Le strade non mi danno alcun conforto: tutto sta perdendo colore, diventa pallido e secco. Anche il tempo: una successione di giornate fredde e chiare, quando la luce è così forte e brillante che il mio occhio non trova zone di colore o di ombra o di umidità in cui salvarsi. C’è sempre questa luminosità, adesso: le vie, i muri, le finestre sembrano tutti scabri, metallici, per come mi rimandano la luce bianca e costringono i miei poveri occhi a evitarli precipitosamente. Non posso più sedere vicino al canale o al fiume, per cui vado a Kitchener Street e passo le ore al Dog and Beggar. Ricordo molto bene una visita: stavo attraversando il ponte sul canale quando mi accorsi di uno schema di pensiero non mio: «Tutto ciò che tocco muore. Se mi ami, muori. Se ti tocco, muori. Tutto ciò che amo muore

Mi immobilizzai. Di chi erano questi pensieri? Di mio padre. Era mio padre che, per la prima volta, si manifestava in me. Seguirono altre stranezze. Quando raggiunsi il Dog non andai al mio solito tavolo sul fondo. Mi appoggiai al banco col piede sulla sbarra, come faceva sempre lui. Era di nuovo lui che si manifestava in me, e non avevo la possibilità di controllarlo. Ernie Ratcliff era ostile, anche la sua faccia si frammenta quando si avvicina a me, e allora mi viene in mente che Ernie sia morto e perciò sia o un fantasma o uno zombie come sono io. Presi la mia mezza mild e rimasi lì per più di un’ora. Fuori tabacco e cartine, e di nuovo c’era lui, c’era Horace al banco, che si arrotolava una «magra», e io ero l’impotente vittima o contenitore della sua impostura. Ero stato occupato, mi sembrava, colonizzato, invaso e, con futile rabbia, lo guardavo comportarsi come ai vecchi tempi, appoggiarsi ai gomiti, tenere la sigaretta appesa all’angolo delle labbra, voltarsi ogni volta che si apriva la porta, starsene per i fatti suoi. Quello che non faceva era bere la sua mild — il verme polmonare gliel’aveva proibito, per cui restava al Dog senza bere, restava lì in un mondo di acqua a morire di sete, sembrava! Come in un certo senso facevo io.

Mio padre incominciò a impadronirsi dei miei pensieri e movimenti sempre più spesso, in seguito, e Spider non poteva impedirglielo. Fu mio padre che incominciò a penetrare nella camera di Hilda di notte, e durante il giorno, tutte le volte che era in casa; la guardava avidamente con occhi sfuggenti e circospetti, che distoglieva appena lei se ne accorgeva. Incominciò a prendere nota di quando lei andava al gabinetto e cercò di spiarla dal buco della serratura, ma non credo che ci riuscì più di due volte. Poi, con mio orrore, un pomeriggio al Dog tentò di intavolare una conversazione con Ernie Ratcliff.

Oh, Dio buono, che umiliazione! Non era in grado, non aveva dimestichezza; erano anni che non conversava casualmente con un estraneo. Stava al banco nella posizione che ho descritto e semplicemente attaccò di getto. Ernie Ratcliff era in fondo al bancone e borbottava sottovoce con un uomo anziano sdentato e con un pizzetto bianco. «Vi ricordate Horace?» disse mio padre con un grido gracchiante che immediatamente zittì Ernie e il vecchio. «Come dice, amico?» disse uno. I loro occhi si fissarono su di lui, che ci riprovò.

«Vi ricordate Horace?»

«Di quale Horace parlate?» disse Ratcliff.

«Cleg,» disse mio padre. «Horace Cleg.»

Ernie Ratcliff scambiò un’occhiata col vecchio, poi incominciò a lucidare un bicchiere da birra con lo straccio. «Era un suo amico?» mormorò.

Mio padre tentò una risata, ma non funzionò; era quasi nel panico. «È morto durante la guerra, Horace Cleg,» disse il vecchio. «Nel corso del bombardamento.»

Ernie Ratcliff emise un piccolo sbuffo. «Ha portato via quasi tutta la strada. Ma a lui non interessava più, ormai.»

Il vecchio scosse la testa. «Non gli interessava,» disse. «Non ho mai visto un uomo perdere interesse per la vita come Horace Cleg. L’aveva distrutto, quella storia.»

«Avrebbe distrutto chiunque,» osservò Ernie Ratcliff, «perdere la moglie in quel modo.»

«Col gas,» disse il vecchio, voltandosi verso mio padre, «col gas della sua stessa cucina. Una brava donna. ‘Hilda’, si chiamava, ‘Hilda Cleg’. È stato suo figlio ad aprire il gas.» Il vecchio fece una pausa, sollevò il bicchiere con la mano tremante. Fissò mio padre con occhi acquosi e sussurrò: «Era morta, quando Horace arrivò da lei!»

Ci fu un silenzio, allora, e si sentì l’orologio che ticchettava da qualche parte dietro il banco. «Cosa ne è stato di quel ragazzo?» disse Ernie Ratcliff dopo un po’, ma mio padre non udì la risposta perché era già fuggito dal pub per non tornarvi mai più.


I giorni seguenti diventarono sempre più strani per Spider. L’oppressiva sensazione che tutti e tutto intorno a lui fossero morti lo abbandonava raramente, ormai, e sapeva di essere il responsabile di questo. Si rese conto anche che stava per avvenire una terribile catastrofe, ma non riuscì a capire che cosa fosse o da quale direzione sarebbe arrivata. Fu in questo periodo che decise di essere seppellito in mare.

Poi una notte, mentre sedeva nell’armadietto sotto il lavello della cucina, un nuovo ricordo gli affiorò alla coscienza. Era nella sua camera a Kitchener Street e stava sognando. Si trovava su una strada polverosa e diritta fino all’orizzonte lontano, e non c’era niente nel paesaggio, tranne un basso recinto di paletti bianchi che correva lungo la carreggiata all’altezza delle caviglie. Camminava verso l’orizzonte quando si imbatté nella carcassa di un pollo e rimase intrappolato fra le sue ossa. Poi la strega della notte uscì dal muro e infilò le dita fra le ossa, cercando di arrivare fino a lui e sibilando: «Spider! Spider!» Allora notò di essere nudo, ricoperto da un fungo nero e molliccio. Si percosse, cosa che lo fece pisciare e, quando ciò accadde, incominciò immediatamente a piovere, e la pioggia batteva così forte sulla sua finestra che si svegliò avvertendo l’odore di gas che c’era nella stanza. Tutte le sensazioni erano distorte, nessuna delle linee del pavimento o del soffitto sembravano unirsi, e la porta si trovava a un’enorme distanza dal letto, anche se le pareti ai suoi fianchi erano talmente vicine che sembrava di essere in un vicolo. Sul pavimento c’erano le scatole di mosche con cui aveva giocato prima di addormentarsi, per cui scese dal letto e si sedette per terra, staccando gli insetti dagli spilli e mettendoseli in bocca. L’odore del gas diventava sempre più forte e lo faceva ridere, ma la cosa strana era che, mentre rideva, non sentiva nulla. Poi, dopo qualche minuto, stette male e provò un improvviso, fortissimo senso di colpa e di desolazione. Andò alla finestra, la aprì e si appoggiò al davanzale nella pioggia battente, debole come un pupazzo, finché non gli passò, e allora ricominciò a ridere, anche se dentro avvertiva solo una sensazione di morte. Aveva infilato un lenzuolo sotto la porta; udì che l’uscio veniva aperto, e poi, ancora debole, che lo spingevano e lo trascinavano giù per le scale e fuori dalla porta d’ingresso, nella pioggia. Si rese conto allora che se l’era fatta addosso. Fissò la porta aperta del numero 27 e vide suo padre che usciva all’indietro trascinando Hilda, e questo lo fece ridere ancora di più, anche se in un certo senso lo stupiva. Più tardi, notò i vicini sul marciapiede, a piccoli gruppi sotto la pioggia, e si accorse subito che nessuno di loro era vivo, che erano tutti fantasmi. Dopo questo, ricordava una macchina nera con le luci accese e il modo in cui la pioggia cadeva obliqua davanti ai fari. Ricordava Hilda distesa su una barella e coperta da un lenzuolo — e questo lo fece ridere di nuovo, ma ciononostante aveva la mente confusa e sentiva vagamente che era stato commesso un errore.


Una sera tardi, prima che incominciassero i canti, Spider era disteso sulla schiena vicino al caminetto e cercava di prendere il suo quaderno. Finalmente comparve quell’oggetto sporco, e lui lo portò sul tavolo e lo aprì all’ultima annotazione. Prese la matita e incominciò a scrivere.

La presenza nel mio corpo del verme e dei ragni — scrisse — mi ha fatto comprendere di essere morto. Questo è quello che farò. Quando questo brano sarà completato, mi metterò il cappotto e lascerò la casa. È una bella notte, e la luna è perfettamente piena. Lascerò la casa in silenzio e andrò giù al fiume, dove ci sono i magazzini e gli scalini scivolosi. Durante il percorso, mi fermerò spesso per raccogliere dei sassi, meglio se pesanti, e con essi riempirò le molte tasche dei vari indumenti che indosso. Senza dubbio il mio cammino diventerà sempre più lento man mano che i miei vestiti si faranno più pesanti, ma io continuerò a camminare nelle strade illuminate dalla luna e, quando avrò raggiunto i gradini scivolosi, sarò davvero molto pesante. Costituirò allora una figura curiosa, il vostro vecchio Spider — vuoto dentro, tranne che per il verme e i ragni, avvolto esternamente in cartoni e giornali e strati di vestiti appesantiti con sassi… e morto! Strano zombie, no? Starò in cima ai gradini scivolosi e guarderò la luce della luna sul fiume e penserò al Mare del Nord. Penserò a quel mare morto che si gonfia sotto la luna e incomincerò allegramente a scendere, e nella mia immaginazione vedrò la pallida luce scintillare sulle onde e, quando il fiume lambirà queste mie grosse scarpe da manicomio, quando afferrerà e tirerà a sé e rivolterà le stoffe che mi coprono, quando le mie gambe si bagneranno e le calze si inzupperanno, penserò al silenzio del mare sotto la luna. E quando sarò dentro fino al petto, starò ancora pensando al Mare del Nord, e dentro di me starò esultando: oh sì, starò esultando alla prospettiva del silenzio e del buio e dell’umidità e del sonno. Ma a quel punto il fiume mi avrà abbracciato, e io affonderò, e non resterà nulla del vostro vecchio Spider, tranne un quaderno sporco infilato in un camino.

È un bel quadro, no? È una bella morte. Ma non fa per me. Non farò così, per quanto attraenti siano il silenzio, l’umidità, le onde illuminate dalla luna. No, c’è una sola via d’uscita per me, e non è il fiume. Ci penso da settimane, ormai, da quando ho trovato quel bel pezzo di corda — che Hilda credeva di poter portarmi via! Be’, l’ho trovato io. L’ho trovato nell’armadietto sotto il lavello della cucina, e adesso lo userò. Dove? Su in solaio, naturalmente, dove quelle sue maledette creature possano vedere a cosa mi hanno portato! Possono sghignazzare, possono parlare, possono cantare e battere gli sporchi piedi, possono far danzare la polvere nella luce della luna e disegnare figure sul soffitto, ma ciò impedirà forse al vostro Spider di salire su una vecchia sedia con l’estremità libera della fune infilata nell’anello a formare un cappio? Gli impedirà di fissare la corda a una trave? E di mettere la testa nel cappio? Gli impedirà di dare un calcio alla sedia? No, non glielo impedirà!

Oh, basta. Ascoltate, la casa è così tranquilla che si possono sentire le anime morte tossire e borbottare nel sonno. Ma c’è un problema: perché continuo a pensare ai denti di John Giles? Ai suoi denti falsi, voglio dire: a quelli che gli diedero dopo avergli cavato quelli autentici? Vivevano in un bicchiere d’acqua su una mensola nella stanza degli infermieri e, prima di ogni pasto, lui andava là e glieli davano; dopo aver mangiato, li restituiva. Be’, ci fu un’estate in cui John era stato molto tranquillo per alcuni mesi e si decise per la prima (e unica) volta di provare a metterlo in un reparto da basso, e si concordò anche sul fatto che se stava abbastanza bene per andare da basso il suo stato di salute poteva consentirgli di indossare i suoi denti. Io lavoravo negli orti, a quell’epoca, e per me una delle grandi gioie dell’estate era il cricket, perché dal vecchio giardinetto del té godevo un’ottima vista del campo sottostante. Un pomeriggio, Ganderhill ospitava la squadra di un paese vicino, e i degenti dei reparti da basso andarono ad assistere alla partita, John compreso. Forse fu il sole, ma proprio a metà dell’incontro lui entrò in agitazione. Da dove mi trovavo, sentivo i colpi del cuoio sul legno di salice, le ondate di applausi, le grida improvvise ai vantaggi — tutti questi rumori arrivavano fin su; all’improvviso, udii una voce che ruggiva: «Austin Marshall, dov’è il mio cervello? Dov’è il mio cervello, bastardo?» Guardai giù e, in mezzo ai giocatori, c’era John. Guardava gli edifici in alto e agitava il pugno. «Bastardo!» urlava. «Dov’è il mio cervello?» (John credeva che, mentre lui dormiva, il direttore gli avesse rubato il cervello.) Quando tre o quattro infermieri stavano avanzando cauti verso di lui sul campo, il dottor Austin Marshall apparve sulla terrazza superiore e gridò: «Cosa succede, John?» Mi voltai verso di lui, riparandomi gli occhi dal sole. La vista del direttore non fece che irritare ulteriormente il povero John, che si mise a correre verso le scale. Gli infermieri lo bloccarono subito e, mentre lui lottava selvaggiamente e continuava a gridare, lo portarono fino alla terrazza superiore, e poi direttamente nel «reparto duro». Solo dopo che l’ebbero condotto là, si scoprì che aveva perso i suoi denti.

Be’, per un giorno o due questo ci fornì un argomento di conversazione, poi ce ne dimenticammo. Due settimane dopo ero intento a raccogliere lattuga nei campi vicino al sentiero. Si trattava di una bella lattuga, del tipo che cresce in estate, l’Augusta, una varietà croccante, verde, con il cespo che si apre. Era un’estate fresca, e questo è salutare per la lattuga, visto che il clima caldo rende le foglie amare e favorisce i bruchi. Ho coltivato molti tipi di insalata, ma l’Augusta è quella che preferisco, il più dolce e morbido. Stavo raccogliendo la mia Augusta, quindi, quando vicino al sentiero mi imbattei in un cespo particolarmente bello. Scostai le grosse foglie verdi più esterne e lì, proprio al centro, vidi i denti di John! Che mi sorridevano! E allora sentii la lattuga che diceva: «Dov’è il mio cervello, bastardo!»

Strano, no? Una sommessa risata ansimante da parte del vostro vecchio Spider mentre cerca il tabacco. Un’ultima «magra», quella della staffa; poi fuori la calza, fuori le chiavi, e su in solaio!


FINE
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