Ho sempre trovato strano il fatto che riesco a ricordare gli avvenimenti della mia giovinezza con chiarezza e precisione, mentre le cose accadute ieri sono confuse, e non ho alcuna fiducia nella mia capacità di ricordarle accuratamente. C’è forse qualche procedimento di fissaggio, mi chiedo, per cui il tempo, anziché far svanire i ricordi (come ci si aspetterebbe), fa il contrario — li rende solidi come cemento, l’esatto opposto della poltiglia che mi sembra di ottenere quando cerco di parlare di ieri? L’unica cosa che posso dire con sicurezza — su ieri, cioè — è che c’erano di nuovo persone in solaio, persone della signora Wilkinson — e questa è una cosa curiosa, una cosa che mi è sfuggita fino a questo momento: la persona che gestisce la pensione in cui vivo (solo temporaneamente) ha lo stesso cognome della donna responsabile della tragedia che colpì la mia famiglia vent’anni fa. A parte il nome, non c’è alcuna somiglianza. La mia signora Wilkinson è una creatura completamente diversa da Hilda Wilkinson; si tratta di una donna acida e vendicativa, grande, è vero, com’era grande Hilda, ma senza niente della verve e della vitalità di Hilda, molto più interessata alle questioni di controllo — il che mi riporta alle persone in solaio ieri notte; ma di loro, a pensarci, credo che parlerò un’altra volta.

Mi ci vogliono circa dieci minuti per tornare dal canale alla casa della signora Wilkinson. Non sono un camminatore veloce; vagabondo, più che camminare, e spesso sono costretto a fermarmi di colpo in mezzo al marciapiede. Mi dimentico come si procede, capite, perché non c’è più niente di automatico in me da quando sono tornato dal Canada. Le azioni più semplici — mangiare, vestirmi, andare in bagno — a volte possono porre problemi insormontabili, non perché io sia in qualche modo handicappato, ma piuttosto perché perdo il naturale, fluido senso di essere-nel-mio-corpo che avevo una volta; il legame fra cervello e membra è un meccanismo delicato, e per me spesso, ora, diventa scollegato. Con fastidio di chi mi circonda, devo allora fermarmi e decidere quello che sto cercando di fare, finché lentamente i ritmi di base si ristabiliscono. Quanto più sono coinvolto nei ricordi di mio padre, tanto più frequentemente ciò sembra accadere, per cui suppongo che mi aspettino alcune settimane diffìcili. In questi casi, la signora Wilkinson si spazientisce con me, e questa è una delle ragioni per cui intendo lasciare la sua casa, probabilmente all’inizio della settimana prossima.

Ci sono altre cinque persone che vivono qui, ma io non presto attenzione a loro. Non escono mai; sono creature apatiche, passive, anime morte come ne ho incontrate spesso oltremare. No, io preferisco le strade, perché sono cresciuto in questa parte di Londra, nell’East End, e benché in un certo senso i cambiamenti siano totali, e io sia un estraneo, in un altro senso nulla è cambiato: ci sono fantasmi ed esistono ricordi che spuntano a grappoli quando getto un’occhiata sotto un ben noto ponte ferroviario, a un ben noto angolo del fiume al tramonto, ai gasometri, che non sono cambiati affatto. I miei ricordi hanno un modo particolare di affollarsi sulla scena e far crollare il blocco di tempo che separa allora da ora, producendo una sorta di identità, una sorta di percorso parallelo di passato e presente tale che ne resto confuso e mi dimentico — tanto ricchi e immediati appaiono — che io sono quello che sono, una ragnesca figura vagabonda, con un vestito rovinato, e non un sognante ragazzo di dodici anni circa. È per questa ragione che ho deciso di tenere un diario.

Questa è davvero una casa molto particolare. La mia camera è all’ultimo piano, appena sotto il solaio. I bauli e le valigie degli ospiti della signora Wilkinson sono sistemati lassù, per cui non riesco a immaginare come possano fare tutto il rumore che fanno, a meno che non siano molto piccoli. Prima di andarmene, ho intenzione di salire e risolvere la faccenda con loro, perché non ho avuto una notte di sonno tranquillo da quando sono qui — anche se naturalmente non ha senso dire questo alla signora Wilkinson, se ne frega, perché altrimenti non mi avrebbe messo quassù. C’è un tavolino piuttosto instabile sotto la finestra, ed è lì che siedo quando scrivo. In questo momento sono seduto lì, in effetti; davanti a me c’è il mio quaderno, con tutte le pagine ben rigate; reggo una matita spuntata con le dita lunghe e affusolate. Mi chiedo dove dovrei nascondere il quaderno quando non lo uso; credo che per il momento lo infilerò semplicemente sotto il foglio di carta di giornale che ricopre il fondo dell’ultimo cassetto del mio comò; più tardi, cercherò un luogo più sicuro.

Non che ci siano tante possibilità! Ho un lettino con la struttura di ghisa e un sottile, frusto materasso disteso sulle poche molle dolorosamente cigolanti quando io giaccio su di esso; per me, questo letto è corto di circa quindici centimetri, per cui i piedi mi sporgono all’estremità. Ci sono un piccolo tappeto liso sul linoleum verde crepato e un gancio fissato all’uscio, da cui pendono due ometti di fìl di ferro, che oscillano tintinnando quando apro la porta. La finestra è sporca, e anche se scorgo il piccolo parco dall’altra parte della strada, non posso mai essere sicuro di vedere quello che credo di scorgere laggiù, tanto è scarsa la visibilità. La tappezzeria è di un triste verde giallognolo, con un disegno floreale molto tenue, in alcuni punti cancellato fino a rivelare la precedente carta da parati e lo stucco sottostanti; dal soffitto pende una lampadina, celata da un paralume a forma di cappello in qualche materiale simil-pergamena; l’interruttore è vicino alla porta, e così devo attraversare la stanza al buio dopo aver spento la luce, cosa che odio. È qui, per ora, che vivo.

Ma almeno non sono lontano dal canale. Ho trovato una panchina vicino all’acqua, in un punto riparato che posso definire «personale», dove mi piace passare il pomeriggio senza che nessuno mi disturbi. Da questa panchina, ho una chiara visuale dei gasometri, e la vista mi ricorda sempre mio padre: non so perché, forse per il fatto che era un idraulico e una figura familiare in questo quartiere quando pedalava sulla bicicletta con la borsa di stoffa degli attrezzi buttata su una spalla come una faretra piena di frecce. Le strade erano strette a quel tempo, fiancheggiate da scure, squallide catapecchie accostate l’una all’altra, con dietro dei cortiletti minuscoli — tubazioni esterne e fili per stendere tesi fra muro e muro, e i cortili davano su vicoli in cui magri gatti randagi rovistavano nei bidoni della spazzatura. Londra sembra così grande e vuota, adesso, e questa è un’altra cosa che trovo strana: mi aspettavo il contrario, perché le scene della propria infanzia tendono ad apparire enormi e immense nella memoria, come sono state vissute a quel tempo. Ma per me è l’opposto, mi ricordo tutto piccolo: camere, case, cortili, vicoli, strade — piccole, scure e stipate, strette insieme sotto un cielo opprimente, in cui il fumo delle ciminiere si disperdeva in vaghi sbuffi e lunghi fili, un cielo pieno di nuvole… Sembrava che piovesse sempre e, se non pioveva, stava per piovere. C’erano mattoni anneriti e muri tetri, e contro di essi figure grigie avvolte in impermeabili correvano a casa come fantasmi nei tardi pomeriggi invernali, prima che fossero accesi i lampioni.

È così che funziona, capite. Siedo sulla mia panchina con le spalle al muro. Il cielo è grigio e coperto; magari c’è qualche goccia di pioggia. Un’aria di desolazione pervade la scena; non c’è nessuno nelle vicinanze. Proprio di fronte a me, una striscia di erba stenta e sterpaglie. Poi il canale, stretto e fangoso, con la schiuma verde che copre le pietre. Dall’altra parte, un’altra macchia di erba, un’altra parete di mattoni e, dietro di essa, i muri macchiati di una fabbrica abbandonata con le finestre sfondate; al di là, le grandi cupole rosso ruggine dei gasometri che si stagliano contro il cielo cupo, tre, ciascuna con una dozzina di piloni torreggianti disposti in circolo e coperti da una volta d’acciaio. All’interno di quei sottili piloni d’acciaio disposti in circolo vi sono i grandi cilindri del gas, con la vernice scrostata, le ruote attaccate sul bordo che scorrono nelle guide dei piloni, permettendo loro di salire e scendere a seconda delle fluttuazioni del volume e della domanda. Ma cerco di non guardarli, per ragioni che spiegherò più avanti; rivolgo lo sguardo verso sud, invece, verso un ponte gobbo a un centinaio di metri di distanza, sormontato da una balaustra di ferro e ornato, su questo lato, da un albero morto, e dietro di esso una prospettiva di tetti grigi spioventi, con gruppi di sottili camini rossi che emettono fumo. Mi arrotolo le sigarette, e in qualche modo il tempo passa.

Sì, arrotolo le mie infinite sigarette; nel farlo mi guardo le dita, queste lunghe dita ragnesche che spesso non mi sembrano affatto mie; sono macchiate di giallo scuro sulla punta; le unghie sono dure e giallastre e cornee, e si incurvano verso la fine come artigli, artigli che la signora Wilkinson sembra ora decisa a tagliarmi con le forbici da cucina. In questi giorni, le mie lunghe, gialle dita artigliate sono sempre leggermente tremanti, non so proprio perché. Comunque era un posto squallido, la Londra della mia giovinezza, una rete compatta di isolati scuri e di stretti passaggi, e a volte quando riconosco uno dei suoi tratti torno con l’immaginazione a quei giorni senza neanche accorgermi di quello che sto facendo. Per questo ho intenzione di tenere un diario, per fare un po’ d’ordine nel caos di ricordi che la città continuamente suscita in me. La data di oggi: 17 ottobre 1957.


* * *

Un’altra mattina grigia e triste. Mi sono alzato presto per scrivere il diario (dentro di me, non sono molto tranquillo sul fatto di nasconderlo nel comò; più tardi forse tenterò di infilarlo sotto il linoleum), e tutte le volte che volgevo gli occhi alla finestrella sporca sopra il tavolo vedevo solo una spessa coltre di grigiume che diventava leggermente più chiara man mano che da qualche parte dietro di essa, al di là del Mare del Nord, il sole sorgeva in un cupo cielo invernale. Questa casa spesso mi sembra una nave, l’ho già detto? È rivolta a est, capite, verso il mare aperto, e io sono qui, in cima al lato orientale, come un marinaio sulla coffa, mentre scivoliamo seguendo la corrente con il nostro carico di anime morte!

Consumiamo i pasti in cucina, qui. La signora Wilkinson ha una campanella; si mette ai piedi delle scale e la scuote, e lentamente le anime morte emergono dalle loro stanze e scendono con le facce vuote e le membra rigide, e quando compaio io — sono sempre l’ultimo, vivendo al piano più alto — sono già tutte sedute intorno al tavolo della cucina a mangiare il porridge in silenzio. La cuoca è una donna straniera piccola e tarchiata, con ciuffetti di baffi neri; è in piedi davanti alla cucina economica con le spalle alla stanza e guarda nelle sue pentole fumiganti di fegatini e frattaglie, fumando sigarette e pulendosi il naso col dorso della stessa mano con cui mescola lo stufato.

Prendo posto in fondo alla tavola. Sulla tavola è distesa una tovaglia di plastica pesante (come tela cerata), già sporca di pezzetti di porridge e macchie di latte — non abbiamo del vero latte qui, la signora miscela una polvere, per cui è una specie di liquido con dentro dei grumi galleggianti. Tazze e piatti sono di porcellana bianca e spessa, e ci è consentito usare veri coltelli e forchette. La signora Wilkinson non è mai presente; a meno che non abbia qualcosa da dire, sta nel suo ufficio sul corridoio davanti all’ingresso. Tento un cucchiaio di porridge: è velenosamente cattivo. Le anime morte non mi prestano alcuna attenzione. Con stupefatta, silenziosa astrazione, divorano fameliche il porridge e sorbiscono il tè, e nel farlo sfuggono loro vari rumorini corporei, piccole scoregge e rutti ecc. Una dopo l’altra finiscono e se ne vanno nel salotto. La donna straniera raccoglie i piatti e butta il porridge avanzato in un bidoncino vicino alla cucina economica. Le sue pentole di verdure e interiora stanno già bollendo energicamente; senza togliersi la sigaretta dalla bocca, si china annusando per dar loro una mescolata; la cenere cade nello stufato.

Dopo colazione, cerco di uscire più alla svelta che posso. Non è facile, perché la signora Wilkinson siede nel suo ufficio vicino all’ingresso come il tricipite cane infernale. «Signor Cleg!» abbaia, alzando gli occhi dalle sue carte. Io mi blocco; quella donna mi terrorizza. Resto immobile, oscillando con aria colpevole mentre lei si alza, si toglie gli occhiali e libera la sua grossa forma passando di fianco alla scrivania. «Signor Cleg!» grida. È una donna con una voce davvero forte! Non riesco a guardarla negli occhi. Si appoggia allo stipite della porta dell’ufficio. I secondi passano con torturante lentezza. Lei ha una penna tra le dita grosse e forti; ci gioca, e immagino che la spezzerà in due — a mo’ di avvertimento! «Non arriveremo di nuovo in ritardo per il pranzo, vero, signor Ceg?»

Io borbotto qualcosa, con gli occhi rivolti a terra, poi alla parete — da qualsiasi parte tranne che sulla sua faccia dura. Alla fine mi lascia andare. «Buona passeggiata, signor Cleg,» dice, e io scivolo via. Non sorprende quindi, no?, che io faccia cadere il mio tabacco per terra quando raggiungo ancora una volta il rifugio della mia panchina, tanto mi tremano le mani? Non sorprende che io debba godermi qui la mia solitudine, la mia solitudine e i miei ricordi — è un’energumena, quella donna, un’arpia, e grazie a Dio ben presto non la vedrò più.


Quando ero un ragazzo vivevamo in Kitchener Street, che è dall’altra parte del canale, più a est. La nostra abitazione era al numero 27 e, come tutte le altre case della strada, aveva due stanze al piano di sopra, due stanze al piano di sotto e un cortile sul retro, circondato da un muro con un cancello che dava sul vicolo, e un casotto con il gabinetto. La porta d’ingresso aveva in alto una lunetta sporca a forma di sole calante; c’era anche un deposito per il carbone raggiungibile attraverso una porta che si apriva sul corridoio da basso e dava su una ripida rampa di scale. Tutte le stanze della casa erano piccole e in disordine, con soffitti bassi; le camere da letto erano state tappezzate molti anni prima e la carta era umida e si staccava, e appariva molto scolorita in alcuni punti; le grandi macchie che si allargavano con il loro odore di intonaco ammuffito (lo sento ancora adesso!) formavano strane figure sul disegno floreale e stimolavano nella mia immaginazione infantile molti terrori fantastici. Il corridoio da basso andava dall’ingresso al salotto (che veniva usato raramente), oltre la porta della dispensa, fino alla cucina, dove sopra il lavandino, di fianco alla porta sul retro, c’era una finestra che guardava nel cortile. La mia camera era proprio sopra la cucina, per cui anche la mia finestra dava sul cortile, e anche sui vicoli dietro e sul retro delle case della strada parallela. Forse l’unica cosa per cui la nostra casa era diversa dalle altre di Kitchener Street stava nel fatto che noi ne eravamo proprietari: i genitori di mia madre erano commercianti e avevano comperato la casa per i miei genitori quando si erano sposati. Mi ricordo che questo si tirava in ballo quando mia madre e mio padre litigavano in cucina di notte, perché mio padre era convinto che i genitori di mia madre lo guardassero dall’alto in basso, e credo che fosse vero. Nondimeno, era raro che una famiglia possedesse la propria casa, a quel tempo, e ciò doveva essere fonte di invidia per i vicini; forse questo aiuta a spiegare il curioso isolamento in cui vivevano i miei genitori all’interno di quelle strade e di quei vicoli sovraffollati.

La domenica mattina guardavo spesso mio padre che andava al terreno dove aveva l’orto. Lo accompagnavo fuori dalla porta sul retro; nell’aria fredda e nebbiosa del primo mattino, il suo fiato diventava fumo mentre si infilava il berretto e si stringeva una sciarpa alla gola; poi si accosciava per mettersi dei legacci intorno alle caviglie in modo che i pantaloni non finissero nella catena della bicicletta. La bicicletta era appoggiata al casotto del gabinetto; la spingeva nel cortile, attraverso il cancello sul vicolo, e poco dopo lo vedevo allontanarsi pedalando.

Stava sulla bicicletta in modo rigido, eretto, mio padre, e ancora adesso riesco a vederlo, nelle mattine d’autunno, con la vecchia giacca lisa che usava per il giardinaggio e il berretto in testa, che scivola nelle strade deserte e prova una sorta di tetro piacere nel silenzio fresco e fumoso e nella propria solitudine in esso. Oltrepassava il lattaio, il cui cavallo sbuffava e batteva il suolo prima di rilasciare sul selciato un mucchio di palle di sterco fumante color paglia, e mentre sbuffava grandi nuvole di fumo uscivano dalle sue frogie nerastre e distese. A volte mio padre scendeva dalla bicicletta e raccoglieva lo sterco fresco in un sacchetto di carta, per aggiungerlo più tardi al mucchio del compost. Poi continuava nelle strette strade silenziose in direzione sudovest, verso i gasometri che, avvolti nella leggera nebbia mattutina, raggiungevano una specie di grandiosità e di mistero, malgrado l’odore. Pedalava al di là del canale, e poi sull’interminabile salita e lungo Omdurman Close, fino ai bastioni della ferrovia. A metà del ponte della ferrovia, quando riusciva a vedere gli orti, smontava e si concedeva una pausa per arrotolarsi una sigaretta. Grazie a questa piccola cerimonia riusciva ad assaporare per qualche dolce secondo in più la prospettiva del giorno che lo attendeva.

Non sono ancora tornato a Kitchener Street; mi mette in apprensione l’idea di attraversare il canale e di rivedere quei mattoni anneriti, imbevuti nella mia memoria dei suoni e degli odori della tragedia che lì avvenne. Un giorno dovrò farlo, lo so, ma non ancora, non ancora. Ho invece percorso la salita fino a Omdurman Close, la settimana scorsa, e sono perfino andato sul ponte sopra i binari, aggrappandomi con forza alle grate. Da un punto esattamente a metà del ponte — non osavo guardare giù l’intrico di binari lontani — ho visto che gli orti erano sempre lì, al di là dei bastioni, e apparentemente erano ancora coltivati, perché il fumo del falò di un giardiniere saliva nell’aria turbolenta di quel ventoso pomeriggio di ottobre. Avevo appena deciso di andare oltre e vedere cosa ne era stato dell’orto di mio padre e del casotto che lui ci aveva costruito in fondo, quando un treno merci passò stridendo selvaggiamente sotto di me e, in preda a una specie di panico, io mi trascinai zoppicando per la strada da cui ero venuto; pochi minuti dopo, ero debolmente aggrappato a un lampione col cuore che mi balzava nel petto e le orecchie che risuonavano per il frastuono del treno, un rumore terribile che per qualche secondo si era trasformato nell’urlo di derisione di una tribù di diavoli invisibili, così sembrava! Entro in confusione facilmente, in questi giorni.

Sono anch’io una specie di giardiniere, vedete. Anzi, il giardinaggio è probabilmente l’unica cosa buona che mi è venuta dagli anni passati all’estero: ho imparato a coltivare verdure, anche se non ho mai sviluppato la passione di mio padre. Per lui, quella sottile striscia di terra non era solo una fonte di verdura fresca: credo che fosse una specie di santuario, una specie di rifugio spirituale. Dopo aver attraversato il ponte, scendeva lungo lo stretto sentiero sui bastioni, oltre i campi degli altri giardinieri, lavoratori come lui che stavano già zappando o scavando, o magari semplicemente passeggiando su e giù fra i solchi con le mani intrecciate dietro la schiena e la fronte aggrottata, a contemplare le loro patate o i loro fagioli o le loro carote, o i cavoli o i piselli. «Buongiorno, Horace,» mormoravano, mentre mio padre guidava lentamente la bicicletta sul sentiero. Questi uomini potevano essere silenziosi o con la mente altrove, apertamente ansiosi per la lentezza della crescita, o per la ruggine, o per le erbacce, o per un’estate piovosa, o per i danni provocati dai corvi, ma essi erano in pace, come sono stato in pace io in un orto: erano felici.

La prima ora della domenica mattina era il momento in cui mio padre rifletteva sullo stato delle cose nell’orto, ed era un’ora da cui ricavava una messe di tranquilla felicità, incomprensibile a chiunque non fosse un giardiniere. Quell’ora, nell’aria frizzante del mattino, con la rugiada ancora sulle foglie dei cavoli, era in un certo senso la ragione per cui lavorava: egli sperimentava allora un senso di soddisfazione che non credo provasse altrove nella sua esistenza limitata e costretta. Ispezionava, valutava, saggiava il terreno con la punta di uno stivale, si sedeva sui talloni per esaminare una pianta o l’altra, posava una foglia venata e tenera sul palmo calloso della mano e la scrutava attraverso gli occhiali. Poi, dopo un po’, andava verso il suo casotto, una struttura semplice, quadrata, fatta con legno di scarto e carta catramata, e lì, nell’oscurità piena di ragnatele, appendeva la giacca e prendeva gli attrezzi di cui aveva bisogno e incominciava la giornata di lavoro. Si tratta di un semplice schizzo dell’orto di mio padre (ne parlerò ancora al momento opportuno), ma fu grazie a questa stretta striscia di terra e al suo casotto che egli riuscì a ricavare all’interno del più ampio quadro della sua vita una zona in cui godere di autonomia e di cameratismo — ed era questo che rendeva la vita tollerabile per lui, e per altri come lui. Molto concretamente, l’orto era il centro spirituale e l’essenza di una vita che, per il resto, era priva di amore, monotona e grigia.


* * *

Non vi ho ancora detto neanche il mio nome! È Dennis, ma mia madre mi chiamava sempre «Spider». Sono un tipo cadente e fragile, in realtà — i vestiti hanno sempre avuto l’aria di sbattermi addosso come delle vele, come lenzuoli o sudari: mi capita di scorgerli con la coda dell’occhio mentre vagabondo in queste strade deserte, e sembrano sempre vuoti, senza padrone, per il modo in cui la flanella ondeggia e si muove su di me, come se io non fossi nulla e gli abiti fossero appesi solo a un’idea di uomo e l’uomo stesso fosse altrove, nudo. Queste sensazioni scompaiono quando raggiungo la mia panchina, perché lì sono ancorato: ho un muro dietro di me e dell’acqua davanti, e finché non guardo i gasometri va tutto bene. Ma ho avuto un piccolo shock, ieri, perché ho scoperto che non mi va più bene niente. L’ho notato per la prima volta quando mi sono alzato dalla panchina: i pantaloni mi arrivavano a malapena alle caviglie, e dall’estremità delle maniche i polsi mi uscivano per una lunghezza assurda, come bastoni, prima di fiorire improvvisamente in queste mie mani lunghe e molli. Quando giunsi a casa, tutto sembrava tornato alla normalità, e mi venne in mente che il problema poteva essere nel mio corpo, invece che nei miei vestiti. Naturalmente non penserei mai di parlare di queste cose alla signora Wilkinson. Ha già chiarito le sue idee sull’argomento: mi ha proibito di mettere più di un capo di vestiario per tipo alla volta, non più di un paio di pantaloni, di una camicia, di un maglione ecc, anche se naturalmente le disubbidisco, in questo, perché mi piace indossare tutti i vestiti che mi è possibile, lo trovo rassicurante, e da quando sono tornato dal Canada di rassicurazioni semplicemente non ne ho mai abbastanza. Forse tutta la faccenda è stata solo una sorta di errore percettivo: di quando in quando ho avuto questo tipo di problema in passato.

Sono un uomo molto più alto di mio padre, ma per altri aspetti gli assomiglio. Lui era peloso e miope; portava occhiali rotondi, di corno, che lo facevano assomigliare a un gufo. I suoi occhi avevano un aspetto ingannevolmente dolce e acquoso, e nel momento in cui si toglieva gli occhiali si capiva che erano di un incredibile colore azzurro pallido. Ma io ho visto quei suoi occhi incendiarsi per l’ira e, quando ciò avveniva, non c’era proprio niente di dolce e di acquoso in lui, e molto spesso io venivo portato giù nella carbonaia e assaggiavo l’estremità della sua cintura. Non che lasciasse mai vedere ad altri la sua ira, era troppo astuto per questo — ma mia madre e io l’abbiamo provata, non aveva altro modo per sfogarsi, e noi eravamo le uniche persone al mondo più deboli di lui. Mi ricordo che mia madre aveva l’abitudine di dire: «Vai giù al Dog, Spider, e di’ a tuo padre che la cena è in tavola», e allora io sapevo che avrei visto sorgere in lui quella rabbiosa luce pallida. Il Dog era il pub all’angolo di Kitchener Street, il Dog and Beggar. Non era un grosso pub; c’erano quattro sale, il bar, il saloon e due salottini in cui si potevano fare conversazioni private; ciascuna sala era separata dalle altre con pareti di legno in cui erano inseriti dei pannelli di vetro smerigliato. Mio padre beveva nel locale del bar, e io ricordo ancora che quando aprivo la porta venivo immediatamente assalito da un’ondata di suoni e odori: i discorsi degli uomini, i loro scoppi di risa, il fumo denso, la birra, la segatura sulle assi nude, e in inverno un piccolo fuoco di carboni dietro la grata. Sopra al caminetto, ricordo, c’era uno specchio con su un tucano nero e le parole GUINNESS IS GOOD FOR YOU. Io non riuscivo a capire la prima parola, sapevo solo che qualcosa era buono «per te». Non c’era niente di buono per me nel bar del Dog and Beggar: lo scorgevo, la schiena curva, col gomito appoggiato al banco, uno stivale sulla sbarra di ottone che correva all’altezza della sua caviglia; qualcuno diceva: «C’è il figlio di Horace» o: «C’è tuo figlio, Horace», e io lo vedevo voltarsi verso di me, una sigaretta pendente dalle labbra, e nei suoi occhi c’era solo quel freddo disprezzo che nasceva dal fatto di dover ricordarsi, di nuovo, della sua famiglia e della casa a cui doveva tornare dallo spensierato santuario del bar. Io comunicavo il mio messaggio, con la vocina pigolante come un fischietto fra quegli uomini che si muovevano grugnendo, quei bestioni attaccati alle loro birre, e lui mi diceva di far ritorno a casa, che sarebbe arrivato subito. All’infuori di me, nessuno capiva quanto era intenso, quanto era velenoso, l’odio che provava in quel momento, e scappavo via il più velocemente possibile. Non riuscii mai a dire a mia madre quanto mi dispiaceva andare al Dog a portare il suo messaggio, perché mio padre nascondeva i suoi sentimenti tanto bene che lei avrebbe riso a sentirmi spiegare ciò che avveniva in realtà.

Quand’era di un certo umore — e bere non faceva che peggiorare le cose, bere annientava le sue remore —, i pasti erano un inferno. Io sedevo al tavolo della cucina guardando il soffitto, dove una lampadina senza paralume pendeva all’estremità di un filo marrone intrecciato. Tendevo sempre a fuggire nelle fantasticherie in quella piccola e misera cucina, con le sue pentole tintinnanti e il rubinetto che perdeva e l’onnipresente odore di cavolo bollito — e le fughe rendevano tollerabili quei pasti spaventosi. Fuori, il crepuscolo diventava notte e, dai lontani bastioni della ferrovia, giungeva lo stridore di un fischio quando un treno locale passava sbuffando. Mia madre mi metteva davanti un piatto di patate lesse, cavolo bollito e collo di montone in umido, con la carne che si staccava dall’osso in pezzi grigi e filamentosi. C’era una terribile tensione nella stanza mentre prendevo coltello e forchetta. Sapevo che mio padre mi stava guardando, e ciò peggiorava le cose, perché io ero un ragazzo goffo anche nei momenti migliori, poco capace di controllare quei miei arti lunghi e dinoccolati. Mi ficcavo in bocca un grosso pezzo di patata, ma era troppo caldo e dovevo risputarlo nel piatto. «Per Dio!» sibilava lui fra i denti serrati. Mia madre lo guardava, con la forchetta posata sopra una patata che galleggiava come un pezzo di legno in una pozza di sugo unto e denso. «Non arrabbiarti,» mormorava, «non è colpa del ragazzo.»

Il pasto procedeva in un doloroso silenzio. Non si sentivano più rumori di treni dai bastioni della ferrovia, e niente si muoveva in Kitchener Street. Le posate sbattevano sulla mediocre porcellana mentre mangiavamo il nostro collo di montone e il rubinetto sgocciolava nel lavandino con un plop sempre uguale. In alto, la lampadina continuava a spandere nella stanza una fioca luce giallastra e io, dopo aver divorato il mio cibo, sedevo di nuovo guardando il soffitto con le labbra che si muovevano leggermente; smettevo solo per togliere qualche pezzettino di montone che mi si era infilato fra i denti. «Metti su il bollitore, Spider,» diceva mia madre, e io mi alzavo. Nel farlo, urtavo con un ginocchio il bordo del tavolo e lo facevo oscillare violentemente, sì che il piatto di mio padre si muoveva di parecchi centimetri verso sinistra. Lo sentivo irrigidirsi, allora, sentivo la sua mano che stringeva la forchetta, sui rebbi della quale aveva appena collocato una tremolante porzione di cavolo pallido e molle; tuttavia pietosamente non diceva nulla. Accendevo il gas. Finalmente lui terminava di mangiare, lasciava il coltello e la forchetta di traverso sul piatto, appoggiava le mani all’orlo del tavolo, mentre i gomiti stavano all’infuori ad angolo acuto, e si preparava ad alzarsi. «Torni al pub, naturalmente,» diceva mia madre, ancora al lavoro sulla sua ultima patata che aveva tagliato in molti piccoli pezzi, senza alzare gli occhi verso la faccia di mio padre.

Io gli lanciavo una rapida occhiata spaventata e, dal movimento della sua mascella, capivo quello che pensava di noi, del suo allampanato, inutile figlio e dei muti rimproveri di sua moglie, che stava lì seduta a tagliare e infilzare pezzetti di patata rifiutandosi di guardarlo negli occhi. Prendeva berretto e giacca dal gancio fissato alla porta e usciva senza dire una parola. Il bollitore si metteva a fischiare. «Facciamoci una bella tazza di tè, Spider,» diceva mia madre, alzandosi dalla sua sedia e strofinandosi la guancia mentre incominciava a raccogliere i piatti.

Più tardi, salivo in camera mia. Credo di dovervi parlare di quella stanza perché gran parte di tutto questo si basa su quello che ho visto e sentito e perfino annusato da lassù. Era sul retro della casa, in cima alle scale, e vedevo il cortile e, più oltre, il vicolo. Era una stanza piccola, e probabilmente la più umida della casa: c’era una grossa macchia sul muro di fronte al mio letto, dove la tappezzeria si era staccata e l’intonaco sottostante aveva letteralmente incominciato a «eruttare» — c’erano grumi verdastri di gesso umido che si gonfiavano dalla parete come bubboni o cancri e al tocco si mutavano in polvere. Mia madre tormentava continuamente mio padre perché facesse qualcosa, e malgrado una volta lui avesse rintonacato la parete, nel giro di un mese erano ricomparsi, poiché il problema erano i tubi che perdevano e la calce marcia fra i mattoni, tutte cose che mia madre pensava che lui sapesse sistemare, ma che mio padre non sistemò mai. Di notte io giacevo sveglio, e alla luce della luna che entrava nella stanza guardavo quei foruncoli e quei noduli che nella mia immaginazione infantile diventavano i gozzi e le verruche di qualche terribile strega gobba con un’impressionante malattia della pelle, uno spirito dannato per i suoi peccati contro gli uomini, che doveva essere intrappolato, tormentato nel cattivo intonaco di un vecchio muro di periferia. A volte, la strega lasciava il muro e penetrava nei miei incubi (ero pieno di incubi, da ragazzo), e allora, quando mi svegliavo terrorizzato, la vedevo sogghignare nell’angolo della stanza, con la testa avvolta nelle tenebre e gli occhi scintillanti in mezzo a quell’orribile pelle butterata, mentre la puzza del suo alito appestava l’aria; allora mi rizzavo a sedere nel letto, gridando, e solo quando mia madre veniva e accendeva la luce lei faceva ritorno al suo intonaco, ma io dovevo lasciare accesa la lampadina per il resto della notte.

Per quanto riguarda la scuola, non ero mai felice lì e cercavo di evitarla il più possibile. Non avevo amici, non ne volevo, non mi piaceva nessuno e, nel corso degli anni, gli altri avevano imparato a lasciarmi solo. Rabbrividisco nel pensare a quei giorni, anche adesso: c’erano lunghe file di banchi in una grande classe col soffitto alto come quello di un granaio e i pavimenti di legno, e in ogni banco sedeva un bambino annoiato con una matita e un quaderno. Io ero in fondo, più vicino alle finestre, che erano alte sulla parete, sicché non riuscivo a guardare fuori per sfuggire al tedio; attraverso quei vetri entrava la luce del giorno, e in essa c’erano continue e dense ondate e mulinelli di polvere. Per me, l’effetto della polvere danzante nella luce del sole è sempre stato soporifero, specialmente se dalla cima della classe arrivava la voce stanca, triste e monotona di un insegnante disamorato, con un vestito vecchio e delle scarpe di cuoio, che passeggiava avanti e indietro di fronte alla lavagna — un mondo distante, a polverosi miliardi di anni dal mio —, interrompendosi per scrivere una parola o dei numeri, col gesso che strideva sulla lavagna con un fischio terribile che faceva rabbrividire gli studenti, e la polvere volteggiava mentre loro strofinavano i piedi sul pavimento e il vostro Spider andava alla deriva sempre più lontano, sempre più immerso in zone della propria mente dove nessuno poteva seguirlo. Raramente venivo chiamato per rispondere a una domanda; altri ragazzi e ragazze erano più bravi di me, bambini sicuri e intelligenti che potevano alzarsi elegantemente e dire al maestro quello che voleva sentire. Questi allievi sedevano nelle prime file della classe, più vicini alla lavagna; qui dietro, nei «paesi bassi», sedevano i bambini «lenti», un ragazzino grasso di nome Ivor Jones che era ancora meno popolare di me e veniva fatto piangere ogni giorno, regolarmente, nel cortile, e una ragazzina molto disordinata di nome Wendy Wodehouse — il cui naso colava in continuazione e il cui vestito era sempre sporco —, che puzzava e che aveva una tale fame di affetto che si toglieva le mutande dietro ai bagni se glielo si chiedeva, e si diceva che facesse anche altre cose. Questi erano i miei vicini più prossimi in fondo alla classe, Ivor Jones e Wendy Wodehouse, ma non c’era nessuna possibilità di alleanza fra noi, anzi ci odiavamo più profondamente di quanto gli altri bambini odiassero noi, perché ci offrivamo l’un l’altro un’immagine del nostro patetico isolamento. Dubito che abbiano sentito la mia mancanza quando smisi di andare a scuola; ci sarà stata una lunga fila regolare di «Assente» sul registro e un compito in meno da correggere. Nessuno se ne preoccupò.


Al sabato sera, mio padre e mia madre andavano sempre al pub insieme. Dalla finestra della mia camera, dove sedevo con i gomiti sul davanzale e il mento appoggiato alle mani, li vedevo sbucare dalla porta sul retro e attraversare il cortile, poi uscire dal cancello sul vicolo. Sedevano sempre allo stesso tavolino rotondo nel locale del bar, vicino al caminetto. Non avevano molto da dirsi; di tanto in tanto, mio padre andava al banco e il padrone, un uomo di nome Ratcliff, lo serviva. «Il solito, vero, Horace?» diceva, e mio padre annuiva con la sigaretta fra le labbra mentre cercava le monete nei pantaloni.

Ho accennato al fatto che ho passato in Canada gli ultimi vent’anni. Su quegli anni non ho intenzione di dire niente, a parte questo: ho passato molto tempo a pensare agli avvenimenti che sto descrivendo qui e sono arrivato ad alcune conclusioni che, per ovvie ragioni, non mi sarebbero mai venute in mente allora; le rivelerò nel prosieguo della storia. Per quanto riguarda il contatto iniziale di mio padre con Hilda Wilkinson, ritengo che l’abbia sentita prima di vederla — era una donna rumorosa (soprattutto quando aveva un bicchiere in mano) e c’era una nota leggermente velata nella sua voce, una specie di raucedine che alcuni uomini trovavano attraente. Vedo mio padre al Dog, seduto eretto su una sedia con lo schienale rigido, vicino al fuoco, mentre all’altra estremità della sala Hilda è in piedi al centro di un vivace gruppo di bevitori. Prorompe in quella sua risata, e per la prima volta lui se ne accorge. Lo vedo sussultare, lo vedo girarsi, lo vedo aggrottare la fronte mentre cerca l’origine del rumore — ma non riesce a individuarla, perché il Dog è affollato e lui non ha gli occhiali. È un uomo troppo guardingo per lasciare che mia madre o chiunque altro capisca quello che sta succedendo, per cui l’immagine di Hilda che egli si costruisce quella sera è basata su una serie di occhiate rapide e furtive, indirizzate quando va al bar o fuori al gabinetto — magari, in mezzo a un gruppo di uomini, scorge una fuggevole visione del suo collo (arrossato dal caldo e dall’alcol) e della sua nuca, i capelli biondi raccolti e fìssati alla sommità del capo in una crocchia disordinata; o, poco dopo, vede per un momento la sua mano, con le dita pallide e paffute che reggono un bicchiere di porto dolce e una sigaretta; o fissando, con apparente disinteresse, il pavimento, scopre una caviglia bianca e un piede in una consunta scarpa nera col tacco alto — e intanto sente sempre quella voce velata che scoppia in rauche risate.

Mentre riaccompagnava a casa mia madre, gli stivali chiodati risuonanti sulle pietre del vicolo, mio padre conservava nella mente questi lacerti e frammenti della donna che rideva nel pub. I miei genitori ebbero un rapporto sessuale quella sera, come ogni sabato sera, ma non credo che nessuno di loro fosse davvero presente. Mia madre era distratta da una serie di preoccupazioni e mio padre stava ancora pensando a quella bionda, e nella sua immaginazione credo che si accoppiasse con lei, non con mia madre.

Tornò al Dog la sera dopo, e Ratcliff ebbe il tempo di appoggiare un braccio sul bancone e bere un whisky con lui e fare qualche osservazione sulla partita del sabato. Fu nel corso di queste chiacchiere che mio padre scorse vagamente, alle spalle del suo interlocutore, nel séparé di fronte, un grande viso arrossato sotto un cespo di capelli biondi in disordine, e un attimo dopo colse di nuovo le note di quella voce robusta. Avvertì una subitanea vampata di calore interno e perse ogni interesse per le chiacchiere del padrone. «Cliente, Ernie,» mormorò indicando il séparé, e Ratcliff si guardò sopra la spalla. A bassa voce disse: «È quella cicciona di Hilda Wilkinson» — poi si fece strada tranquillamente attraverso il bar per servire la donna.

Quella sera avvenne abbastanza poco rispetto a un vero incontro. Mio padre rimase nel pub, sforzandosi di vedere e sentire quello che succedeva nel séparé, e nello stesso tempo cercando di sapere qualcosa da Ernie Ratcliff, benché il padrone si rivelasse piuttosto deludente, perché voleva parlare solo di calcio. A un certo punto, mio padre notò un’altra donna che si avvicinava al bar, una del gruppo che circondava Hilda la sera prima: una donna piccola con un cappellino, che posò dei bicchieri vuoti sul bancone e chiese con voce tranquilla e tono mascolino una bottiglia di birra scura e una di porto dolce.

Mio padre non se ne andò fino all’ora di chiusura. La serata era fredda e aveva incominciato a cadere una pioggia leggera. Lui rimase in piedi sul marciapiede, con il berretto calcato sulla testa, e impiegò qualche momento ad arrotolarsi una sigaretta. Un improvviso lampo di luce a qualche metro di distanza, all’angolo, gli disse che la porta del séparé si era aperta; alzando gli occhi vide che Hilda Wilkinson e la sua amica erano uscite. Per un attimo, lei lo guardò fìsso e lui incontrò il suo sguardo con la coda dell’occhio, la lingua sul bordo della cartina della sigaretta. Per la prima volta, la vide distintamente — che splendida donna era, che donna vivace, con il seno prosperoso e la pelle chiara, una superfemmina! Con il cappotto di pelliccia frusto che le sventolava intorno, la pioggia che le cadeva sulla testa scoperta, illuminata dalla luce che usciva ancora dal pub, lei osservò apertamente mio padre, col grande mento alzato, e all’improvviso… Dio buono, come la desiderava, questo lui seppe con maggiore sicurezza di quanto aveva mai saputo qualcosa in vita sua! Poi la porta si richiuse, la luce scomparve e le due donne si affrettarono insieme nella pioggia e nella notte.


* * *

Chiusi il quaderno e, appoggiandomi alla sedia, lo infilai sotto il linoleum, nel punto in cui si staccava dal pavimento, vicino al battiscopa. Mi sentivo esaurito dallo sforzo di memoria e congettura. Era tardi, la casa era silenziosa e buia, perfino il solaio sopra di me risultava quieto. Mi distesi sul letto, sopra le coperte sottili, senza spogliarmi. Fumai, guardando la lampadina che oscillava quasi impercettibilmente, appesa al suo cavo. Il silenzio sembrava ispessirsi intorno a me. Continuavo a guardare il soffitto e, a poco a poco, incominciai a preoccuparmi per la lampadina, il filamento luminoso all’interno del vetro grigio e sottile. Per qualche minuto, continuai a fissarla, col cervello esausto, svuotato di tutte le immagini tranne che della lampadina, che adesso aveva incominciato a sfrigolare nella mia direzione; e fu allora che mi accorsi dell’odore di gas. Era molto leggero, tanto leggero che per qualche istante pensai che dovevo essermelo immaginato. Poi lo sentii di nuovo. Sollevai la testa dal cuscino e mi guardai intorno. C’era un attacco sul muro, dove un tempo si trovava una lampada a gas, e c’era una stufetta a gas verticale collocata nel caminetto come un paravento, ma anch’essa era inutilizzata da anni. Mi alzai dal letto e, trascinando la sedia sul pavimento, ci salii su per annusare il tubo sul muro. Niente. Mi misi carponi e ficcai il naso nella stufetta. Mi sembrava difficile dire cosa c’era, si trattava di una cosa indefinita: un momento ero propenso a pensare che fosse all’interno della stanza, il momento dopo mi convincevo che era solo il ricordo di un odore, un ricordo che qualche oscura sequenza di associazioni aveva scatenato come risultato del mio scrivere. Esisteva una terza possibilità, anche se ci vollero parecchi minuti perché mi venisse in mente: che l’odore arrivasse da me, dal mio stesso corpo.

Questo fu uno shock. Mi rizzai e cercai di annusarmi. Niente. Barcollai, aggrappandomi al letto, e mi slacciai la camicia e i pantaloni, pasticciando goffamente coi bottoni per la fretta. Era lì? Di nuovo quella terribile incertezza — mi sembrava di avvertirlo, ma subito dopo era sparito. Sedetti ingobbito sul letto, trattenendomi dal rabbrividire, con la testa sulle ginocchia. Ero io? Avevo dentro del gas? Sgorgava dal mio inguine? Sollevai la testa e la voltai disperato da una parte e dall’altra. Gas dal mio inguine? Fu in quel momento che mi accorsi di un rumore nel solaio: una sommessa risata seguita da una specie di tonfo — poi scese di nuovo il silenzio.

Quella notte dormii ben poco, e la luce rimase accesa. Cercai di togliermi quella faccenda dalla mente, ma non se ne andava, e una terribile, tormentosa incertezza persisteva. Fui particolarmente a disagio durante la colazione, perché avevo la sensazione che loro potessero distruggermi, chiunque di loro, semplicemente con un’occhiata; mi sentivo come una lampadina. Fu solo quando raggiunsi il canale che riacquistai una certa parvenza di normalità e, mentre con dita tremanti arrotolavo una sigaretta e i minuti mi scivolavano addosso in quel luogo solitario, gli avvenimenti della notte finirono per sembrarmi una sorta di incubo a occhi aperti: un incubo che dopo un po’ riuscii a scacciare.

Ma il gas… Perché il gas? Non sapevo proprio cosa pensare. Era in relazione con i gasometri dall’altra parte del canale? Non ci sono gasometri in Canada, per cui quando avevo guardato le tre grandi cupole dietro la fabbrica era la prima volta in vent’anni che vedevo cose del genere: comunque è la loro struttura che mi disturba, nient’altro, la verticalità dei pali che si erge su migliaia di moduli di acciaio, e ciascuna delle quattro facce di ogni modulo appare come una cornice con dei rinforzi diagonali; collocati a quella grande altezza, essi ripetono questo modulo a croce quasi all’infinito, e se li guardo troppo a lungo finisco per concentrarmi sul modello, e l’effetto è orribilmente vertiginoso — è pazzesco, lo so, ma la sensazione è reale, però. È per questo che ho sofferto di quelle bizzarre percezioni la notte scorsa? Non sono riuscito a trovare una connessione.


Tornai a casa lentamente lungo le strade bagnate e vuote. Aveva incominciato a piovere nel pomeriggio (non ero rientrato per il pranzo), e la pioggia durava ormai da parecchie ore. Ero completamente inzuppato, ma non mi importava: mi sembrava qualcosa di purificante, e dopo gli avvenimenti stranamente insani della notte, quell’acqua era la benvenuta. Continuai a camminare, mentre il giorno piovoso si faceva più scuro, lungo una serie di sudicie arcate di mattoni, un viadotto annerito dal fumo che sosteneva le linee ferroviarie che intersecano le strade dell’East End; molte delle arcate erano chiuse con mattoni adesso, o sigillate con fogli di lamiera ondulata dietro i quali rottamai e officine facevano i loro furtivi affari. All’improvviso, un gobbo su una vecchia sedia a rotelle sbucò da uno di essi e, sbandando, svoltò dietro l’angolo; io lo seguii sotto l’arcata e, uscendo dall’altra parte, vidi di nuovo, verso est, i gasometri, la massa rugginosa di quel trio di cupole macchiate e striate di marrone rossiccio sotto la pioggia.

Scivolai in casa e andai direttamente in camera mia, dove volevo accendermi una sigaretta, perché avevo fumato pochissimo durante tutto il giorno. Rimasi in piedi vicino al tavolo mentre cercavo tabacco e cartine, e guardai fuori dalla finestra nella brutta piazza sottostante, al centro della quale c’era un giardinetto con inferriate appuntite, pochi cespugli, un albero o due, un laghetto e un qualche spiazzo d’erba dove giocano i bambini. Era quasi buio. All’ingresso del parco, chiuso dalle 5.30 del pomeriggio, c’era un unico lampione, un palo di ferro nero che sbucava da una base a calice, un corto braccio nodoso vicino alla sommità e una scatola di vetro che ospitava un globo luminoso che spandeva un alone di luce giallo dorata attraverso la quale le gocce di pioggia scendevano come fiocchi, come tracce o indizi. Le mie abili dita presero il tabacco e lo sparsero sulla cartina, che arrotolai leccandone il bordo. Possiedo un piccolo accendino di metallo con il coperchio: con esso accesi la sigaretta e poi la fumai. Scese la notte, e l’alone giallastro del lampione rinforzò e brillò nell’aria che si anneriva, e ancora le gocce di pioggia cadevano leggere e oblique al suo interno, come tanti ricordi che scivolassero su una mente confusa e ottenebrata. Sedetti al tavolo e presi il mio quaderno.


La domenica seguente si era presentata luminosa e chiara e, prima delle otto, sentii mio padre che, giù in cucina, riempiva il bollitore e accendeva il gas. Udii il rumore della grossa padella nera che veniva appoggiata sulla cucina economica, sentii il contenitore del pane che veniva aperto per prendere gli avanzi del giorno prima. Poi silenzio — il profumo del grasso di bacon che risale le scale… Lui è seduto a tavola e beve il tè da una tazza di smalto bianca e sbeccata e immerge il pane nel grasso bollente. Una sedia trascinata — si sta allacciando gli stivali… Poi fuori dalla porta; dalla finestra della mia stanza lo vedo camminare nel cortile verso la sua bicicletta.

Dev’essere stato quel pomeriggio che Hilda Wilkinson attraversò la ferrovia presso il ponte oltre Omdurman Close e imboccò il sentiero verso gli orti. Mio padre era nel suo casotto a fare la cernita in un canestro di patate che aveva raccolto quella mattina. L’interno di quel casotto — che brivido suscita ancora in me il solo pensiero di quel posto! — era molto scuro e odorava fortemente di terra. C’erano sempre pile di casse e sacchi e canestri là dentro, e attrezzi naturalmente, vanghe e rastrelli e zappe ecc, pacchetti di semi legati a mazzi con spago e riposti sopra scaffali, e su nell’ombra, attaccate alle travi, le ragnatele. A volte mi chiudevo la porta alle spalle e le guardavo per ore, e nel buio profondo del casotto — non aveva finestre, e l’unica luce era quella che filtrava dai buchi e dalle fessure — alla fine scorgevo una grande ragnatela che tremava mentre il suo artefice correva veloce verso il suo pasto lungo una sottile trappola di refe. Altre volte aprivo la porta e lasciavo che il chiaro del giorno inondasse per un momento il casotto, e allora le ragnatele brillavano al sole mentre io fissavo incantato la delicatezza e la perfezione della loro fattura. Ma, per qualche ragione, non avevo mai tempo di esaminarle attentamente alla luce. C’era anche una poltrona imbottita di crine consunta e zoppa, là dentro, e accanto a essa una cassa di legno con una candela fissata in un lago di cera vecchia; e infine, su uno scaffale della parete di fondo, c’era un furetto impagliato in una teca di vetro impolverata, di cui ignoro la provenienza. Digrignava i denti bianchi e aguzzi; aveva una zampa alzata, il corpo magro e agile bloccato in una posizione di allarme improvviso, e benché uno dei suoi occhi di vetro mancasse e l’imbottitura spuntasse dall’orbita, l’altro scintillava nell’oscurità e mi turbava sempre se lo guardavo troppo a lungo, da creatura maligna qual era.

Mio padre, come ho detto, stava scegliendo le patate da portare a Kitchener Street e non sentì Hilda che arrivava lungo il sentiero. Era una giornata luminosa, quella domenica, ma fredda. Quando sollevò gli occhi all’improvviso, la vide inquadrata nel vano della porta, con la luce che le filtrava tutt’intorno, i capelli scompigliati, il petto ansimante per lo sforzo. Lui rimase immobile, chino sul canestro nel buio, poi si voltò colpevolmente verso questa donna con cui, ormai, aveva più di una volta immaginato di unirsi. Con aria tranquilla, lei osservò l’interno del casotto. Lentamente mio padre si alzò, senza rendersi conto che aveva una patata in ciascuna mano, anche se le stringeva con tale forza che le nocche gli erano diventate bianche. Le mani di Hilda erano sprofondate nelle tasche della sua ampia pelliccia. «Signor Cleg?» disse con voce roca, alzando il mento e le sopracciglia in una sorta di gesto interrogativo.

«Sì,» disse mio padre, trovando finalmente la voce.

«Horace Cleg?» disse lei. «L’idraulico?»

«Esatto,» disse mio padre, buttando le patate nel canestro. Aveva ritrovato il suo equilibrio.

«Ho qualche problema con le mie tubature,» disse Hilda. «Mi hanno detto che lei potrebbe aiutarmi.»


* * *

La relazione di mio padre con Hilda Wilkinson incominciò propriamente quando lui andò a lavorare alle sue tubazioni. Lei non si era soffermata nell’orto; si erano dati un appuntamento, comportandosi entrambi in modo adulto e parlando solo di affari, e poi, senza un solo scoppio della sua risata roca, senza alzare quel grosso mento rosato, lei se n’era andata, ondeggiando e oscillando a destra e a sinistra mentre avanzava lungo il sentiero. Mio padre l’aveva guardata dalla porta del casotto, poi era tornato dentro e si era lasciato cadere sulla poltrona. Presa una patata dal canestro alle sue spalle, l’aveva rigirata lentamente fra le dita, riflettendo su ciò che era appena accaduto.

Hilda viveva sopra un negozio di tabacchi a Spleen Street, una strada che corre sotto i gasometri dalla parte più lontana dal canale; condivideva l’appartamento con una donna di nome Nora Temple, la persona col cappellino che mio padre aveva notato in sua compagnia al Dog and Beggar. Pochi giorni dopo, quindi, lo vediamo appoggiare la bicicletta a un lampione davanti al tabaccaio. Guardando in alto, verso le cupole sporgenti che gettavano un piccolo mare d’ombra sui negozi e sulle case di Spleen Street, entrò nel negozio e, passando dal retro, salì una rampa di scale strette e ripide. Quando fu a metà di quegli scalini accadde una cosa strana. Da sopra, si sentì un pesante suono di passi che scendevano; poi un uomo grasso con uno spesso soprabito scuro col bavero rialzato scese rumorosamente e, senza una parola, urtò mio padre, spingendolo contro il corrimano e facendolo quasi cadere. Un momento dopo, lo si sentì attraversare il negozio e uscire in strada, mentre la campanella della porta tintinnava al suo passaggio. Mio padre rimase stupefatto e irritato; aggrottò la fronte e riprese a salire. Al suo bussare, la porta dell’appartamento si socchiuse e, attraverso la fessura, egli scorse Nora, che rimase ostile e sospettosa finché lui non disse che era l’idraulico. Sorsero alcune difficoltà nell’aprire la porta, perché Nora non voleva che i gatti uscissero: ne avevano dozzine, creature rognose che miagolavano e perdevano pelo in continuazione. Così mio padre entrò di sbieco attraverso un passaggio angusto e seguì Nora che si allontanava camminando pesantemente in un breve corridoio buio, reso molto stretto dai voluminosi cappotti appesi al muro con ometti e ganci, e ulteriormente ostacolata dai gatti che le si intrufolavano fra le gambe. In fondo al corridoio, Nora spalancò la porta del bagno. «Qui dentro,» disse. Ma prima che mio padre potesse entrare, una voce familiare parlò: «È l’idraulico?»

Si voltò. Lei era sulla porta della sua stanza. Indossava una vestaglia di un qualche materiale serico, molto stretta in vita, con la scollatura bassa. Si era appena spazzolata i capelli e fumava una sigaretta. Senza i tacchi, appariva tre o quattro centimetri più bassa di mio padre, e questo bastò per provocare in lui un vivido insorgere del ben noto calore. «’Sera,» disse, irrigidendosi di fronte a lei, con la borsa degli attrezzi in una mano e il berretto nell’altra. Lei era appoggiata allo stipite; mio padre notò che la stanza era piena di mobili. Il letto, disfatto, era enorme; la testata, un’asse scura di legno laccato inserita fra due massicce colonne con pomelli in cima. Ai piedi del letto — separata da esso da una scheggia di spazio —, c’era una toilette; il suo grosso specchio e le due ali laterali quasi cancellavano la finestra, che aveva come tenda un pezzo di tessuto sporco, attraverso il quale lui scorse la grande massa incombente dei gasometri; sopra la toilette, un caos di cosmetici e spazzole e spille e mollette e pezzi di elastici colorati. Fra il letto e la parete, da una parte, c’era un tavolino, anch’esso ingombro di oggetti femminili; dalle profondità di quella confusione emergevano una bottiglia di porto mezzo piena e un paio di bicchieri non lavati. Dall’altra parte, c’era una sedia, talmente coperta di gonne e calze e camicette e biancheria intima, che appariva piuttosto come un mucchio di stoffe, una collinetta di seta e cotone. Poi incominciò il martellamento: all’improvviso, una serie di forti clangori metallici nei tubi. «Lo sente?» disse Hilda. «Succede tre volte all’ora.»

«Colpo di maglio,» disse mio padre con tono breve e secco.

Hilda si mosse leggermente dallo stipite e soffiò il fumo verso il soffitto. «È così che lo chiamate?» disse.

Mio padre annuì. «Blocco nel tubo di sfiato. Non mi stupirebbe.»

Lei lo guardò con decisione. «Mi fa impazzire,» disse. «Può sistemarlo, idraulico?»

Mio padre tirò su col naso, assunse il suo atteggiamento da artigiano esperto, come a suggerire che era una questione di delicatezza e tatto. «Devo controllare l’impianto,» disse.

«Lei abita qui vicino, no?» disse Hilda.

«Kitchener Street.»

«Mi sembrava.» Si stava esaminando le unghie. «Credo di averla vista giù al Dog.» All’improvviso sbadigliò, stirò le braccia sopra alla testa e poi, con un pigro sorriso, le incrociò di nuovo sul petto. «Ha intenzione di restare qui nel corridoio tutto il giorno, allora?» disse. «Credevo che fosse venuto per sistemare le mie tubature.»

La sua pelle, notò mio padre, era di un rosa molto più pallido di quanto aveva pensato inizialmente, quasi bianca, e la sua vestaglia lasciava intravedere tutta la parte superiore del torso. Si accorse anche per la prima volta che il suo mento sporgeva in maniera davvero abnorme, ma la sua pelle era così chiara e i suoi capelli così splendidamente biondi (benché neri alla radice) che dopo un momento semplicemente non si notava più quella massiccia sporgenza, né il difetto di chiusura dei suoi denti inferiori. «Ci sarà un intoppo,» disse mio padre, sempre in piedi nel corridoio, col berretto in una mano e la borsa nell’altra. Poi, mentre Hilda si chinava per prendere il gatto che ronfava ai suoi piedi, lo vide. Fu un’occhiata, una chiara visione del suo seno solo per un istante, mentre la vestaglia si allargava in avanti: perfette sotto il tessuto serico, un paio di mammelle bianche a forma di coppa, con piccoli capezzoli rosa. Distolse lo sguardo. «Aria nei tubi,» disse — e in quel momento, di colpo com’era incominciato, il martellamento cessò.

«Aria cattiva,» disse Hilda soprappensiero, accarezzando il gatto. «Non sente la puzza?»

«Viene dal vostro bagno,» disse mio padre.

Hilda sorrise. A causa della mandibola, era un sorrisetto strano, simile a una breve fessura con piccole aperture ai lati, e mio padre ne fu colpito. «Lo spero proprio,» disse lei. «Incredibili le condizioni in cui si trovano i tubi in questo posto.» Sempre sorridendo, permise ai suoi occhi di soffermarsi languidamente sull’uomo triste e rigido davanti alla sua camera. «Be’, ha intenzione di restare lì tutto il giorno?» ripeté. «Vuole ripararmi i tubi o cosa?»

Mio padre scoprì, come pensava, che non c’era acqua nella tazza del water e quindi niente bloccava il passaggio dei gas della fognatura. Il problema al sifone era la conseguenza di una differenza di pressione causata, come il colpo di maglio, da un blocco o da un ostacolo in uno dei tubi di sfiato. Il suo compito era individuare l’intoppo ed eliminarlo; pensò immediatamente a un nido di topi: entravano spesso nei tubi di questi vecchi edifici. Avrebbe controllato l’impianto chiudendo tutti i tubi e poi aprendo l’acqua; un’ispezione alle valvole e ai rubinetti l’avrebbe condotto alla causa del malfunzionamento.


Ho posato la matita. Mi trovavo in un territorio totalmente sconosciuto. Io conobbi Hilda Wilkinson solo più tardi, e a quel punto la sua relazione con mio padre era progredita ben oltre questi primi contatti formali. Per cui sto avanzando alla cieca, facendomi guidare quasi solo dall’intuizione.

Presumo che mio padre abbia sistemato il sifone di Hilda e il problema del colpo di maglio: normale amministrazione, per un idraulico competente, anche se non posso dire se fosse davvero un nido di topi. Quand’ero un ragazzino, mio padre mi parlava spesso del suo lavoro, mi mostrava gli attrezzi, mi spiegava a cosa servivano e, se doveva effettuare qualche riparazione in casa, gli facevo da aiutante: ero io che dovevo passargli la torcia o la chiave numero 8 o qualsiasi altro strumento. Cosa piuttosto strana, sembrava che ci fosse sempre qualcosa che non andava anche nel nostro gabinetto, fuori in cortile; quando si tirava l’acqua, questa arrivava fino all’orlo della tazza e a volte traboccava sul pavimento. Ma era come il problema dell’intonaco nella mia stanza, quando riparavamo il guasto, lo scarico funzionava solo per un mese o due, e poi si ripresentava l’inconveniente. Non credo che si possa rimproverare a mia madre di averlo tormentato per questo, dopo tutto lui era un idraulico e, quando l’acqua fuorusciva, era lei che doveva asciugare. Come lavorava, mia madre! Ricordo che tornavo da scuola e la trovavo in ginocchio a fregare il pavimento della cucina, con un secchio d’acqua sporca di fianco, mentre spingeva a due mani una grande spazzola dura. Sapevo quello che succedeva alle mani delle donne di Kitchener Street: sottovoce, fra loro, al di là dei muretti dei cortili, dicevano di essersi consumate le dita a lavorare, ma era vero il contrario: anni di acqua calda e di sapone avevano coperto le loro ossa di una carne snervata e abbondante, le loro mani erano cose rosse, informi, flaccide; e, se mia madre fosse vissuta, credo che la stessa cosa sarebbe capitata a lei. Ma lei era ancora giovane, quando tutto questo accadde, non aveva ancora perso il fiore della sua giovane femminilità.

Quando tutto prese ad andare male? Quando incominciò a morire? Ci fu un periodo in cui eravamo felici; immagino che la decadenza sia stata graduale, una funzione della povertà e della monotonia e della tristezza assolutamente lugubre di quelle stradine e di quelle viuzze. Anche il bere giocò la sua parte, al pari del carattere di mio padre, del suo innato squallore, della morte che aveva dentro e che fece in tempo a infettare mia madre e me, come una malattia contagiosa.

Due o tre sere dopo, mentre si trovava nel bar del Dog and Beggar, egli sentì i toni profondi della voce di Hilda provenire dal salottino privato. Finì la pinta di mild e uscì sulla strada, diretto verso la porta del séparé. La apri. Hilda era seduta al tavolo con tre amici; si voltarono verso di lui. Il viso di Hilda appariva arrossato e, nel preciso momento in cui mio padre comparve sulla soglia, un bicchiere di porto era a metà strada verso le sue labbra. E 11 rimase, mentre lei sollevava le sopracciglia e sorrideva con quel suo sorriso strano. Nora sedeva accanto a lei; dall’altra parte, c’era una donna scura, con l’aria civettuola, e un giovane magro, con i capelli lunghi. Era una sera secca, fredda e senza luna di fine novembre, e nell’improvviso silenzio che scese nella stanza si sentiva solo il lontano mormorio del traffico, da tre strade più in là, e il ronzio attutito delle conversazioni nelle altre sale del Dog. Gli occhi di Hilda andarono da mio padre agli altri tre seduti al tavolo. Poi posò il bicchiere — mio padre stava ancora sulla soglia —, si alzò e attraversò il salottino, arrivando fin sulla strada. Quando lui lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle, una sommessa risata si levò intorno al tavolo.

Percorrendo i vicoli che correvano sul retro delle case si diressero verso il canale. Hilda era di buon umore. Aveva dimenticato il nome di lui, però. «Horace!» esclamò. «È sempre stato uno dei miei preferiti. Avevo un gatto che si chiamava ‘Horace’, una volta.» Parlò del tempo. «Freddo, eh?» disse. «Meno male che ho la pelliccia.» Cosa passava nella testa di mio padre? Cosa pensava che sarebbe successo? La guardò con la coda dell’occhio. La donna camminava al suo fianco con le spalle chine e le mani sprofondate nelle tasche. «Ha fatto davvero un bel lavoro,» disse. «Non si sente neanche uno scricchiolio, adesso. La puzza, però, non è scomparsa.» Parlarono di idraulica per qualche minuto. Hilda ne sapeva molto poco e sembrava colpita dal fatto che mio padre ovviamente dominava la materia. Era una donna gioviale, e ben presto lo fece ridacchiare fra sé.

Avevano raggiunto il ponte sul canale dei gasometri. Lei lo guidò verso alcuni scalini scivolosi che davano su un vialetto proprio a livello dell’acqua. «Forza, allora, Horace,» mormorò, scendendo allegramente. «Andiamo giù.» Adesso erano ben nascosti alla vista dei passanti. Hilda si aprì la pelliccia, si slacciò il golfino e gli mostrò i seni. Poi gli mise un braccio intorno alla vita e con l’altra mano gli accarezzò il davanti dei pantaloni, sorridendogli. «Ti piace, Horace?» sussurrò. Con i tacchi, aveva esattamente la sua stessa altezza, ma probabilmente era un po’ più massiccia; il fatto di sentire il peso della sua mano premuta su di lui quasi sopraffece l’uomo. Infilò le mani nella pelliccia e toccò esitante i suoi seni, poi cercò di baciarla sulla bocca, ma lei voltò il viso. Nei calzoni il suo pene era duro; Hilda continuò a sussurrargli mentre lo accarezzava con il palmo, poi abilmente slacciò l’ultimo bottone della patta e glielo tirò fuori. «Cos’è questo, dunque?» mormorò. Era un pene insolitamente sottile, quello di mio padre, ma duro come una matita, e sussultante. Hilda si sputò sulle mani. «Ooh, Horace,» sussurrò. Lo portò all’orgasmo con una mezza dozzina di rapidi colpi, scostandosi mentre lui schizzava nel canale. Poi si allontanò, rimise i seni nel golfino e si chiuse la pelliccia con un brivido. Mio padre era sul ciglio del vialetto e le dava le spalle, pisciando nel canale. Riusciva a vedere il proprio sperma che si allontanava sull’acqua scura, in filamenti sottili, grigiastri e traslucidi. «Sbrigati, su, Horace,» disse Hilda, battendo i denti. «Sto gelando.» Ma mio padre voleva restare da solo; le disse che intendeva restare fuori a fumare. «Come preferisci,» disse lei allegramente. «Io torno al Dog.»

Quando mio padre risalì i gradini, qualche istante più tardi, Hilda stava camminando lungo la strada. Aggrottando la fronte, lui si appoggiò alla balaustra e cercò il tabacco. Guardò la figura impellicciata che passava sotto un lampione dopo l’altro, lasciando una scia di nuvolette di fiato mentre il tap tap dei tacchi sul selciato diventava sempre più debole; quando svanì del tutto, lui era ancora sul ponte nell’aria fredda della notte.


* * *

Ci fu un periodo in cui eravamo felici. Mia madre era così tranquilla, così paziente; anche quando mio padre incominciò a passare tutto il suo tempo libero nell’orto o al Dog, lei non diventò mai tesa o aspra, non si trasformò mai in una bisbetica, come la maggior parte delle donne di Kitchener Street; la sua dolcezza di carattere resisteva malgrado tutto. A volte sedevamo insieme in cucina, lei e io, alla sera, e facevamo giochi d’immaginazione. C’era una grossa macchia sul soflfìtto della cucina, e il gioco consisteva nell’inventare una storia su di essa. Le mie erano sempre orribili — vedevo un nano contorto e descrivevo a mia madre nei più osceni dettagli il male commesso da questa creatura nel pieno della notte, quando la gente per bene dormiva. Mia madre, con la lana sulle ginocchia e i ferri che tintinnavano dolcemente, rabbrividiva alle mie parole. «Spider, che idea!» mormorava. «Come ha fatto a venirti in mente una cosa del genere!» Quand’era il suo turno, posava il lavoro e mi diceva che la macchia sul soffitto era un covone di fieno, o un cottage, o un carro — era cresciuta nell’Essex e non aveva mai perso l’amore per la campagna. E mentre parlava e il tintinnio dei suoi ferri riprendeva, un’espressione riposata, quasi sognante, le addolciva i lineamenti, e le oscure paure del mio racconto venivano scacciate, sostituite da un’atmosfera di tenerezza lirica, da immagini di campi e fattorie, di uccellini che cantavano nell’estate, di ragnatele nuove che scintillavano sugli olmi al sorgere del sole. Spesso mi parlava dei ragni, del modo in cui tessevano nel silenzio della notte, e di come, alla mattina presto, lei attraversava il campo e vedeva le ragnatele appese ai rami come nuvole di mussolina, anche se quando si avvicinava si trasformavano in ruote scintillanti, ciascuna con un ragno immobile al centro. Ma non erano le ragnatele che andava a vedere, diceva, perché nascosti nei cespugli più bassi, se sapevi dove guardare, si trovavano dei piccoli sacchi di seta delle dimensioni di un uovo di piccione, appesi a un ramoscello. Dentro a ogni sacchettino, raccontava, c’era una pallina di chicchi arancione tutti attaccati insieme e non più grande di un pisello — e quelle erano le uova del ragno. Aveva lavorato tutta la notte, filando dal proprio corpo la seta necessaria per tessere il sacco delle uova e il rivestimento che le manteneva calde e asciutte. E guarda, Spider, guarda com’è perfetto il suo lavoro! Non un filo fuori posto! Allora, nella mia mente, vedevo il sacchettino con le uova che pendeva dal ramoscello e, sì, era una cosa perfetta, un minuscolo bulbo di satin bianco compatto con seta nera e marrone disposta trasversalmente a larghe fasce, in disegni affusolati, in elaborate ondulazioni. Immaginavo di aprirlo e di trovarci dentro un rivestimento di ovatta e, sotto, la piccola tasca di seta in cui erano poste le uova. Ma quella che mi piaceva di più era la fine della storia. Cosa succedeva al ragno, chiedevo. Mia madre sospirava. Quando aveva finito, diceva, si dirigeva verso la sua tana, senza neanche voltarsi. Perché il lavoro era terminato, non aveva più seta, era tutto vuoto, prosciugato. Si allontana e muore. Il lavorio dei ferri riprendeva. «Metti il bollitore sul fuoco, Spider,» diceva, «che ci facciamo una bella tazza di tè.»

Ero a letto quando mio padre tornava a casa. A volte non sentivo niente; sapevo allora che era triste e silenzioso, e non rispondeva alle parole preoccupate di mia madre. Ben presto lo sentivo salire pesantemente le scale, lasciando a lei l’incombenza di controllare le luci e le porte. Altre volte rientrava a casa arrabbiato, e allora sentivo la sua voce che si alzava, le stoccate del suo sarcasmo, il tono tranquillo di mia madre che cercava di addolcirne la collera e di smussare gli acuti delle sue lamentele di ubriaco contro il mondo e contro lei stessa. Spesso la riduceva in lacrime, la maltrattava con violenza e disprezzo, e una volta, ricordo, lei corse via dalla cucina, lungo il corridoio e sulle scale, fino in camera mia, dove si abbandonò sul bordo del mio letto, mi prese la mano e singhiozzò in un fazzoletto per parecchi minuti, prima di riprendere il controllo. «Mi dispiace, Spider,» sussurrò. «A volte tuo padre mi fa tanto arrabbiare. È colpa mia… Tu mettiti a dormire, è tutto a posto, sto bene adesso.» E si chinò per baciarmi la fronte, e io le sentii l’umido delle lacrime sulla faccia. Oh, lo odiai, allora. Allora l’avrei ucciso, se avessi potuto — era squallido, quell’uomo, era morto dentro, puzzolente, marcio e defunto.


* * *

Mi sentivo meglio, molto meglio, quando chiusi il quaderno e lo rimisi sotto il linoleum. Penso che dipenda dall’aver parlato di mia madre, o almeno delle ore che ho passato solo con lei. Era diverso quando mio padre era presente; allora aleggiavano tensioni e brutti silenzi, e nessuno di noi due poteva essere davvero se stesso. Spinsi indietro la sedia, mi alzai e mi stirai. Mi sentivo davvero bene. Appoggiai le mani sul tavolo e guardai fuori dalla finestra. La pioggia era cessata, anche se alcune gocce erano ancora attaccate ai rami spogli degli alberi del parco e scintillavano alla luce dei lampioni, prima di cadere sulle foglie morte sottostanti. Una figura con un ombrello si affrettava sul selciato; da qualche parte, un cane incominciò ad abbaiare. La luna era una sottile lama gialla, e io immaginai la luce riflessa sull’oscurità gonfia del fiume un paio di chilometri più a sud. Sapevo che avrei dormito bene quella notte e che non ci sarebbe più stata quella storia del gas. Credo che sia colpa della casa — io sono un individuo sensibile, estremamente teso, e l’azienda della signora Wilkinson non è adatta per i tipi come me. L’indomani o il giorno dopo le avrei dato la notizia e mi sarei messo a cercare una sistemazione migliore. Avrei potuto addirittura abbandonare l’East End — i ricordi che suscita sono, in un certo senso, talmente fastidiosi e cupi, perlopiù, che se fossi lontano da qui forse potrei pensare al passato con maggiore distacco.

La mattina dopo, mi alzai presto, e sempre di umore eccellente. La giornata era triste e umida, e questo mi faceva piacere, perché ho sempre amato la pioggia, la nebbia e il buio. Fino al momento in cui sentii la campanella della colazione, rimasi seduto al mio tavolo fumando, guardando la cortina di nuvole e pensando a quello che avrei detto alla signora Wilkinson. Fui uno dei primi ad arrivare in cucina, quella mattina: sedetti a tavola, tamburellando con le dita, e quando le anime morte apparvero a una a una le salutai ad alta voce. Scarse risposte, naturalmente; entrarono strascicando i piedi e bofonchiando, si sedettero davanti ai porridge con gli occhi bassi. Io non riuscii a mangiare; presi invece del tè, bevendone una tazza dopo l’altra, con molto zucchero e senza latte. Le dita tamburellavano, i piedi battevano sul pavimento. Sorridevo al mondo. Annunciai alle anime morte che ben presto le avrei lasciate. Scarse risposte pure in questo caso, anche se alcuni occhi da pesce si sollevarono dalla tazza del porridge e lanciarono uno sguardo nella mia direzione. Sì, dissi loro, ben presto non avrebbero più visto il signor Cleg; avrei preso alloggio da qualche altra parte in città (rimasi vago su dove esattamente). Sì, avrei preso un appartamento: la mia residenza in solaio — indicai il soffitto — era puramente temporanea, una soluzione d’emergenza per ritrovare l’equilibrio. In Canada, dissi, ero abituato a certe comodità, un tavolo da biliardo, una biblioteca — come si poteva vivere in una casa priva di biblioteca? Bevvi dell’altro tè; mi soffermai ancora sul mio tema. Mi ero appena lanciato quando li vidi voltarsi verso la porta. La signora Wilkinson era là, in piedi con le braccia conserte. Mi zittii. «Continui, signor Cleg,» disse lei. «È molto interessante.»

Il suo sarcasmo era come acido. «Signor Cleg,» disse, avanzando nella stanza. Io mi girai sulla sedia, voltai la faccia contro il muro e incrociai le gambe. Incominciai a pasticciare col mio tabacco. «Signor Cleg,» disse lei, «vorrei sinceramente poterle fornire un tavolo da biliardo e una biblioteca, ma questa non è una casa ricca, e dobbiamo cavarcela da soli… Mi piacerebbe molto, signor Cleg, che altri residenti uscissero a passeggiare come lei.»

Seduto di sbieco sulla sedia, con la faccia sempre voltata, mi irrigidii. Bruciavo per l’umiliazione. Dalle mie dita tremanti, frammenti di tabacco si sparsero sui pantaloni. Passarono parecchi istanti. Uno stanco sospiro; poi, dalla mia tormentatrice: «Signor Cleg, quante camicie ha addosso? E il nostro patto?» Patto! Ero completamente bloccato, a questo punto. Rinunciai allo sforzo di arrotolarmi una sigaretta. Le mie mani rimasero immobili, una cartina fra le dita della sinistra, una presa di tabacco in quelle della destra. Silenzio. Cosa stava facendo? Poi, da una delle anime morte: «Se n’è andata, signor Cleg.» E io lentamente mi rilassai, anche se le dita continuarono a contorcersi almeno per un altro quarto d’ora.

Solo quando uscii sano e salvo dalla porta d’ingresso le mie condizioni di spirito incominciarono a risollevarsi. Quella donna è un mostro! La scacciai dalla mia mente, ero troppo di buon umore per lasciare che mi influenzasse negativamente, e ben presto mi ritrovai ancora a ribollire di esuberanza. Per qualche ragione, mi sentivo riluttante a sedere vicino al canale e mi chiedevo, come faccio tutte le mattine, se avrei riattraversato il ponte e visitato Kitchener Street. Ma quel giorno non rividi Kitchener Street, né andai al canale; mi recai invece al fiume, perché sapevo che sarei soltanto diventato morboso se avessi guardato la pioggia punteggiare la superfìcie nera del canale — perché la pioggia porta idee, l’ho imparato in Canada, dove piove quasi sempre. Camminai lungo l’alzaia, quindi salii sulla strada principale — come tutto sembrava muoversi velocemente nella pioggia! — l’attraversai, poi proseguii per alcune stradine fino a un vicolo fra i depositi, e dopo fino a una rampa di scalini rovinati che scendevano al fiume. Oh, il fiume! La grande corrente animata, il vecchio Padre Tamigi nel giorno tutto grigio! Sull’altra riva, le gru di Rotherhithe si volgevano verso di me nella nebbia come dita o insetti. Mentre scendevo allegramente, sui gradini più bassi c’era una fanghiglia verde insidiosa; uno degli scalini era quasi smangiato e gli altri sbriciolati e rotti. Ai piedi della scala, l’acqua gorgogliava e turbinava, grigio-verde come il cielo, la spessa e bassa coltre di cielo che sputacchiava pioggia e mi infradiciava; il berretto era ormai una roba bagnata e inutile, così lo buttai nel fiume e lo guardai andarsene. Adoro l’umidità di un giorno così, adoro l’umidità e il buio e i cieli simili a spesse coperte grigie, perché solo in queste giornate mi sento a casa mia nel mondo.

In uno stato d’animo esilarato, tornai ad attraversare la strada principale (ci furono colpi di clacson e sconcerto nel traffico, perché ebbi uno dei miei momenti di assenza, mi scollegai), poi fui di nuovo sull’alzaia. Vicino alla mia panchina, lasciai il canale e impulsivamente risalii fino a Omdurman Close, finché mi trovai sul ponte che scavalcava la linea ferroviaria. Lontani sotto di me i binari luccicavano, ragnatele di ferro bagnato, ma nessun diavolo poteva spaventarmi con un tempo del genere, quello era il mio giorno! Sul ponte, dunque, feci un’estatica doccia, perché la pioggia scendeva forte adesso — e all’altra estremità mi fermai e guardai gli orti che si stendevano in basso, striscia dopo striscia, in una specie di nebbia, ciascuno recintato, sorvegliato dal suo casotto. Niente, niente era cambiato qui! Scesi lungo il sentiero, benché fosse fangoso e pieno di pozzanghere, finché mi ritrovai all’ingresso dell’orto di mio padre.

Niente era cambiato. Aprii il cancello e proseguii sul sentiero; ai lati, piante di patata abbattute e prostrate come cortigiani, mentre la pioggia scrosciava sul terreno e formava pozze nei solchi fra le file. Dietro il casotto, sulla destra, il mucchio del compost, una roba zuppa quel giorno, con i gusci e le bucce che si univano a formare una fanghiglia scivolosa e feconda — e lì davanti a me, adesso, il casotto vero e proprio, ripulito dalla pioggia. Non avvertivo alcun orrore provenire dalla costruzione, nessuna delle vertiginose ondate di terrore che mio padre fece scaturire da quel luogo e che, a un certo punto, arrivarono a spingerlo ai limiti della follia — niente di tutto questo, né sentivo orrore mentre mi giravo di nuovo verso l’orto, neanche lì: c’era pace nella terra, perché la pioggia porta pace ai vivi e ai morti, a tutte le cose sotto la terra e sotto l’acqua, tutte riposano nella pioggia. Mi inginocchiai nel campo delle patate e appoggiai la testa al suolo; fu allora che una voce disse: «Ehi? Cosa crede di fare?»

«Ehi! Ehi! Ehi ehi ehi ehi ehi!» riecheggiò una figura barbuta con berretto e impermeabile dall’altra parte della recinzione, mentre mi voltavo incespicando verso la fonte. «Ehi! Ehi! Ehi ehi ehi ehi ehi!»: i diavoli ripresero il grido, maledetti loro, maledette le loro sporche anime d’inferno! Oh, fuggii, tornai scivolando e piangendo sul sentiero e sul ponte col clamore delle loro sporche voci che mi risuonava nelle orecchie, finché non fui di nuovo sulla panchina, un relitto bagnato e ansimante: dovevo saperlo, mi dissi, dovevo saperlo, non si fermano mai, devo giocare d’astuzia, devo essere come una volpe.


La signora Wilkinson mi vide rientrare, fradicio com’ero, e non fu per niente felice di scoprirmi così bagnato. Ma io la ignorai mentre salivo faticosamente le scale, incurante anche delle anime morte che emergevano dal salotto per scrutare il mio involucro gocciolante e assediato. Sedetti sul letto coi gomiti sulle ginocchia, un triste e dispiaciuto ragno d’acqua, davvero — e poi lei entrò pesantemente senza bussare, piena di zelo matronale. «Fuori da quella roba bagnata, signor Cleg,» disse, «non vogliamo che ci muoia di freddo.»

A questo punto, ero completamente debilitato: la mia esuberanza e la mia energia evaporate, svanite come la nebbia. Mi alzai piuttosto faticosamente e le permisi di incominciare a slacciarmi i bottoni. Dopo un momento, mi sentii più responsabile, le allontanai le dita e continuai l’operazione da solo. Lei uscì. «Un bagno caldo per lei, signor Cleg,» gridò. «Non credevo che si sarebbe bagnato fino alle ossa.» La sentii nel bagno in fondo al corridoio che canticchiava fra sé mentre l’acqua scendeva tossendo e sputacchiando dai vecchi rubinetti. Quando fui pronto, mi avvolsi rabbrividendo nella vecchia vestaglia scolorita che avevo dai tempi delle colonie e mi avviai lungo il corridoio.

È una vecchia casa, quella della signora Wilkinson, con un vecchio bagno; la vasca è una cosa enorme, di ghisa, con i piedi ad artiglio, e si trova sotto un lucernario spiovente su un pavimento di piastrelle bianche e nere a forma di losanga. Quando i rubinetti sputano i loro torrenti caldi, la stanza si riempie subito di vapore, ed era così nel momento in cui io comparii sulla soglia. La signora Wilkinson stava china sulla vasca, una mano sul bordo e l’altra che saggiava l’acqua. Voltando la testa verso la porta, mi guardò per un attimo o due, poi si rialzò. «Venga, signor Cleg,» disse, «vediamo di riscaldare le sue ossa gelate.»

Appesi l’asciugamano al gancio dietro la porta e mi avvicinai cautamente. In questa casa l’acqua ha sempre una leggera tinta rossiccia: ossido di rame nei tubi, immagino. La signora Wilkinson era in piedi vicino al bagno di acqua marrone fumante, con le mani protese a ricevere la mia vestaglia. Naturalmente io arretrai. «Non sia timido, signor Cleg,» mi invitò, «ho visto un sacco di uomini in questo bagno.»

Ci scommetto, pensai, mentre indietreggiavo verso la porta. «Signor Cleg,» disse lei, «non sia sciocco.» Continuando ad arretrare, cercai la maniglia alle mie spalle. Era una donna grossa, ma sentivo che sarei riuscito a cavarmela, se avessi dovuto; per fortuna, non si arrivò a tanto. «Allora la lascio a se stesso, signor Cleg,» disse, e uscì scuotendo la testa. Non c’è serratura alla porta del bagno (non ci sono serrature da nessuna parte in questa casa, tranne — significativamente — sulla porta che dà sulle scale del solaio, e naturalmente su quella del dispensario), ma mediante un’attenta disposizione del mio asciugamano riuscii a coprire il buco della toppa; poi finalmente entrai nella vasca e distesi le mie magre membra: non c’era nessun odore.


* * *

Per qualche ragione mi trovo a pensare alla carbonaia di Kitchener Street. Una volta mia madre inciampò in un topo laggiù, per cui mi faceva sempre scendere al suo posto. Dopo un po’, incominciai a scendere senza nessuna ragione, semplicemente presi ad amare il buio e l’odore della polvere di carbone nelle narici, e ancora oggi non mi riesce di annusare del carbone senza ricordarmi la carbonaia, e forse è per questo che ci sto pensando adesso. Il mio olfatto è sempre stato acuto, e mi viene in mente che tutta questa storia del gas potrebbe avere a che fare con questo — sono ipersensibile, dal punto di vista olfattivo, e ciò potrebbe consentirmi di cogliere sfumature di odore che forse sono impercettibili per un naso normale, o che magari non esistono affatto. Ma non mi soffermerò oltre su ciò: l’odore è scomparso, probabilmente era un errore, e io sono stato uno sciocco a dargli tanta importanza. Abbastanza stranamente, adesso mi ricordo che odore aveva di solito la strada quand’ero un ragazzo: odore di birra. C’era una fabbrica di birra non lontana dal canale, e per la maggior parte del tempo l’aria era pregna del particolare odore della birra — malto, lievito, o quello che sia. Mia madre lo odiava; non beveva quasi mai — un bicchiere o due di mild al sabato sera — perché per lei il bere era associato all’umore di mio padre. Una volta mi disse, mentre eravamo seduti da soli in cucina, che secondo lei la nostra avrebbe potuto essere una famiglia felice se mio padre non avesse bevuto. Non lo penso; io credo che la crudeltà di mio padre verso mia madre ci sarebbe stata — forse in maniera diversa — anche se non avesse mai toccato neanche una goccia di alcol. Perché dipendeva dalla sua natura, da quello che c’era — o piuttosto non c’era — dentro di lui.

Tuttavia è strano che mi piacesse la carbonaia, perché è lì che lui mi frustava. Ricordo che una volta (non sono sicuro se fosse prima o dopo la morte di mia madre) mi disse di smetterla di far stridere i rebbi della forchetta sul piatto, era qualcosa che lo irritava. Ebbene io lo rifeci e lui uscì dai gangheri. L’oscurità naturale della cantina era sempre piena di polvere di carbone, che ondeggiava nell’aria sotto forma di minuscoli puntini neri — i germi del diavolo, pensavo —, che penetrava negli occhi, nella bocca e nelle narici, perfino nei pori della pelle, e io tornavo sempre di sopra sentendomi annerito da quel luogo, e anche questa era una sensazione gradevole, perché mi piaceva immaginarmi come un ragazzo nero come il carbone, che poteva muoversi nell’oscurità senza essere visto. Ricordo anche i suoni: come scricchiolavano le scale mentre scendevo io e come scricchiavano in maniera diversa quando era mio padre a scendere dietro di me. Poi, oltre allo scricchiolio, c’era lo slacciarsi della cintura — il tintinnio della fìbbia e lo sfilarsi del cuoio dai passanti dei pantaloni —, e adesso non riesco a sentire questi suoni senza pensare al dolore, anche se il male delle frustate non era mai brutto come i minuti che lo precedevano: la rabbia di mio padre, il modo in cui digrignava i denti e arricciava le labbra e mi sibilava di scendere in cantina — l’anticipazione, voglio dire, era peggio del fatto vero e proprio.

La cantina, come la cucina, era illuminata da una sola lampadina che pendeva da un filo elettrico marrone; piccola e bassa com’era, quella lampadina non faceva che enfatizzare la profondità delle ombre che occupavano grandi spazi lungo le pareti. Avevo spesso delle fantasie, laggiù, riguardanti fantasmi e catene e torture — con quanta gioia torturavo mio padre! Avvicinavo un coltello affilato ai reticoli di pelle tra le sue dita e glieli aprivo! Al centro del pavimento c’era un pilastro, un pilastro annerito, tarlato e vecchissimo, che sosteneva l’impiantito di sopra; accanto pendeva la lampadina, che proiettava sul suolo un cerchio di debole luce giallastra. In questo cerchio io entravo e incominciavo a slacciarmi i pantaloni di pesante lana grigia che mi arrivavano fino alle ginocchia ed erano sostenuti da un paio di bretelle a strisce che a quel tempo avevano tutti i ragazzi. I pantaloni cadevano in un mucchio disordinato sui miei stivali, seguiti dalle spesse mutande invernali; poi, senza una parola, incrociavo le braccia sul pilastro e ci appoggiavo la testa, piegandomi all’altezza della vita. Allora facevo finta che ci fosse un altro Spider appoggiato al palo, o addirittura legato, o perfino inchiodato — e io frustavo lui con la cintura! Spesso immaginavo mio padre inchiodato a quel pilastro.

Lui prendeva posizione dietro di me, batteva i piedi un paio di volte, la cintura arrotolata e tenuta appena sotto la fibbia. C’era un vecchio chiodo piantato malamente nel palo, appena sopra il punto in cui appoggiavo le braccia, e ci agganciavo il mignolo e pensavo a qualcos’altro. Spesso pensavo ai topi che vivevano in cantina e venivano regolarmente presi nelle trappole che mio padre metteva e caricava con formaggio avvelenato. Avevo l’abitudine di controllare queste trappole almeno una volta al giorno e, se c’era un topo, me lo mettevo in tasca e, più tardi, quando andavo a pescare nel canale, lo usavo come esca, piantandogli un chiodo nell’orecchio, prima di piegarlo e attaccarlo a un pezzo di spago. Non so cosa sperassi di prendere nel canale dei gasometri, non c’era nient’altro che vecchi stivali e poche carpe fangose, forse una bicicletta arrugginita — ero davvero ridicolo, con i pesanti pantaloni grigi, accoccolato sulla riva (non lontano, mi accorgo, da dove oggi si trova la mia panchina, ma sulla riva opposta) con le calze rimboccate sopra gli stivali e le grosse ginocchia sporgenti di lato, mentre gettavo lo spago in acqua e lo osservavo fondersi perfettamente con il proprio riflesso e poi vedevo germogliare, sulla superficie nera del canale, un’immagine della mia forma ingobbita che un momento dopo, con la brezza, si sarebbe dissolta in mille frammenti scintillanti! Nella mia immaginazione ero, suppongo, un ragazzo nero, nel profondo di qualche giungla, accovacciato su un tronco con un gonnellino e una maschera… Poi l’odio di mio padre arrivava penetrante, e l’unica cosa che sentivo era il dolore.

All’epoca, frequentava l’Earl of Rochester. Si trattava di un pub molto più grande del Dog and Beggar; era il posto in cui Hilda e i suoi amici passavano generalmente le serate, essendo vicino a Spleen Street, e questa era una fortuna, perché nei suoi rapporti con Hilda più lontano stava da Kitchener Street e meglio era. Spesso lo seguivo quando usciva di casa dopo cena; scivolavo sul sentiero dietro di lui, correndo da un ingresso a un bidone della spazzatura, tenendomi nell’ombra, e così mio padre non sospettò mai nulla. Lo guardavo attraverso una finestra del Rochester, vedendolo seduto con Hilda e Nora e gli altri; spesso sembrava isolato, escluso — non apparteneva al loro mondo capii più tardi, al mondo delle sgualdrine e degli scommettitori e degli imbroglioni: il suo era il mondo solitario e circoscritto di un idraulico, e lui non era un uomo socievole per natura. A volte, spiandolo dal marciapiede, pensavo a come io sedevo in fondo alla classe ogni giorno, senza neanche essere davvero presente: allo stesso modo, mio padre sedeva nel pub con Hilda e gli altri, guardando la gente con un’espressione assente sulla faccia, lasciando che le chiacchiere gli passassero accanto — fino a quando, cioè, lei gli metteva una mano sulla coscia, e questo lo riportava alla vita. Oh, Hilda dava «il meglio di sé» in un pub: amava ridere e civettare, amava scherzare con gli uomini e piangere con le donne, e adorava il suo porto… Come adorava il porto dolce, quella donna! Così lei lo riportava alla vita e lui beveva un sorso della sua mild, produceva un guizzo o due del suo furtivo sorriso, si crogiolava un momento al raggio della calda luce alcolica di Hilda; poi l’attenzione di lei veniva attirata altrove e lui si allontanava di nuovo. Quella solfa seguitava avanti e indietro, altri si univano al gruppo, i bicchieri andavano e venivano (in qualche modo, c’erano sempre i soldi per un altro giro, anche se spesso era mio padre che pagava l’ultimo della serata), e poi, finalmente, dopo essere rimasto seduto in silenzio tutta la sera, veniva ricompensato come un bravo bambino: perché al momento della chiusura doveva riaccompagnare Hilda a Spleen Street. Io li seguivo a distanza mentre loro svoltavano nelle stradine e nei vicoli, e in una di quelle viuzze, immersi nell’ombra, passavano alcuni minuti abbracciati. Poi Hilda gli slacciava la patta dei pantaloni, tirava fuori il suo uccello sottile e duro e lo portava all’orgasmo con pochi abili colpi. Si allontanava da lui poco dopo, e mio padre tornava a casa. Io non ero sempre presente all’ultima parte delle loro serate, perché dovevo rientrare prima che arrivasse lui, ma posso immaginarmele fin troppo bene.

Quindi non è difficile per me immaginare mio padre che si allontanava nel vicolo una sera, dopo un’altra infelice cena nella propria cucina, e intuire quello che pensava. Mi chiedo se contemplasse mai l’idea di andare semplicemente giù al Dog come prima, evitando del tutto l’Earl of Rochester, evitando del tutto Hilda Wilkinson, ritornando tranquillamente alla sua vecchia vita che, per quanto limitata e ristretta, almeno gli prometteva i modesti vantaggi della prevedibilità e una sorta di armonia. Naturalmente no: solo una pensosa nostalgia poteva far risorgere la sua vecchia vita, la vita di prima di Hilda; aveva sentito troppe volte i suoi seni sotto le mani, la dolcezza del suo ventre premuto contro il proprio, soprattutto l’euforia vertiginosa delle sue dita che gli slacciavano i bottoni della patta — e mentre i ricordi di queste sensazioni lo inondavano, gli si induriva nei pantaloni, anche se continuava a camminare, e ogni dubbio, ogni esitazione, svaniva. La cosa era al di fuori del suo controllo.

Ricordo molto bene una sera al Rochester. Era una sera maledettamente terribile, resa più maledetta del solito dal fatto che mio padre covava ancora dentro di sé il cattivo umore che si portava dietro da Kitchener Street. Sembrava più a disagio di sempre mentre sedeva fra gli amici di Hilda, fra le dorature e gli specchi del pub affollato, e io mi chiedo se per caso vide entrare uno dei clienti abituali del Dog — la qual cosa l’avrebbe messo in ansia, lo so, per il pensiero che Ernie Ratcliff l’avrebbe saputo, essendo questi una persona a cui piaceva spettegolare e sparlare di tutti. Così rimase seduto immobile per più di un’ora, aggrondato e silenzioso, e neppure Hilda riuscì a scaldarlo. Quando lasciarono il pub, lei si dimostrò fredda e altezzosa, non gli permise di offrirle il braccio mentre camminavano insieme nella notte. Percorrendo un vicolo nei pressi di Spleen Street (io ero vicino a loro, a questo punto, e strisciavo silenzioso nel buio come un’ombra), mio padre tentò di spingerla contro il muro. Lei non voleva assolutamente! Oh, si ribellò allora, e lui arretrò — che mitragliatrice era quella donna quando si arrabbiava! Gli occhi le scintillavano. «Non ti dai molto da fare, eh, idraulico?» gridava. «Non fai troppi sforzi, vero? Non so perché diavolo mi impiccio con uno che se ne sta lì seduto tutta la sera come un becchino. Si può sapere cos’hai, eh?» Adesso si stava scaldando, il mento proteso, il cappotto di pelliccia all’indietro, le mani sui fianchi di una camicetta tesa. Mio padre si era girato e guardava il vicolo, in direzione del punto in cui ero accucciato io, dietro un bidone della spazzatura. «Lasciami in pace, Hilda,» disse stancamente, tirando fuori il tabacco.

«’Lasciami in pace?’ È da ridere, detto da te. Lasciami tu in pace, idraulico. Stai lì seduto tutta la sera come un maledetto cadavere, e poi vuoi toccarmi in un vicolo? Ma cos’hai? Non ti ho già pagato per i tuoi tubi?»

Lo vidi irrigidirsi, allora, perché questo lo toccava nel vivo. All’estremità opposta del vicolo, il lampione gettava scintille di luce nelle fessure del selciato e lungo gli spigoli dei mattoni. Pagato per i tubi? Pagato per i tubi? Era così, allora? Non aveva avuto soldi da lei per il lavoro, sapeva che non sarebbe mai stato pagato — è così che lo considerava, quindi, un pagamento per un servizio? Il colore porpora gli svanì dal volto, rimise la scatola del tabacco in tasca. Hilda lo guardò, assunse un’aria di nonchalance, spinse in fuori il grosso mento. «Allora, idraulico, è vero o no?»

Lui rimase immobile, bianco di rabbia, dandole ancora le spalle; lottava per riprendere il controllo. Avrebbe voluto solo colpirla molto forte, lo vedevo: conoscevo quello sguardo — voleva farle davvero male, farle male come lei aveva fatto male a lui. «Vieni qui, idraulico,» la sentii dire.

Non si mosse.

«Dai, idraulico.» Un tono suadente, adesso. La dolce Hilda. Lui si voltò. Il cappotto di pelliccia ancora all’indietro, le mani sui fianchi, lei stava appoggiata al muro con un ginocchio piegato in modo che la gonna risultasse sollevata, e gli sorrideva. «Vieni qui,» mormorò. E lui andò, come un cagnolino addestrato. Aveva una mano sul fianco, e con l’altra lo afferrò dietro la nuca, lo attirò a sé e lo baciò dolcemente sulla bocca. Le mani di lui erano sulle sue cosce, le sollevavano la gonna; improvvisamente era eccitato, sopraffatto dal desiderio di quella donna: voleva possederla subito, in quel momento, contro il muro; l’aveva duro nei pantaloni e già cercava i bottoni, era cieco e ansimante di passione — ma Hilda, sempre baciandolo, abbassò le braccia, gli prese i polsi, gli staccò le mani da lei e si liberò. Rise una volta, molto rauca, e con un brivido si chiuse la pelliccia. «Basta, idraulico,» disse afferrandogli i polsi, mentre lui tornava alla carica. «Devo andare a casa.» Mio padre incominciò a sussurrare furiosamente, allungò ancora le mani, e fu di nuovo respinto. Poi la vidi mettere una mano sulla faccia di lui. «Devo andare a casa,» ripeté, «fa freddo qui. Buona notte, idraulico.» Scuotendo la testa mentre lui tentava per un’ultima volta di trattenerla, scivolò via, percorse ondeggiando il vicolo in direzione della luce, lasciando mio padre in un’eccitazione confusa di rabbia e desiderio, in una corrente di emozioni contraddittorie.


* * *

Hilda era una prostituta, sapete. Era una sgualdrina e pagò mio padre con i servizi di una sgualdrina, anche se lui non lo capì fino a quella sera nel vicolo. Quando arrivò a casa mezz’ora più tardi — aveva fumato una sigaretta vicino al canale, malgrado il freddo della notte —, scopri con dispiacere che mia madre lo stava aspettando. Io udii i suoi passi nel cortile e poi lo sentii entrare dalla porta sul retro. Mia madre era seduta nel buio al tavolo della cucina, davanti a una tazza di tè, e lui non la vide finché non accese la luce. Il viso di lei, quando si voltò a guardarlo, era gonfio intorno agli occhi, come accadeva quando aveva pianto. «Ancora alzata?» borbottò, sedendosi pesantemente all’altro capo della tavola e chinandosi per slacciare gli stivali. Non riusciva a guardarla.

«Dove sei stato, Horace?» disse lei con tono sommesso. C’era un velo di accusa nella sua voce, un’accusa temperata dalla tristezza. La porta tra la cucina e il corridoio era aperta, per cui scivolai fuori dal letto (ero arrivato a casa da poco anch’io) e sedetti in cima alle scale, in pigiama, per ascoltare. A questo punto, mio padre ebbe ancora un barlume di decenza in sé? L’infelicità di sua moglie gli toccò il cuore e lo lacerò, lo lacerò fra un involontario moto di compassione per mia madre, del cui dolore era responsabile, e la sua profonda irritazione verso di lei, non solo perché era un ostacolo alla sua volgare relazione con Hilda Wilkinson, ma anche perché complicava il semplice impulso del suo desiderio? Il suo cuore non era ancora diventato del tutto di pietra, credo; lei suscitava ancora, penso, alcune tracce delle responsabilità che un tempo avvertiva, tuttavia era costretto a sopprimere violentemente il senso di colpa scatenato da questi sentimenti, e per una semplice ragione: poteva conservare la sua passione per Hilda solo se contemporaneamente si induriva nei confronti di mia madre — se, in altre parole, creava una sorta di innaturale divisione tra le sue emozioni: l’unica alternativa era dibattersi nell’incertezza e nell’indecisione, una condizione flaccida e femminea che egli era ansioso di evitare. Così mentre una vocina gli gridava di confortare mia madre, di asciugare le lacrime da quegli occhi annebbiati, di prenderla fra le braccia e rimettere tutto a posto, un impulso uguale e contrario gli diceva di farla soffrire, di intensificare la crisi, di provocare il crollo e la dissoluzione di tutti i fragili legami che ancora li tenevano uniti. E lui non la consolò, strinse le labbra in una linea dura e sottile, si tolse gli stivali uno dopo l’altro e si massaggiò i piedi. «Giù al pub,» disse.

«Al Dog?»

«Sì.»

«Bugiardo! Sei un bugiardo, Horace,» gridò lei. Oh, era duro per me sentire la sua voce che si rompeva in quel modo, lei così estranea all’ira! «Sono andata al Dog e non c’eri!» Adesso lei sedeva eretta all’estremità della tavola, con le lacrime che le scorrevano sulle guance e una sorta di luce acquosa negli occhi, furia e dolore uniti.

«Sono andato da un’altra parte, dopo un po’,» disse rabbiosamente mio padre. «Perché sei venuta al Dog? Non è sabato.»

Lei non rispose alla domanda, si limitò a fissarlo mentre le lacrime le scendevano sulle gote, senza neanche curarsi di asciugarle.

Mio padre si strinse nelle spalle, abbassando gli occhi e massaggiandosi ancora una volta i piedi. «Sono andato giù all’Earl of Rochester.» Quando lo sentii dire queste parole, pensai: perché gliel’ha detto? Come avrebbe fatto a tornarci, con la possibilità che lei andasse a cercarlo? «Perché mi segui?» chiese lui rabbiosamente. «Possibile che un uomo non possa bersi un bicchiere dopo il lavoro?»

«Non voglio vivere così,» disse mia madre, di nuovo tranquilla, asciugandosi la faccia col grembiule. «Non pensavo di vivere così.»

«Non è colpa mia,» disse mio padre, mentre una voce nella sua testa diceva: «Oh, sì che lo è.»

«Sì che lo è,» disse mia madre, diventando per un momento l’impotente espressione della sua coscienza.

«No!» gridò lui — e io non resistetti oltre. Corsi giù dalle scale, lungo il corridoio, a piedi nudi, fìngendo di non riuscire a prendere sonno. Mia madre si voltò verso di me, e la vista del suo volto rigato di lacrime mi sconvolse terribilmente. «Va tutto bene, Spider,» mormorò, battendo le palpebre una volta o due, mentre si alzava stancamente dalla sedia e si rassettava il grembiule sullo stomaco in un modo tutto suo. «Tuo padre e io stiamo solo parlando.»

«Mi avete svegliato,» dissi io, o qualcosa del genere, non ricordo esattamente.

«Va tutto bene, adesso,» ripeté lei. «Adesso veniamo tutti a letto.» Mi prese la mano; ero più alto di lei, anche a piedi nudi. «Forza, Spiderone,» disse lei, «torna su a letto.» E salimmo le scale. Mio padre rimase seduto là per altri dieci minuti circa, poi lo sentii spegnere la luce (e venire di sopra. Mia madre era sveglia, sdraiata supina nel loro enorme letto, e fissava il soffitto; il chiaro del lampione esterno filtrava dalle tende e creava strane figure romboidali di luce e ombra sopra la sua testa. Mio padre si svestì e scivolò nel letto dalla sua parte, e tutti e due rimasero là al buio, silenziosi e insonni, per più di un’ora.


La mattina dopo, quando mio padre si alzò, si vestì per il lavoro e scese da basso, trovò mia madre in cucina ai fornelli che friggeva della pancetta. Aveva messo una tovaglia bianca pulita sulla tavola e gli aveva versato il tè. Era tranquillamente immersa nella sua fervida attività; ruppe un paio di uova nella padella e, un attimo dopo, gli mise davanti il piatto: uova e pancetta, pomodoro e rognone fritto. «Mi sono alzata per prepararti qualcosa di buono per la colazione,» disse. «Hai bisogno di una buona colazione al mattino, lavori tanto.» Poi tagliò tre fette da una pagnotta e le spalmò di sugo per il pranzo. Mio padre consumò la colazione; non disse nulla ma, per quanto «morto» fosse, non poteva non essersi reso conto del significato e della qualità del suo gesto. «Bevi il tè finché è caldo,» mormorò lei mentre gli avvolgeva i panini nel giornale. Lui partì per il lavoro pochi minuti dopo, uscendo dalla porta sul retro; lo guardai dalla mia finestra. Mia madre era al lavandino quando mio padre uscì: sentivo scorrere l’acqua. Lui si fermò un attimo sulla soglia e la guardò. Lei gli rivolse un piccolo sorriso, senza alzare le mani dall’acqua, e un’espressione comparve sulla bocca di lui, una specie di strizzatura delle labbra, che era in parte rassegnazione e in parte rimpianto; poi annuì un paio di volte. Pedalando verso il lavoro nell’aria fresca del primo mattino, immagino che si sentisse stranamente in pace; era la notte che portava con sé la passione, la confusione e il dolore; al mattino era diverso.

Parecchie volte nel corso della giornata decise che aveva definitivamente chiuso con Hilda Wilkinson. Si rammentò di quello che lei gli aveva detto la sera prima, si ricordò di quanto gli erano antipatiche le persone con cui lei beveva e, non ultimo, pensò alla disperazione di mia madre, se mai avesse scoperto quello che stava succedendo. Questo gli diede davvero un po’ di respiro; debole e insensibile poteva esserlo, ma non era preparato ad affrontare tutto ciò. No, questa breve storia con Hilda Wilkinson, questo breve incontro, meglio lasciarselo alle spalle, dimenticarlo, ritornare alla routine della vita quotidiana, alla stabile routine che, apparentemente, conosceva da sempre.


La decisione di mio padre rimase immutata, direi, fin verso la metà del pomeriggio. Stava verificando l’impianto idraulico di un magazzino di East Ham col suo socio Archie Boyle, un simpatico giovane grasso con i capelli color carota. Lo vedo in cima a una scala a pioli di legno, le gambe strette contro il gradino più alto, impegnato con martello e pappagallo su un pezzo di tubo vecchio, in alto fra la polvere e l’oscurità. Ogni colpo del martello risuona cupamente nell’edificio vuoto, e al di sopra di questo riverberante clangore proviene il suono acuto e sottile, dall’altra parte, del fischio di Archie, impegnato a preparare le sezioni del nuovo tubo che mio padre installerà. Nella mano sinistra, mio padre ha il pappagallo, stretto intorno a un vecchio dado ottagonale che negli anni si è quasi fuso con il tubo, e nella destra tiene il martello, con il quale dà una serie di colpi decisi al manico della chiave, nel tentativo di allentare il dado. Ogni colpo di martello risuona nel magazzino come una specie di funerea campana a morto, delle schegge di ruggine si staccano, e lui deve voltare la testa per evitare che gli finiscano negli occhi. Lentamente il dado incomincia a ruotare. La mente di mio padre, cullata dal regolare clangore dei colpi di martello sovrapposti in quella grande camera vuota, come una sorta di fantastica sinfonia gotica, al lento fischio stonato di Archie Boyle, si è messa di nuovo a divagare sugli eventi della sera prima, sull’immagine di Hilda Wilkinson col cappotto di pelliccia aperto, le mani sui fianchi, le gambe nude, un ginocchio alzato in modo che la gonna le risalga sulla coscia bianca, che sorride col suo sorriso mascelluto nell’ombra — e con quella visione, l’idea di possederla, lì nel vicolo, quella «sgualdrina» (come assapora questa parola!), contro il muro, con la gonna sollevata fino alla vita…

All’improvviso dal tubo sgorga un gran getto sibilante di acqua fredda. Lo colpisce in pieno petto, facendolo quasi cadere dalla scala. Da tutt’intorno al dado allentato sprizzano getti d’acqua — i tubi non sono stati isolati dall’impianto principale. Archie arriva trotterellando nel magazzino mentre mio padre scende dalla scala, gocciolando e bestemmiando, e l’acqua spruzza il soffitto e la parte alta della parete, poi scende a formare una pozzanghera che si allarga sul pavimento di cemento. «Maledizione!» grida mio padre, mentre corre via per chiudere l’acqua. Non c’è bisogno che qualcuno gli dica che è colpa sua.

Quando ritorna, Archie, sempre fischiettando, sta lavorando sodo con secchio e strofinaccio. Non è un grosso problema, dopo tutto; ma mentre mio padre riprende rabbiosamente il lavoro sul dado ottagonale sa che se non fosse stato per Hilda questo non sarebbe successo. I due ritornano ai loro compiti; per tutto il tempo, fuori dalle polverose finestre del magazzino, la luce si illanguidisce nel cupo e triste pomeriggio novembrino, e a mano a mano che si indebolisce mio padre non riesce a impedire che i suoi pensieri tornino in continuazione a Hilda, alla «sua sgualdrina», e il rimpianto sale come una febbre e le sue decisioni vengono tutte dimenticate.


Poco dopo i due idraulici lasciarono il magazzino deserto. Con l’arrivo del buio, una nebbia umida e fredda era salita dal fiume, e mio padre si calcò ben bene il berretto sulla testa e si annodò la sciarpa intorno alla gola. Dopo essersi separato da Archie, salì in bicicletta e pedalò in direzione di Kitchener Street. L’umidità della nebbia si condensava sui suoi occhiali e gli faceva bruciare gli occhi mentre percorreva strade scure e deserte, superava neri muri che brillavano scivolosi dove si rifletteva la luce diffusa dai lampioni, prima di ritirarsi di nuovo nel nero indistinto. Di quando in quando, incrociava una figura frettolosa, i cui passi diventavano improvvisamente forti, poi quasi con la stessa rapidità svanivano nel silenzio. Il percorso di mio padre lo portò lungo strade che tendevano a scendere verso i docks, e intanto la nebbia si faceva più densa, la città più deserta, l’atmosfera più misteriosamente ovattata. Per quanto fredda e umida fosse la sera, con l’arrivo del buio e lo svanire delle decisioni del mattino, il desiderio fisico di mio padre si era fatto più forte, e perciò adesso egli appariva rosso e distratto; non era in grado di ricordarsi della sua risoluzione di porre fine alla relazione più di quanto potesse salire con la bicicletta sui tetti e sui camini dell’East End, lasciandosi per sempre alle spalle e ai piedi gli imperativi della carne.

Continuò ad avanzare lentamente nella nebbia scura e spaventosa, col corpo in fiamme per il desiderio di Hilda Wilkinson. Bruciava dentro come il carbone al centro di una fornace, ardeva e ribolliva nella nebbia, così che quando spinse la bici nel cortile del numero 27 era un uomo malato, un uomo febbricitante, non più responsabile delle proprie azioni.

Entrò in cucina. Vi ho già detto com’era fatto quel locale: era una stanza brutta e male illuminata, e bisognava esservi costretti per definirla «accogliente». Nondimeno, mia madre si era data da fare per renderla calda e piacevole. Le tende, vecchie e scolorite quanto il suo grembiule, erano tirate davanti alla finestra sporca sopra il lavandino; dal fornello veniva il profumo e lo sfrigolio del fegato che friggeva con le cipolle. Aveva lavato i piatti, spazzato il pavimento e perfino portato dall’ingresso la sua unica pianta, un’aspidistra avvizzita e morente. Pulendosi le mani nel grembiule, offrì a mio padre lo stesso piccolo sorriso che lui aveva visto al mattino — un’eternità prima, sembrava — e cercò nella dispensa una bottiglia di birra. Io, dal canto mio, ero a tavola e guardavo il soffitto; non volevo avere più alcun contatto con mio padre, dopo la sera prima. Lui rimase sulla soglia, battendo i piedi sullo zerbino mentre la nebbia entrava nella stanza girandogli attorno. Non rispose al sorriso di mia madre, non tentò neanche l’equivoco stiramento di labbra che era riuscito a produrre al mattino. Mia madre era in piedi vicino al tavolo e gli dava le spalle mentre gli riempiva un bicchiere di birra. «Chiudi la porta, Horace,» disse, «entra la nebbia. Ti ho fritto un bel pezzetto di fegato…» Fu interrotta da un’esplosione quando mio padre sbatté la porta sul retro. Attraversò il pavimento della cucina con la fronte aggrottata, sedette pesantemente a tavola (ignorandomi, come io ignoravo lui) e bevve il bicchiere di birra. «Non bere così alla svelta,» mormorò mia madre, trafficando con la stufa. Come risposta, mio padre riempì di nuovo il bicchiere e, nel farlo, la birra tracimò sulla tovaglia, un bel pezzo di tela ricamata, regalo di nozze della sua defunta suocera. «Oh, Horace,» gridò mia madre, «guarda cos’hai fatto! Stai un po’ più attento, per favore.» Ma il suo tono era ancora dolce; era decisa a non litigare.

Mio padre non se ne curò. Era un altro uomo, ormai, duro come il granito e freddo come il ghiaccio. Una nuova forma di rabbia gli ardeva dentro, bruciando con una fiamma fredda, dura, gemmea: la vidi nei suoi occhi quando si tolse gli occhiali, la dura fiamma che bruciava in quei suoi duri occhi chiari. Era un marito e un padre severo e burbero da anni, ma mai prima di allora avevo visto in lui una rabbia feroce e fredda come quella. Era come se avesse superato una specie di barriera, come se avesse perso la capacità di provare anche solo una scintilla di umana comprensione per mia madre. La tovaglia, i sorrisi, il fegato sfrigolante — niente di tutto ciò poteva toccarlo, avvertiva solo il bisogno di togliersela bruscamente dai piedi, e tanto forte era questa sensazione che riusciva a malapena a sopprimere la violenza che la mera presenza di lei suscitava in lui. Sedette a tavola senza togliersi la sciarpa o la giacca o gli stivali, senza guardarmi, senza arrotolarsi una sigaretta; sedette con una faccia tempestosa e sofferente e si scolò un bicchiere di birra dopo l’altro, finché la grossa bottiglia da un quarto di gallone fu quasi vuota. Lo sforzo che stava facendo la mia povera madre era immenso, e in cambio non otteneva nulla, se non la sua furia silenziosa. «Cosa c’è, Horace?» sussurrò, mettendo il piatto di fegato e cipolle in tavola e contemporaneamente scostando la pianta. «Cosa ti succede?» Rimase lì a guardarlo con la testa leggermente reclinata di lato mentre un reticolo di rughe dolorose e preoccupate solcava la sua fronte. Nervosamente continuava a passarsi le mani sul grembiule, anche se erano perfettamente asciutte. Mio padre fissò il fegato fumante, i pugni ai lati del piatto così stretti che le nocche erano come palle da biliardo intrappolate sotto la pelle. «Dimmelo, Horace,» continuò la voce, ma lui seguitò a fissare davanti a sé, lottando per trattenere un’ondata di pura rabbia nera, sforzandosi cupamente di non perdere il controllo, trattenendosi arcignamente. «Vattene da me!» urlava una voce nella sua testa, ma mia madre, la mia povera sciocca madre, non se ne andò, anzi si avvicinò ancora, allungò una mano e fece per toccarlo. Finalmente lui si voltò verso di lei — la cucina era silenziosa, perché la padella non sfrigolava più, c’era solo la goccia del rubinetto — e che faccia le mostrò! Mai dimenticherò quella faccia, finché sarò vivo: sopracciglia dolorosamente contratte, labbra arricciate sui denti, la bocca gelata in un orribile ghigno che esprimeva sia violenza sia disperazione, una sofferente disperazione di fronte a quella violenza, e gli occhi… Adesso i suoi occhi ardevano non di quella fiamma dura e gemmea, ma dello stesso dolore che gli distorceva la fronte e le labbra, l’intera fisionomia, era tutto lì, e mia madre lo lesse e fu sconvolta dalla sofferenza che c’era in lui e gli si avvicinò. «No!» disse mio padre, quando le sue dita gli toccarono le spalle. «No!» E poi, con un suono per emettere il quale quasi si strangolò, si alzò goffamente in piedi, facendo cadere la sedia alle proprie spalle con un tonfo, e attraversò la cucina diretto alla porta sul retro, e poi fuori nella nebbia. Mia madre rimase un istante a guardarlo con le dita premute sulle labbra. Poi gli corse dietro, nel cortile, verso il cancello aperto sul fondo e il vicolo retrostante. «Horace!» gridava. Ma era scesa la notte, la nebbia appariva più spessa che mai, e non riuscì a vedere niente, né le giunse alcun suono di risposta attraverso l’oscurità; dopo aver fatto pochi passi in una direzione, poi nell’altra, tornò nel cortile, quindi in cucina, e si chiuse la porta alle spalle. Nel calore della stanza si avvertivano ancora il freddo e l’odore della nebbia; restando un istante immobile, lei si abbracciò e rabbrividì. «Oh, Spider,» sussurrò; io ero ancora seduto al tavolo, sconvolto per l’accaduto. Lei fissò il piatto di fegato che si raffreddava e la macchia di birra versata sulla tovaglia, poi si lasciò cadere su una sedia, si prese la testa fra le mani e pianse.


* * *

Di nuovo pioggia, oggi. Mi piace la pioggia, ve l’ho già detto? Amo anche la nebbia, fin da quando ero un ragazzo. Con la nebbia mi piaceva sempre andare giù ai docks per ascoltare le sirene antinebbia che suonavano e si lanciavano richiami l’un l’altra, per guardare le pallide luci delle navi che scendevano la corrente con la marea. Era il manto dell’irrealtà spettrale che mi piaceva, il manto che essa disponeva sulle forme familiari del mondo. Tutto era strano nella nebbia: gli edifìci diventavano vaghi, gli esseri umani brancolavano e si perdevano, i segni di riferimento, i punti cardinali, in base ai quali essi navigavano, si scioglievano in niente, e il mondo si trasfigurava in una terra di ciechi. Ma se i vedenti diventavano ciechi, allora i ciechi — e, per qualche strana ragione, io mi sono sempre considerato un cieco — … i ciechi diventavano vedenti. Mi ricordo che mi sentivo a mio agio nella nebbia, felicemente a mio agio nelle tenebre e nell’oscurità che tanto confondevano il mio prossimo. Mi muovevo rapidamente e con sicurezza nelle strade avvolte dalla nebbia, senza essere visitato dai terrori che stavano in agguato dappertutto nel mondo materiale visibile; restavo fuori il più a lungo possibile con la nebbia. La notte scorsa, mentre sedevo scrivendo nella mia camera nella soffitta della signora Wilkinson, di quando in quando mi sono alzato per stirarmi le membra e fissare la pioggia che scendeva nell’alone del lampione di fronte, e mi sono accorto di quanto poco fossi cambiato, di come le mie emozioni nella pioggia quel giorno (ieri, voglio dire) erano simili ai sentimenti che provavo per la nebbia da ragazzo. Cosa c’è alla base di tutto questo, mi chiedo, qual è la forza che un tempo spingeva un bambino solitario a uscire nelle strade nebbiose e che ancora esercita la sua attrazione durante le forti piogge vent’anni dopo? Cos’è che nel confondersi e nell’oscurarsi del mondo visibile dava un simile conforto al ragazzo che ero allora e alla creatura che sono divenuto poi?

Strani pensieri, no? Sospirai. Mi chinai per tirare fuori il mio quaderno da sotto il linoleum. Niente! Tastai meglio. Una momentanea vertigine di terrore mentre assimilavo la possibilità che il quaderno non ci fosse. Furto? Naturalmente — da parte della maledetta signora Wilkinson, chi altri?! E invece c’era, solo un po’ più in fondo di quanto pensavo; un sollievo non da poco. Mio padre avanzava alla cieca nella nebbia, appena consapevole della sua situazione, il caos dentro di lui ancora più confuso per la birra che aveva appena bevuto. Un grande sollievo, anzi: cosa diamine avrei fatto se lei ci avesse messo su le mani? Il posto migliore dove nasconderlo è davvero sotto il linoleum? Non c’è un buco da qualche parte in cui possa infilarlo? I lampioni erano macchie di luce nella nebbia, scintille e schegge di una radiosità gialla frantumata che raccoglieva il bagliore di luce selvaggia dei suoi occhi, il fuggevole velo di bianco del suo naso e della sua fronte mentre procedeva. Da qualche parte ho visto un buco, lo so, ma dove, dove? Continuò ad avanzare finché vide un edificio illuminato e, come una farfalla attirata dalla fiamma, si avvicinò e si trovò fuori dal Dog and Beggar. Entrò, nel caldo asciutto del locale, e all’improvviso ebbe l’odore della birra e del tabacco nelle narici e il mormorio delle chiacchiere nelle orecchie. Non posso permettermi di correre rischi.

Per qualche istante rimase sulla porta, col petto che ansimava violentemente, mentre riprendeva il controllo della respirazione. I suoi occhi erano ancora folli, la pelle bagnata e lucida per l’umidità. Lasciò vagare lo sguardo nel locale, tra i tavolini rotondi sparsi qua e là; c’era un sottile strato di segatura sul pavimento di legno grezzo e, in piedi al banco, stava un vecchio che leggeva i risultati delle corse. Altri due vecchi sedevano a un tavolo vicino al caminetto, dove bruciava un fuocherello di carbone; le loro labbra lavoravano silenziosamente su grigie gengive sdentate. Tutte le chiacchiere provenivano dalla sala al di là della vetrata, da dove adesso giunse Ernie Ratcliff. Guardando mio padre mentre metteva una mano sottile su una spina per la birra, egli mormorò: «Benvenuto, Horace, se stai venendo qui.» E mio padre, con la passione ancora rabbiosa nel petto, annuì imbambolato un paio di volte e chiuse la porta. Come un sonnambulo si avvicinò al banco. Ratcliff non notò niente di strano — o, se lo fece, non era nel suo stile dirlo. «Brutto tempo,» osservò, «una vera zuppa. Una pinta della solita, vero, Horace?» Mio padre annuì e, pochi istanti dopo, portò la sua pinta a un tavolo e sedette guardando il fuoco.

Poi tutto d’un tratto sembrò svegliarsi, riconoscere dove si trovava. Prese il bicchiere di birra e bevve quasi tutta la pinta d’un fiato. Si alzò e tornò al banco. «Un’altra?» disse Ratcliff, amichevolmente. «È roba buona, questa.» E gli servì un’altra pinta.

Un’ora più tardi, mio padre era di nuovo fuori nella nebbia. Nel frattempo non si era veramente calmato, anzi. Il folle gorgo appariva in qualche modo placato, ma da quella pacatezza era emersa una decisione. «Decisione», dico: in realtà era un impulso, o un istinto, piuttosto che una decisione, una sorta di semplice attrazione cieca verso la soddisfazione di un desiderio — e non ho bisogno di dirvi di quale desiderio si trattava. Vacillando era emerso dal Dog and Beggar, si era abbottonato la giacca e stretto la sciarpa alla gola. Poi aveva diretto i suoi passi all’Earl of Rochester ed era stato rapidamente inghiottito dalla nebbia, più densa che mai.


Quando raggiunse l’Earl of Rochester, mio padre sembrava padrone di sé. Non barcollava, non strascicava le parole, ma in realtà era ubriaco e non meno preda dell’istinto di quando aveva lasciato il Dog. Il Rochester era pieno, quando arrivò; era un venerdì sera ed erano già quasi le nove. Spalancò la porta ed entrò rapidamente, un paio di refoli di nebbia lo seguirono nel suo ingresso. Un’ondata di chiacchiere e risate, e fumo e calore e luce, lo investì. Si fece strada a fatica fino al banco e ordinò del whisky. Dopo che gli venne servito, si voltò, cercando Hilda.

Lei stava a un tavolo d’angolo con Nora e gli altri. Sollevò gli occhi, poi decisa si alzò e si aprì un varco tra la folla verso di lui. Strano, questo: vi sareste aspettati che lo facesse andare da lei. Credo di saper spiegare il suo comportamento al Rochester quella sera, e molto di ciò che avvenne in seguito, perché penso che avesse saputo qualcosa su mio padre dopo gli avvenimenti nel vicolo la sera prima, qualcosa di preciso; al momento giusto, chiarirò tutto nei particolari. Adesso, però, arrivò urtando la gente, col volto arrossato e un bicchiere di porto tenuto alto in una mano, come un’insegna, e mentre si avvicinava scherzava con gli uomini che le facevano strada ridendo, come un mare agitato si apre davanti a una nave col vento in poppa. Poi gli fu accanto, e quando lui bevve il primo sorso di whisky il morso dell’alcol aggiunse carburante al desiderio che sentiva fin dal tramonto. Con uno stivale sulla sbarra di ottone nella parte bassa del bancone e gli occhi che non abbandonavano mai la faccia di lei, mio padre tirò fuori il tabacco. «Allora, idraulico,» disse Hilda (anche lei aveva bevuto e riconobbe la furia dentro di lui), «va meglio stasera, eh?»

Mio padre si stava arrotolando una sigaretta, la testa bassa e le dita impegnate con una cartina Rizla e l’Old Holbron, ma i suoi occhi erano sempre fissi su di lei. Quando ebbe finito di arrotolarla, la accese con un fiammifero e disse: «Vieni giù agli orti.»

Sì, lei avvertiva quant’era furibondo, e ciò la eccitava. «Giù agli orti?» disse, alzando le sopracciglia e tenendo la lingua appoggiata al labbro superiore. Lui si girò verso il bancone, annuì e finì il whisky. «Quando?» chiese lei.

Per qualche istante, lui rimase in silenzio, aspettando la cameriera. Ordinò un altro whisky e un porto dolce per lei. Rimasero lì fra gli avventori di passaggio, ed era come se dei fili invisibili li legassero l’uno all’altra. «Io vado adesso,» disse lui, «tu vieni fra un po’.»

Hilda si portò il liquore alle labbra. Lasciò che ci fosse una breve pausa. «D’accordo, idraulico,» disse, «non mi dispiace.»


Mi ricordo dove ho visto un buco: dietro un attacco del gas. Lì un tempo c’era un caminetto. Ci sono un focolare vuoto e una cappa; andranno benissimo, lo infilerò lì. Ma devo fermarmi per un momento, è tutta notte che avverto delle strane sensazioni all’intestino, quasi me lo torcessero come un tubo di gomma. Qualcosa di inconsueto sta succedendo laggiù, anche se non so esattamente cosa; probabilmente è qualcosa che ho mangiato.


* * *

Continuai a scrivere fino alle ore piccole, mettendo sulla carta la ricostruzione esatta e dettagliata di quella notte terribile, tutto ciò che avevo pensato durante i lunghi, vuoti anni di confino in Canada. Ero in camera mia quando, poco dopo che mio padre se n’era andato, mia madre mi chiamò dalle scale. Uscii sul pianerottolo; lei era vicino alla porta d’ingresso, col cappotto e la sciarpa sulla testa. «Vado fuori, Spider,» disse, «non ci metterò molto.» Si era data del rossetto sulle labbra, notai, e un tocco di fard sulle guance — si truccava così, quando usciva con mio padre il sabato sera. Era solo venerdì, ma dopo quello che era accaduto chiaramente non riusciva più a stare seduta in cucina. «Vado incontro a tuo padre,» disse: le ultime parole che le sentii dire nella sua vita. La vidi lasciare la casa dalla porta sul retro e la osservai mentre si fermava a infilarsi i guanti nel cortile. Aveva dimenticato la luce accesa in cucina, e per un attimo ne fu colpita: questo vidi dalla finestra della mia camera. Poi attraversò il cortile, una donnina azzimata che usciva incontro al marito, e ben presto fu inghiottita dalla nebbia e la persi di vista. Ma ero ancora con lei, vedete, ero ancora con lei mentre mi appoggiavo al davanzale e appannavo il vetro col mio respiro; ero con lei mentre percorreva il vicolo, tenendo stretta la borsetta, avanzando cauta nella fioca luce del lampione all’estremità della viuzza. Non sapeva se mio padre fosse al Dog, né che tipo di accoglienza avrebbe ricevuto se l’avesse trovato là, ma non poteva più restare seduta a piangere in cucina mentre lui era fuori a bere, pieno di un risentimento che non capiva ma che, apparentemente, senza alcuna colpa da parte sua, era diretto verso di lei. Raggiunse il Dog, entrò coraggiosamente nel locale e si diresse subito al banco. «’Sera, signora Cleg,» disse Ernie Ratcliff. «Cerca il suo vecchio? Era qui, ma credo che sia andato via.» Scrutò nel locale con i suoi occhietti da donnola. «No,» disse, «non c’è traccia di lui, signora Cleg.»

«Vedo,» disse mia madre. «Grazie, signor Ratcliff.» Stava per allontanarsi dal bancone quando un nuovo pensiero la colpì. «Signor Ratcliff,» disse, «sa dirmi dov’è l’Earl of Rochester?»


Vedo mio padre camminare per le strade nebbiose verso gli orti. Cammina lungo Spleen Street, i gasometri incombenti appena visibili sopra di lui, lungo Omdurman Close e oltre il ponte sulla ferrovia, una figurina scura che avanza nella nebbia, il cupo suono dei suoi stivali chiodati attutito sul selciato. Quando raggiunge il punto più elevato del sentiero si ferma; la nebbia è meno fìtta lassù, dove il terreno è più alto, e riesce a scorgere la luna e, lontano sulla sinistra, il primo dei casotti. Resta immobile per un momento, la sua figura confusa ma stagliata contro la notte grigio-nera con il fioco alone della luna, con gli orti alle spalle e, al di là, un labirinto di strade e vicoli che si allontanano verso i docks, da dove giungono le tristi sirene delle navi nella nebbia; pochi istanti più tardi, sta aprendo la porta del suo casotto, e poi è dentro e si fruga in tasca per trovare un fiammifero. È freddo e umido nel casotto, e nel buio, col forte odore di terra, è come essere in una bara, pensa. Poi il fiammifero brilla, accende la candela sulla cassa vicino alla poltrona imbottita di crine, e la fiamma proietta nel locale una luce fioca e incerta. Apre una bottiglia di birra e passeggia sul pavimento, un’ombra enorme e deforme alla lucina oscillante che la fiamma della candela getta sulle pareti di assi nude e sugli spioventi del tetto. Dalla penombra, sulla parete di fondo, l’occhio del furetto impagliato improvvisamente coglie la fiamma della candela e riflette nel casotto un lampo di luce argentata. L’alcol che mio padre ha in corpo non gli consente alcuna pausa, alcuna pace, in cui riflettere su quello che sta facendo; è in preda a una sorta di febbre, ancora posseduto da quell’unico istinto fisso.

Finalmente lei arriva. Mio padre la sente all’esterno e spalanca la porta. Bestemmiando e inciampando, Hilda percorre il sentiero a piedi nudi, tenendo le scarpe in una mano e una bottiglia di porto nell’altra. «Merda!» grida, mettendo un piede nel solco delle patate. Mio padre sogghigna, adesso, e Hilda vede i suoi denti bianchi che brillano nella luce fioca che esce dal casotto aperto mentre avanza per aiutarla. Esce dalla coltivazione e torna sul sentiero, e lui le mette una mano sulle spalle; immediatamente si aggrappano l’uno all’altra sotto la luna fumosa; immediatamente il calore che si è accumulato in mio padre fin dal tramonto si rinfocola mentre oscillano avanti e indietro, i due corpi stretti, lì davanti al casotto. Scoppi di risa soffocate di Hilda, con la faccia sepolta nel colletto di mio padre, poi lentamente si separano e si dirigono verso il casotto, entrano, la porta si chiude e il silenzio scende ancora una volta sugli orti.

(Dio buono, come vorrei che il silenzio scendesse su questa casa! Hanno ricominciato, e sembra che adesso stiano ballando, lassù; continuano per minuti senza fermarsi e poi crollano, in preda, sembra, alle risa. Sono salito in piedi sulla sedia a martellare il soffitto con la scarpa, ma non serve a niente, anzi sembra solo peggiorare la situazione. La signora Wilkinson dovrà rendermi conto di molte cose, e il disturbo che queste creature arrecano al mio sonno non è certo quella meno importante. E la pancia mi fa ancora male!)


Mia madre si immobilizzò appena dentro l’Earl of Rochester e si guardò intorno confusa. Il pub era pieno, e a quell’ora una sorta di follia collettiva aveva infettato i clienti che parlavano e ridevano e gesticolavano come caricature di uomini e di donne, come grotteschi manichini; mia madre, mite d’animo, e sobria, era profondamente intimidita. L’aria era pregna di fumo, quasi densa come la nebbia fuori; nella folla di queste persone, la cui rumorosità sembrava aumentare le loro dimensioni mentre diminuiva la loro umanità, lei non riusciva affatto a capire se mio padre fosse lì o no. Per quanto mite e sobria fosse, aveva deciso un piano d’azione: tenendo stretta la borsetta, incominciò a farsi strada, borbottando spesso delle scuse e guardandosi intorno man mano che avanzava.

Finalmente raggiunse il bancone. Aspettò pazientemente che una cameriera le prestasse attenzione. Ogni volta che se ne avvicinava una, però, qualche uomo corpulento e grasso arrivava alle sue spalle, la superava da dietro con immensi pugni rossi che reggevano bicchieri di birra e di liquori e incominciava a recitare una lunga complicata lista di bevande, e la cameriera era costretta a correre qua e là. Ciò accadde parecchie volte, eppure mia madre rimase al banco, minuscola in confronto a quei giganti ubriachi, finché ottenne la piena disponibilità di una giovane donna simpatica che le chiese: «Cosa posso servirle, cara?»

«Sto cercando mio marito,» disse mia madre. Un sogghigno dell’uomo al suo fianco e una serie di commenti gridati dai suoi compagni mentre lui ripeteva quelle parole.

«Chi è suo marito, cara?» disse la cameriera non senza simpatia, alzando la voce per farsi sentire al di sopra della confusione.

«Horace Cleg.»

«Chi?» disse la cameriera.

«Horace Cleg,» disse mia madre.

«Horace!» gridò l’uomo al suo fianco. «Ti cercano!»

«È qui?» chiese mia madre, voltandosi verso quell’uomo.

«No, se ha un po’ di buon senso, no!» disse l’uomo, e tutti risero rumorosamente.

«Horace Cleg?» disse la cameriera. «Non lo conosco, cara. È un cliente fìsso?»

«No,» disse mia madre. «Perlomeno, non credo.»

«Mi dispiace, cara,» disse la cameriera. «Posso servirle qualcosa?»

«No, grazie,» disse mia madre e, allontanandosi dal bancone, riattraversò la folla diretta verso la porta. Un attimo dopo, si trovò di nuovo fuori nella nebbia.

Aveva attraversato il ponte sulla ferrovia ed era ferma sul sentiero che correva lungo gli orti; fissava il casotto di mio padre. Il terreno retrostante scendeva ripido e il tetto spiovente si stagliava netto tra le folate di nebbia, contro il cielo notturno, in cui la luna adesso sembrava un’escrescenza piuttosto che un globo, come un’enorme patata. Dal contorno della porta filtrava una tenue luce tremula, per cui mia madre sapeva che lui era lì; ciò che la tratteneva fuori, sul sentiero, erano gli strani suoni soffocati che provenivano dal casotto: chiaramente non era solo.

Dopo parecchi minuti ci fu silenzio, e mia madre, infreddolita dalla notte, incominciò a pensare che poteva molto semplicemente percorrere il sentiero e bussare alla porta. Ma ancora non si mosse, ancora rimase lì rabbrividendo al cancello, fissando il casotto e stringendo con forza la sua borsetta. Dalle strade dietro agli orti proveniva il desolato abbaiare di un cane e dal fiume giungeva il suono delle sirene; poi, d’improvviso, alle sue spalle, passò un treno merci diretto in città e la fece sobbalzare. Non senza un grande sforzo e un grande coraggio, aprì il cancello e percorse rapidamente il sentiero fino alla porta.


* * *

Da ragazzo, ero afflitto da incubi, e quella notte sognai il canale dei gasometri. Una terribile tempesta infuriava nella mia mente addormentata: l’acqua era più nera che mai, ribolliva violentemente, e lampi di luce esplodevano rumorosamente vicino alla mia testa, fra nuvole dense e basse, neri oggetti gonfi che lampeggiavano e fumavano agli orli. Io ero in piedi vicino alla riva del canale quando uno scheletro sorse dall’acqua, trasportato sulla cresta di un’onda: uno scheletro con dentro una specie di creatura viscida, come una foca, imprigionata nella cassa toracica. Il muso peloso di questa orribile cosa nera sporgeva fra le ossa, rivelando una serie di minuscoli denti bianchi mentre latrava pateticamente verso di me; la creatura si levava sopra le acque quasi alla mia portata, poi sprofondò, continuando a latrare terribilmente, e io vidi che tutt’intorno a me il canale continuava a scagliare verso l’alto cose orribili, un enorme pesce grigio che si dibatteva dentro una rete a forma di preservativo, la cui punta gli si era attaccata agli occhi e alla bocca come l’estremità di una calza; uno stivale fatto di minuscole ossa bianche; altre foche baffute, alcune delle quali intrappolate e impegnate a battersi con delle reti e altre con facce umane che gemevano mentre cavalcavano sulle onde nere, prima di inabissarsi di nuovo. A ogni ondata che si rompeva, dalle profondità emergeva qualche nuovo orrore e mi si mostrava, e io sapevo con assoluta certezza e con assoluto terrore che non sarei riuscito a restare in piedi sulla riva, ma sarei caduto fra quelle mostruosità latranti. Poi, all’improvviso, l’immagine di mio padre in maniche di camicia e basco che scavava una buca in mezzo alla sua coltivazione di patate. C’era nebbia là fuori, ma non abbastanza per nascondere l’escrescenza butterata e bitorzoluta della luna. Sulla porta del casotto vidi Hilda appoggiata allo stipite con la sua pelliccia da quattro soldi sulle spalle; fumava, e la candela dall’interno la circonfondeva di una fioca luce. Dopo qualche minuto, mio padre si inginocchiò e, con enorme attenzione, tirò su dalla terra una pianta di patate, tenendo con una mano il fusto verde e con l’altra il rizoma e le radicine che sporgevano intrecciate. Lo posò accanto a sé — che strano vedere la tenerezza con cui maneggiava la pianta! L’escavazione continuò, la fila di patate di fianco al buco divenne più lunga; Hilda scomparve nel casotto e ne uscì con una bottiglia di porto e una tazza da tè. Si udiva il suono delle sirene proveniente dal fiume. Poi vidi che mio padre era nel buco fino alle spalle, madido di sudore malgrado il freddo della nebbia. Buttò fuori la vanga, quindi con qualche difficoltà uscì anch’egli. La terra si sbriciolava sotto le sue dita, e parecchie volte scivolò indietro. Hilda si avvicinò alla buca e, sempre stringendosi il cappotto di pelliccia sulle spalle, guardò dentro. Dei vermi, appena visibili, scintillano alla luce della luna, si contorcono sulle ripide pareti di terra. Adesso mio padre emerge dal casotto, reggendo un peso parzialmente avvolto in un sacco insanguinato. È un corpo, la testa coperta dalla tela fermata intorno al collo con uno spago. Lo depone di fianco al buco, poi si rialza e guarda Hilda, immobile fra le piante di patata sradicate. Lei si stringe nuovamente la pelliccia sulle spalle. Mio padre tocca il corpo con lo stivale ed esso rotola nella tomba, fermandosi sulla schiena con un braccio bloccato di sotto e l’altro gettato disordinatamente sulla testa insaccata, come una bambola di pezza. Hilda si avvicina all’orlo della buca e col piede fa cadere dentro un po’ di terriccio; poi rabbrividisce e ritorna al casotto. Mio padre prende la vanga e incomincia a riempire la fossa; con la massima cura, rimette a posto le piantine di patata.


Mi svegliai urlando, scivolai fuori dal letto e corsi sul pianerottolo, verso la camera dei miei genitori, ma il loro letto era vuoto, per cui mi precipitai giù per le scale e lungo lo stretto corridoio, sempre al buio, fino in cucina.

Aprii la porta. Mio padre era seduto a tavola con una donna che non avevo mai visto prima. «Cosa c’è?» disse. «Cosa ti succede?» Si alzò e mi condusse fuori dalla cucina, nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. «Torna su,» disse, guidandomi nel corridoio. «Torna a letto, Dennis.»

«Dov’è la mamma?» dissi, cercando di resistere alla sua spinta.

«Coraggio, figliolo, torna a letto.»

«Dov’è la mamma?» gridai. «Non voglio tornare a letto, ho fatto un sogno!»

«Basta,» disse, spingendomi nel corridoio.

«Voglio la mia mamma!»

«Non farmi arrabbiare, Dennis! Tua madre è in cucina!»

«Non è vero!»

«Vai su!» sibilò.

«Mi fai male!» Mi teneva i polsi stretti, spingendomi sulle scale; le labbra arricciate gli scoprivano i denti. «Mi fai male,» piagnucolai — e lui mi lasciò andare e si appoggiò al muro in fondo alle scale. «Torna a letto,» disse calmo, tutta la sua rabbia improvvisamente dissipata. «Puoi lasciare la luce accesa. Verrò a vederti più tardi.»

Anch’io mi placai. Incominciai a salire le scale. A metà, mi fermai e mi voltai. «Chi è quella signora?» dissi.

Lui alzò lo sguardo verso di me, si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con il pollice e l’indice. «Quale signora?»

«Quella in cucina.»

«Non farmi arrabbiare, Dennis. Vai su adesso.» Mentre salivo le scale, lui tornò in cucina e si chiuse la porta alle spalle.


* * *

Fu solo verso Natale che compresi davvero che mia madre era morta. Nonostante ciò, gli avvenimenti delle ore successive erano vividi nella mia mente: non solo quelli a cui avevo assistito, ma anche quelli che, più tardi, in Canada, fu tanto doloroso ricostruire. Horace e Hilda andarono a casa insieme, in silenzio, e mentre percorrevano le vie strette, vuote e nebbiose, lei si appoggiò a lui che, per la prima volta, poté sostenerla, metterle un braccio intorno alle spalle e sentire il suo peso. Avendo ucciso, si sentiva lucido e calmo, esilarato perfino, anche se quelle emozioni dovevano la loro esistenza più a un confuso stato di shock che a una genuina emancipazione; mio padre era uno sciocco a pensare che gli sarebbe stato risparmiato il senso di colpa, e in effetti questo arrivò ben presto.

Hilda dormì con lui a Kitchener Street per il resto della notte. Appese la gonna e la camicetta nell’armadio, fra i vestiti di mia madre, poi buttò la sua biancheria intima su una sedia e si infilò nel letto. Mio padre bramava un rapporto, ma lei non gli permise alcun contatto. Presto, la mattina dopo, io scivolai silenziosamente nella camera e rimasi vicino al letto, osservando la massa del suo corpo sotto le lenzuola dove avrebbe dovuto esserci mia madre, e il cuscino dove i suoi capelli si allargavano in confusi ammassi gialli con le radici nere. La luce che filtrava dalle tende era grigia e fioca, e la stanza puzzava di alcol. Mio padre si svegliò con un sobbalzo. La sua prima sensazione fui io in piedi vicino al letto; la seconda, un terribile gusto di catarro nella bocca. Poi gli tornò in mente la notte, si girò e gettò un’occhiata al corpo di Hilda al suo fianco, nel letto. Poi mi guardò di nuovo, e io vidi che era improvvisamente molto spaventato e voleva qualcosa da bere; ma non c’era mai niente in casa (per l’ostinatezza di mia madre), a parte una bottiglia di birra di quando in quando. Sentì l’impulso di voltarsi verso Hilda in cerca di conforto, ma lei sembrava aver assunto per associazione il colore degli avvenimenti notturni e del suo colpevole terrore. Alla fine, si ricordò di una piccola bottiglia di whisky che aveva comprato il Natale prima e che non aveva mai bevuto. Ero già rientrato in camera mia quando lui lasciò il letto, si infilò la maglietta e i pantaloni e scese per uscire al gabinetto. Tornò in cucina pochi minuti dopo, poi andò in salotto, dove trovò il whisky nell’armadietto. Sedette nell’oscurità di quel sabato mattina: era un’ultima stranezza, l’uso del salotto; non l’avevo mai visto prima seduto lì da solo. Il salotto era per gli ospiti, e i miei genitori avevano ospiti molto di rado — non erano persone particolarmente socievoli.


Un’ora più tardi, mio padre si sentì un po’ più sicuro e pensò che poteva salire a trovare Hilda. Il whisky aveva confuso i netti contorni delle sue azioni notturne; il terrore, diventato per qualche minuto quasi intollerabile, era diminuito, sostituito da una sorta di fragile fiducia nel fatto che se la sarebbero cavata (doveva aver pensato, credo, fin dall’inizio in termini di «loro», in termini di una mutua, condivisa responsabilità). Lentamente, pesantemente, salì le scale; io ero in camera mia, alla finestra, col mento appoggiato alle mani. La mattina era inoltrata, ma la nebbia incombeva ancora sulla città e l’avvolgeva in una sorta di crepuscolo. Mentre lui era giù, io ero scivolato sul pianerottolo e avevo dato un’altra occhiata alla donna nel letto di mia madre. Era ancora profondamente addormentata e russava; a un certo punto, la sentii mormorare alcune parole, ma erano indistinte. La camera era buia e vi stagnava denso il terribile puzzo del porto dolce; ma c’era un altro odore, lo sentii subito, esperto com’ero del profumo di mia madre: anche questo era un odore femminile, quello di Hilda, un odore caldo, carnoso, soverchiato da un forte profumo e dalle emanazioni della sua pelliccia che, impregnata di nebbia, era appesa alla porta dell’armadio. Aleggiava anche l’odore dei suoi piedi, e l’effetto complessivo era quello di un grosso animale femmina, non troppo pulito, forse pericoloso. Nel covo, nella tana di questa creatura adesso era entrato mio padre, fortificato dal whisky; io ascoltai attentamente dalla mia camera, la porta socchiusa e l’orecchio premuto contro di essa. Lo sentii spogliarsi e infilarsi nel letto.

Lei gli voltava la schiena, poiché giaceva guardando la finestra con le tende e i gasometri fuori. Allegramente mio padre incastrò il proprio corpo al suo (sentii le molle che cigolavano), formando con la pancia e l’inguine un incavo per il suo sedere. Con un braccio posato leggermente su di lei, premette il viso nei suoi capelli (che puzzavano di fumo di sigaretta) e cercò di addormentarsi.

Non riuscì a dormire. Il terrore rinacque in lui. Lei si stirò, e io sentii un’oscillazione in quel grande letto. Silenziosamente, strisciai fuori dalla mia camera e sul pianerottolo, finché non fui fuori dalla porta, che lasciava aperto uno spiraglio (non si chiudeva mai bene, quella porta). Sempre in silenzio, mi inginocchiai e sporsi la testa oltre lo stipite della porta, in maniera da vederli. Hilda si era girata nel letto e, senza svegliarsi, aveva accolto mio padre fra le sue braccia. Di nuovo, mormorò parole indistinte e il respiro pesante ricominciò, il ventre si alzò e ricadde, e mio padre, afferrato fermamente, giacque finalmente appagato, e ben presto si addormentò anche lui.

Per alcuni minuti, guardai la coppia dormiente, poi strisciai indietro in camera mia e mi immersi nella mia collezione di insetti, attento a quando i due si fossero svegliati. Suppongo che volessi sentire qualcosa, qualcosa che mi aiutasse a scoprire dove mia madre — la mia vera madre — era finita.


Mio padre si svegliò a metà del pomeriggio. La camera era ancora buia, perché le tende erano tirate e tutto ciò che filtrava dalle fessure era il grigiore della nebbia persistente. Anche Hilda si era svegliata, e separava le sue membra da quelle di mio padre, e nel farlo il grande materasso snervato ondeggiava sotto di lei, le molle e le giunture del vecchio letto scricchiolavano e stridevano, e ancora una volta io scivolai sul pianerottolo fino alla porta della loro camera. Hilda si stirò le membra, sbadigliò; poi, volgendosi verso mio padre, sospirò: «Idraulico.» Lo guardò mezzo addormentata. Era caldo nel letto, e immaginai che lui avesse voglia di lavarsi la faccia e i denti (io ce l’avevo), ma Hilda l’aveva preso fra le braccia — e un attimo dopo si mise a muoversi. Inginocchiato vicino alla porta, vidi del movimento fra le lenzuola; poi all’improvviso lui fu sopra di lei e, nell’oscurità, fece dei loro due corpi un unico mucchio sotto quelle coltri calde. Una piccola pausa quando lei si infilò un cuscino sotto il sedere, poi le coperte si tesero, si sgonfiarono e si gonfiarono, si appiattirono e si innalzarono, mentre l’intera massa oscillante gemeva come una sola creatura, e i cigolii e gli stridori di quella vecchia macchina notturna assumevano un ritmo che colpì stranamente il giovane Spider; e poi, come una balena sportiva, questa collina cigolante si capovolse (roche risate, grugniti sommessi durante la goffa manovra) e la bionda testa di lei fece capolino dalla collina e si voltò verso la finestra col mento alzato, e si sollevò e ricadde, si sollevò e ricadde, come nuotando in un mare agitato, e gemette. Adesso il vecchio letto scricchiolava e cigolava sotto di lei come gli alberi e le bome di un galeone. Il suo gemito era come il soffiare del vento fra le vele quando avanzava, alzandosi e immergendosi, il mento teso verso il soffitto e poi ricadente sui seni, le grosse braccia bianche come colonne sotto di lei mentre i biondi riccioli disordinati si riversavano in avanti a nascondere la sua faccia agli avidi occhi dell’osservatore Spider. Poi finalmente si fermò, esalò un gemito sostenuto che poteva essere di piacere o di dolore, dopo di che l’immobilità regnò nella camera: l’unico suono era un esausto ansimare che svanì progressivamente con il passare dei minuti. Silenzio. Poi lei si sollevò da mio padre e si sedette sull’orlo del materasso, guardando la porta coi piedi per terra, e sbadigliò.

Io ero ancora in ginocchio vicino alla porta e osservavo quella donna; non osavo muovermi. Dietro di lei, nel letto, mio padre mormorò qualcosa; vidi che lei scuoteva la testa. Soprappensiero si grattò un orecchio, e questo fece sobbalzare i suoi seni. La pancia le si gonfiò come un bianco cuscino molle; io ero affascinato dal triangolo di morbida carne sotto la piega del ventre e dal piccolo ciuffo di pelo nero fra le grandi cosce. Di nuovo sbadigliò e si girò verso mio padre, e io mi ritirai dalla soglia. Un attimo dopo, la sentii attraversare la stanza diretta all’armadio, sentii muoversi gli ometti mentre frugava fra i vestiti di mia madre; con passi silenziosi, tornai in camera mia.

Più tardi esplorò la casa. La guardai percorrere con precauzione le nostre strette scale, scendendo con una specie di cauto movimento laterale in un vestito blu a pois bianchi stretto in vita: il vestito della domenica di mia madre. La vidi mentre andava giù, col sedere sporgente e una grassa mano sulla ringhiera; ascoltando il ticchettio dei suoi tacchi, non potei fare a meno di ricordare il dolce rumore strascicato che facevano le ciabatte di mia madre quando si muoveva per casa. Si era messa sulle labbra il rossetto di mia madre e si era sistemata i capelli con il suo pettine; il profumo, però, era proprio quello di Hilda. Il suo ventre prominente tendeva il sottile tessuto del vestito blu a pois: era una pancia generosa e carnosa che, sui fianchi, svaniva nella rotondità ferma e decisa delle cosce, tra le quali il tessuto si attaccava come un velo o una cortina che nascondesse una concavità oscura. «Due di sopra, due da basso, vero?» disse quando mio padre scese le scale dopo di lei (aveva già ficcato il naso nella mia stanza, ma non mi aveva visto, ero sotto il letto). Poi, senza aspettare la sua risposta: «Mi piace una casetta come questa, Horace, l’ho sempre desiderata: Nora può confermartelo.» Quindi — notate la nonchalance — aggiunse: «È tua, eh?»

«È tua, eh?»: questo è significativo, ci torneremo sopra più avanti. Per ora è sufficiente dire che Hilda Wilkinson, una volgare prostituta, aveva trascorso tutta la vita passando di casa in casa, spesso nel cuore della notte; per lei, un uomo che possedeva la propria abitazione era un partito attraente — e risultava ancora più attraente se la moglie di quell’uomo era scomparsa! E continuò, con la terribile voce che rimbombava per l’intera casa, le sue motivazioni chiare come il giorno: «Investi i tuoi soldi in proprietà immobiliari, è quello che ho sempre detto. Questo è il salotto, vero, Horace? Oh, è proprio una bella stanza, si possono ricevere gli amici, qui.»

Horace e Hilda passarono un’ora nel salotto e finirono il resto del whisky. Da quello che sentivo, si trovava a suo agio lì: sembrava che soddisfacesse qualche sua nascosta aspirazione alla nobiltà. Lo riempi fino all’eccesso con la sua presenza; ammirò il modesto caminetto con il focolare di ottone lucente, l’attizzatoio e gli alari, ed espresse soddisfazione anche per la cappa piastrellata, lo specchio ovale che c’era sopra e le cinque oche di ceramica disposte in diagonale sulla parete. Le piacquero anche il disegno della tappezzeria e le fodere di chintz dei cuscini. La vetrinetta con i tre pezzi in ceramica di Wedgwood: anche questa le andò a genio. «Mi piace un salotto, Horace,» disse più di una volta, «dà rispettabilità a una casa.» Che cosa pensava mio padre di questo, ottenebrato com’era dal whisky, tutto un maelstrom di sensi di colpa man mano che, col passare delle ore, come un virus l’omicidio mordeva sempre più a fondo i tessuti dei suoi organi vitali?

C’era della pancetta in casa e, dopo aver finito il whisky, andarono in cucina. Consumarono la colazione mentre scendeva la sera; io avvertii l’odore della pancetta dal piano di sopra, e ciò acuì lo stimolo della mia terribile fame, perché non avevo mangiato niente in tutto il giorno, ma non volevo scendere. Sedetti alla finestra e fissai la luce della cucina, che dissolveva appena l’oscurità del cortile. Vidi Hilda uscire dalla porta sul retro e fui tentato allora di andare giù, ma la prospettiva di incontrarla quando tornava mi distolse dall’idea. «Dovresti sistemare il gabinetto, Horace,» disse, rientrando. «Bella roba che il gabinetto di un idraulico non funzioni!»

Dieci minuti dopo, andarono all’Earl of Rochester. Non c’era più pancetta, per cui dovetti accontentarmi di pane e sugo.


* * *

Sarebbe mai finita quella terribile giornata? Non riuscivo più a pensare alla lunga serata che passai da solo in casa con l’odore di Hilda fìsso nelle narici. Uscii nella nebbia dopo aver mangiato pane e sugo e mi diressi al canale, dove passeggiai in preda alla stanchezza, a tratti disperato, a tratti piangendo furiosamente, tirando pietre nell’acqua nera e ottenendo solo un modesto conforto dalla nebbiosa oscurità della notte. Dov’era mia madre? Dov’era finita? Tornai al numero 27 dopo le nove ed entrai dalla porta sul retro; la casa era vuota. Mangiai dell’altro pane col sugo, poi andai in camera mia e presi di nuovo la mia collezione di insetti. Sentii mio padre rientrare tardi, solo; rimase a sedere nella cucina bevendo birra finché non si addormentò. Io scivolai giù verso mezzanotte e lo vidi accasciato su una sedia vicino alla stufa, ancora col berretto e la sciarpa, e una sigaretta attaccata al labbro inferiore anche nel sonno.

Il giorno dopo era domenica. Come d’abitudine, andò nell’orto. La nebbia si era in qualche misura dissipata, era una mattina fredda e nuvolosa, e sembrava che più tardi potesse piovere. Mentre passava in bicicletta per le strade deserte era un uomo in profonda crisi: non erano trascorse neanche trenta ore dall’omicidio e non si era ancora abituato al nuovo territorio che occupava. L’omicidio lacera un uomo, lo scompone in mondi diversi, lo blocca, rendendolo prigioniero del senso di colpa, della complicità e della paura di essere tradito. Lui non aveva pienamente compreso niente di tutto ciò, perché era ancora in parte sotto shock; spinse la bicicletta oltre le finestre chiuse dietro le quali dormiva un mondo da cui adesso era esiliato per sempre, anche se questo — come ho detto — non gli era ancora ben chiaro.

Ma le cose cambiarono rapidamente! Mi è sempre sembrato che ci fosse una sorta di giustizia poetica nel fatto che l’orto, nel quale mio padre tanto spesso era fuggito dalla vita domestica, dovesse ora caricarsi dell’orrore dell’omicidio di mia madre. Lui lo avvertì solo vagamente mentre pedalava per le strade quella domenica mattina, ma avvicinandosi al ponte sulla ferrovia dovette farsi più forte l’impulso di invertire la marcia e allontanarsi il più possibile da quel posto. Ma non fece dietro-front, perché era anche consapevole di una vaga, perversa eccitazione alla prospettiva di rivedere il terreno sotto cui giaceva lei.

Niente, però, l’aveva preparato al colpo che lo investì quando aprì il cancello e rimase fermo in fondo al sentiero. Per qualche istante, esso gli turbinò intorno con un movimento tremulo e oscillante, come se l’intero orto fosse diventato un campo di forze attive in uno stato di intensa perturbazione. Le sue percezioni erano confuse: il casotto e le verdure sembravano annerirsi davanti ai suoi occhi e, prima che potesse fare un passo sul sentiero, avvertì una specie di crollo e di brivido che lo pervadeva, e poi nei pochi interminabili istanti che gli ci vollero per raggiungere il casotto l’aria improvvisamente buia, umida, del mattino si riempì di piccoli germi maligni; passare attraverso queste nuvole gli richiese non poca determinazione. L’effetto fu in qualche modo attenuato quando raggiunse l’interno della costruzione e chiuse la porta sulla malevolenza dell’orto, che fuori non cessò neppure un attimo, per tutta quella domenica.

(Conosco questa sensazione, anch’io sono stato tormentato in quel modo, anch’io li ho sentiti scattare e sbattere dietro di me come i denti di un cane, come una nuvola di moscerini ronzanti: anzi, raramente questo suono è assente, anche se di solito, per fortuna, risulta debole, più che altro un ronzio.)


Mentre mio padre sperimentava la prima ondata di terrore proveniente dal terreno del suo orto, io ero tornato in camera mia, al numero 27. Non ero ancora a conoscenza del fatto che mia madre fosse morta, sapevo solo che non era a casa, e che una donna grassa aveva preso il suo posto nel letto dei miei genitori. Ero di nuovo impegnato con la mia collezione, che mi aiutava a distrarmi da tutte le preoccupazioni e le perplessità che quei cambiamenti producevano. Da ragazzo collezionavo insetti, soprattutto mosche, che fissavo dentro a scatole in composizioni artistiche da me dette «tableaux». Foglie morte di vari colori riempivano le scatole che avevo realizzato in autunno, ma ormai molte di esse erano diventate così fragili che si erano rotte in frammenti e si erano staccate dagli spilli, formando dei mucchietti in fondo ai contenitori. Li buttai via, come le penne e le piume, e presi i materiali nuovi che avevo raccolto con cura e che tenevo in un cartone sotto il letto. In quel cartone c’erano cose di ogni genere, tutto ciò che sembrava potenzialmente utile, e non facevo distinzioni fra elementi naturali, penne e piume ecc, e fiammiferi, tappi di bottiglia, pezzi di spago, il cartoncino e la stagnola dei pacchetti di sigarette vuoti. Provai con alcuni pezzi di guscio d’uovo e anche con un groviglio di capelli biondi che avevo tolto dal pettine di mia madre quel pomeriggio, e con qualche lisca di pesce, qualche pinna. Si trattava di un’associazione curiosa e non ero sicuro se mi piacesse o no. A un certo punto del pomeriggio, così occupato, sentii dei passi all’esterno. Mi alzai dal pavimento e andai alla finestra, e nel cortile c’era la donna che avevo visto a letto con mio padre.

Mi allontanai dalla finestra. Decisi che non l’avrei lasciata entrare, non sarei sceso da basso, non avrebbe neanche capito che ero in casa. Tutto invano; lei entrò direttamente dalla porta sul retro, senza bussare, e io sentii il suono familiare del bollitore riempito nel lavandino della cucina, il sordo rumore del gas che veniva acceso e lo strascichio delle gambe di una sedia. Mi accucciai di nuovo per terra, attento a non fare alcun rumore che rivelasse la mia presenza. Anche questo fu invano; dopo aver preso una tazza di tè, lei passò qualche minuto nel salotto e poi venne di sopra. Ero sulla mia soglia quando raggiunse il pianerottolo, e stringevo con forza la maniglia della porta. Lei era dall’altra parte e cercava di ruotarla, ed era troppo forte per me; la maniglia girò, la porta si aprì, lei guardò dentro verso di me. «Ciao, Dennis,» disse. «Cosa fai quassù?»

Volevo che uscisse dalla mia stanza! Borbottai qualcosa sui miei insetti; nella mia immaginazione la vidi sopra mio padre, che andava su e giù boccheggiando come un pesce. All’improvviso si strinse nelle spalle. «Quelle mosche!» disse. «Dobbiamo proprio tenerle in camera tua?»

Ero giù in cucina con lei quando mio padre tornò a casa dall’orto. Lo stress degli ultimi due giorni appariva molto evidente sui suoi lineamenti. Non aveva affatto lavorato nell’orto; l’unica volta che era uscito dal casotto e aveva sfidato le particolari energie presenti nell’atmosfera, si era trovato nell’impossibilità di toccare la terra. Era tornato dentro, a ciò che restava della bottiglia di porto. Nel tardo pomeriggio incominciò a scendere una pioggia fredda, che cadeva a scrosci e tambureggiava sul tetto sopra di lui. Si fece rapidamente buio, e il senso di orrore si rafforzò, raggiungendo il culmine che aveva avuto la prima volta che l’aveva provato, al mattino. Mentre lasciava il casotto, le foglie delle sue verdure annerirono di nuovo e ondeggiarono selvaggiamente, come alghe in preda a una corrente. Col bavero rialzato e il berretto in testa, tornò pedalando nella pioggia gelata fino a Kitchener Street.

Dev’essere stato uno shock per lui vedermi seduto a tavola con Hilda. «Piove, eh?» disse lei quando mio padre depose una borsa a rete piena di patate nel lavandino. «Mi sembrava di aver sentito che pioveva. Del resto è naturale, in questa stagione.» Mio padre non rispose; dopo essersi tolto la giacca e il berretto, incominciò a lavare le patate. Io colsi l’occasione per scivolare giù dalla mia sedia e lasciare la cucina. Mio padre mi sentì. «Dove vai, Dennis?» disse, voltandosi dal lavandino con un coltello in una mano e una patata mezzo sbucciata nell’altra. «Su, in camera mia,» dissi. Lui aggrottò la fronte come davanti a una tempesta nera, ma non disse niente; si limitò a tornare alle patate. La colpa era sua, non mia!

Oh, butto giù la penna. La psicologia dell’assassino — come faccio a saperne qualcosa? Come faccio a sapere qualcosa di tutto questo? Tutto imparato oltremare, durante i lunghi, noiosi anni che ho passato in Canada. Basta, è molto tardi, sono stanco; c’è un rumore di passi in solaio, e non posso andare avanti. Il dolore intestinale non è passato, anzi si è esteso ai reni e al fegato, e sospetto che qualcosa di molto brutto stia succedendo dentro di me, che ci sia in ballo non il cibo (per quanto schifoso), ma qualcosa di molto peggiore. Sospetto, in realtà, che i miei organi interni incomincino a raggrinzirsi, anche se non so bene perché ciò avvenga. Come farò a «funzionare» se i miei organi interni si raggrinzano? Io non possiedo una grande vitalità e non posso permettermi nessun raggrinzimento o accartocciamento interno. Forse è solo un fenomeno passeggero, come l’odore di gas, che per fortuna non è più tornato.


Avevo scritto sulla morte di mia madre. Ero rimasto seduto alla scrivania raccontando gli eventi di quella terribile notte e del giorno successivo, e nel processo i ricordi erano diventati in qualche modo più vividi della situazione immediata — si era verifìcato il ben noto parallelismo di passato e presente, e io devo essere entrato in una sorta di trance. Perché quando mi sono riavuto, mi trovavo nella camera della signora Wilkinson.

Non so come sia successo. Era molto tardi, la casa era buia e silenziosa, e lei dormiva pesantemente. Aveva addosso una specie di sciarpa annodata sotto il mento, e i capelli erano pieni di bigodini. Aveva della crema bianca sulla fronte e sulle guance e, alla luce della lampadina del corridoio, brillava di un pallore spettrale. Non so quanto rimasi lì, né quello che pensai; mi riebbi solo quando lei si svegliò di soprassalto e si rizzò a sedere, cercando con una mano la lampada sul tavolino. «Signor Cleg!» gridò. «Per l’amor di Dio, cosa diamine crede di fare? Torni in camera sua!» Incominciò a tirarsi fuori dal letto. Quando raggiunsi la porta mi voltai, con l’intenzione di spiegare in qualche modo quello che era allora — e resta tuttora — inspiegabile. Lei era seduta sul bordo del letto, una curiosa figura con la bizzarra camicia da notte, i bigodini e la crema sulla faccia, che mi fissava a bocca aperta e, per chissà quale ragione, era più vulnerabile di quanto non fosse mai stata prima; un’emozione si risvegliò in me, qualcosa di forte, anche se definirla con precisione è al di là delle mie possibilità. Mi fermai sulla soglia. Lei agitò una mano verso di me, e con l’altra coprì uno sbadiglio. «Fuori! Fuori!» gridò. «Parleremo di tutto questo domani mattina!»

Quando tornai in camera mia, trovai il diario dove l’avevo lasciato: aperto sulla scrivania, con la matita lungo il taglio. Lo rimisi immediatamente nel suo buco, la grata dietro al caminetto a gas fuori uso. Carponi vicino al caminetto, pensai che era ironico tenere un diario che avrebbe dovuto aiutarmi a chiarire la confusione fra ricordi e sensazioni, mentre il disordine stava in realtà aumentando. Dormii male; gli organi interni mi dolevano ancora, e c’era molta attività in solaio; più tardi, incominciarono a spostare dei bauli. Questa operazione fu seguita da un periodo di silenzio, e poi li sentii fuori dalla mia porta. Devo aver fatto in punta di piedi una mezza dozzina di passi per attraversare la stanza prima di spalancare l’uscio, ma le perfide creature, diavoletti o altro che fossero, erano sempre troppo veloci per me.


Il giorno dopo pioveva, e io pensai seriamente di tornare a Kitchener Street. Non so cosa sia stato a impedirmelo — certo non il bisogno di preservare nel ricordo una sorta di aura relativa a quel luogo, un alone di innocenza: Kitchener Street era profondamente contaminata ben prima che avvenissero questi fatti; ogni mattone della zona emanava tristezza e malvagità, e non solo la strada, ma tutta quella sovraffollata conigliera era cattiva, cattiva dal giorno in cui l’avevano costruita. Per cui, no, non era questo: forse era proprio il contrario, la prospettiva di vedere (come solo e soltanto io potevo vedere) quanto più scure erano le costruzioni in mattoni, quanto più umide, quanto più avevano assorbito lo squallore morale che una simile architettura invariabilmente provoca in chi la abita.

L’orto era un’altra storia. Quando la pioggia cessò, ancora una volta andai faticosamente fino a Omdurman Close, e quindi al ponte sulla ferrovia. Ero in precarie condizioni, ma riuscii ad attraversarlo senza incidenti. Pochi minuti dopo, mi trovavo all’ingresso dell’orto di mio padre. Uno spaventapasseri era collocato fra le patate (doveva essermi sfuggito in precedenza), alto un metro e mezzo, fatto di sacchi pieni di stoffa e legati ai polsi e alle caviglie con corde. Le braccia aperte, era attaccato a una rozza croce di un metro per due e chiaramente rendeva il suo servizio da parecchie stagioni: i vestiti erano ridotti a un color grigio-marrone uniforme e il cappello posato sulla testa molle e senza occhi, inchiodata alla croce, era scolorito per la pioggia e chiazzato di escrementi di uccello. Per qualche minuto ci fissammo reciprocamente, quella creatura e io, finché un soffio di vento tese i sacchi allentati e mi fece sussultare. Era difficile non notare che gli orli sbrindellati dei sacchi erano macchiati di un colore nerastro. Nel cielo spessi banchi di nuvole grigie si avvicinavano bassi dal fiume e il vento rinforzava; pensai che sarebbe potuto arrivare un temporale. Mi venne in mente anche di fare un gesto commemorativo, e così presi una piantina di tarassaco e qualche ciuffo di cardo, e — non c’era nessuno — aprii il cancello e scivolai sul sentiero e sparsi il mio semplice mazzolino sul campo delle patate. Quindi mi distesi sul terreno.

Dopo pochi istanti mi sentii più forte, per cui — invece di tornare da dove ero venuto — proseguii oltre gli orti, verso un sentiero ripido che dava su un reticolo di strade e vicoli che per qualche ragione era da sempre chiamato «le Tegole». Sdrucciolai lungo il sentiero, poi rimasi un momento immobile, in fondo, per riprendere fiato. Lontano, verso est, vedevo una lunga striscia di fabbriche con sottili ciminiere che emettevano fumo, mentre verso sud, a due o trecento metri, c’era una recinzione di lamiera ondulata. Ma dov’erano le Tegole? Tutt’intorno a me il terreno era disseminato di mattoni e pietre e pezzi di cemento da cui spuntavano aculei di ferro tranciato e contorto, e non molto lontano il suolo scendeva a formare una pozza in cui si era raccolta dell’acqua, con brutti ciuffi di erba intorno al bordo. Cartacce volteggiavano su questo deserto mentre io mi voltavo in tutte le direzioni a cercare le Tegole. Erano scomparse? Com’era possibile che fossero scomparse? O la mia memoria mi stava di nuovo ingannando? A fatica, risalii il sentiero fino agli orti, poi tornai al ponte sulla ferrovia. Avevo completamente sbagliato la collocazione delle Tegole nella mia memoria? E, se così fosse stato, anche il resto della mia «mappa» era ugualmente difettoso? Oh, questa sì che era una preoccupazione, questo sì che mi angosciava profondamente. Era stata una giornata lunga per il vecchio Spider, e stancamente egli tornò a casa, entrando molto silenziosamente per evitare la signora Wilkinson, che senza dubbio avrebbe voluto una spiegazione per la sua visita notturna.

Il giorno dopo, andai al fiume, a una spiaggetta sassosa dove da ragazzo guardavo le chiatte e le navi; a quei tempi, andavano a carbone e, nel cielo, spuntavano costantemente nuvole di fumo nero. Si raggiungeva la spiaggia con la bassa marea attraverso alcuni gradini di legno incatramato dietro a un vecchio pub di nome «Crispin». Scendevo per ficcare il naso fra le barche ormeggiate lì: vecchie barche da lavoro rovinate, con tele cerate puzzolenti a coprire il ponte, tutte piene di acqua piovana e verdi di muffa. Spesso saltavo sul ponte e mi infilavo sotto l’incerata, tra le catene di ferro e i legni bagnati, e mi sistemavo in uno spesso e unto rotolo di funi marce — adoravo stare solo in quell’oscurità umida con all’esterno le strida attutite dei gabbiani che volteggiavano e battevano le ali sull’acqua. Il Crispin c’era ancora, e così i gradini incatramati, anche se adesso apparivano insicuri, e io non scesi. Ma guardai oltre l’orlo: c’erano le barche sulla riva e, al di là dell’acqua, le gru puntavano verso il cielo come le avevo sempre ricordate. Questo era un conforto, comunque; la mia geografìa non era del tutto distorta.


* * *

Io cambiai dopo la morte di mia madre. Quando era viva, ero un bravo ragazzo: cioè, di quando in quando provocavo l’ira di mio padre e dovevo scendere in cantina, ma non c’è niente di anormale in questo, tutti i ragazzi commettono degli errori e vengono puniti. Prima che mia madre morisse, ero un ragazzo tranquillo, solitario e riflessivo, che leggeva parecchio; non avevo amici fra i giovani di Kitchener Street e tendevo a starmene per conto mio tutte le volte che potevo, giù al canale o al fiume, specialmente col tempo umido e nebbioso. Ero alto per la mia età, alto e magro, e intelligente e timido, e i ragazzi come me non sono mai popolari, soprattutto presso i loro padri, che cercano tratti duri e mascolini. Le madri sono diverse sotto questo aspetto, ho notato: mia madre certamente lo era. Proveniva da una famiglia migliore di quella di mio padre; aveva fatto un matrimonio al di sotto delle sue possibilità, capite, e apprezzava i libri e l’arte e la musica; mi esortava a leggere e, durante le lunghe serate che passavamo in cucina mentre mio padre era fuori a bere, mi aveva spinto ad aprirmi, incoraggiato a parlare, a condividere con lei le mie idee e fantasie; a volte, andavo a letto tranquillamente stupito per tutto quello che avevo detto, per il fatto che ci fossero tante cose nella mia testa; molto spesso sentivo — o, meglio, ero spinto a sentire — che nella mia testa non c’era un bel niente, che ero uno stupido allampanato e incapace di parlare, con le ginocchia grosse e le mani impedite, che non avrebbe fatto niente di buono per nessuno. Più tardi, compresi che mia madre mi capiva, perché anche lei era estranea all’ambiente in cui viveva — le donne di Kitchener Street non avevano tempo per il suo buon gusto, la sua raffinatezza, la sua cultura: erano donne come Hilda, «primitive» in confronto a lei. Perciò capiva quello che soffrivo, e soltanto lei mi permise di essere davvero me stesso nelle poche fuggevoli ore che passammo insieme prima che mio padre le sfondasse il cranio con la vanga. Dopo, vedete, ero molto, molto solo, e senza il suo amore, la sua influenza, senza — semplicemente — la sua presenza, andai rapidamente alla deriva. Per questo, cambiai da bravo a cattivo ragazzo.

Non che ciò sia avvenuto senza provocazioni. All’inizio, per Hilda, io fui una fonte di divertimento. In seguito, arrivò a temermi, ma in quelle prime settimane usò quel ragazzone che arrossiva, non più bambino e non ancora uomo, come vittima del suo volgare umorismo. Mi prendeva in giro, rideva di me, ostentava il suo corpo in mia presenza; e poiché stava molto spesso in cucina, anche quando mio padre era fuori di casa, potevo evitarla solo andando al canale (anche se questo, naturalmente, comportava passare dalla cucina per uscire), o nascondendomi nella carbonaia, o restando in camera mia — anche se neppure la mia stanza era più un santuario, perché lei non si faceva scrupolo di venire di sopra e ficcare dentro il naso per divertirsi. Ricevetti qualche aiuto da mio padre in tutto ciò? Era in qualche modo mio alleato? No. Al contrario, anzi: partecipava ai suoi scherzi; con quel suo modo astuto e tranquillo, con Hilda scambiava strizzatine d’occhi e cenni della testa e sorrisi compiici quando lei si preparava a «farmi fare qualche passo avanti». Si arrivò presto al punto che, quando ero in cucina con Horace e Hilda, notavo dei segnali che scorrevano avanti e indietro fra loro e suggerivano una sola cosa, la presa in giro (anche se quando dicevo qualcosa, negavano), e così arrivai a dubitare delle mie percezioni, ma questo è ciò che credo avvenisse. Perché lo facevano? Perché mi tormentavano in questo modo con tanta costanza? Fu solo anni dopo, in Canada, che capii che io funzionavo per Horace e Hilda come valvola di sfogo per il senso di colpa e per l’ansia che incombevano su di loro nelle settimane successive alla morte di mia madre, che incombevano su di loro non in forma terribile o acuta, ma piuttosto come una condizione dell’esistenza, un modo di essere, subito dopo il delitto. Per quanto Hilda tentasse di sbarazzarsene ridendo, di giocare alla bionda sicura di sé come in precedenza — e per quanto ampi fossero i poteri di repressione di mio padre —, a un qualche livello essi secernevano le tossine che l’omicidio sempre e inevitabilmente distilla nel cuore umano; e se non volevano rivolgere quelle tossine l’uno contro l’altra, doveva esserci una valvola di sfogo, un condotto d’uscita. Ero io quel condotto: io dovevo incanalare e assorbire il veleno, e così feci; nel procedimento rimasi contaminato, avvizzii, qualcosa morì dentro di me; divenni un fantasma, una cosa morta — in breve, divenni cattivo.

Forse l’aspetto più crudele della mia situazione era che il mio dolore non poteva essere condiviso con nessuno. All’inizio, non era dolore: era disperazione. Dov’era finita? Dov’era mia madre? Non ottenevo risposta, e se affrontavo l’argomento con mio padre, diventava immediatamente teso e furente, e mi rammentava la conversazione che avevamo avuto.

Il sabato mattina quando avevo visto Hilda nel letto con lui. Tuttavia io mi dimenticavo sempre quella conversazione, perché il senso di perdita che provavo e il panico di non sapere vincevano qualsiasi fragile inibizione egli aveva instillato in me, e venivano fuori, sgorgavano; e di nuovo montava quella terribile rabbia quieta, e l’unica cosa che ottenevo era che non dovevo ancora saperlo. Col tempo i miei sentimenti cambiarono, la disperazione e l’urgenza furono sostituite da un dolore cronico e da un lancinante senso di assenza, di vuoto, che mi lasciarono curiosamente vulnerabile di fronte al disprezzo sostenuto che Horace e Hilda rivolgevano verso di me. Ma non era soltanto la solitudine, perché se vi accennavo davanti a Hilda — e in due occasioni, spinto al limite della sopportazione dai suoi scherzi e dalle sue prese in giro, lo feci, gridai piangendo: «Tu non sei mia madre!» —, allora lei fingeva di essere molto sorpresa: si rivolgeva a mio padre, che le indirizzava uno sguardo impenetrabile e un sorriso quasi impercettibile agli angoli della bocca, e diceva: «Non sono tua madre?» «No,» gridavo io, «mia madre è morta!» Nuove silenziose prese in giro, un’altra occhiata complice. «Morta?…» E si andava avanti così finché fuggivo dalla cucina, incapace di trattenere oltre le lacrime e aggrappandomi con forza a un insieme di ricordi — e di emozioni a essi associate — che nessuno avrebbe confermato. Così lei viveva solo in me, adesso: arrivai a comprendere questo, e la consapevolezza mi rese molto più tenace perché intuitivamente capivo che se fosse morta in me sarebbe morta per sempre. Vedete, avevo sentito mio padre dire all’uomo della porta accanto che era andata a vivere con sua sorella in Canada.

Col tempo, sviluppai il mio sistema a due teste. Il davanti della mia testa lo usavo con le altre persone in casa, il dietro lo utilizzavo quando mi trovavo da solo. Mia madre viveva nel dietro della mia testa, ma non nel davanti; divenni esperto nel muovermi avanti e indietro e viceversa, la qual cosa sembrò facilitarmi la vita. Il dietro era la parte reale della mia vita, ma per tenere fresco e sano quanto vi albergava dovevo avere un davanti che lo proteggesse, come i pomodori in una serra. Così, quando ero da basso, parlavo e mangiavo e mi muovevo, e ai loro occhi ero io, ma solo io sapevo che «io» non ero lì: quello che loro vedevano era solo la serra; io ero dietro, dove viveva Spider, davanti c’era Dennis.

Per me, allora la vita diventò più facile. Non mi dispiaceva essere un ragazzo cattivo, perché naturalmente sapevo che era Dennis il cattivo; e quando mio padre mi portava giù nella carbonaia era Dennis che andava con lui e appoggiava la testa al pilastro e metteva le dita sul chiodo arrugginito — mentre Spider se ne stava in camera sua!


* * *

Di conseguenza, se mia madre viveva solo nella parte di dietro della mia testa, lì era conservato anche il suo omicidio. Perché se da basso non potevo quasi riferirmi a lei per nome, mi risultava davvero impossibile anche solo alludere alla sua morte e al modo in cui era stata buttata sotto terra come un sacco di spazzatura. Durante quelle prime settimane non capii cosa le era successo e mi persuasi che effettivamente era andata in Canada, come avevo sentito dire più volte da mio padre ai nostri vicini. Ma lei non aveva una sorella in Canada! Non me ne avrebbe parlato quando sedevamo vicino alla stufa in cucina, in quelle lunghe sere invernali, con la pioggia che batteva sulle finestre e il tintinnio degli stivali chiodati sul selciato, quando gli uomini percorrevano il vicolo dietro il cortile? Avrebbe parlato di sua sorella, avrebbe ricevuto delle lettere col timbro «Winnipeg» o «Vancouver», con francobolli con la testa del re, e me le avrebbe mostrate, me le avrebbe lette, e insieme avremmo immaginato l’inverno in Canada, il Natale in Canada — la famiglia di sua sorella riunita intorno a un abete («Tutti i tuoi cuginetti, Spider»), il profumo di una grassa anitra che arrostiva nella cucina di una casetta di tronchi con il tetto ombreggiato dai cedri e un grosso camino di mattoni che sputava fumo nell’umido cielo canadese. Insieme avremmo immaginato queste scene nella luce giallastra del numero 27 e, per un’ora o due, saremmo stati lontani da quell’orribile tugurio, anche noi avremmo fatto parte della famiglia riunita davanti al caminetto, coi ceppi di pino scoppiettanti e i bambini — i miei cuginetti — che aprivano i regali con gridolini di gioia. Perché era andata da sua sorella e mi aveva lasciato lì? Su, in camera mia, coi gomiti sul davanzale, questo mi preoccupò, provocò in me un’acuta, stupita sofferenza, finché non mi ricordai che non esisteva nessuna sorella, nessuna casa di tronchi, nessun cuginetto; c’era soltanto l’assenza di mia madre, solo — ormai — il suo ricordo, e di sotto c’erano una donna grassa e indifferente verso di me (quando non ero vittima del suo umorismo) e un padre freddo e distratto. Questo, come ho detto, continuò per parecchie settimane, e fu solo quando ci avvicinammo al Natale che incominciarono ad accorgersi davvero di me, perché allora, cattivo com’ero (la parte Dennis, voglio dire), io capii che non dovevo più ubbidire all’ordine di mio padre di non parlare di lei. E quando compresi ciò, e loro si accorsero che avevo capito, non poterono più ignorarmi.

A quel tempo, mio padre lavorava ancora, per cui in casa entravano dei soldi. Questo significava serate al Rochester e tizi che venivano a Kitchener Street dopo. Li vedevo entrare in cortile dal vicolo, portando delle bottiglie, il respiro che formava una grande nuvola di nebbia e li faceva sembrare un unico animale, un mostruoso cavallo dalle innumerevoli zampe che camminava nel cortile. Sbuffavano vapore, ruggivano con molte voci nello stesso tempo, e io non riuscivo mai a dormire quando c’era questa situazione in casa: c’era tanto rumore da basso, voci forti e canti di ubriachi, tintinnio di bottiglie e trapestio di stivali sul pavimento. Spesso in casa c’erano persone che non avevo mai visto prima, le guardavo dalla finestra della mia camera mentre sfilavano verso il gabinetto in cortile, o le vedevo baciarsi e toccarsi nel corridoio sottostante dal mio osservatorio nel buio in cima alle scale.

Non c’era nessun albero di Natale al numero 27, niente decorazioni, niente doni: solo un ciuffo di vischio legato con lo spago alla lampadina che pendeva dal soffitto della cucina, e questo permetteva loro di trattarsi più licenziosamente del solito. Poi venivano aperte alcune bottiglie, e Horace si metteva carponi per elemosinare un po’ di calore dalla stufa. Hilda gli aveva fatto portare in cucina le poltrone del salotto, e in una di esse sedeva lei, con un grande bicchiere di porto rosso, mentre i canti e le risa incominciavano. Malgrado il sottofondo, la sua risata era sempre riconoscibile da sopra, anche con la porta della cucina chiusa. Una volta, ricordo, sentii l’uscio della cucina che si apriva — il rumore parve gonfiarsi per un momento —, e poi udii un furtivo sussurrare nel corridoio. Io ero in pigiama in cima alle scale. Mi ritirai nella mia camera e sentii delle persone percorrere il corridoio. Attraverso la fessura della mia porta, vidi un uomo e una donna che salivano le scale: lui era grasso e aveva un vestito scuro; lei, con le scarpe in mano, era una tizia che avevo già visto in casa, un’amica di Hilda, bella a suo modo, anche se a ripensarci adesso mi ricordo che la vita e l’alcol avevano annientato il colore della sua pelle e la luce dei suoi occhi: era una donna grigia e triste e, benché ridesse in continuazione, il suo sguardo era spento, i suoi denti erano marci, e il suo alito aveva un odore terribile. I capelli erano tinti di nero; si chiamava «Gladys». Passarono in punta di piedi sul pianerottolo e si infilarono nella camera dei miei genitori, tirandosi la porta alle spalle, anche se naturalmente non si chiudeva bene: era difettosa. Non molto tempo dopo, sentii il letto che cigolava e Gladys che gemeva sommessamente; poi ci fu silenzio. Andai sul pianerottolo e, mettendomi carponi come il primo giorno che Hilda era venuta in casa, li guardai. Gladys era distesa sul letto e fumava una sigaretta. Non avevano acceso la luce, per cui c’era solo la fioca luminosità che arrivava dal lampione della strada. L’uomo grasso era dall’altra parte del letto e si infilava a fatica i pantaloni, contando nello stesso tempo delle sterline. Rientrai in camera mia e, cinque minuti dopo, sentii i due che tornavano giù.

Rimasi nella mia stanza, seduto vicino alla finestra, e aspettai che se ne andassero tutti. Era passata la mezzanotte quando attraversarono incespicando il cortile a gruppi di due o tre — non più il cavallo-mostro di prima, troppo ubriachi ormai per questo —; poi sentii Horace e Hilda che salivano. Aspettai un’altra mezz’ora prima di scendere con una candela. La cucina era disgustosa: bicchieri sporchi, bottiglie vuote, portacenere stracolmi, le scarpe nere di Hilda sul tavolo, una reclinata (perché erano sul tavolo?), e un terribile odore di fumo di sigaretta e di alcol. Gladys era stravaccata a dormire su una delle poltrone, col cappotto addosso; sul bracciolo, vicino al punto in cui la sua testa ciondolava e russava appoggiata alla spalla dalla quale pendeva un braccio, c’era un bicchiere mezzo pieno di birra scura (nera alla luce della candela) con un mozzicone di sigaretta che galleggiava decomponendosi e fili sparsi di tabacco. Spostai il bicchiere sul tavolo della cucina, presi le scarpe di Hilda e le misi per terra. Poi restai a fissare Gladys per qualche minuto, tenendo la candela alta vicino al mento, tanto che sentivo il calore della fiamma; nella stufa, il fuoco stava morendo, e il freddo della notte si intrufolava in cucina. Mentre fissavo la donna stravaccata nell’ombra, pensavo ai rumori che aveva fatto di sopra e alla vista delle sue gambe con le giarrettiere sul letto e il vestito arrotolato in vita. Qualcun altro dormiva sull’altra poltrona, ma non era l’uomo grasso: era Harold Smith. Poi uscii dalla porta sul retro, nel freddo, e mi feci una sega nel gabinetto; quando tirai la catena l’acqua arrivò proprio fino all’orlo, prima di ritirarsi molto lentamente: non l’aveva ancora sistemato. Rientrando, trovai del vecchio cheddar nella dispensa e una crosta di pane nel portapane; sedetti a tavola e, sempre alla luce della candela, fra il russare degli ubriachi, consumai la mia cena, accompagnandola con un bicchiere di birra scura presa da una bottiglia non finita vicino al lavandino.

Il giorno dopo era la vigilia di Natale e non dovevo andare a scuola. Non ci sarei andato comunque; da quando ero diventato un ragazzo cattivo, avevo perso molti giorni di scuola, perché di notte non dormivo più. Scesi da basso alle dodici. La cucina era stata ripulita, e Hilda stava preparando delle polpette. Mi sorrise, e io mi misi subito in guardia. Il calore di Hilda era una trappola, perché appena ci si rilassava lei tirava una freccia avvelenata. Sedetti a tavola senza dire una parola. Lei stendeva una palla di pasta con il matterello; aveva le mani e le braccia sporche di farina, ma c’era del sudiciume sotto le sue unghie e puzzava di anguille in gelatina. Indossava il grembiule di mia madre — le era stretto, com’è ovvio, soprattutto sulla pancia. «Perché mi guardi in quel modo?» mormorò, con le grosse braccia bianche che spingevano sul matterello. «Ecco il tuo toast!» E prese dalla stufa un piatto con un paio di fette di pane dure e rinsecchite. «C’è del sugo, se vuoi,» disse, «e il bollitore è pronto. Tuo padre dovrebbe tornare presto, oggi.»

Qual era il suo gioco? Esaminai attentamente il toast e decisi di non correre il rischio. Bevvi il tè, però, e non ci trovai niente di strano. «Nora è giù dal macellaio,» disse Hilda. «Sarà un miracolo se riusciamo a fare tutto; mi chiedo se ne valga la pena.» Guardò fuori dalla finestra sopra il lavandino. «Vorrei che si sbrigasse,» disse, e io sentii che mi irrigidivo e slittavo verso il dietro della mia testa, dove viveva Spider. Appena fui lì, pensai che avevano elaborato una nuova strategia — «conquistandomi», speravano di assicurarsi il mio silenzio e la mia complicità. Era una trappola, capite, era come se Hilda mi stesse dicendo: «Sì, è vero, abbiamo assassinato tua madre, ma cerca di pensare a me come tua madre, adesso.» Per questo, stava preparando le polpette e parlava del macellaio, si comportava come se fosse mia madre. Non le veniva naturale, questo era chiaro dal modo in cui maneggiava il matterello. Mia madre era molto più abile con la pasta, di gran lunga più esperta di questa prostituta con le zampe a prosciutto che recitava in una cucina non sua; e poi mia madre non maneggiava mai il cibo senza prima essersi pulita perfettamente le mani. E questo: «Nora è giù dal macellaio…» — chi era Nora per me? Pensava davvero che avrei mangiato della carne che era stata toccata da Nora? Era un bel pezzo di teatro, ma io ero troppo furbo per lei. «Cos’hai da sorridere?» disse, smettendo di lavorare con tanta lena e scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte bagnata. «Sei diventato davvero un ragazzo strano, ultimamente; non mi stupisce che tuo padre sia preoccupato per te.» Oh, era brava, nella mia testa la stavo applaudendo: era proprio come una madre.

Continuò finché Nora tornò dal macellaio con il pollo che dovevamo mangiare per la cena di Natale. «Diamogli un’occhiata, allora,» disse Hilda, asciugandosi ancora una volta le mani nel grembiule. Con le forbici nere della cucina tagliò lo spago legato intorno al giornale in cui era avvolto il pollo. «Molto bene, Nora,» disse quando esso giacque sul tavolo, la pelle grassa e rosea segnata dai puntini dove erano state strappate le penne. Io, per me, non provavo interesse per quella carcassa, finché Hilda gli infilò una mano nel sedere e gridò: «Dove sono i fegatini?»

«Non ci sono?» chiese Nora.

«Controlla anche tu!» E facendosi da parte, Hilda lasciò che Nora infilasse la mano nel pollo. «Li lascia sempre dentro,» disse Nora, «non ho pensato di controllare.»

«Torna indietro e prendi i nostri fegatini, Nora. E le zampe, e la testa. Cosa crede, di poterci portar via metà del pollo? E digli, Nora…» — Nora è mezzo fuori dalla porta, ormai — «… che se ci fa un altro scherzo del genere se la deve vedere con me.»

Scuotendo la testa, Hilda aprì il rubinetto e mise le mani sotto l’acqua fredda, poi tornò alle sue polpette. Non riuscii a trattenermi; dovevo guardare dentro il pollo; tutto ciò che vidi fu una cavità, niente organi, e ciò mi diede una strana sensazione. Lasciai la cucina poco dopo e scesi in cantina.

Ero in camera mia quando mio padre tornò dal lavoro; naturalmente la prima cosa che Hilda gli disse fu che il pollo era arrivato dal macellaio senza fegatini e che Nora era dovuta tornare indietro a prenderli. «Cosa, niente fegatini?» disse mio padre — io ero seduto in cima alle scale e ascoltavo, quasi incapace di trattenere le risa. Poi anche lui ficcò il naso dentro il pollo, come avevo previsto. «Cos’è questo, allora?» lo sentii dire, e sapevo esattamente quello che stava accadendo: estrasse dalla cavità un pacchetto di foglie legato con lo spago, e quando lo aprì caddero fuori dei piccoli frammenti di carbone, poche piume di uccello, delle pagliuzze rotte e, proprio al centro, un topo morto!


Passai quella notte, la vigilia di Natale, nel capanno dell’orto. Mio padre aveva immediatamente indovinato chi era il responsabile. «Dov’è?» lo sentii dire, e un momento dopo saliva velocemente le scale. Poi fu sulla soglia della mia camera, tremante di rabbia, gli occhi in fiamme e la mandibola sporgente. «In cantina,» disse, «subito!»

«Assassino,» dissi io. Ero in ginocchio sul pavimento con i miei insetti.

«Subito!» E con questo attraversò la stanza con un solo slancio e, afferrandomi per il colletto, mi trascinò sul pavimento. Andammo giù per le scale: io davanti, tossendo; lui, furibondo, dietro. Quando raggiungemmo la porta della cantina mi lasciò per un attimo il colletto, e ciò fu sufficiente. Mi precipitai fuori, attraversando la cucina con le stupefatte Hilda e Nora, e il cortile, sempre inseguito da lui. «Torna qui!» gridava. Il cancello del cortile era rimasto aperto, e io lo oltrepassai in un lampo e corsi nel vicolo. Stava diventando buio; lui mi raggiunse quasi all’estremità del vicolo e mi spinse contro il muro e mi tenne lì, inchiodato ai mattoni, mentre cercava di riprendere fiato. Io mi abbandonai completamente; lui mi fissava furibondo. «Assassino,» sussurrai, «assassino, assassino.» La fronte gli si scurì, i lineamenti gli si contorsero per la perplessità — cosa doveva fare di me, di quello che sapevo? Il suo respiro si fece più regolare, e io rimasi inerte; la sua presa si allentò leggermente; scivolai via dalle sue mani, e di nuovo mi misi a correre. Lui mi inseguì fino alla fine del vicolo, ma le energie l’avevano abbandonato e, mentre io sfrecciavo nel crepuscolo, un ragazzo in fuga, senza cappotto, con le gambe lunghe, lui si voltò indietro, sempre in maniche di camicia, e sfogò la sua rabbia contro un bidone della spazzatura vicino al muro. Un gatto nero strisciò fuori da sotto il coperchio con una testa di pesce in bocca e scappò nel buio. Col piede dolorante, mio padre tornò saltellando in cucina, dove senza dubbio parlarono di me per il resto della sera. Credo, però, che prima si sia tolto gli stivali e le calze e abbia trovato del sangue sotto l’unghia dell’alluce, che si stava facendo viola e nero.


* * *

Se mai avete tenuto un diario, saprete che certe sere è quasi impossibile buttare giù anche una sola frase, mentre altre volte le parole fluiscono sulla carta ora dopo ora finché non si è svuotati, e allora si ha l’impressione non di aver scritto, ma di essere stati scritti. Non dimenticherò mai la notte che trascorsi nel casotto di mio padre. Avevo scoperto da molto tempo come entrare di nascosto: si forzava per una spanna l’asse alla quale era avvitato l’anello di metallo in cui si inseriva la punta del chiavistello, poi ci si infilava dentro la fessura e ci si tirava dietro la porta con forza, in maniera che l’asse tornasse al suo posto. Ma prima di andare nel casotto, passai alcuni minuti in ginocchio nel campo delle patate. Non c’era che terra nera in quella stagione così tarda, ma non erano le patate che cercavo. Lei avvertiva la mia presenza, lo sapevo, tentava di raggiungermi, era molto chiaro, come prevedevo, tanto eravamo legati: questa era una cosa che mio padre non poteva distruggere con le sue sgualdrine o la sua violenza — un legame indissolubile. Appena la sentii, mi buttai disteso sul terreno e le parlai sussurrando, e non scriverò quello che le dissi. Il buio era calato e stava rapidamente facendosi più freddo; quella notte avrebbe gelato, e si era parlato anche di neve. Ma nessun freddo poteva toccarmi in quel momento, continuai a sussurrare finché non le ebbi detto tutto quello che dovevo, poi mi infilai nel casotto.

Sapevo dove trovare i fiammiferi e le candele, e le accesi tutte e le appoggiai sugli scaffali e sul pavimento, finché quel luogo brillò come una chiesa. Poi mi rannicchiai nella poltrona come meglio potevo, avvolto nei sacchi per difendermi dal freddo, e guardai la luce delle fìammelle tremolare fra le ragnatele, su nell’oscurità sotto il tetto. Dopo pochi minuti, dovetti uscire dai sacchi e coprire la teca con il furetto: il modo in cui la luce si rifletteva sul suo occhio di vetro mi metteva a disagio. Rimasi raggomitolato nella poltrona di crine, guardando le ragnatele, ed è insolito ricordarlo adesso, perché pensereste che abbia pianto fino ad addormentarmi. Invece no, restai sveglio e con gli occhi aperti, e abbastanza stranamente era l’idea che i ragni del tetto montassero la guardia a darmi sicurezza.

Mi addormentai. Quando mi risvegliai, alcune ore più tardi, alcune candele bruciavano ancora, e io ebbi un attimo di confusione e di smarrimento; poi, dapprima debole, ma più forte di momento in momento, fui pervaso da un senso di pace e di gioia, perché mia madre era con me.


Mia madre era con me, fioca e scura all’inizio, ma sempre più chiara a ogni istante. Era in piedi davanti a me nel casotto illuminato dalle candele, fra gli attrezzi e i vasi e i pacchetti di semi. I suoi vestiti erano sporchi e umidi per la terra del giardino, e sulla testa aveva una sciarpa scura, ma com’era bianca la sua faccia! Perfettamente bianca, sana, intera, radiosa e luminosa! Quei momenti sono profondamente intessuti nella trama della mia memoria — la luce delle candele, le ragnatele brillanti sul tetto nel gelo, anche se io non avevo freddo: come potevo averlo, avvolto com’ero nel calore e nella pace della sua presenza e nel flebile, dolce mormorio della sua voce, e soprattutto nel senso di pienezza che allora conobbi, una pienezza che ho cercato da quel momento senza mai più trovarla, né qui, nelle strade vuote dell’East End londinese, né nelle pianure e nelle montagne e nelle città del Canada, dove vagai solo e disperato per vent’anni?

Poi dormii di nuovo, un sonno senza sogni, e mi svegliai presto la mattina di Natale, ancora calmo e felice per la sua visita notturna. Scivolai fuori dal casotto e giù per il sentiero che scendeva alle Tegole, e lungo le strade, deserte e silenziose alla mattina presto; le tende erano ancora chiuse e, dietro di esse, giacevano addormentati uomini e donne e bambini: mi sentivo strano a essere per strada mentre dietro le tende delle case buie e silenziose le famiglie dormivano ancora. In alcune di quelle case vivevano bambini che venivano alla mia stessa scuola, e nella mia immaginazione li vedevo rannicchiati nel letto coi fratelli e le sorelle, come animaletti al calduccio, mentre Spider camminava a grandi passi nelle prime ore del giorno.

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