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Perché non possiamo tornare a casa, La Co-op Creativa Orale Mach 5. (Nastro registrato, livello analf.)

Giunsero nell’anno 2050, numerazione antica. (Due oggetti delle dimensioni di asteroidi che entrano nel sistema solare dallo spazio interstellare. Il telescopio di Monte Palomar che viene puntato in alto. L’astronomo che si china sull’oculare.) Stavano decelerando, in direzione Giove.

Due astronauti, Purunkita e Mizinchikov, furono richiamati da una normale missione di rifornimento alla base di Marte. (Scena di P M che si imbarcano sull’astronave U Thant. Stacco sugli attori all’interno dell’astronave: osservano gli strumenti, ricevono messaggi radio, accendono motori, mangiano, cop.) Dovevano raggiungere Giove dopo sei mesi e arrivare con i serbatoi vuoti. Gli ordini: non prendere iniziative, osservare e aspettare l’arrivo di una cisterna automatica. (Foto di P M a bordo della U Thant, con Giove all’esterno. P è nera come lo spazio. Ha un braccio intorno a M. È incinta.)

Uno degli oggetti orbitò intorno a Giove. L’altro cambiò direzione all’ultimo momento e andò verso la Terra. (Notiziari sulla nave degli Invasori, una sfera di venti chilometri mezzo sommersa nell’acqua, di un colore scuro, piena di aperture.)

Il poco che sappiamo degli Invasori l’hanno detto Purunkita e Mizinchikov, i soli di cui si sappia che sono entrati dentro una delle navi e ne sono usciti. Ecco cosa gli successe. (La nave sconosciuta incontra la U Thant, la inghiotte. La macchina da presa segue P, M e la figlia neonata attraverso le gallerie di pietra piene d’acqua.) Incontrano la dottoressa Ellen Bronson e i suoi due compagni che erano entrati nella nave atterrata nel Pacifico. Erano rimasti nel veicolo non più di un giorno, ma c’erano entrati il giorno dell’atterraggio. In quel momento gli astronauti erano ancora a tre mesi di distanza da Giove.

Se la loro storia è vera, dentro alle astronavi il tempo e lo spazio esistono in maniera diversa. Non c’è motivo di dubitare della loro storia.

Si pensa che la dottoressa Bronson sia la sola persona che abbia visto gli extraterrestri e sia sopravvissuta. (B da sola, mentre entra in un grande ambiente, grande quanto l’interno di un asteroide artificiale. È mezzo pieno d’acqua. In lontananza, distorsioni ottenute con effetti speciali rappresentano gli Invasori. Primo piano della faccia di B, con segni di sorpresa e di paura. Si volta e fugge.)

La Bronson sostenne di aver avuto un’esperienza strana. Le venivano dette cose misteriose, che non riuscì a spiegare quando raccontò quello che aveva sentito a Purunkita e a Mizinchikov. (Cinque figure raccolte intorno a un fuoco su una spiaggia all’interno dell’astronave, che bisbigliano). Nessuno sa se credere alla sua storia, ma è la sola che abbiamo. Ecco cosa disse.

Gli Invasori vengono da un gigantesco pianeta gassoso simile a Giove. Lo scopo della loro venuta nel sistema solare non era l’invasione della Terra, ma motivi sconosciuti riguardanti gli abitanti di Giove. La Bronson disse che ci sono Gioviani intelligenti molto simili agli Invasori. (Scena animata nell’atmosfera gioviana. Grandi forme indistinte passano fluttuando.)

L’invasione della Terra fu secondaria. Venne compiuta a vantaggio delle tre specie intelligenti della Terra: i capodogli, le orche e i delfini. (Scene di mammiferi acquatici.)

La Bronson disse che nell’universo ci sono tre livelli di intelligenza. Sopra a tutti ci sono i Gioviani e gli Invasori. Un gradino più sotto i delfini e le balene. Gli esseri umani, gli uccelli, le api, i castori, le formiche e i coralli non sono considerati intelligenti.

Nessuno sa se ciò sia giusto, ma è tutto quello che abbiamo.

L’umanità non ricevette nessuna spiegazione. Non ci fu nessun ambasciatore, non venne dato nessun ultimatum. Gli esseri umani si opposero all’Invasione, ma la loro resistenza venne ignorata. Le bombe H non esplosero, i carri armati non si mossero, i cannoni non spararono. (Panico nelle strade, scene dall’elicottero di autostrade intasate.) Nessuno vide mai un Invasore. Le foto mostrano dei segni nel cielo che al momento nessun osservatore aveva notato, come punti ciechi nell’occhio. Forse gli Invasori erano quelli. (Foto di edifici che crollano, di strade che vengono distrutte, con vortici colorati nell’aria.)

Per quanto se ne sa dalle informazioni ricevute prima che le trasmittenti smettessero di funzionare, gli Invasori non hanno mai ucciso neppure un essere umano. Si limitarono a distruggere tutti gli artefatti della civiltà umana. Lasciarono dietro di sé la terra nuda, dalla quale spuntavano pianticelle e erba.

Nei due anni successivi dieci miliardi di esseri umani morirono di fame.


Poseidone è un pezzo di roccia irregolare. È l’oggetto più lontano che può essere considerato come appartenente a Giove. Essendo retrogrado e inclinato di centocinquanta gradi rispetto all’equatore di Giove, è uno dei corpi del sistema solare con cui è più difficile incontrarsi.

Il Terra Natale II era una nave a caduta libera, un trasporto progettato per carichi ingombranti e non urgenti. Viaggiava su orbite iperboliche e non secondo le linee rette di un razzo veloce.

«Congratulazioni, Comandante,» disse Lilo. «È stato un buon lavoro.»

«Huh? Ah, vuol dire l’accostamento?» Scrollò le spalle, ma lei vide che era contento. Era arrivata a conoscerlo abbastanza bene nei ventinove giorni del viaggio fino a Giove.

«Veramente,» disse.» «Al giorno d’oggi la maggior parte dei piloti spaziali sono come addetti agli ascensori. Rendono il viaggio piuttosto noioso.»

«Sì, non posso contraddirla.»

«Lei mi fa pensare ai giorni in cui le persone si mettevano semplicemente in viaggio. Dall’altra parte non ci sono stazioni di rifornimento, non c’è aria, non c’è niente. E credo che le piaccia.»

Lui sorrise. «Immagino che non farei questo lavoro se non mi piacesse. Però mi sono sempre sentito nato nell’epoca sbagliata. Non c’è più avventura. Questo viaggio è praticamente la cosa più pericolosa che si possa fare, ed è illegale. Deve essersi domandata come sia stato possibile andare su Giove.» Iphis le spiegò il sistema di Tweed.

Era illegale assumere un’orbita chiusa intorno a Giove, o atterrare su una sua luna. La scappatoia consisteva nel fatto che era legale servirsi di Giove per modificare un’orbita e prendere un’altra direzione. Le navi passeggeri non lo facevano mai, troppe persone avevano paura anche solo di avvicinarsi a Giove. Ma c’erano molti operatori indipendenti disposti a farlo per risparmiare tempo e denaro.

Il trucco consisteva nell’avere due navi. Tweed ne aveva trovata una su Plutone, data come dispersa e presumibilmente distrutta. Una nave identica veniva contemporaneamente comprata. Adesso tutte e due le navi avevano lo stesso numero di registrazione. Ancor più importante, avevano lo stesso comandante. Lilo andava su Giove con il Terra Natale II comandato da Iphis II. Ma c’era un Terra Natale I e un Iphis I, un clone, che il numero due non aveva mai incontrato e probabilmente non avrebbe incontrato mai.

«La dogana, per sua natura, è interessata solo alle navi in arrivo. Io parto per Titano, indicando solo Vaffa come passeggera. Arrivo su Giove e intanto il mio clone e un’altra Vaffa tornano da Poseidone. Prendono il mio posto sulla rotta che stavo percorrendo. Su Titano tutto torna, perché l’altra nave arriva trasportando solo quello che avevo dichiarato sulla Luna. Se qualcuno notasse i miei gas di scarico, qui fra le lune, non direbbe niente. Probabilmente penserebbe che gli Invasori stiano facendo qualcosa.»

Lilo si rabbuiò a sentir nominare gli Invasori. Erano venti ore che stavano girando intorno a Giove. Non era una cosa che le piacesse ricordare.

Guardò nuovamente fuori dall’oblò. «Non è il momento di pensare ad atterrare?» La luna stava diventando sgradevolmente grande; non riusciva a scorgerne i contorni. Sulla superficie c’era qualcosa che si muoveva. Con stupore notò che era una persona. Erano vicini fino a quel punto.

«Non si preoccupi. Una nave come questa non può atterrare su un sasso come quello. Si potrebbe far uscire tutto dall’orbita.» Guardò fuori dall’oblò e le sue mani si spostarono sui comandi. Con alcuni sbuffi dei reattori di altitudine, sembrò che si fossero fermati. «Adesso ci tireranno giù con dei cavi e ci fisseranno. Può uscire, se vuole.» Scese con un salto dal sedile. La sua grazia la sorprese. Sapeva che in assenza di peso le gambe erano d’ingombro, troppo potenti per qualsiasi tipo di lavoro. Ma non si era resa conto che erano addirittura pericolose. Il primo giorno di volo si era quasi rotta la testa tre volte. Tutti i viaggi che aveva fatto erano stati su navi a un-g.

Si scoprì a guardarsi intorno cercando qualcosa. La tuta. Un riflesso profondamente radicato tentava di impedirle di entrare nella camera stagna solo con la gonna e la camicia. Le tornarono in mente i secondi terribili della fuga dall’Istituto. Respinse quel ricordo. Le dava noia essere preda di paure irragionevoli. Sapeva che la tuta-nulla funzionava; era entrata in funzione a poche ore di distanza da Giove, allorché il livello delle radiazioni all’interno della nave era diventato pericoloso.

Si chiuse nella camera stagna non appena Iphis e Vaffa furono usciti e premette il pulsante di attivazione. Le venne la pelle d’oca; poi la tuta uscì e lei si sentì mancare l’aria. Vinse il riflesso di respirare affannosamente.

Non era facile abituarsi a una tuta-nulla. Era sconcertante, come ritrovarsi avvolti in uno specchio che circondasse ogni curva del corpo a una distanza di un millimetro, un millimetro e mezzo. Quando si guardava, vedeva un’immagine deformata delle cose, contorte proprio come in uno specchio di luna-park. Ma alcuni particolari erano decisamente allarmanti. Lilo aveva respirato aria per cinquantasette anni, e non era facile smettere di punto in bianco.

La tuta conteneva un collegamento neurale che escludeva la parte del sistema nervoso autonomo che controllava il diaframma. Quando la tuta era in funzione, il riflesso a respirare era assente. Però non era così semplice. Al di sotto del livello a cui venivano controllati la digestione, il cuore e la respirazione, c’era una scimmia primitiva sufficientemente intelligente da rendersi conto che non stava respirando, ma non abbastanza da capire che ci stava provvedendo la tuta. Il risultato era una reazione isterica molto vicina al panico.

Lilo sapeva che sarebbe riuscita a controllarla. Altri l’avevano fatto; su Mercurio e Venere le persone crescevano dentro tute-nulle. Ma per i primi cinque minuti si strinse contro la porta della camera stagna e si sforzò di smettere di tremare. Scoprì che le era di aiuto pensare al processo che la teneva in vita. Visualizzò il trapianto metallico irregolare con cui Mari le aveva sostituito il polmone sinistro. Conteneva un generatore di campo nullo, una riserva di ossigeno di trenta ore e alveoli artificiali collegati al sistema di circolazione polmonare. La tuta-nulla scambiava l’ossigeno con l’anidride carbonica, ma in modo molto più efficiente di quanto non fosse possibile ai suoi polmoni. L’oscillazione del campo della tuta provocava un’azione a mantice che faceva uscire anidride carbonica quasi pura dalla valvola di scarico sotto la clavicola. C’erano anche sistemi sussidiari, quali la radio biauricolare che poteva far funzionare formando le parole con la gola.

Cominciò a stare meglio. Sotto di lei, a circa cinque metri di distanza, c’era la superficie di colore grigio sporco. In alcuni punti avevano tentato di spianarla, specialmente nella zona intorno all’ancoraggio della Terra Natale. Ma per il resto era gelata e tormentata. Una rete di cavi argentei si stendeva fra sostegni metallici. Su Poseidone era l’equivalente di un sistema stradale.

Uscire dalla camera stagna con un salto le era sembrata una buona idea, ma dopo pochi secondi si accorse del suo errore. Nello scendere aveva avuto il tempo di calcolare l’accelerazione di gravità, che era risultata di quasi un centimetro al secondo quadrato, cioè sei millesimi della gravità lunare. Toccò terra — troppo forte, con troppa reazione — ed ebbe il tempo di fare altri calcoli mentre scivolava nuovamente giù, un po’ spaventata questa volta. Ma la velocità di fuga era notevolmente più elevata di quella che potevano produrre le sue gambe. Il pozzo gravitazionale era profondo trecentotrenta metri, in condizioni lunari standard.

Quando fu di nuovo vicina alla superficie stette più attenta. Afferrò un cavo e si tirò giù. Il cavo aveva la stessa lucentezza speculare del suo corpo. Osservò le sue mani argentee che gli si avvolgevano intorno e vide che la tuta si univa al cavo senza che vi fossero segni di congiunzione.

Si tirò verso lo specchio nel quale erano entrati gli altri. Era un altro campo nullo, che proteggeva l’entrata di un recinto sotterraneo. Cercò di passarvi, ma vi infilò solo il collo. Dentro c’era Vaffa: fluttuava in un corridoio di roccia nuda e sorrideva. Lilo si tirò indietro e si tolse la camicia e la gonna, che non erano state racchiuse dalla tuta allorché essa era entrata in funzione. Doveva esserci un modo per farcele entrare, ma non riusciva a capire quale. Entrò, lasciandosi dietro i vestiti.

Vaffa era sempre lì e le porse qualcosa. Una valigia pressurizzata.

«Dovrai imparare a usare i campi nulli,» disse Vaffa. «Non vi può penetrare niente che non sia racchiuso in un altro campo nullo. Tranne che se si è sintonizzati per permettere il passaggio di frequenze luminose. È così che riesci a vedere attraverso la tuta.»

Lilo era furibonda, ma non aveva intenzione di dire niente. Prese la scatola che Vaffa le porgeva e si voltò. Dall’interno la superficie speculare era invisibile. Le sembrava di guardare da dentro un condotto aperto. Nell’uscire venne di nuovo avvolta dalla tuta.

«Cos’è, un’iniziazione?» fece seccamente, ritornando con i vestiti. Il vuoto non le aveva certo giovato. La gonna conteneva plastica volatile in ebollizione.

«No,» rispose Vaffa. «No davvero. Anche se non fa mai male sbattere la testa sul fatto che qui le cose sono diverse.» Fece una pausa e guardò i vestiti rovinati che Lilo stava tirando fuori dalla valigia. «Spero che non fossero i tuoi preferiti.»

Lilo non disse niente.

«Ti darò qualche consiglio utile,» riprese Vaffa. Lilo sollevò lo sguardo, un po’ sorpresa. Vaffa non era mai stata tipo da offrire spontaneamente qualcosa.

«Gratis?»

«Certo,» rise. «Il primo è che quando esci devi tenere i capelli all’indietro, lontano dagli occhi. Il campo schiaccia i capelli contro la testa, con forza, poiché l’aria viene eliminata. Se uno ha i capelli sulla faccia, non ci vede più.»

«Grazie. Me ne ricorderò.»

«Il secondo è di stare attenta quando parli. Quell’affare che hai in gola trasmette tutti i suoni che emetti. Se pensi con troppa intensità puoi scoprire che tutti ti sentono.»

«Ci starò attenta.»

Il corridoio era circolare e non sembrava ancora ultimato. Qualcuno aveva semplicemente scavato un foro, senza preoccuparsi di spianare il pavimento. Strisce gialle e nere indicavano il basso e l’alto e il traffico era regolato da frecce. Lilo sapeva che alla fine avrebbe capito tutto, ma dopo tre curve il suo disorientamento era quasi totale. Era salita o era discesa? Era andata a destra o a sinistra? La striscia gialla indicava il pavimento o il soffitto? Guardare dentro alle stanze che si aprivano sulla galleria ogni cinquanta metri non l’aiutava; i mobili erano attaccati a tutte le superfici possibili.

Vaffa la condusse in un gabinetto medico. Una donna dall’aria grave era seduta dietro una scrivania attaccata a una parete posteriore.

«Mari!» Lilo avanzò ancora prima di ricordare. Poi si sentì la faccia inondata di sangue. Le orecchie le bruciavano.

«Sì, so che conosceva il mio clone sulla Luna,» stava dicendo Mari mentre fluttuava verso, di loro. «So anche cosa le ha fatto.»

«Sono… spiacente. Io…»

«Non mi dica nulla. Lei non ha fatto niente. È stato il numero tre, e lei è il numero quattro. Tuttavia credo che capirà se le dico che non penso di avere molte cose in comune con lei. Passiamo al lavoro.»

Il lavoro si rivelò essenzialmente di tipo medico. Mari le fece alcuni esami e cominciò a sottoporla a una serie di cure che sarebbero continuate finché fosse rimasta su Poseidone, per annullare gli effetti dell’assenza di peso. Il suo scopo era quello di far sì che il tono muscolare dei residenti restasse al livello di zero virgola nove gi. Mari credeva — come Lilo — che a lungo andare fosse pericoloso abituare i muscoli a condizioni di gravità inferiore.

A Lilo venne dato un tranquillante, per aiutarla a superare il disorientamento; fu portata in una piccola cella, e le fu detto di dormire per otto ore. Dopo di che avrebbe saputo quali erano i suoi doveri nella stazione.

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