprì gli occhi e guardò: non c’era neppure una linea rossa. Era sicura di aver premuto. Qualcosa le sfiorò una guancia. Allarmata, la respinse con una mano.

Si sedette sulla poltrona accanto al piccolo tavolo e digrignò i denti. Si chinò sul tavolo e ci appoggiò l’avambraccio. Premette la lama del coltello sulla parte più tenera, la osservò, girò la testa, costrinse gli occhi a tornare dov’erano prima e se li sentì seccare mentre si rifiutava di sbattere le palpebre.

Ci furono alcune gocce rosse di sangue.

«Posa il coltello, Lilo.»

Saltò in piedi vacillando, col coltello insanguinato in mano. Arrossì mentre cercava di nasconderlo fra i cuscini della poltrona; quindi si voltò per vedere chi fosse.

«È grave?» chiese, dirigendosi verso di lei.

Lei guardò. Era solo un piccolo taglio, il sangue si era già quasi arrestato. Lui le porse un fazzoletto e si sedette a pochi passi da lei, aspettando che si fosse ripulita.

«C’è una persona che vorrei farti incontrare,» disse l’uomo, e fece un cenno verso la porta della cella. Si aprì, ed entrò il suo secondino in uniforme blu, seguito da una donna nuda. Era alta, barcollava leggermente, e sembrava drogata. I capelli castani arruffati erano appiccicati alle spalle; un liquido denso, sciropposo, le gocciolava dalle mani, dal naso e dal mento. Per un attimo i suoi occhi incrociarono quelli di Lilo, senza che la sua espressione cambiasse, poi inciampò in una sedia e cadde. La guardia la aiutò a rialzarsi, poi la portò quasi di peso in bagno. Una donna, vestita anch’essa di blu, entrò nella cella e chiuse la porta. Si sentì il rumore dell’acqua che scorreva.

Lilo riuscì a non guardare. La faccia della donna nuda le era terribilmente familiare. Era la sua.


Oro. Tutto era giallo dorato. Aprii gli occhi sott’acqua e capii che non stavo respirando. Misteriosamente non mi dava noia. Mi misi a sedere e sentii un liquido denso che mi scorreva lentamente giù dal corpo.

Mi sentii soffocare, cercai di tossire, e dalla gola mi uscì una grande quantità di liquido. Per un attimo non riuscii a controllare la situazione. Stavo annegando. Ma qualcuno mi stava dando delle pacche sulla schiena e mi ritrovai che boccheggiavo.

Nascere non è facile.


Non riusciva a mettere a fuoco gli occhi. Qualcuno le «stava porgendo qualcosa e lei vedeva solo l’estremità di un braccio che sorreggeva un oggetto. Era una tazza. Si tirò indietro, ma quella la seguì. La prese e bevve fino in fondo.

Era seduta dentro una vasca di vetro, immersa fino alla vita in un liquido color grano. Aveva dei fili elettrici attaccati al corpo « di tanto in tanto li sentiva ancora emettere delle scosse, in base al programma di tonificazione dei muscoli che si stava riducendo dopo tre mesi di intenso esercizio.

Disorientamento. Non riusciva a mettere due pensieri in fila. La vasca avrebbe dovuto dirle qualcosa, invece non le diceva niente.

«Andiamo, alziamoci,» esclamò qualcuno. Era una donna vestita di blu, che si chinò e aiutò la donna nuda a uscire dalla vasca, a restare in piedi gocciolante, incerta e appoggiata poi a una spalla robusta, mentre una mano la teneva saldamente per la vita. Voleva tornare a dormire.

«È pronta?»

«Credo di sì.» C’era una seconda persona, un uomo, vestito anche lui di blu. «Non ci vorrà molto.»

Sapeva che parlavano di lei. Cercò di liberarsi della mano che la stringeva, ma era troppo debole. Le dava noia, sentirli parlare. Voleva che smettessero.

«Lasciatemi sola,» disse.

«Cos’ha detto?»

La stavano portando lungo un corridoio. L’aiutavano ad attraversare le varie porte, rimanendole sempre dietro. Non ce la faceva a tenere la testa eretta; continuava a caderle da una parte. Riusciva a vedere solo i propri piedi nudi, le proprie gambe, e il liquido che le gocciolava sul tappeto dal corpo. Le sembrò divertente; rise, e quasi scivolò dalle braccia della donna.

«Cos’ha?»

Non sentì la risposta, rideva troppo forte. C’era un’altra porta. Vi si fermarono davanti e si rese conto che qualcuno le stava dando degli schiaffi in faccia. Cercò di fermarlo, ma non ci riuscì e cominciò a piangere. Uno schiaffo più forte la fece sbattere contro il muro opposto, barcollante. Si tirò indietro e si accorse che si teneva in piedi da sola e guardava l’uomo in faccia.

«Sei sveglia adesso?» Lui la fissò negli occhi.

«Sì… io…» Tossì e cercò di guardarsi intorno, ma lui continuò a tirarle la testa indietro finché lei non pensò che avrebbe pianto di nuovo. «Io… cioè…»

«Sta bene. Portala dentro.»

Di nuovo l’uomo. «Seguimi, hai capito? Seguimi e basta.»

Annuì. Sembrava che pensasse che fosse molto importante ed era disposta a fare qualsiasi cosa purché le lasciasse la testa. Ma era tutta bagnata, aveva i capelli scarmigliati e si sentiva viscida. Cercò di dirglielo, ma era già entrato nella stanza. Si sentì spingere per una spalla e passò barcollando dall’altra parte della porta.

Lanciò un’occhiata alle persone sedute nella stanza. C’era un uomo con una giacca strana che le fece venire in mente qualcosa. Lo conosceva, ma non ricordava il suo nome. E c’era una donna sulla poltrona. Quella la conosceva. Era lei.


Non avrei mai creduto di incontrare faccia a faccia l’ex presidente Tweed. Sul cubo non si poteva evitare; in un programma o in un altro, appariva di continuo, a sostenere i suoi progetti folli. Era un’istituzione della scena telepolitica da quando ero nata.

Tweed sembrava appena uscito da una vignetta politica dell’inizio del ventesimo secolo. Si era fatto venire la pancia, indossava sempre pantaloni a righe e una giacca con le code, cilindro e ghette. Fumava sigari, e quando era stato eletto, aveva chiamato la residenza presidenziale della Tammany Hall. E ne aveva vinte di elezioni! Sebbene non seguissi molto la politica, sapevo che era stato eletto per tre volte consecutive.

Aveva lastricato la strada per l’attuale spettacolo pagliaccesco che chiamiamo governo. Il riconoscimento è tutto, e il pubblico aveva dimostrato una confusione, forse comprensibile, fra la retorica politica e le fantasie che la circondano al cubo. Così adesso abbiamo i nostri Tweed, i nostri Churchill e i nostri Kennedy. C’è un Hitler, un Bonforte, un Lewiston e un Traiano. Metteteli tutti insieme e il risultato sarà qualcosa che si può senz’altro chiamare un circo.

Fortunatamente chi ricopre cariche elettive non ha più molti compiti; si tratta di incarichi per lo più di rappresentanza o di supervisione sull’operato dei computer quelli che governano effettivamente. Non sono mai stata sicura che fosse una cosa tanto positiva, ma Tweed mi fece essergliene grata. Non che le mie opinioni avessero molta importanza in quel momento.

Misi da parte le elucubrazioni politiche e mi preparai ad ascoltare la proposta che stava per farmi. Di qualsiasi cosa si trattasse, doveva essere meglio di quanto mi aspettava.


«Non si faccia venire idee strane,» disse col suo famoso brontolio da basso. «Sono refrattario a qualsiasi attacco.»

Lilo si rese conto che parlava di attentati alla propria vita. Niente era più lontano dalle sue intenzioni. Era lì, dove non aveva nessun diritto di essere; le aveva appena mostrato quello che doveva essere un clone illegale; non riusciva a trovare alcun motivo per un simile comportamento se non che avesse qualcosa da offrire. E lei era molto interessata di sentire di cosa si trattasse.

«Nei nostri futuri colloqui scoprirà che sarò invariabilmente protetto.»

«Non vedo come questa informazione possa essermi utile, a meno che non abbia a che fare con lei in futuro. Come sa, attualmente il mio futuro è limitato.» Cercava di parlare con noncuranza, di impedire che la voce tradisse la sua speranza, ma era impossibile. Il peso colpevole del coltello contro la coscia e il filo di sangue sul braccio testimoniavano quale fosse la sua possibilità di contrattazione in quella conversazione.

«Sì, avrà a che fare con me in futuro. Lei,» indicò il bagno, «o quella… altra donna. Toccherà a lei scegliere.»

Poteva sentire i rumori provenienti dal bagno: l’acqua che scorreva e una voce arrabbiata che riconosceva appena come la propria. La sua gemella si stava svegliando, e quel risveglio le faceva paura.

«Fra cosa devo scegliere?»

«Innanzitutto, si deve rendere conto della sua posizione. Io…»

«So qual è la mia posizione, maledizione! Vada avanti.»

«Sia paziente. Prima voglio che sappia alcune cose.» Tacque, quindi prese un sigaro, lo spuntò e l’accese con meticolosità. Era una persona straordinariamente brutta, pensò Lilo, della bruttezza che solo una caricatura può raggiungere. Repellente come un fantasma contorto e deforme della vecchia Terra.

«Il clone è stato sviluppato illegalmente, è chiaro,» riprese Tweed. «Ma lei non può più testimoniare niente. Non avrà mai la possibilità di raccontare a nessuno quello che ha visto qui oggi, se decidesse di rifiutare la mia proposta. Da ora in poi avrà contatti solo con Vaffa e Hygeia, le due guardie che ha appena visto. Mi sono tutte e due fedeli.»

«Cos’altro può dirmi che mi interessi sapere? Non ha fatto tutto questo solo per schernirmi. Lei è un… non importa. Non mi piace molto. Non mi è mai piaciuto,»

«E lei non piace a me. Ma posso servirmi di lei. Voglio che lavori per me.»

«Bene. Quando cominciamo? Come ha osservato, è meglio fare alla svelta, perché non ho poi tanto tempo.» Ma il sarcasmo suonò falso, anche alle sue orecchie, perché le faceva male la gola mentre diceva quelle parole. Lui rise, educatamente, e lei era così ricettiva nei suoi confronti che fu sul punto di ridere. Si trattenne quando l’inizio di risata minacciò di trasformarsi in singhiozzo.

«C’è quel piccolo problema,» concesse. «Le offro la possibilità di sfuggire all’esecuzione. Le offro una controfigura.»

Guardò la porta del bagno — si sentiva un rumore di lotta — e poi di nuovo lei. Sollevò le sopracciglia.


L’acqua fredda mi aveva tolto il respiro e mi era sembrato di soffocare, ma ero un po’ meno intontita. Era la prima volta in quei pochi minuti che riuscivo a pensare coerentemente. Quello che più volevo al mondo era dormire, ma gli eventi si susseguivano troppo in fretta e, apparentemente, erano al di fuori del mio controllo.

Tweed! Ecco come si chiamava. Che ci faceva nell’altra stanza, a parlare con qualcuno che aveva il mio stesso aspetto, nella mia cella? E la vasca? Ero morta? Mi ero svegliata in un contenitore, il che doveva significare che ero morta. Ma ero stata condannata a morte; non mi sarei dovuta svegliare mai più.

Misi la faccia sotto il getto freddo. Non ti addormentare, non ti addormentare. Sta succedendo qualcosa di importante e tu ne sei esclusa. Sputai e respirai a fatica, dandomi degli schiaffi in faccia, sulle gambe e sulle spalle. Mi sembrava di capire adesso, ed era lurido, marcio; così brutto che non riuscivo a crederci. Ma dovevo farlo.

Barcollai e caddi contro la parete della doccia. La guardia donna mi prese per un braccio e mi alzò in piedi. Non riuscivo a mettere a fuoco gli occhi. Cercai di colpirla, ma era grande e attenta e il colpo non andò a segno. Poi scappai fuori urlando.


Uscì di corsa dal bagno, seguita dall’uomo e dalla donna. L’uomo la afferrò, ma era scivolosa e forte di una forza isterica. Riuscì a liberarsi, dandogli un calcio con i piedi nudi mentre lottavano avvinti per terra, per poi dirigersi carponi verso la donna seduta sulla poltrona. Gridò di nuovo.

Sbatté violentemente contro un tavolo nel tentativo di alzarsi in piedi, barcollò e rovinò davanti al divano sul quale era seduto Tweed. Il secondino la riprese e cominciò a trascinarla via, ma Tweed sollevò una mano.

«Lasciala stare,» disse. «Penso che sia la sua stanza, dopo tutto.» Guardò Lilo, che sembrava pietrificata dal fascino. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla donna stesa per terra. «Naturalmente, a meno che lei non desideri altrimenti.»

Lilo si impose di non guardare più il clone. Aprì la bocca per parlare, ma le parole le rimasero in gola. Il clone la stava guardando di nuovo. Sulla faccia di Lilo si era dipinto un terrore mortale. Accettare l’offerta di Tweed avrebbe significato condannare a morte quella donna. Non voleva pensarci.

Ma adesso il clone stava guardando Tweed, e Lilo poteva quasi sentirne la mente al lavoro. Si afferrò al bordo del divano e si alzò in ginocchio.

«Non so di cosa steste parlando,» disse, «ma penso che dovreste dirmelo. So di non essere aggiornata; mi sono appena svegliata. È successo qualcosa, questo lo vedo. Ho ottenuto il rinvio dell’esecuzione, giusto? Lei è quella che penso di essere io, solo sei mesi dopo, giusto?»

«È giusto,» rispose Tweed con un sorriso.

Lilo si sentì percorrere da un brivido e si rese conto di aver paura del clone. Non voleva che Tweed le sorridesse. Non c’era motivo di pensare che Tweed avesse una preferenza; il clone poteva servire ai suoi scopi quanto l’originale. Non era detto che dovesse essere salvata lei, solo perché era più vecchia.

«Qualunque sia il patto,» stava dicendo il clone, «io posso andar bene quanto…»

«Accetto,» disse Lilo, più forte che poté. Tweed la guardò.

«È sicura?»

Il clone spostava stancamente gli occhi dall’uno all’altra.

«Sì.» Inghiottì con forza. «Sì. Uccida lei. Mi lasci vivere.»


Mi sentivo come se fossi improvvisamente scomparsa.

Le parole di Tweed e dell’altra donna mi passavano attraverso il corpo, mi passavano sopra la testa mentre restavo inginocchiata lì sul pavimento. Non potevo crederci. Non riuscivo a capire cosa stessero dicendo; le orecchie mi rombarono e mi sentivo di nuovo confusa. Credo di aver battuto la testa nel cadere.

Dovevo fare in modo che mi notassero. La mia vita dipendeva da quello. Mi alzai, barcollando, e rimasi in mezzo a loro che però continuarono a non notarmi. Era un incubo. Urlai, ma non servì a niente. Si erano alzati e stavano uscendo dalla stanza, mentre la custode si era messa fra me e la porta. Aveva una faccia dura.

Mi slanciai in avanti, lottai con la donna, ma lei mi tenne con forza. Se n’erano andati.

Perdevo e riacquistavo conoscenza, seduta sulla poltrona, da sola. Poche ore prima Hygeia, la guardia, mi aveva dato una dose doppia di analgesico, ed ero rimasta seduta in attesa che facesse effetto. I miei sogni erano neri e informi, a parte la familiare foresta che vi incontravo sempre: una foresta sotto un sole blu.

Quando il dolore alle mani e ai piedi si fu quasi del tutto attenuato, mi alzai. Tutto divenne nero, e mi ritrovai nel bagno senza sapere come ci fossi arrivata. Aprii la doccia.

Mi guardai per un attimo il polso. C’era un taglio profondo, il sangue mi colava lentamente fra le dita e gocciolava sulle gambe e sui piedi nudi. Come era successo? Avevo la mente confusa, ma mi sembrò di ricordare… avevo posato il coltello… no? Quella donna — come si chiamava? — era stata nella mia stanza. Aveva forse cercato di uccidermi e di farlo sembrare un suicidio? Acqua calda scorreva su di me. Rivoli rosa si avvolgevano intorno alle dita dei piedi. Barcollai e battei la testa contro la parete. Sapevo che era troppo tardi. Stavo morendo. Era così freddo. Presto sarei morta.

Il getto della doccia mi colpiva sulla faccia. Avevo i piedi gelati. Mi guardai nuovamente il polso e vidi che il sangue non usciva più. Mi alzai, scivolai e caddi con la faccia in una pozza rossa.

Di nuovo nella stanza principale. Incapace di reggermi in piedi. Cercavo qualcosa. Cosa? Nella mia mente c’era un altro vuoto. Il coltello. Avrei terminato il lavoro che la donna aveva iniziato. O ero stata io? Avevo lasciato il coltello… dove? L’avevo in mano. Mi stavo colpendo ripetutamente, le mie dita mollarono la presa. Il coltello era scomparso di nuovo. Mi misi carponi.

Vidi degli stivali davanti a me. Tentai di alzarmi.

«Sei svenuta un’altra volta.» Era Hygeia.

«Non sento dolore,» le dissi. «Non aver paura.»


Circum-Luna 6 era un guscio metallico di cinquecento metri di raggio. Sulla superficie esterna la gravità era di cinque metri al secondo quadrato, ma un. visitatore che fosse sceso per una delle tre entrate avrebbe percepito un aumento di peso a ogni passo verso il basso. I visitatori di CL-6 erano pochi.

Tutte le stazioni orbitali generatrici erano «fori», ma solo CL-6 era conosciuta come Il Foro. Cinque o sei volte all’anno veniva chiusa per poche ore in modo che si potesse scendere in quello che fino a poco prima era stato un inferno di radioattività.

Adesso era chiusa. A livello g-1 c’era una terrazza appesa ai mastodontici generatori di campo che permettevano che il foro nero restasse sospeso in mezzo alla stazione. Dalla terrazza partiva un braccio metallico non sostenuto dall’altra parte e con rotaie su entrambi i lati e piccoli gradini incassati in esso. I tredici gradini erano tradizionali ed erano alti solo pochi centimetri. La barella ci scivolava sopra senza difficoltà, mentre il corpo che vi era legato sobbalzava mentre veniva spinto all’estremità del braccio dall’uomo e dalla donna vestiti di nero.

Uno dei giustizieri tolse il panno che copriva il corpo di Lilo, l’altro, intanto, attaccava la barella a un meccanismo di espulsione. Fatto questo, rimasero per un attimo sotto l’occhio della telecamera, poi scesero dal braccio e risalirono alla superficie.

La barella si piegò e rimase per un attimo in equilibrio, prima di cadere. Acquistò velocità asintoticamente, e l’interno di CL-6 rifulse di una luce violenta. In fondo alla discesa del foro, a metà strada dall’infinito, la piccola massa di neutronio che era stata Lilo orbitava a una velocità quasi uguale a quella della luce, emettendo energia mentre veniva portata fino ai limiti della materia. Infine sprofondò nell’oblio.

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