Poi incominciai a correre, perché la giornata era fredda e c’era brina sui vetri delle finestre e le pozzanghere sul terreno apparivano coperte di ghiaccio e scricchiolavano sotto i miei stivali. Era una giornata luminosa: il grigio perla del cielo mattutino diventava lentamente azzurro mentre avanzavo correndo. Ero pervaso da una sensazione esilarante, adesso, la splendida sensazione di non essere più solo, di non essere più il caso difficile e la vittima della casa di mio padre, perché mia madre era con me ora, in un certo senso volava con me lungo quelle strade fredde, verso i docks, e la sua presenza dentro di me mi dava coraggio e decisione e speranza.


Più tardi, annoiato e stanco, tornai con passo lento a Kitchener Street: dove altro potevo andare? Nelle strade che percorrevo adesso c’era luce, e c’erano vita e movimento nelle case che superavo, il fumo usciva dai camini nell’aria fredda e pulita. Nel mio cuore c’era dolore mentre guardavo nelle finestre dei salotti lo scintillio del carbone acceso con i bambini riuniti intorno e le porte e le finestre chiuse, e io non avevo dove andare, eccetto che al numero 27, e niente da aspettarmi, tranne una frustata nella carbonaia e una notte in camera mia senza cena.

Il vicolo, il cortile, la porta sul retro. Mio padre non era a casa, c’era solo Hilda; cupo silenzio al mio arrivo. «Eccolo qui, finalmente. Sei fortunato che tuo padre sia fuori, ragazzo mio, è venuto a cercarti. Ecco la tua cena.» La tirò fuori dal forno e me la mise davanti; io ero semplicemente troppo affamato per preoccuparmi e la mangiai tutta, mentre lei mi guardava in silenzio. Nulla fu detto del topo.

Così mangiai la mia cena di Natale nel silenzio gelido della cucina, poi andai di sopra in camera mia e aspettai il ritorno di mio padre con non poca paura. Erano circa le otto quando sentii i suoi stivali nel vicolo, e poi lui attraversò il cortile; si era fermato al Dog and Beggar, lo capivo, e ciò non era un bene: le frustate erano sempre molto più dure quando era stato al Dog, perché l’alcol sembrava scatenare la sua rabbia. Entrò dalla porta sul retro; io aspettavo seduto di sopra che mi chiamasse, mentre mi ritiravo volontariamente nei più profondi recessi della parte di dietro della mia testa, dove solo Spider poteva andare. Poi… non accadde nulla! Non venni chiamato! Sentii le gambe della sedia trascinata mentre lui si sedeva a tavola, quindi un mormorio di voci — la porta era chiusa, per cui non so di cosa stessero parlando, anche se sono sicuro che l’argomento ero io. Mio padre non venne mai ai piedi delle scale a dirmi di scendere per frustarmi, così quello strano e, in un certo senso, splendido Natale passò.


* * *

In seguito, non fu difficile capire perché non ero stato frustato per il topo morto: dovevano tenermi buono. Cosa mi impediva di denunciarli? Semplicemente la prospettiva di restare senza casa, anche se loro non lo sapevano. Se denunciavo Horace e Hilda, sarei finito in carico allo stato e mandato in un orfanotrofio, ed era fin troppo facile immaginare le prepotenze che avvenivano in posti simili, la mancanza di solitudine, l’irreggimentazione. No, ero affezionato alla mia camera al numero 27, mi piaceva la mia vita di ragazzo povero, i miei insetti, il canale, i docks, il fiume e le nebbie, e adesso, in un certo senso, avevo anche mia madre. Per cui, no, non avevo alcuna voglia di cedere tutto questo per la soddisfazione di vedere quei due «dondolare» — non ancora, comunque. Ma loro non lo sapevano, non potevano essere sicuri della mia prossima mossa, per cui avevano interesse a tenermi buono. Quindi, niente frustate.

Ciò che non capii, se non più tardi, era che Hilda in una certa misura godeva dei miei stessi benefìci. Anche lei, vedete, voleva quel tetto sulla testa — un uomo che possedeva la propria casa era una creatura rara in quei tempi, e Hilda, essendo quello che era e com’era, avrebbe senza dubbio considerato tutto questo molto seriamente. Pensate, poi, a come doveva aver cantato vittoria quando mia madre era stata assassinata — quando aveva capito che, siccome si trattava di omicidio, lei poteva assicurarsi un posto sotto quel tetto! Non avrebbe provato il minimo interesse per mio padre altrimenti: di questo, sono sicuro; era una parassita cinica e fredda, decisa a ottenere il massimo da un uomo sul quale aveva ormai potere effettivo di vita o di morte — perché lei, come me, era in grado di denunciarlo quando voleva, e se era furba poteva evitare di finire sulla forca con lui.

A che punto mio padre comprese qual era la sua posizione? Sembrava che la storia del Canada fosse stata generalmente accettata e, per quanto riguardava la costante presenza di Hilda al numero 27, il fatto avrebbe potuto creare scandalo in una via meno intrisa di immoralità e corruzione, ma sulla Kitchener simili situazioni erano all’ordine del giorno. In Kitchener Street, gli uomini spedivano continuamente le mogli in Canada e invitavano delle prostitute a condividere il proprio letto; oppure erano loro ad andare oltremare, mentre altri uomini ne prendevano il posto in casa. Ciò suscitava a malapena qualche commento. Per cui, allora, in quel Natale, sembrava che se la fossero cavata — perlomeno finché io tenevo la bocca chiusa.

Suppongo che, alla fine, mio padre capì la realtà delle cose, quando Hilda gliela disse apertamente. Io, in verità, non la sentii, ma ricordo di averlo visto una sera in cortile, e chiaramente doveva essere successo qualcosa del genere. Quando mia madre era viva, vedete, mio padre aveva sempre avuto la tendenza — se lei lo infastidiva con i suoi brontolii — a uscire dalla porta sul retro. L’abitudine era profondamente radicata in lui e perciò, quando lo vidi correre fuori (avevano alzato la voce in cucina), capii che Hilda l’aveva fatto arrabbiare. Camminò furiosamente fino in fondo al cortile, infilandosi la giacca, poi si fermò dopo il cancello: sembrò che si fosse bloccato per l’indecisione, incapace di andare avanti o di tornare indietro. Quando vidi questa scena, mi sentii in preda al panico, non so bene perché — credo che l’unica cosa peggiore di avere Hilda e Nora per casa (e io odiavo Nora quasi con la stessa veemenza con cui odiavo Hilda: era una piccola ubriacona corrotta e cinica) fosse quella di averle senza mio padre. Lui rappresentava almeno una sorta di sicurezza per me, e io avevo la sensazione che, se fossi finito alla mercé di quei due mostri, sarei senza dubbio perito. Perciò non volevo vederlo esasperato, non ancora (anche se questo sarebbe cambiato). Era buio, fuori, e aveva appena incominciato a piovere; fu allora che lui sembrò giungere a una decisione, perché tornò nel cortile e si diresse verso la casa; ma dopo pochi passi si perse di nuovo d’animo e, invece di andare alla porta sul retro, entrò nel gabinetto. Seduto alla finestra, vidi la fioca luce della candela che aveva acceso filtrare dal buco a mezzaluna nella porta. Adesso pioveva forte, e io vedevo la pioggia cadere davanti alla mezzaluna e immaginavo mio padre dietro a quella porta, con i pantaloni alle caviglie e i gomiti appoggiati alle ginocchia; mi venne in mente che in quel momento eravamo tutti e due lontani dalle donne in cucina, e mi chiesi se i suoi sentimenti assomigliassero in qualcosa ai miei. Poi lo sentii tirare l’acqua, la candela fu spenta e lui emerse. Tornò in casa poco dopo, e ancora una volta sentii il mormorio delle voci in cucina.


* * *

La cosa che mi disturbava di più, credo, dopo che Hilda si trasferì al numero 27, era vedere i vestiti di mia madre indossati da una prostituta. Non bastava il pensiero dell’invasione e della violazione, c’era anche lo spettacolo quotidiano di ciò che avveniva agli abiti quando Hilda se li metteva. Mia madre era una donna magra, aveva una figurina delicata, quasi da ragazzo, mentre Hilda era tutta curve, carnosa. Perciò i vestiti di mia madre le andavano stretti e risultavano provocanti; quello che era stato elegante su mia madre appariva volgare su Hilda, ma in fondo era quella la natura della donna: tutto quanto toccava diventava in qualche modo volgare.

Ricordo che incominciai a spiarla, perché provocava in me una sorta di fascinazione atterrita. È difficile parlare di questa cosa, ma vedere i vestiti, i grembiuli, i maglioni che, per me, conservavano ancora l’aura di mia madre, vederli trasfigurati, caricati dell’invitante sensualità che impregnava i gesti di Hilda — le sue parole, il suo modo di camminare e di dimenare il sedere —, mi infastidiva moltissimo. Spesso la seguivo mentre andava a fare la spesa, oppure di sera quando si infilava la logora pelliccia e percorreva il vicolo sui tacchi, con il rossetto di mia madre sulle labbra, la biancheria intima di mia madre sulla pelle, il marito di mia madre al braccio — io scivolavo nel vicolo dietro di loro, mi muovevo (come un ragazzo africano) da un’ombra all’altra, silenzioso, invisibile, un fantasma, uno spettro. Quando andavano all’Earl of Rochester li guardavo attraverso le finestre; ero fuori al freddo e al buio, e fi spiavo mentre si crogiolavano e bevevano nel luminoso, accogliente calduccio del bar. Trovai il modo di penetrare nel cortile dietro il pub, e ciò mi consentì l’accesso alle finestre dei bagni; in piedi su una botte, guardavo Hilda dall’alto quando usciva per andare al gabinetto; la vedevo con le mutande alle caviglie e il vestito tirato su, il sedere che non toccava il sedile del water; poi, dopo essersi asciugata, estraeva la bustina del trucco e si dava una sistemata con la cipria e il rossetto di mia madre. Non mi vide mai, ma una volta, ricordo, mentre mi sollevavo sulle punte dei piedi per vedere cosa stava facendo, la botte oscillò sotto di me e lei alzò gli occhi — ma non prima che io avessi abbassato la testa e recuperato l’equilibrio. Come ho detto, provavo una sorta di atterrita fascinazione per l’assoluta rozzezza di quella creatura; la contemplavo come una specie di animale selvatico, con un misto di interesse e paura, e un senso di meraviglia per il fatto che potesse esistere una simile forma di vita. Era una forza della natura, così la consideravo allora.

Per quanto riguarda mio padre, il mio disprezzo per lui non aveva limiti. Lui non era pittoresco, non era una forza della natura; in preda a una rabbia selvaggia e codarda, aveva assassinato mia madre, e adesso si godeva il frutto maledetto di quell’azione. Sedeva al Rochester allegro e sorridente, a sorseggiare la sua mild, un uomo furtivo e sogghignante, una donnola con le agili zampe macchiate di sangue — misterioso, abile, lascivo, crudele e maligno. Avevo ragione di odiarlo, no? Aveva ammazzato mia madre e mi aveva fatto diventare cattivo; mi aveva infettato con la sua sporcizia, e l’odio che gli rivolgevo era davvero intenso.

Per qualche tempo, feci fìnta di andare a scuola al mattino, anche se dopo una settimana o due non mi preoccupai più neanche di questo. Di notte non dormivo più, ed era uno sforzo troppo grande uscire di casa alle otto e mezzo e poi girovagare vicino al canale per tutto il giorno, o andare giù al fiume e oziare fra le barche. No, me ne restavo in camera e trafficavo con la mia collezione di insetti, tenendo d’occhio il cortile sul retro e guardando chi andava e veniva.

Hilda spesso invitava le sue amicizie durante il giorno — perlopiù sgualdrine. Harold Smith e Gladys erano i visitatori più assidui. Io scendevo in cucina e mi sedevo su una sedia con le ginocchia rannicchiate sotto il mento e le braccia intorno agli stinchi, e non dicevo nulla, ascoltavo e basta; a loro sembrava che non importasse: continuavano a chiacchierare, spettegolavano sui vari piccoli drammi che davano sapore e colore alle loro tristi vite. Hilda non ci metteva mai molto a tirare fuori il porto dolce. «Non una parola con tuo padre,» mi diceva, versando a tutti una dose in una tazza da tè (anch’io avevo imparato ad apprezzare il porto, da quando era arrivata Hilda). Gladys sembrava sempre che avesse un problema. «Se non è una cosa, è un’altra, eh, Glad?» mormorava Hilda, mentre sfregava la cucina economica o pelava le patate e Glad sedeva al tavolo, fumando Woodbines e toccandosi i capelli tinti di nero con atteggiamento preoccupato e descrivendo qualche nuova calamità riguardante il suo padrone di casa o il suo «amico» del momento, mentre Harold Smith sorrideva col suo spento sorriso da cinico e si nettava le unghie e non diceva niente. Ma, in realtà, era Hilda quella che io osservavo e, mentre continuava a pulire o a pelare, notavo con segreta fascinazione come le sue braccia e le sue cosce e i suoi seni si gonfiassero e oscillassero sotto le gonne e il grembiule che un tempo ingentilivano la magra figura di mia madre.

Un incidente si staglia vivido in quest’epoca. In gennaio diventava buio verso le cinque del pomeriggio, per cui quando mio padre arrivava a casa i lampioni erano già accesi. Lo vedevo dalla finestra della mia camera mentre portava dentro la bicicletta dal vicolo e l’appoggiava al muro del gabinetto. Aveva la borsa degli attrezzi su una spalla e una sciarpa nera intorno al collo. Si inginocchiava per sciogliere i legacci che si era messo alle caviglie e li infilava nella tasca dei pantaloni. Poi, fregandosi vigorosamente le mani, percorreva il cortile ed entrava dalla porta sul retro. Hilda stava preparando la cena; sentivo il rumore delle pentole e il rombo proveniente dai rubinetti quando l’acqua scendeva nel lavandino. Un mormorio di voci, il raschio delle gambe di una sedia — aveva appeso la giacca e la sciarpa al gancio sulla porta della cucina ed era seduto a tavola. Hilda gli metteva davanti una bottiglia di birra, poi lui tirava fuori le cartine e la scatola del tabacco mentre lei imbandiva la tavola. Notate con quanta facilità Hilda aveva assunto il ruolo di mia madre nella routine domestica quotidiana e recitava alla perfezione la parte della donna di casa: ma vi prego di notare anche con quanta spregevole compiacenza mio padre accettava questo fatto!

Seppi che c’era in ballo qualcosa di strano appena entrai in cucina. Hilda e mio padre (me n’ero già accorto) avevano un modo particolare di guardarmi con la coda dell’occhio, e sentivo che quella sera lo stavano facendo. Ciò che di solito mi faceva impazzire era il fatto che appena me ne accorgevo, loro guardavano da un’altra parte e si comportavano in maniera del tutto normale — troppo normale. Quella sera, c’era una strana artificiosità in ogni cosa che facevano. C’era anche un odore insolito nella stanza, ma non riuscii a identificare cosa fosse. Non il cibo, di sicuro, perché c’erano aringhe affumicate, e conosco perfettamente il loro odore. Senza una parola, presi posto a tavola; senza una parola, incominciai a mangiare la mia aringa. Avvertivo che mi stavano guardando, e poi si scambiavano occhiate, anche se non riuscii mai a vederli davvero mentre lo facevano. Quando tagliai la mia patata, notai che proprio al centro c’era una macchia scura.

La fissai con un certo disagio. Poi un liquido sciropposo incominciò a fluire dalla patata: il denso, lento colare di quello che, dopo un istante o due, riconobbi come sangue. Alzai gli occhi, sussultando per guardare mio padre e Hilda, i loro coltelli e le loro forchette posati di traverso sul piatto; mi sorridevano apertamente. All’improvviso, la lampadina crepitò sopra la mia testa, e per un momento pensai che fosse una risata. Di nuovo lo sguardo mi scivolò sulla patata colante: adesso il sangue appariva coagulato in una pozza vischiosa sotto la mia aringa.

Cosa si aspettavano che facessi? Stava succedendo qualcosa di strano alla luce della stanza; c’era solo quell’unica lampadina, senza lampadario, che pendeva da un filo marrone, e la sua luce era aspra e giallastra. Sembrò fluttuare — per qualche momento divenne sempre più fioca, finché fummo immersi nell’ombra; l’unica cosa che vedevo di Hilda e di mio padre era il bianco dei denti e degli occhi, lo scintillio degli occhi —, e poi lentamente tornò il chiaro, e loro sembravano comportarsi in maniera perfettamente normale.

Poi, con terribile inesorabilità, la luce tornò a ispessirsi, e questa volta il crepitio della lampadina diventò improvvisamente molto forte, salì fin quasi a un urlo e, mentre io restavo seduto senza quasi osar respirare, era impossibile non sentire in quel rumore delle voci di derisione e di scherno, e quando guardai nel mio piatto — non riuscivo più a guardare Hilda o mio padre, perché adesso mi terrorizzavano: erano trasformati, erano delle specie di animali, non c’era niente nei loro volti che potessi leggere come umano, e questo mi faceva rizzare i capelli sulla nuca —, quando guardai di nuovo nel mio piatto il sangue stava lentamente svanendo con una leggera incandescenza; adesso lo fissavo in uno stato di rigidità scioccata, mentre la luce a poco a poco ritornava a crescere e riportava la cucina a quello stato stranamente instabile di falsa normalità in cui coltelli e forchette tintinnavano sui piatti, e Horace e Hilda masticavano vigorosamente il cibo e bevevano il tè, e il crepitio della lampadina era di nuovo sommesso e intermittente, e il rubinetto sgocciolava ritmicamente nel lavandino. Sul mio piatto, la patata tagliata giaceva in una pozza di sugo rappreso di color marrone a causa dell’aringa.

Non mi alzai da tavola, non gli diedi la soddisfazione. «Credevo che ti piacessero le aringhe affumicate,» mormorò Hilda, guardandomi mentre si portava la forchetta piena alla bocca, e io vidi come gli occhi di mio padre scivolassero verso di lei a queste parole e come le sue labbra producessero quel rapido movimento laterale di allegro disprezzo che scompariva appena notato. Non gli diedi la soddisfazione; senza parlare, tagliai ancora la mia aringa e incominciai a masticare rumorosamente, con gli occhi fìssi sul volto di Hilda. «Cosa stai facendo?» disse lei, prendendo la sua tazza. «Attento, hai inghiottito una lisca!» Incominciai a tossire, perché le aringhe hanno delle lische grosse, e non vi avevo prestato attenzione. Sputai nel piatto un mucchietto di pesce semimasticato con molti minuscoli ossicini all’interno, che sporgevano; mio padre disse: «Oh, santo Dio, Dennis.»

«Oh, santo Dio, Dennis»: riuscite a immaginare la rabbia che suscitò in me? Non era un trattamento esecrabile, una vile provocazione? Ma non gli diedi la soddisfazione e mi tenni dentro ciò che provavo, soffocai la rabbia e l’odio, perché il mio momento sarebbe venuto, lo sapevo fin da Natale: sarebbe arrivato il mio momento, e loro si sarebbero pentiti.

Più tardi, uscirono per andare al pub, e io tornai ai miei insetti. Quando li sentii ripercorrere il vicolo, spensi la luce e li osservai dalla finestra mentre entravano dal cancello in cortile. Mio padre appariva malfermo, e Hilda era arrabbiata con lui, lo si capiva chiaramente dalla sua espressione seria e dal modo in cui si affrettava nel cortile e oltre la porta, mentre lui chiudeva goffamente il cancello e poi faceva una sosta al gabinetto. Passi sulle scale — Hilda che andava a letto. Ma quando, pochi istanti più tardi, mio padre entrò in casa, non lo sentii salire dietro di lei e, man mano che i minuti passavano, capii che si era sistemato in cucina, anche se la luce non era stata accesa. Dopo un po’, andai in punta di piedi sul pianerottolo e guardai Hilda che dormiva; i suoi vestiti e la sua biancheria erano stati gettati su una sedia, e una calza era scivolata per terra. Quindi scesi velocemente da basso; come sospettavo, mio padre era rimasto nella cucina buia a bere dell’altra birra e poi era crollato. In silenzio, mi avvicinai a lui. Con la testa arrovesciata e la bocca aperta, e con ancora addosso il berretto e la sciarpa, russava piano sulla sedia accanto alla stufa, una bottiglia di birra e un bicchiere mezzo vuoto sul pavimento, vicino. Alla pallida luce della luna che filtrava dalla finestra sopra il lavandino, lo osservai attentamente. Avevo ancora tutta la rabbia che mi ero tenuto dentro e capii che potevo fargli ciò che volevo; a questo pensiero, avvertii una vivida e dolcissima sensazione di potere, di dominio.

Aprii il contenitore del pane e tirai fuori il coltello. Feci qualche finta e tirai alcuni colpi, immaginando come potevo ficcarlo nel collo di mio padre. Silenziosamente lo agitai davanti alla sua faccia, danzandogli intorno come un ragazzo africano; non si svegliò. La luce della luna scintillava sulla lama del coltello mentre io ballavo per la cucina, sollevando le ginocchia e scuotendo selvaggiamente la testa, sempre senza fare alcun rumore. Quando fui stanco, riposi il coltello e mi riempii la mano di briciole rafferme. Poi le feci cadere lentamente sulla faccia arrovesciata di mio padre e, benché lui scattasse e si agitasse e scacciasse le briciole agitando una mano, non si svegliò, tanto era profondo il suo intorpidimento.


* * *

Dopo l’incidente dell’aringa affumicata e della patata, Hilda divenne molto meno disponibile nei miei confronti. Decise, credo, che non poteva più tollerare il rischio che io rappresentavo per la sicurezza che aveva appena trovato — si era spinta troppo avanti perché accettasse di vedersela portare via dai discorsi a ruota libera di un ragazzo. Avevo visto l’espressione dei suoi occhi a tavola quella sera, avevo visto il moto di allarme quando avevo sputato il boccone di lische di pesce, e con quell’allarme era arrivata una nuova, preoccupata cautela: la colsi spesso nei giorni seguenti; Hilda si rivelò allarmata nei miei confronti come non era mai accaduto prima: naturalmente non rischiava di perdere solo il focolare sicuro del numero 27… Se avessero scavato nel campo di patate di mio padre, allora avrebbe perso ben altro che un focolare sicuro. Avrebbe «dondolato».

E così l’atmosfera al numero 27 divenne ancora più carica di tensione; aleggiò un nuovo nervosismo, una propensione all’ira in entrambi che io fui pronto a sfruttare. Hilda non dispensava più tazze di porto a Harold e Glad con quell’aria di allegra complicità — basta «Solo un goccio per riscaldarti, Glad, hai avuto una lunga notte». No, Hilda sentiva lo stress, era nervosa e preoccupata mentre sfaccendava in cucina. Io cercavo di peggiorare le cose. Le rubai il secchio e lo portai giù al canale, dove lo riempii di pietre e lo affondai. Lei si infuriò per aver perso il secchio, lo cercò dappertutto, perché naturalmente non poteva pulire il pavimento o il cortile o il gradino della porta senza un secchio. La vedo ancora seduta al tavolo della cucina quando mio padre tornò dal lavoro quel giorno (ascoltavo sulle scale); con una sciarpa annodata sui capelli (pieni di bigodini), sorseggiò il tè e disse: «Ho cercato dappertutto… I secchi non scompaiono così.» Grugniti da parte di mio padre, ed era difficile interpretarli. Era indifferente allo smarrimento del secchio? Stava aggrottando la fronte e scoprendo i denti inferiori nella sua ben nota smorfia di rabbiosa perplessità, e magari contemporaneamente volgeva gli occhi al soffitto, verso la mia camera, gettando su di me la responsabilità del secchio mancante? Sospetto di sì. Quando andai giù per la cena, Hilda scoprì le carte e mi chiese se sapevo qualcosa del secchio. Sedetti al mio posto, mi strinsi nelle spalle, guardai il soffitto e non dissi nulla. «Dennis!» scattò mio padre. «Rispondi a tua madre quando ti fa una domanda!»

Questa era bella. «Mia madre?» dissi io, chinandomi in avanti, mettendo le mani aperte sul tavolo e guardandola dritta in volto con gli occhi socchiusi. «Tu non sei mia madre.»

«Oh, di nuovo questa storia!» disse Hilda, voltandosi verso mio padre. Lui aggrottò la fronte, si tolse gli occhiali, si sfregò gli occhi. «Su, ceniamo,» disse stancamente. Esultai dentro di me per il faticoso silenzio nel quale venne consumato il pasto.

Più tardi, quella notte, li sentii parlare ancora in cucina, per cui scivolai in cima alle scale per ascoltare. La porta era accostata, e le loro voci erano basse, così che dovetti sforzarmi per capire cosa dicevano. Ma dopo un minuto o due riuscii a dargli un senso. Parlavano di me. Parlavano di mandarmi in Canada.

Tornai nella mia camera e chiusi la porta. Spensi la luce e mi misi vicino alla finestra, coi gomiti sul davanzale e il mento appoggiato alle mani. Quella notte c’era la luna che, al di là del vicolo, brillava su file e file di tetti di tegole bagnate. Mio padre aveva mandato mia madre in Canada, e lei adesso era in mezzo alle patate. Poi pensai a lui addormentato con la bocca aperta sulla sedia nella cucina, e un’idea incominciò a prendere forma nella mia mente, e aveva a che fare col gas.


Nei giorni seguenti non feci nulla per rendere la situazione peggiore di quello che era già. Non potevo riportare il secchio di mia madre — era sparito per sempre —, ma almeno non rubai nient’altro. I pasti erano tranquilli e normali, e non si ripeterono il crepitio della lampadina e l’abbassamento della luce. Nulla fu detto, ma sospettavamo profondamente gli uni degli altri, e questo aumentava la tensione che già incombeva sulla casa; nessuno voleva esacerbarla. Un periodo di prova, quindi, in cui l’unico avvenimento di una certa importanza fu il goffo tentativo di mio padre di gettarmi polvere negli occhi.

In quel periodo ero spesso agli orti — era la fine di gennaio, quando i giardinieri avevano poco da fare. Mi piaceva stare lì soprattutto al crepuscolo, verso le quattro e mezzo del pomeriggio, in particolare nei dieci o venti minuti prima che scendesse il buio vero e proprio, quando il cielo era grigio-azzurro, ma sul terreno le ombre si erano ispessite e gli oggetti perdevano rapidamente definizione. Quella passione che ho sempre avuto per la pioggia e la nebbia allora si ridestava, e io girovagavo felice da un orto all’altro e mi sentivo quasi invisibile. Ma vi fu un pomeriggio — gli orti erano deserti, tranne che per me — in cui vidi con sorpresa mio padre che passava in bicicletta sul sentiero lungo la recinzione, parallelo ai bastioni della ferrovia; io ero nell’orto di Jack Bagshaw, per cui scivolai dietro al suo casotto e, come spesso avevo fatto in precedenza, sbirciai dall’angolo per vedere cosa aveva intenzione di fare.

Lui aprì il cancello del suo orto, spinse la bicicletta sul sentiero e la appoggiò al casotto. Poi venne dietro il mucchio del compost e mi guardò deciso; io mi ritrassi subito. «Dennis,» chiamò.

Non dissi nulla; non mi muovevo, non respiravo quasi.

«Coraggio, figliolo, voglio solo parlare con te.»

Mi accosciai di botto e mi coprii le orecchie. Pochi istanti dopo, sentii la sua mano sul gomito. «Forza, figliolo, vieni nel casotto.»

Gli permisi di condurmi al casotto. Aprì la porta, mi spinse dentro, mi fece sedere nella poltrona mentre accendeva qualche candela. Poi si sistemò su una cassa di legno, i gomiti sulle ginocchia, la testa china in avanti; si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con l’indice e il pollice della mano sinistra. «Cosa ti succede, figliolo? Perché ce l’hai tanto con noi?» Mi guardò con aria stanca e perplessa. «Eh?»

Io ero rannicchiato nella poltrona e fissavo le ragnatele. Il cuore mi batteva molto veloce; con un certo sollievo, sentii che Spider incominciava a ritirarsi, lo sentii allontanarsi in silenzio, lasciandosi dietro solo una cella vuota e polverosa: Dennis.

«Perché hai detto quelle cose a tua madre?»

«Non è mia madre,» dissi, anche se non avrei voluto dire niente.

Uno scatto di sorpresa. «E chi è allora?»

Non mi avrebbe ingannato di nuovo.

«Chi è, figliolo?» Adesso la rabbia montava.

Io guardavo le ragnatele; Spider cercava di infilarsi in un buco.

«Chi è, Dennis?» La fronte, i denti.

«È una sgualdrina.»

«Attento, scimmia disgustosa, che ti do un ceffone su quella testa!» Era in piedi, adesso, e incombeva sulla poltrona.

«È una grassa sgualdrina!»

Mi schiaffeggiò sulla testa e io incominciai a piangere, non potevo farci niente. «Tu hai ucciso la mia mamma,» gridai attraverso le lacrime. «Assassino! Assassino! Maledetto assassino!

«Cosa?» Si lasciò ricadere sulla cassa. «Mi stai prendendo in giro, Dennis? Sai quello che dici?»

Mi rifugiai in un cupo silenzio di sfida; per quanto Spider volesse restarsene nel suo buco, quel ceffone sulla testa l’aveva costretto a uscire, e la sensazione di calore e di tintinnio gli impediva di escludersi di nuovo. Mio padre aggrottò la fronte; disse che non capiva di cosa stessi parlando. Ero scemo?, disse. Nuova grattatina alla testa mentre sedeva sulla cassa. Continuava a guardarmi, come se non mi avesse mai visto prima, poi distolse gli occhi. Incominciò a dirmi che mi stavo comportando da stupido; disse che non sapeva da dove pigliavo quelle idee, che passavo troppo tempo da solo, che dovevo farmi degli amici: alla mia età, lui aveva degli amici, tutti i ragazzini avrebbero dovuto avere degli amici, e continuò e continuò, e mentre la sensazione di calore e di tintinnio diminuiva, scoprii che potevo allontanarmi, ritirarmi di nuovo nei posti bui e segreti, e proprio quando lo facevo, accadde una cosa strana: mio padre sembrò restringersi. Improvvisamente fu come se fosse molto lontano, anche se in quel momento sapevo che era a pochi metri da me. Ma ai miei occhi era distante e minuscolo, e la sua voce suonava come se attraversasse un’immensa distesa di spazio prima di arrivarmi, e quando mi raggiungeva c’era una risonanza vuota e metallica che oscurava il senso e il significato delle parole, sì che erano soltanto echi, vuoti echi in un casotto triste sotto il tetto del quale i ragni tessevano reti che luccicavano e brillavano e scintillavano alla luce delle candele, e mi facevano sentire debole; il tempo rimase immobile finché lo sentii dire chiaramente: «Dennis? Dennis? Credi ancora che l’abbia uccisa?»

Non dissi nulla. Era ritornato a essere concreto e reale, e il senso di debolezza era sparito.

«Rispondimi, figliolo. Credi ancora che abbia ucciso tua madre?»

Cosa potevo fare? Avevo paura di lui. Scossi la testa.

«Meno male,» disse. «Andiamo a casa.»


Lasciammo il casotto e percorremmo il sentiero fra gli orti; lui spingeva la bicicletta. Mentre oltrepassavamo la tomba di mia madre, mi venne in mente che non si era offerto di vangare il campo delle patate, ma naturalmente non lo dissi (anche se dubito che avremmo trovato qualcosa: era risorta, ormai, ma lui non lo sapeva). Hilda ci aspettava in cucina. Guardò ansiosamente mio padre, che mi teneva una mano sulla spalla mentre entravamo dalla porta sul retro. Spider si era ormai ritirato in uno dei suoi buchi più oscuri. «Tutto bene, allora?» disse lei, e mio padre annuì; con palese sollievo, Hilda incominciò a trafficare. «Sedetevi,» disse, «sono uscita a prendere qualcosa di buono per la cena.» Erano anguille.

Così sedetti in silenzio in cucina e mangiai le anguille; ma neanche per un minuto dimenticai che, malgrado tutti i discorsi di mio padre, pensavano sempre di mandarmi in Canada.


* * *

È notte fonda mentre scrivo queste cose e non so se riuscirete a comprendere l’ansia che provo nell’affidare i miei pensieri alla carta. Se lei dovesse trovare questo quaderno, le conseguenze sarebbero terribili, e non voglio pensarci, non alla luce di ciò che emerse più tardi a Kitchener Street — quando saprete tutta la storia, capirete la mia apprensione. Sono abbastanza soddisfatto del caminetto come nascondiglio, anche se ha lo svantaggio di essere pieno di fuliggine: dopo appena pochi giorni, il quaderno è diventato talmente sporco che ho dovuto infilarlo in un sacchetto di carta prima di riporlo e usare i guanti per non insozzarmi le mani. Questo sistema ha funzionato bene fino a ieri mattina, quando ho capito che, se lei avesse trovato i guanti sporchi, avrebbe avuto dei sospetti e sarebbe andata a ficcare il naso nel caminetto per vedere cosa combinavo — il che mi lasciava il problema (sono pignolo fino all’assurdità, direte, ma credetemi, non posso permettermi di correre rischi), il problema di trovare un nascondiglio sicuro per i guanti (sotto il linoleum, magari?) o, in alternativa, di liberarmi di essi. Scelsi la seconda possibilità: ieri li ho buttai nel canale e li ho guardati impregnarsi d’acqua e finalmente affondare. Ciò significa che (a) devo lavarmi le mani ogni volta che tiro fuori e rimetto via il quaderno (il che necessita di un viaggio in bagno lungo il corridoio), e (b) prima o poi dovrò spiegarle che ho perduto i guanti e, come potete immaginare, non è un colloquio che aspetto con piacere. Ma ecco perché è così essenziale che lei non trovi il quaderno: vedete, io credo che sappia chi è.

Ero rientrato a casa, un pomeriggio di qualche settimana fa, dopo alcune ore passate a camminare nelle strade. Stavo attraversando l’ingresso diretto alle scale quando mi capitò di sbirciare verso la cucina, che si trova in fondo a un breve corridoio dietro all’ingresso, a sinistra della scala. Il corridoio era buio, ma in cucina la luce era accesa e lei era in piedi in mezzo alla stanza, appoggiata al tavolo, con le maniche rimboccate e un matterello in mano. Niente di insolito in questo, naturalmente; stava aiutando la piccola cuoca straniera che tentava di fare un pudding di carne e rognone e forse le stava insegnando il metodo inglese. Ma ciò che attrasse la mia attenzione verso questa scena vivacemente illuminata, incorniciata com’era nella porta della cucina in fondo a quel breve corridoio scuro, era il modo in cui impugnava il matterello, il modo in cui si alzava sulle punte dei piedi e si appoggiava allo strumento in maniera che tutta la forza e il peso delle grosse spalle fosse trasmesso alle braccia robuste e, attraverso i polsi, alle paffute dita delle mani porcine, le cui unghie, vidi con un vero brivido di accettazione e di orrore, malgrado apparissero impolverate di farina, erano sporche. Per un attimo, passato e presente si sovrapposero perfettamente, diventarono identici, e ci fu una sola donna che si appoggiava al matterello, e quella donna era Hilda Wilkinson; in quel momento, la donna in cucina era trasfigurata, i suoi capelli erano biondi con le radici nere, la sua pancia premeva contro il tessuto di un grembiule non suo, e le sue gambe massicce erano piantate sul pavimento della cucina come due tronchi d’albero e andavano su e giù mentre lei si alzava sulle punte a ogni spinta — giù! — dell’attrezzo sulla pasta. A questo punto mi ero avvicinato, ero entrato nel corridoio e stavo guardandola a bocca aperta quando lei si voltò, ansimando rauca verso la porta, e si scostò una ciocca di capelli sudati dalla fronte. Il suo mento! Come aveva potuto sfuggirmi? Aveva il mento di Hilda, grande e sporgente, prognato, proprio uguale! «Ah, signor Cleg,» disse — e io tornai al 1957 con la mia padrona di casa.

Una pausa: non riuscivo a pensare a niente con lei lì al tavolo, girata verso di me, la faccia interrogativa. «Voleva qualcosa, signor Cleg?»

«No,» dissi, ma mi uscì solo una specie di rauco sussurro. «No,» dissi, con più successo, e fu soltanto con il massimo sforzo che riuscii a rimettermi in movimento perché, durante quei pochi istanti nel corridoio, mi ero scollegato.

«No?» disse lei, mentre mi allontanavo, con la ben nota traccia di ironia presente nella sua voce. «Una bella tazza di tè, signor Cleg?» Ma io dovevo andare di sopra, per cui fuggii senza dire una parola di più. Una volta guadagnata la sicurezza della mia stanza, guardai il parco di sotto e tentai di arrotolarmi una sigaretta, ma le mani mi tremavano tremendamente e feci cadere metà del tabacco sul pavimento; ci vollero alcuni minuti prima che mi riprendessi e riuscissi a mettermi carponi e recuperarlo.

All’inizio, non capii cosa dovevo fare. Mi succede spesso che solo quando tutti gli altri sono andati a letto riesco a pensare in modo corretto in questa casa: prima ci sono troppe interferenze, troppi schemi di pensiero che bloccano le onde, se capite quello che voglio dire — questa non è l’ultima delle ragioni per cui passo tanto tempo giù al canale, perché se non sto attento i loro schemi di pensiero scacciano il mio, e io non posso accettarlo, non posso avere pensieri altrui nella testa, ne ho avuti già abbastanza in Canada. Accade la stessa cosa quando sono tutti svegli nella casa, anche se sono in camera mia con la porta chiusa; lasciate che ve lo dica: per quanto siano anime morte, i loro pensieri sono grotteschi, e questo si collega alle creature del solaio, ma ne parlerò più avanti. No, quello che capii appena riuscii a pensare chiaramente — cioè in piena notte — fu che dovevo confermare la prima vivida impressione avuta nell’ingresso; non aveva senso pensare a nulla finché non facevo questo.

Erano circa le tre del mattino quando capii che, se io sapevo chi era lei, lei sapeva chi ero io — e le implicazioni erano molto preoccupanti, anche se mi ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni per rifletterci su accuratamente.

Il giorno seguente fu umido e freddo. Dopo colazione, lasciai la casa come al solito, ma invece di raggiungere il canale andai nel piccolo parco al di là della strada. La casa della signora Wilkinson si trova sul lato nord di una piazza che un tempo doveva essere davvero notevole. Oggi, però, le grandi dimore con le facciate di stucchi e le colonne corinzie sono scrostate e decrepite; molte sono state abbattute e quelle tuttora in piedi sono abitate solo da ratti o fantasmi o relitti come me. Sedetti su una panchina nel parco in mezzo a questa piazza devastata, sotto ad alberi spogli e a un cielo grigio ardesia, fra bottiglie vuote e pacchetti di sigarette, e gettai briciole di pane ai corvi che vivono lì; con un occhio sorvegliavo, in attesa che lei uscisse.

Erano le undici passate quando finalmente emerse con addosso il cappotto e un sacchetto per la spesa al braccio; senza neanche gettare un’occhiata verso il parco, si allontanò lungo la strada. Lasciai passare cinque minuti, poi tornai dentro, attraversai l’ingresso e salii le scale fino all’ultimo piano dove lei, come me, ha la sua stanza (la sua, però, è dall’altra parte della casa). Mi fermai in cima alle scale ad ascoltare; nient’altro che la radio che suonava sommessa nel salotto, dove le anime morte ammazzavano il tempo distrattamente. Poi percorsi il corridoio fino alla sua porta — un’altra pausa, un altro momento di attento ascolto della casa —, quindi ruotai la maniglia e… niente! Chiusa a chiave! Aveva chiuso la porta a chiave!


Era un ostacolo, questo. Tornai da basso, uscii dalla porta e andai di nuovo nel parco al di là della strada, dove ripresi il mio posto sulla panchina e cercai di riflettere sulla faccenda. Chiudeva la porta a chiave. L’unica altra porta della casa chiusa a chiave era quella che dava sulle scale del solaio (e, naturalmente, quella del dispensario). Anziché attenuare la mia curiosità, questo sviluppo ebbe l’effetto opposto, infiammò il mio desiderio di sapere cosa nascondeva quella donna: dovevo impadronirmi delle sue chiavi.

Immerso in questi pensieri, senza fare alcun progresso, tirai fuori dalla tasca una fetta di pane tostato che avevo conservato dalla colazione e incominciai a sbriciolarla fra le dita, sparpagliandone i pezzettini intorno alla panchina. Ben presto i corvi svolazzarono giù, e quando il pane fu finito, tirai fuori il tabacco e mi arrotolai una sigaretta sottile, una «magra». E rimasi lì seduto, immerso nei miei pensieri, le gambe distese incrociate alle caviglie, a fumare tra i corvi.


* * *

Questa faccenda degli schemi di pensiero sembra che sia peggiorata molto negli ultimi giorni. Perché? La luna piena, forse? Ma no, la luna è solo un’unghia, come la luce sopra la porta d’ingresso. Forse, per qualche oscura ragione, le anime morte si sono risvegliate e generano energie cerebrali di un voltaggio insolitamente alto? Ma ho passato un’ora nel salotto dopo cena e non c’era alcun segno di vitalità: forse meno del solito, se possibile — sedevano nelle loro sedie abituali come un gruppo di manichini da sarto, stupefatte dai medicinali, le facce di lardo, le mani tremanti, i vestiti inadatti sporchi di cibo e di bava (Dio come sbavano!), in attesa che comparisse El Mustachio con la cioccolata. Parlo proprio io! Anch’io sbavo, tremo, inciampo e, come sapete, a volte mi scollego; ma che Dio mi aiuti, se diventassi mai una di loro: staccate la spina, per favore, se dovesse succedere; lasciatemi almeno indagare l’enigma della mia infanzia, finché ho la forza di volontà per farlo e, se si esaurisse, allora attaccatemi alla trave più vicina e lasciatemi penzolare come il ragno che sono! Poi entra la piccola donna straniera col vassoio, e questa è tutta la vita che vedremo qui stasera: il minuscolo, fioco fantasma di una scintilla che lotta debolmente per vivere negli occhi spenti dei miei compagni alla prospettiva di una tazza di cioccolata leggera preparata con latte in polvere e densa per lo zucchero che produce questi rotoli di ciccia sulle loro pance e sotto i loro menti. Hanno tutti corpi grassi qui, vedete — petti grassi, cosce grasse, dita grasse, facce grasse, e capelli secchi sempre pieni di particelle di forfora; quando mescolano la cioccolata, a questi zombie la forfora cade ondeggiando nelle tazze, come neve in fiocchi. Io mi volto dall’altra parte, mi volto verso la finestra e mi passo la mano sul cranio, che è quasi rasato dall’orecchio alla tempia, spruzzato in cima con qualche ciuffo della stessa tonalità di castano di mia madre. Mi posso grattare il cranio bitorzoluto per minuti interi senza che una sola particella di forfora si stacchi, perché la mia pelle è come cuoio, tesa com’è sulle ossa aguzze di questa mia testa oblunga, magra e cavallina: sì, cuoio bitorzoluto, così è la mia testa; zampe di ragno ad artiglio, queste sono le mie dita; e il mio corpo, un involucro con dentro ormai poco più che il fetido composto gassoso di ciò che un tempo era un cuore, un’anima, una vita — chi sono quindi per arricciare il naso davanti agli zombie, io che possiedo la stessa fragile resistenza di un guscio d’uovo, di una lampadina, di una pallina da ping-pong? No, non sono loro che riempiono l’aria di schemi di pensiero, vengono da un’altra parte, arrivano dal solaio. Ogni notte li sento, adesso; non dormo un solo istante, e l’unica cosa che li ha tenuti lontani finora e mi ha dato sollievo è stato scrivere il mio diario, come ho fatto. Il mio diario! Si può ancora definire così? Immaginatemi, in piena notte, carponi davanti a un vecchio caminetto a gas, che cerco alla cieca un sacchetto di carta marrone sporco di fuliggine. Allegramente lo prendo, mi alzo in piedi e mi avvicino silenzioso al tavolo dall’altra parte della stanza. Mi pulisco le mani sui pantaloni e lo tiro fuori dal sacchetto. Quel povero quaderno che poche settimane fa era nuovo, con una brillante copertina verde, adesso si arriccia agli angoli, è pieno di impronte nere delle mie dita — una cosa che non tocchereste se non per necessità, un quaderno sporco. Dopo essermi pulito le dita e aver messo da parte il sacchetto, apro il quaderno sporco e giro le pagine fino all’annotazione più recente, aggiungendo a ogni ditata un po’ di fuliggine, un po’ dello sporco della casa, trasferendolo dal camino al bianco dei fogli che ho davanti. Rileggo l’ultima annotazione, poi apro una pagina nuova e, arrestandomi per un attimo, gli occhi alla finestra, la matita fra le dita, per trovare le prime parole della prima frase che ancora una volta susciterà il flusso dei miei ricordi e contemporaneamente la costruzione di un edificio ragionevole di plausibili congetture, incomincio a scrivere.

Incomincio a scrivere. E nel farlo succede una cosa strana, la matita prende a muoversi lungo le sottili righe blu della pagina quasi come se avesse una volontà propria, come se i miei ricordi degli avvenimenti prima della tragedia di Kitchener Street non fossero contenuti nell’elmetto di cuoio bitorzoluto della mia testa, ma nella matita stessa, come se fossero minuscole particelle costrette nella lunga, sottile colonna di grafite, che scorrono sulla pagina mentre le mie dita, come un motore, forniscono loro semplicemente il mezzo meccanico per scaricarsi. Quando ciò accade, io ho la curiosa sensazione non di scrivere, ma di essere scritto, una sensazione che è giunta a provocare in me brividi di terrore, deboli all’inizio ma sempre più forti di giorno in giorno.

Sì, terrore. Oh, io sono una creatura debole, lo so, lo so meglio di voi, e spesso vado in confusione; sono facilmente preda della paura e del panico, e le cose peggiorano: non ve l’ho detto perché speravo che non fosse vero, che me lo stessi immaginando, che «fossi solo io» — ma non è così. L’impressione di essere come una lampadina l’ho continuamente, adesso. L’ho provata durante l’ora interminabile in cui mi costrinsi a sedere nel salotto. Non erano i loro schemi di pensiero che mi irritavano, gli schemi di pensiero vengono dall’alto della casa; erano solo i loro occhi spenti, soltanto i loro occhi spenti, un semplice sguardo di quegli occhi ha la capacità di mandarmi in pezzi, di frantumare la mia fragile identità in mille particelle e di lasciare il sottile frammento di filo appena luminoso all’interno — il residuo, la rovina di ciò che un tempo era un cuore, un’anima, una vita —, di lasciarlo nudo e vulnerabile, puzzolente di gas, in preda al mondo che senza dubbio lo spegnerà in un secondo: ed è per questo che, ora, devo evitare i loro occhi, è per questo che devo andare in giro di notte, condurre la mia insonne indagine sul misterioso passato come una creatura delle ombre, come una cosa dimezzata, un corpo senz’anima, o forse un’anima senza corpo — spettro o fantasma è poco importante, ciò che importa è che io protegga questo filamento luminoso in maniera da potermi finalmente vedere, da potermi guardare fino in fondo a questa storia, ed è per questo che sono così incline al terrore adesso, perché sono sempre consapevole del pericolo di rottura, che a sua volta mi spinge a desiderare il controllo, il che spiega perché la sensazione di essere plagiato, ingabbiato, scritto, mi fa così disperatamente paura. Perché ciò che può scrivermi, senza dubbio può anche distruggermi.


Ma devo andare avanti: che altra scelta ho? È anche possibile (ho fumato, e le cose non appaiono mai così cupe dopo una fumata) che io stia esagerando le mie difficoltà. Dopo tutto ho dei piani, dei modi per gestire la situazione: ne ho fin da quando ero ragazzo. Per esempio, esiste la ben nota fuga nella zona più inaccessibile della mia testa: non è solo il ragazzo Spider che si ritirava nella zona di dietro dopo la morte di sua madre e lasciava Dennis ad affrontare il mondo. No, nel corso degli anni Spider ha imparato che spesso è necessario lasciare che Dennis, o il «signor Cleg», per quel che conta, affronti il mondo; non solo, ma sono diventati indispensabili degli spazi intermedi — col dottor McNaughten, per esempio, che conosce la mia storia. Il davanti della mia testa non soddisfa il dottore, per cui ha il permesso di entrare in contatto con quello che era il retro, ma che adesso è una sorta di camera occupata da un Dennis Cleg con la «mia storia» — ma Spider non è mai lì! Spider è da un’altra parte, anche se il dottore non sospetta nulla. Allo stesso modo, con le anime morte: tutto va bene, basta che Spider sia da un’altra parte — ma lasciate che mi mostri per un solo istante sul giro più esterno della ragnatela in cui vive il mio essere fragile e afflitto, e in quel momento io sono distrutto. È così che funziona per me.

Ma cos’è che non va in me, il fatto che per salvarmi la vita devo seppellirmi all’interno di giri, giri retti da raggi che formano zone — campi! — con dentro solo cose morte, camere fetide, vuote, dove vagano ombre e penne, polvere di carbone e mosche stecchite, dove l’odore di gas è onnipresente, e non c’è altro… questi buchi, intendo, questi buchi puzzolenti che ho costruito intorno a Spider per salvarlo dalla gogna e dalle tempeste del mondo? Che vita è una vita che può solo condursi, morta, nel mozzo di questa struttura cadente di celle vuote, simile a una ruota?


* * *

Quando mi portarono via da Kitchener Street passò qualche tempo prima che decidessero cosa fare di me. Ricordo pochissimo di quel periodo: una confusione di uomini e stanze, e ovunque l’atmosfera piena di schemi di pensiero, e sempre un senso di terribile tensione, simile a quella che mio padre riusciva a generare in cucina all’ora di cena. Allora capii che la catastrofe era imminente, e mi sentii più intensamente fuori posto. La luce non era mai chiara, mi sembrava sempre di essere nell’ombra, e che lo fossero anche gli altri, gli uomini che si spostavano con me di camera in camera, tutti nell’ombra scura, come se un crepuscolo permanente si fosse installato in quelle stanze e rendesse tutte le forme e le facce indistinte — e anche le loro voci diventavano basse, profonde, rimbombavano e riecheggiavano fuori dall’ombra che le fasciava, e l’aria, l’oscurità in cui mi muovevo, era densa di schemi di pensiero non miei. Vivevo e agivo nel terrore, allora, rifugiandomi disperatamente nelle zone di dietro finché strisciavo, esausto, in quel buco in cui almeno per qualche breve momento potevo essere al sicuro.

Più tardi, il mondo tornò a mettersi a fuoco. Le ombre arretrarono, e io non ebbi più quell’eco rimbombante di voci nelle orecchie, riuscii a distinguere un uomo dall’altro e, anche se sapevo che intendevano farmi del male avevo nello stesso tempo la sensazione che ciò potesse ancora non accadere, o che quando ciò si fosse verificato, sarebbe avvenuto con tale rapidità e da un punto talmente imprevisto che non aveva senso mantenere più di un ragionevole livello di vigilanza durante la mia routine. La routine! Quelli furono i giorni della routine. Dalla mattina alla sera, tutto era routine, ogni giorno uguale al precedente e a quello successivo: e in questo trovavo un certo conforto, almeno durante i periodi tranquilli, quando sentivo di poter affrontare gli schemi di pensiero, quando non continuavano a levarsi contro di me, riempiendo l’aria con il loro ronzio di scariche e i loro schiocchi, come una tempesta di germi in costante eccitazione intorno alle mie orecchie e dietro la mia testa, finché non era possibile sfuggirli, neppure nei tranquilli recessi in cui solo Spider poteva intrufolarsi — quando ciò avveniva, allora nessuna routine al mondo poteva impedire che fossi tormentato dal terrore per il disastro che stava per abbattersi su di me. Loro però sembravano sapere sempre quando questo era sul punto di accadere e mi portavano in una camera sicura, mi tenevano lontano dal male finché non ero di nuovo tranquillo. Ma quello che rendeva tutto così fastidioso, a ripensarci adesso — e non ve l’ho detto prima perché me ne sono ricordato soltanto ora —, è che a quei tempi c’era sempre, sempre, sempre il pervasivo e opprimente e sporco odore di gas.

Passò del tempo. Vent’anni è durato il mio Canada. Oh, basta! Il mio Canada — il mio Ganderhill! Con le tue mura di mattoni rossi scoloriti, i tuoi cancelli e le tue porte sbarrate, i tuoi cortili e corridoi, i tuoi giardini in cui uomini con le pantofole della misura sbagliata e scarpe scricchiolanti sedevano contorcendosi e sussultando sulle panchine di legno, mentre i loro folli occhi irrequieti guardavano oltre le terrazze un campo da cricket più in basso, e al di là il muro di cinta, al di là la campagna distesa e le colline boscose del Sussex in lontananza… Durante gli ultimi anni a Ganderhill, lavorai nell’orto; indossavo robusti stivali neri e informi pantaloni di velluto gialli. Ricordo il profumo dell’erba appena tagliata in estate, un profumo che mi torna in mente adesso con una forza tale che smetto di scrivere, quasi convinto che sia nella stanza — il profumo dell’erba appena tagliata, qui in questa soffitta gelida, a mezzanotte! Qui, in questa cupa stagione di nebbia e pioggia, in cima a questo obitorio di casa — erba appena tagliata! Fuori, nelle strade umide e buie, le foglie morte ostruiscono le grondaie e i tombini e si ammucchiano lungo le alte recinzioni metalliche con le punte aguzze — e Spider sente un profumo di erba appena tagliata! Oh, mi vedo seduto a questo tavolo traballante con tutte le mie magliette e i miei golf, la matita appoggiata sulla pagina macchiata del diario e la lunga testa cavallina sollevata, appesantita dalle ombre nelle cavità delle guance e degli occhi, una lampadina bitorzoluta di testa che si alza, annusando, una «magra» spenta attaccata alle labbra, nel buio, mentre i ricordi del cricket del manicomio tornano alla mente, portando con sé il profumo dell’erba appena tagliata! Sciocco, Spider! Ma è meglio sentire erba che gas.

Che dirvi di quegli anni? Il signor Thomas è stato il primo ad apparirmi in modo distinto quando il mondo incominciò a rimettersi a fuoco; non minacciò mai di distruggermi con i suoi occhi, come facevano gli altri. Quei suoi dolci occhi marrone: la pelle intorno era segnata da minuscole rughe; mi rassicuravano, non so perché. C’era anche la pipa, l’eterna pipa, e non so per quale motivo anch’essa mi rassicurava, ma era così: il continuo succhiare punteggiato — a distanza di qualche minuto, quando se la toglieva dalle labbra — dall’esalazione del fumo; forse l’odore del tabacco, la fragranza. Dopo cena restavo in reparto, leggevo, giocavo a carte, facevo un puzzle. Era una vita tranquilla.

Il primo reparto in cui soggiornai a Ganderhill era quello che chiamavano «un reparto duro». Non era difficile capirne la ragione: non c’era una sola sedia morbida in quel posto (a parte, naturalmente, nella sala del personale, vicino alle scale). Gli uomini dormivano molto in quei reparti, e io non facevo eccezione. Dopo colazione, mi distendevo su una panchina, il legno tutto rovinato da bruciature di sigaretta, e usando la scarpa come cuscino mi appisolavo e tentavo di restare in uno stato comatoso il più a lungo possibile. Chi se ne interessava? Nessuno. Nei «reparti duri» li uomini erano muti, incontinenti, allucinati. Se non riuscivo a occupare una panchina, mi mettevo semplicemente per terra, sotto una coperta. Nessuno se ne interessava. Eravamo tutti immobili e chiusi in noi stessi, laggiù, e in questo c’era un certo piacere. Quello che non mi piaceva erano i bagni senza porte: non riuscii mai a farci l’abitudine; era un’umiliazione dolorosissima per me sedere sul gabinetto in un bagno senza porta, esposto agli sguardi casuali di chi passava: mi viene in mente adesso che gran parte dei problemi che in seguito ho avuto con l’intestino (che fu spinto verso la schiena e si arrotolò alla spina dorsale dal sedere al cranio, come un serpente) potrebbero essere nati dai disturbi alla funzione escretoria sofferti nel «reparto duro».

Nel «reparto duro» imparai ad arrotolare sigarette «magre» e «grasse»: prendevamo il tabacco sul serio lì. E una cosa strana, non importa quanto un uomo sia sprofondato nella malinconia, nella follia — alla deriva, si potrebbe dire, tagliati tutti i ponti con la società —, in qualsiasi caso egli non mancherà mai di prestarvi il suo mozzicone per accendere la sigaretta: non esiste una pazzia talmente grave da escludere dalla comunità del tabacco. Ecco un’altra cosa strana: un uomo ottiene una vera sigaretta da un infermiere, una Woodbine, una Senior Service. Si siede su una panchina a fumare. Lì vicino c’è un altro uomo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il volto inespressivo, che aspetta passivamente. Al momento giusto, gli viene dato il mozzicone. Lo fuma fino a bruciarsi le dita, poi lo lascia cadere sul pavimento. Un terzo uomo lo raccoglie immediatamente e, senza preoccuparsi se si scotta le dita, fuma quello che resta.

In un «reparto duro» non ci si aspettava niente da te, se non un fallimento. Eri lì perché avevi già fallito: fallire era ciò che avevi fatto, dovevi fallire di nuovo. In questo, Spider trovava conforto, una certa vigilanza poteva essere allentata. Ciò che lo confortava era l’indifferenza: nessuno si curava di niente, se non veniva danneggiato. La routine era basilare e solida, pochi rozzi paletti per dare forma alla giornata: fare la coda per i pasti davanti al reparto, restarci per venti minuti, poi scendere di nuovo le strette scale, cancelli che sbattevano, chiavi sulle sbarre, le grida degli infermieri lontani, una fila di pazienti grigi con magliette e pantaloni della misura sbagliata e scarpe ciabattanti — niente cinture o stringhe in un «reparto duro» —, allinearsi nel vasto ambiente risonante della sala da pranzo e passare lungo tavoli su cavalietti, dietro ai quali gli inservienti della cucina con i grembiuli bianchi e unti vi sbattevano sul piatto delle porzioni di verdure frullate e carne di cavallo, o di cane, o di pesce vecchio. Per dolce, torta ammuffita e crema con i grumi. Nel tardo pomeriggio, il ritmo della giornata si allentava, e nelle ore prima di cena eravamo rinchiusi oppure raggruppati nel salone sotto la sorveglianza di un solo infermiere. Era qualcosa che odiavo, essere insieme agli altri in quel modo, e invano chiedevo il permesso di unirmi ai due o tre privilegiati che vagavano nel reparto per conto proprio.

Talvolta qualcuno si arrabbiava — ricordo John Giles, un uomo grosso, furibondo per la sospensione dei suoi privilegi, che imprecava facendo avanti e indietro nella sua stanza; mentre passavo diretto al salone, rammento di aver pensato: John sta per esplodere. Forse ne parlai con qualcuno, non ricordo — poi all’improvviso il rumore di una finestra fracassata, ed era John Giles naturalmente. Ci riversammo fuori dal salone, ma non prima che gli infermieri accorressero all’altra estremità del reparto — che rumore facevano i loro stivali sulle piastrelle! —, dove John, sputando e bestemmiando, stava tremante sulla sua soglia, stringendo un brutto pezzo di vetro scheggiato. Non gli saltarono addosso, non con quel pezzo di vetro in mano. «Mettilo giù, John,» disse uno di loro, «dai, John, fai un piacere a tutti.» Ma John era decisamente fuori, sputava e sogghignava, e diceva loro cosa gli avrebbe fatto se si fossero avvicinati ancora. Allora due infermieri entrarono in una stanza. Un attimo dopo ne uscirono di corsa, reggendo un materasso come scudo. Finirono sopra al povero John, e l’unica cosa che riuscii a vedere furono le sue braccia e le sue gambe che si agitavano ai lati del materasso mentre lottava inchiodato alla porta, le grida soffocate dal materasso. Al momento giusto, lasciò andare il vetro, e poco dopo lo tirarono su stretto nella camicia di forza e lo portarono in una camera di sicurezza in fondo al reparto, dove lui urlò fino a diventare afono e poi cadde addormentato. Ma vi ho raccontato la storia solo per il seguito. Giù in cortile, una settimana dopo, frugando in un’aiuola di fiori, trovai un pezzo di vetro a forma di pugnale e, alzando gli occhi, capii che proveniva dalla finestra che John Giles aveva fracassato. Lo portai in reparto e lo mostrai al signor Thomas. Lui mi fece entrare in una stanza laterale, dove su un tavolo aveva ricostruito l’intera finestra, ogni frammento al suo posto come in un puzzle — ogni frammento, cioè, tranne uno. Prese il mio pugnale di vetro e lo infilò nell’ultimo sottile buco, completando la finestra distrutta e, con un grugnito di soddisfazione, si voltò verso di me e disse: «Ero preoccupato per quel pezzo, Dennis, ci ho perso il sonno; immaginavo che qualcuno ci avrebbe rimesso un occhio.» Quindi mi mise una mano sulla spalla, e io tornai nel reparto — cosa strana, questa — quasi soffocato dalla pura gioia di quel gesto.

Una vita tranquilla, quindi, perché mi calmai. E fu solo dopo essermi calmato che riuscii a pensare di nuovo a Kitchener Street. Spesso, mentre sedevo su una panchina in terrazza e guardavo gli uomini lavorare negli orti, zappando o seminando, pensavo a mio padre nel suo orto alla domenica, che forse faceva quegli stessi lavori, perché tutti i campi di patate si assomigliano. Ma dopo aver pensato ciò, mi ricordavo immediatamente che il campo di patate di mio padre in realtà era diverso da tutti gli altri, per la semplice ragione che mia madre era stata seppellita lì. E con questo pensiero, se non prestavo attenzione, dentro di me si scatenava rabbiosa e ribollente una tale inondazione che a volte era il vostro vecchio Spider a finire stretto nella camicia di forza e trascinato in una camera di sicurezza (torcendo la testa per evitare l’odore di gas)! Ma col tempo imparai che c’erano modi per riandare con la mente a Kitchener Street e alla tragedia senza perdere il controllo (dipende tutto dagli scompartimenti) e riuscii a pensare questi pensieri anche quando, anni più tardi, ottenni di lavorare negli orti. Un filone di memorie particolarmente ricco mi si rivelò, ricordo, mentre stavo smuovendo il compost dell’istituto, in un tempestoso giorno di novembre.

Mi fermo; è molto tardi, ormai. Mi prendo un momento per riaccendere la sigaretta. La casa è perfettamente silenziosa intorno a me; fuori, la pioggia è cessata, e anche le strade sono immerse nel silenzio. È una cosa strana stare qui seduto col quaderno aperto davanti, la matita in mano, ricordando un periodo di ricordi. È sempre così, mi chiedo? Il fumo sale in pigre volute verso la lampadina che crepita leggermente in alto; mi appoggio allo schienale, le dita intrecciate dietro alla testa, le gambe distese incrociate alle caviglie, e lo guardo disperdersi nella luce. Un ricordo è sempre e soltanto l’eco della sua ultima occasione? Che a sua volta è solo un’eco di quella precedente? Un tremito di disagio nella pancia; a questo pensiero, un piccolo brivido di allarme: come nelle appuntite strutture a incroci dei gasometri, c’è qui l’orrore della molteplicità, l’orrore della riproduzione; eppure ciò che ricordai in quel tempestoso giorno nell’orto (mi appoggiavo al manico di un forcone da giardino, l’odore del compost forte nelle narici), ciò che ricordai sembra adesso così fresco, così nuovo, così acuto e chiaro che non posso dubitare, non posso dubitare, per la semplice ragione che l’ho visto: ero là, mi aggiravo nei pressi degli orti nei giorni dopo Natale, nel caso mia madre tornasse. E mio padre, vedete, stava lavorando il suo compost.

Un mucchio di compost ben fatto (parlando da giardiniere) è una struttura a strati che si riscalda e si decompone rapidamente. Rifiuti di cucina, foglie morte, residui di piante — tutto ciò crea un buon compost, tutto contribuisce al buon concime scuro e friabile che arricchisce anche il terreno più povero. Aggiungete uno strato di letame o di sangue rappreso, poi della terra, e ricopritelo con cenere di legna. Così mio padre preparava il suo compost in autunno, strato dopo strato, fino a un’altezza di un metro e mezzo, il tutto all’interno di un recinto fatto di pali di legno e rete metallica. Aveva bagnato ogni strato mentre lo stendeva e con le mani aveva fatto una piccola depressione alla sommità, per formare un incavo in cui l’acqua piovana potesse fermarsi.

Quel giorno stava voltando il mucchio, facendogli prendere aria in maniera da assicurare una decomposizione uniforme e da impedire un surriscaldamento; ma aveva appena preso la prima palata quando, con sua grande sorpresa vide che il mucchio si muoveva, che l’interno esposto all’aria era vivo. Tirò fuori gli occhiali (io lo guardavo da dietro il casotto nell’orto vicino, quello di Jack Bagshaw; era una giornata triste, umida e fredda) e scoprì che il suo compost era infestato di vermi.

Non aveva mai visto vermi del genere prima. Strisciavano su tutto il compost, sullo sterco di cavallo, le bucce di patate, l’erba tagliata e le ossa sbriciolate, strisciavano e si dimenavano, queste piccole cose nere e grasse — e quale insetto, dev’essersi chiesto mio padre, mentre restava lì a grattarsi la testa (io stavo ancora spiandolo da dietro il casotto di Jack Bagshaw), quale insetto depone uova che si schiudono in una stagione così tarda, anche se poi comprese che il calore generato dalla decomposizione del compost era sufficiente per l’incubazione delle creature: scarafaggi, pensò, scarafaggi. Ma quale scarafaggio inglese produce larve del genere? Lo vidi prenderne una ed esaminarla sulla punta di un dito: una larva viscida, grassa, molle, gobba, e mentre questa si torceva, lui deve aver sentito la sua bava inumidire il terriccio che gli sporcava il dito, per cui se lo pulì sul didietro dei pantaloni, e poi col forcone rivoltò un altro strato di compost. Di nuovo lo sparpagliarsi di innumerevoli larve nere, e mio padre capì che tutto il mucchio era infestato. Lo vidi appoggiarsi al forcone e guardare, aggrottando la fronte, il suo compost rovinato; ma mentre cominciava a pensare a come liberare il suo orto dai parassiti, il freddo dell’aria invernale fu percepito dai vermi e, man mano che svaniva il loro calore, anche la loro attività rallentava — e iniziarono a morire. Fu in quel momento che vidi mio padre irrigidirsi all’improvviso e arretrare e stringersi il forcone al petto come per difendersi — e i suoi occhi si guardavano intorno come terrorizzati, intensamente terrorizzati, e io sapevo, sapevo che aveva sentito qualcosa sfiorarlo.

Non mi mossi, non respirai. Lo vidi rabbrividire, quindi gettare a terra il forcone e andare verso il casotto — ma poi il casotto incominciò a tremare (si stava facendo buio), a tremare come doveva aver tremato la notte in cui si era accoppiato con Hilda sulla poltrona, la notte in cui mia madre li aveva scoperti là. Poi incominciò a piovere e vidi mio padre che arretrava dal casotto, la faccia sconvolta dal terrore, arretrava sul sentiero mentre il casotto si alzava e vibrava sulle fondamenta con una violenza dieci volte superiore a quella della sera in cui Hilda si era distesa sulla poltrona con la gonna sollevata fino alla vita e lui le si era inginocchiato davanti coi pantaloni aperti e il suo pene a matita che sporgeva tra i bottoni. Era una finzione, questa, una cupa imitazione dello spettacolo a cui mia madre doveva aver assistito la notte in cui fu assassinata. E ancor prima che raggiungesse il cancello, mio padre poté sentire il terribile ansimare e gemere di piacere di Hilda, e a questo punto l’aria era densa di quella terribile energia nera e lui fuggì: lo vidi andarsene, lo vidi spingere la bicicletta sul sentiero e balzarvi sopra come se i diavoli dell’inferno lo inseguissero, e solo allora io uscii tra gli orti e incominciai a gridare e a saltare, riducendo il terreno a fango, mentre il buio scendeva rapidamente.

Ero là la domenica successiva, quando mio padre distrusse il mucchio del compost. Arrivai attraverso le Tegole, la salita dietro gli orti, e seguii i casotti fino a quello di Jack Bagshaw. Mio padre non era rimasto in ozio; durante la settimana era venuto dopo il lavoro per cospargere il terreno di pacciame, in maniera da impedire ai vermi di raggiungere le sue patate in primavera, e aveva eliminato i rifiuti e le foglie morte che potevano ospitare le larve. Ma aveva aspettato la domenica per bruciare il compost, per distruggere i vermi che c’erano dentro, e quindi lo vidi scavare una buca (naturalmente sull’altro lato dell’orto rispetto alla tomba di mia madre) e disporvi la base per un falò, pezzi di giornale, legnetti e qualche vecchia asse che aveva tenuto tutto l’inverno sotto una cerata dietro il casotto. Ben presto ci fu un bel fuoco, lo sentivo da dove ero nascosto; poi lui incominciò a buttarci sopra i rifiuti del giardino, perlopiù umidi, e il falò prese a fare moltissimo fumo. Quando aggiunse le prime palate di compost, il fumo diventò così denso che vedevo soltanto un’ombra che si muoveva avanti e indietro e prendeva il compost col forcone e lo gettava nel fuoco, e mi ricordai di un’immagine dell’inferno che avevo visto una volta, una specie di caverna con pareti scure su cui si condensava un pesante fumo nero proveniente dal basso, e nel fumo un diavolo impugnava un forcone non dissimile da quello di mio padre e la sua lunga coda puntuta oscillava nell’oscurità. Per quanto umido, il compost in qualche modo bruciava, o almeno si scioglieva, e il suo odore di letame e di vegetali marci era così cattivo che dovetti allontanarmi, via dietro ai casotti, giù verso le Tegole, e da lì mi diressi al fiume. Perfino da sotto, dal Crispin, potevo vedere il fumo che si alzava nel grigio cielo invernale, una lunga colonna sottile che piegava verso ovest quanto più saliva e alla fine si disperdeva nel nulla in direzione del sole al tramonto.

Quando fu quasi buio, tornai di nuovo agli orti. Non vidi alcun segno di mio padre, per cui scavalcai la recinzione e mi avvicinai ai resti del falò. La buca era ancora piena di compost, al centro del quale brillava un nucleo tondo, che si disfaceva nell’oscurità e scoppiettava improvvisamente quando il calore raggiungeva un ramoscello disperso o un filo di paglia e lo dissolveva. Verso il casotto, tutto ciò che rimaneva era una zona di terreno chiara e umida all’interno di una rete metallica. Io mi sbottonai i pantaloni e pisciai sulle braci del compost, e quando la piscia sibilò per il calore una colonna di vapore si levò nel buio, con puzza di letame.


Ricordai tutto questo stando appoggiato al forcone da giardiniere, i pantaloni di velluto che sbattevano, e guardando verso il muro di Ganderhill, al di là dei campi e delle alture alberate, verso le grosse nuvole bianche che correvano in un cielo blu tempestoso durante un fresco pomeriggio d’autunno dei primi anni Cinquanta.


* * *

Cos’altro dirvi? Quasi tutto quello che so a proposito degli avvenimenti di Kitchener Street l’ho scoperto in quel periodo. Perché quando mi calmai e riuscii di nuovo a pensare a quel tempo — cioè al terribile autunno-inverno dei miei tredici anni, quando mio padre incontrò per la prima volta Hilda Wilkinson —, ciò che trovai fu un miscuglio di sensazioni parziali: scene viste dalla finestra della mia camera, frammenti di discorsi sentiti dall’alto delle scale, pasti in quella brutta cucina e fugaci immagini di mio padre al lavoro nell’orto. Ma per quanto riguarda l’ordine e il significato di quei brandelli, li ricavai da ciò che misi insieme, nei tranquilli anni che seguirono, frammento dopo frammento, come una finestra rotta, finché il quadro non fu completo. E stranamente, man mano che la mia infanzia acquistava forma, l’acquistavo anch’io, Spider: diventavo più coerente, più deciso, più forte — incominciavo ad avere sostanza. Difficile crederlo, eh? Difficile crederlo, data la triste creatura che sono oggi, stasera, mentre sto qui a scrivere (in preda al terrore) nella torretta di questa bagnarola di casa, quasi oppresso dall’insorgere e dal fluire della vita che mi si schianta di fianco — oggi sono un fragile vascello, ma allora, pare, basandomi sulle certezze della routine e ricostruendo pezzo dopo pezzo gli eventi di quel tempo (l’apparizione di Hilda e il conseguente omicidio di mia madre, la distruzione della mia casa e la tragedia che ne seguì), allora io sembrai per un po’, prima della mia dimissione, un uomo.

Immaginatemi allora, da giovane: Spider a venticinque anni, alto e magro come adesso, ma con qualcosa — riuscite a vederlo? Per quanto pazzo, è però presente una vitalità, un fuoco, nella lucentezza della mia pelle, nell’energia instancabile con cui lavoro nell’orto da mattina a sera, è presente nei miei occhi — non come il triste velo che offusca lo sguardo di Spider in questi giorni. Un bell’uomo, perfino! Immaginatemi nell’orto in maniche di camicia e pantaloni di velluto gialli, una figura nervosa e muscolosa che rivolta la terra su quella collina del Sussex, in quell’aria frizzante, stagliata contro il cielo — riuscite a vedermi? Le foglie volteggiano intorno a me, foglie rosse, dorate, che cadono dall’olmo vicino al muro, e io faccio una pausa, conficco la vanga nel terreno e mi volto, di nuovo, verso il panorama che sono arrivato ad amare così tanto, le linee delle terrazze, il campo da cricket, il muro di cinta con i vecchi mattoni che risplendono di una dolce luce rossastra nell’aria fresca e pulita, e al di là del muro la fattoria e le colline, gli alberi come vivide pennellate di colore in questo pomeriggio autunnale. Oh, fuori una Rizla, e la cartina mi trema selvaggiamente fra le dita mentre compare la scatola di Old Holbron e il vento incolla il rozzo tessuto della camicia grigia del manicomio alle ossa del mio tronco magro, e i pesanti pantaloni di velluto giallo mi sbattono sugli stinchi! Stasera mi vedete in uno stato di decadenza, una fragile lampadina che ospita un filamento incerto e tremolante, ma in quei giorni avevo un corpo, e uno spirito vigoroso vi ardeva dentro!

Ma basta, basta con questa patetica nostalgia, con questo romanticume. Cosa voglio dire: che ero un eroe? In piedi su una collina ventosa, con una vanga in mano? Un eroe? Questo pazzo? Vivevo in mezzo a pazzi criminali e conoscevo la routine, la comunità e l’ordine. Qualsiasi forza morale o struttura avessi, proveniva da fuori, non da dentro, e se avete bisogno di una prova di ciò considerate quello che è successo dopo la mia dimissione — osservatemi adesso, mentre scribacchio terrorizzato e solo in questa stanza, impegnato in qualche patetico tentativo di zittire le voci del solaio. E neppure la struttura dell’istituto era sufficiente, a volte! Talvolta Spider crollava, tutta l’impalcatura andava in pezzi e lui cadeva, povero scemo, rovinava a terra di schianto e si svegliava nella camera di sicurezza con l’involucro a pezzi.

Ma la cosa importante è che, a poco a poco, misi insieme un resoconto di ciò che era avvenuto e, man mano che la storia si consolidava, io mi rafforzavo con essa. Al contrario, quando la storia collassava, anch’io crollavo, ma la ricostruii, la ricostruii, e ogni volta l’edificio diventava più forte, meglio sostenuto; le travi e i piloni lo tennero insieme finché non fu solido e completo. E lo fui anch’io. E allora mi dimisero.

C’è dell’ironia qui, come capirete. Molte cose stavano cambiando; esistevano pastiglie per le persone come me, e inoltre stavano avvenendo dei cambiamenti anche a Ganderhill — soprattutto la partenza del direttore sanitario, il dottor Austin Marshall.


Il dottor Austin Marshall era un gentiluomo, un signore alto e gentile, che indossava abiti di sartoria e camminava con una leggera zoppia a causa di un incidente motociclistico avvenuto durante gli anni dell’università, che l’aveva lasciato con un chiodo di acciaio nell’anca. Un gentiluomo: erano rari i giorni in cui non vedevo il dottor Marshall zoppicare sulla terrazza e dire una parola gentile a tutti i pazienti che incontrava; si ricordava dei nostri nomi, perfino. «Ah, Dennis,» mi diceva, fermandosi e appoggiandosi al suo bastone, «come stiamo oggi?» Voltava la testa verso sud e contemplava quel magnifico panorama, come un proprietario terriero che osservasse la sua tenuta. «Bella giornata per andare a cavallo,» diceva. «Che ne diresti, Dennis? Ti piacerebbe una galoppata? Ma certo che ti piacerebbe!» Mi metteva una mano sul braccio e, ridacchiando gentilmente, si allontanava zoppicante; poi, incontrando un altro paziente, si fermava di nuovo, di nuovo girava la testa verso sud e, rivolgendoglisi per nome, di nuovo faceva la sua amichevole osservazione sulla cavalcata. I suoi argomenti di conversazione erano pochi, ma il calore delle sue parole era genuino; era un buon direttore sanitario e tutti gli volevamo bene, con l’eccezione di John Giles, che tentava di ammazzarlo ogni volta che poteva.

Mi alzo in piedi e guardo fuori dalla finestra. Compaiono i primi pallidi segni dell’alba, un debole grigiore che si diffonde laggiù, da qualche parte sul Mare del Nord. Tutto è tranquillo in solaio, adesso, e il mio terrore si è un po’ attenuato. Il mio rapporto con questo quaderno sta cambiando: quando ho incominciato a scrivere, intendevo registrare le conclusioni a cui ero arrivato sui fatti dell’autunno e dell’inverno dei miei tredici anni; pensavo che, nel corso del lavoro, mi sarei sostenuto e rafforzato, avrei consolidato la mia identità scossa, perché da quando mi hanno dimesso non sono più forte. Poi tutto è cambiato; adesso scrivo per controllare il terrore che mi prende quando ogni notte iniziano le voci dal solaio. Sono peggiorate, sapete, molto peggiorate, ed è solo grazie al flusso delle mie parole che riesco a bloccare il clamore delle loro. Non oso pensare alle conseguenze se dovessi smettere di scrivere, e ascoltarle.


* * *

Così incominciò un altro giorno. Non sapevo più cos’era meglio, se i giorni o le notti. Un tempo, il silenzio e la solitudine della notte erano stati il mio rifugio, il mio luogo sicuro, lontano dagli occhi e dalle voci e dagli schemi di pensiero che sembravano più attivi quando gli altri ospiti della casa erano svegli. Adesso temevo la notte, perché quelle maledette creature in solaio non mi davano tregua. Ero fuori sul pianerottolo, pochi minuti fa, e scuotevo la maniglia della porta che dà sulle scale del solaio — invano, naturalmente, è sempre chiusa a chiave. Sono le sue creature, non devo dimenticarlo, per questo la porta è sempre chiusa a chiave; ma riuscirò a trovare un modo per impadronirmi delle chiavi…

Fumo fino all’ora di colazione, guardando il cielo. Banchi di nuvole grigie e gonfie — sarà una giornata umida, oggi pioverà. Ho indosso tutte le mie magliette e, sopra, un maglione col colletto e poi la giacca del mio vecchio vestito grigio. Pantaloni, calze grigie pesanti (due paia), e un comodo paio di scarpe di cuoio nero con la suola spessa con dieci buchi ravvicinati per le stringhe (occhielli) e una specie di striscia di cuoio a forma di fiamma fissata sulla punta e costellata di forellini decorativi. Scarpe da manicomio, queste, fatte dal ciabattino di Ganderhill. Ho anche delle strisce di carta da pacco marrone e di cartone sottile attaccate alle gambe e al torso, che scricchiolano quando mi muovo.

La colazione è stata priva di avvenimenti di rilievo — occhi spenti, da pesce, su tazze di porridge, le solite scoregge stridule. Poi subito fuori nella pioggia, verso il canale: e le strade, per fortuna, erano vuote, tranne che per una strana fìgura frettolosa con l’ombrello e una ragazza cieca che batteva col suo bastone. Notavo dettagli del mondo che mi erano nuovi: la lamiera ondulata che recintava una discarica aveva punte taglienti, simili a una fila di lance; un muro di mattoni aveva dei cocci di bottiglia immersi nel cemento sulla cima e, sotto, dipinte a grandi caratteri neri le parole DIVIETO DI SCARICO. C’erano erbacce che spuntavano dal cemento, dure come cardi, secche eppure fragili. Poi sotto il viadotto, le arcate annerite dalla pioggia — ed ero ormai bagnato, sentivo su di me l’odore del bagnato. Tirava vento, c’erano cacche di cane per terra. Da un muro pendeva un pezzo di stoffa a righe e il vento, afferrandolo, lo sbatteva verso di me, come una sorta di messaggio. Mi arrestai alla strada principale e feci passare il traffico, lo feci passare finché non riuscii ad attraversare. Sembravo diretto al fiume; credevo di andare al canale.


Il vento era più forte vicino al fiume; dovetti abbottonarmi la giacca e alzare il bavero. Trovai una panchina: due basi di cemento, ciascuna con un braccio sporgente, a cui erano imbullonate orizzontalmente tre assi verdi con striature grigie; altre tre erano fissate in verticale per la schiena. Ero bagnato, non mi interessava, ma ero bagnato. Davanti a me una ringhiera nera arrugginita, poi il fiume, grigio-verde, che scorreva veloce e agitato nel vento. Una struttura di pali di legno a qualche metro di distanza. In lontananza, una distesa di case dietro a una foresta di gru che puntavano come ubriache in tutte le direzioni, come se stessero per cadere. Cielo grigio, le grandi nuvole panciute che si spingevano pesantemente verso est sospinte dal vento. La pioggerellina crea una foschia che mi confonde, mi bagna, fa assumere al maglione di lana nero un odore strano. Tiro fuori il tabacco e, con la prima buona boccata, giunge il pensiero: oggi devo tentare nuovamente di entrare in camera sua.


* * *

Tornai dal fiume molto bagnato, nel tardo pomeriggio, e andai subito di sopra. Avevo avuto l’idea di attraversare il canale, di andare a Kitchener Street, di vedere finalmente com’era, vent’anni dopo, ma ancora una volta qualcosa dentro di me — un’ansia profonda, una riluttanza, o una paura — non mi aveva permesso di mettere piede sul ponte, e avevo seguito il solito percorso lungo il canale ed ero tornato a casa. Adesso stavo alla finestra e rumavo una «grassa» mentre la luce si faceva più densa e i corvi battevano le ali sui rami nudi degli alberi del parco; ero lì quando sentii sbattere la porta d’ingresso e, un momento dopo, la vidi camminare lungo la strada con una sporta per la spesa al braccio. Schiacciai la sigaretta nella lattina che uso come portacenere e mi diressi velocemente verso la sua camera. L’avevo già fatto varie volte, quando ero sicuro che era fuori di casa. Stavolta la porta era aperta, per cui entrai senza esitazione.

Niente di strano, a prima vista. Sapete com’è disordinata, sapete che lascia la biancheria dappertutto, che stipa la toilette di cosmetici ecc, che non si rifà mai il letto; chiaramente gli anni hanno contribuito a sanare queste abitudini da sgualdrina, perché adesso la stanza si presentava pulita e ordinata, col letto rifatto e neanche un capo di biancheria in giro. Esaminai rapidamente il comò e non trovai niente di interessante; non c’era niente neanche all’interno o sul comodino. C’erano, notai, tre foto incorniciate sulle pareti, due viste del Lake District e, sopra il letto, una Madonna col Bambino. A quel punto, uscii sul pianerottolo per assicurarmi che non fosse rientrata: nessun rumore, solo il suono attutito di musica da ballo proveniente dalla radio in salotto. Tornai dentro e andai al grosso armadio scuro che stava contro la parete di fronte alla porta. Mentre mi avvicinavo deciso, mi vidi riflesso nel suo lungo specchio, ancora col maglione nero bagnato e il vecchio vestito grigio: che strana creatura furtiva sembravo, mentre mi muovevo in punta di piedi con le mie lunghe gambe in quella stanza semibuia, che ragno!

Mi arrestai davanti all’armadio, una mano sull’anta, e voltai la testa ancora una volta per ascoltare la casa, cinque, dieci, quindici secondi: nient’altro che la debole, lontana musica della radio. Aprii l’armadio — ed era lì, la prima cosa che vidi, anche se era spinta all’estremità della sbarra e quasi nascosta: la sua vecchia pelliccia sciupata.

Poi sentii sbattere la porta d’ingresso (per fortuna è una porta che è difficile chiudere silenziosamente) e allora scivolai via alla svelta, lasciando la stanza esattamente come l’avevo trovata; tornai in camera mia e, tremando letteralmente per l’emozione, mi misi alla finestra e cercai di rimanere calmo.

Restai lì parecchi minuti, il braccio sinistro premuto sul petto, con le dita aggrappate alla spalla ossuta e una «grassa» — ne avevo bisogno — fra le dita ancora tremanti dell’altra mano. A poco a poco, il tremore si fece meno violento e, mentre ciò avveniva, l’odore del maglione di lana bagnato mi salì di nuovo alle narici, e finalmente scossi la testa, mi liberai dell’ultima traccia di emozione e mi tolsi la giacca. La appesi dietro alla porta, poi mi levai il maglione puzzolente. Ma l’odore persisteva, e fu solo allora che lo riconobbi come gas.


Fu una lunga notte. Ancora non so come la superai, perché fu probabilmente la peggiore della mia vita. Malgrado altri fogli di carta da pacco fìssati sul petto, malgrado gli strati di vestiti e magliette e maglioni, l’odore di gas mi perseguitò fino alla mattina. Naturalmente avevo il diario, e fu solo questo, credo, a impedirmi di fare del male a me stesso, o a qualcun altro. Una nuova strategia delle creature del solaio: tenni la luce accesa tutta notte, naturalmente, e la lampadina crepitava verso di me come al solito, ma non vi prestai attenzione — finché il crepitio divenne improvvisamente più forte, come quella sera in Kitchener Street di cui ho parlato; stavolta, però, erano le voci che avevano preso il sopravvento e producevano una specie di canto che usciva dal bulbo e diceva: «uccidila uccidila uccidila uccidila UCCIDILA uccidila uccidila uccidila.» Allora mi irrigidii sulla sedia dove scrivevo e concentrai l’attenzione sulla lampadina; ma quando lo feci, il rumore diminuì immediatamente fino a essere un ronzio statico, e lo persi. Tornai dunque al lavoro, ma appena fui riassorbito dalla scrittura il crepitio si risolse ancora in quel terribile canto, e di nuovo mi arrestai, alzai la testa, e il canto si trasformò in una risata che svanì lentamente: e tutto ciò che rimase fu la lampadina difettosa di una casa con un impianto vecchio e un uomo disperato, tormentato da messaggi provenienti chissà da dove, dal solaio sopra di lui, dalla lampadina sulla sua testa o da qualche buco profondo nel segreto della sua mente malata. Oh, fu una brutta notte: che io possa non vederne mai, mai più una simile.

Verso l’alba il tormento diventò meno intenso, e io mi fermai, arrotolai una sigaretta, guardai le pagine del mio quaderno. Erano scribacchiate in fretta, sbavate, coperte di parole che non mi interessava leggere, adesso che quella notte era quasi finita. Qualcosa stava accadendo alla mia calligrafìa, si notavano un’evidente inclinazione e una fluidità; era davvero una scrittura e non solo gli appunti contorti di un uomo che aveva letto molto ma scritto poco. Era una scrittura fluente, da scrittore, e in altre circostanze, riflettei, avrei potuto contemplare queste parole con soddisfazione — con orgoglio, anche. Ma le circostanze della composizione non mi permettevano un simile compiacimento; prendevo coraggio solo dalla leggera sfumatura grigia dell’alba che si affacciava timidamente nel cielo orientale e dalla promessa di un certo sollievo da questi tormenti che recava con sé, almeno per le poche, brevi e fuggevoli ore del giorno. Da qualche parte in casa tirarono l’acqua di un gabinetto; i tubi rumoreggiarono e, nella mia immaginazione, vidi un’anima morta con un pigiama liso e sporco che emergeva da un bagno con gli occhi sonnolenti incrostati di muco giallastro, l’alito cattivo, e sbadigliando stupidamente tornava al suo lettino per rientrare nel dolce oblio del sonno; e in quel momento avrei dato una mano o un braccio — o un braccio e una gamba! — per essere un’anima morta con la testa vuota e la dolce possibilità del sonno davanti a me. Essere sveglio significa essere disponibile per il tormento, e questo è il significato più autenticamente compiuto della vita.

Oggi potrei tornare a Kitchener Street?, mi chiesi riprendendo ancora una volta la matita. Che cosa ci troverei? Mi darebbe pace, o sollievo, sostare davanti al numero 27, vedere delle tende sconosciute alla finestra in salotto? Magari la porta riverniciata di fresco e la lunetta sopra, col sole al tramonto, ripulita dalla polvere e dal grasso che vi si erano rappresi dopo l’arrivo di Hilda? Mi sarei fatto strada come un ragno nel vicolo sul retro, fermandomi vicino ai bidoni della spazzatura, e magari avrei osato aprire il cancello del nostro cortile e vedere il bucato di qualcun altro steso ad asciugare, la bicicletta di qualcun altro appoggiata al gabinetto, in cui magari l’acqua arrivava ancora all’orlo del water quando si tirava la catena, e a volte traboccava? Cosa avrei provato? Magari me ne sarei andato, avrei proseguito fino in fondo a Kitchener Street, sarei entrato di soppiatto al Dog and Beggar, e avrei sorseggiato una mezza pinta di mild vicino al fuoco. Lanciando occhiate di nascosto a Ernie Ratdiff, ormai ultracinquantenne, ma sempre con quell’aria da donnola, le mani veloci e sottili, i capelli unti e la sua maledetta astuzia — anche se lui non mi riconoscerebbe, no, non scorgerebbe in questa sporca rovina il timido ragazzino che andava a cercare suo padre quando era pronta la cena: no, non lo riconoscerebbe affatto, vedrebbe un uomo lento e triste, devastato dalla malattia mentale e con in tasca a malapena le monete per pagarsi il bicchiere più piccolo della birra più economica nel pub più schifoso di Londra!

No, non tornerò a Kitchener Street: non oggi, non sono abbastanza forte. Quando starò meglio — quando avrò superato questo brutto momento —, allora tornerò a casa, tornerò al numero 27, e magari mi farà bene.

Metto giù la matita, attraverso la stanza e spengo la luce, non ne ho più bisogno. Mi distendo sul letto e guardo il soffitto: silenzio. Ben presto le tubazioni incominceranno a rumoreggiare, la radio verrà accesa, sentirò le persone da basso. Ma, per adesso, silenzio: un benedetto, aureo silenzio.


Ancora giù al fiume, oggi. Per qualche ragione che non mi sono curato di indagare, non voglio più sedere vicino al canale, anche se ciò potrebbe avere a che fare, adesso mi viene in mente, con la vista dei gasometri in direzione di Spleen Street. Nebbia, oggi, ma non umido come ieri, e l’odore di gas è quasi scomparso. Trovo un certo conforto nella vista di queste rachitiche strutture di pali nel fiume, verdastre dove l’acqua scorre, marrone scuro per il resto, macchiate di creosoto; da qui, se mi sforzo, riesco a sentire l’odore di creosoto. Per il resto, nell’aria c’è odore di fumo: lo vedo uscire dal sottile camino di una vecchia chiatta olandese un centinaio di metri più a valle, e circa a metà del fiume incomincia la nebbia, un velo gentile che limita la vista e mi permette di riesaminare senza distrazioni la breve visione della sua vecchia pelliccia nella camera da letto semibuia. Che ce l’abbia ancora — cosa devo pensare di questo? Sono calmo, adesso, posso esaminare queste cose con tranquillità. Un gabbiano si posa con uno strido su un palo e, da qualche parte dietro di me, una sirena suona: una fabbrica. Uno scolaro si ferma vicino alla mia panchina e cerca di persuadermi a dargli una sigaretta. «Dai, signore,» dice, «solo una.» Ma io scuoto la testa, non distolgo neanche gli occhi dai pali che emergono dal Tamigi grigio-verde e dal velo di nebbia. Si potrebbe pensare che la mia decisione fosse rafforzata da ciò che avevo visto in fondo all’armadio della signora Wilkinson. Perché non era così? Qualcosa confondeva la logica del tutto. Cos’era? Che le creature del solaio mi spingessero a ucciderla: era questo? Non erano sue creature? Forse no. Forse erano creature di tutti — o di nessuno. O forse uscivano, come a volte mi convincevo, da qualche buco profondo nel segreto della mia mente malata — e allora?


* * *

Terra, acqua, gas e canapa: questi sono gli elementi di Spider. Tornando dal fiume, sono andato direttamente in camera mia e ho tirato fuori la fune. L’ho messa dietro la grata del caminetto almeno dieci giorni fa. L’ho trovata vicino al canale un pomeriggio e ho capito subito che ne avrei avuto bisogno. Non è il tipo di fune spessa nei cui rotoli unti ero solito rannicchiarmi da bambino, là sulle barche: è una fune molto più sottile, una corda, si direbbe, tre fili resistenti di canapa color grigio scuro. Non è pulita; l’olio e la sporcizia del lungo servizio l’hanno annerita in alcuni punti, e inoltre adesso c’è la fuliggine del caminetto. È lunga circa quattro metri, sfrangiata a un’estremità e fermata in un nodo all’altra; il nodo è rinforzato da un anello di metallo. La prendo fra le dita; mi piace la sua superficie ruvida. La afferro con i pugni e la tendo: è una bella corda robusta, ancora utile. La avvolgo intorno al braccio e la appoggio sul letto. Siedo al tavolino, la sedia rivolta verso il letto, fumo una «magra» e guardo la fune. Un colpo alla porta: all’improvviso, lei è nella camera con me.

«Signor Cleg,» dice con quel suo tono — ha un fagotto sulle braccia — e poi vede la fune. Io sono ancora seduto. «Signor Cleg! Quella roba sporca, non sul letto!» grida. Stringendo il suo fardello con un braccio, afferra la fune e la butta sul pavimento, dove si disfa con un rumore attutito di canapa. Accarezza la coperta con la costa della mano grassa e poi mette giù il fagotto. In cima al mucchio c’è un ombrello, ben legato. «Signor Cleg, se non posso farla smettere di camminare sotto la pioggia, posso almeno darle un ombrello. Un ombrello. Ora, questa…» — alza un oggetto di gomma color arancio pallido a forma di sogliola e lo fa oscillare verso di me — «… è la sua boule dell’acqua calda. Può riempirla in cucina prima di andare a letto. Questo…» — prende un cappotto che sembra almeno di terza mano — «… è il suo cappotto invernale.» È grigio pallido, con un bel disegno a spina di pesce, che immediatamente mi dà dei problemi agli occhi per via di quelle sottili linee parallele a zig-zag. «E questa…» — brandisce una coperta blu lisa e con numerose bruciature di sigaretta — «… è la sua coperta di riserva.»

Io fissavo questa strana collezione perplesso e in silenzio. Cos’avevano in comune questi oggetti? Lei si era voltata e mi mostrava la schiena e il sedere; trafficava col mio letto, stava mettendo la coperta di riserva. Si guardò oltre la spalla. «Niente da dire, signor Cleg? Il gatto le ha mangiato la lingua?» (Che idea repellente.) Aveva capito, pensai a un tratto, a cosa mi serviva la fune? Improvvisa ansia di Spider. «Ecco,» disse, finendo il letto; poi, guardando per terra: «Posso portargliela via? È davvero troppo sporca per stare in una camera da letto.»

Subito allungai un braccio, la tirai a me e trattenni le spire annodate in grembo. «Almeno non la metta sul letto, per favore,» disse. «Credo che quello sia olio, e non riuscirò mai a tirarlo via.» Era in piedi in fondo al letto, adesso. Sembrava immensa, oggi, terribilmente immensa. «Niente da dire, signor Cleg?» Reclinò la testa di lato e incrociò le braccia sotto al seno. «Sono preoccupata per lei.»

Io mi ritrassi, aggrappandomi con forza alla fune. Come volevo fuggire dallo sguardo di quegli occhi, che penetravano in me, mi laceravano; stavo per essere annientato e non potevo scappare via: ero ipnotizzato come un topo davanti a un serpente. In alto, la lampadina emise uno scoppiettante crepitio di vita, anche se la luce non era accesa. La camera si fece più scura, i suoi occhi scintillarono verso di me. «Si ricordi,» disse — e la sua voce giunse come dalle profondità di un pozzo di pietra, echeggiarne, rimbombante e terribile —, «si ricordi che domani ha l’appuntamento col dottore.» BOOM boom boom boom — le parole continuarono a rimbombare nella camera anche dopo che fu uscita. Andai alla finestra e guardai il lampione, che si era appena acceso. Tremavo incontrollabilmente; la fune mi scivolò dalle dita e cadde sul pavimento con il solito rumore soffocato, e a poco a poco l’eco svanì. Ma, oh, pensai, se questa sarà una brutta notte, una notte cattiva, come farò a superarla?


Che Spider fu visto alle prime, pallide luci dell’alba! Che distrutta ombra di un’eco di una caricatura di uomo! Che guscio vuoto, che relitto, che miserabile! Ma viveva, viveva. Ero in piedi al mio tavolo, con le mani appoggiate sul piano e lo sguardo al cielo: la notte era passata, l’avevo superata. C’era silenzio; gli strilli erano cessati, il furore finito; io ero il fragile vascello sorpreso in mare aperto da una tempesta notturna, che all’alba entra faticosamente in una piccola insenatura o porto con l’albero di maestra spezzato e il timoniere legato alla barra, stremato dalla fatica e dal terrore. Un piccolo conforto, quello della luce del giorno, ma sempre un conforto. Il cartoncino scricchiolava mentre muovevo le membra, andavo verso il letto, mi distendevo sulla schiena e fissavo il soffitto macchiato dall’umidità che un’ora prima era stato una buia tela demoniaca di spirali e nodi infernali che strisciavano, sputavano ed emanavano sporcizia e violenza. Ma adesso la notte rifluiva, e l’alba cresceva e montava silenziosa: il mio Pacifico.

Il naufrago Spider giacque sul suo letto con le gambe incrociate alle caviglie e guardò il fumo di una «magra» salire in un’esile colonna che si rompeva in circoli e svaniva. Pensava alla fune nel caminetto e sapeva che questa sua povera giga, questa giga infernale era quasi finita: «Basta,» mormorò nel silenzio, «basta, basta, basta.»


* * *

Il dottor McNaughten era nell’ufficio della signora Wilkinson quando lasciai la cucina dopo colazione. «Buon Dio, amico, cosa le è successo?» gridò, quando entrai. «Si sieda!» Sedetti. Mi scrutò aggrottando la fronte, poi andò alla porta e chiamò la signora Wilkinson gridando. «Ma quest’uomo ha preso le sue medicine?» disse, senza curarsi di abbassare la voce.

«Naturalmente no, dottore,» disse la signora Wilkinson con tono sommesso, allontanandolo dalla soglia in modo che non potessi seguire la loro conversazione. Pochi minuti dopo, il dottore tornò da me. «Dennis,» disse, «credo che lei abbia trascurato le sue medicine. Mi dica la verità: è così?»

Che importanza aveva, ormai? Una spallucciata, un sospiro dello stanco Spider. Il dottore aggrottò la fronte, poi andò alla finestra, dove rimase dandomi le spalle; teneva una mano nella tasca dei pantaloni, e con l’altra tamburellava sul davanzale. Silenzio; dopo qualche minuto, la porta si apre. È la signora Wilkinson. Va alla scrivania e ci versa sopra una dozzina circa di pastiglie multicolori; ha anche la mia fune, e mette anch’essa sulla scrivania. Io mi alzo in piedi con un involontario scatto di allarme: dov’è il mio quaderno? Il dottor McNaughten mi guarda scuotendo la testa. «Grazie, signora Wilkinson,» dice. Torna alla finestra, e di nuovo resta immobile volgendomi le spalle e guardando fuori. Finalmente, senza voltarsi, parla. «Sono quasi convinto che dovrei farla ricoverare,» dice, «ma voglio darle un’ultima possibilità.»

Quando tornai in camera mia, scoprii con grande sollievo che il mio quaderno era in salvo. Non dovevo tornare a Ganderhill; il dottor McNaughten aveva moltissime ragioni per questa decisione, e una di esse era che, prima di smettere di prendere le pastiglie, stavo facendo «progressi». In quale direzione, non lo disse.


* * *

Anche quando un uomo non ha niente che possa dire suo, trova dei modi per acquisire delle proprietà, poi ne scova di ulteriori per nascondere le sue proprietà agli altri. In un «reparto duro» ci si legava un capo di uno spago a un passante della cintura, l’altro all’orlo di una calza, fissandola così al bordo dei pantaloni. Lì dentro si tenevano il tabacco, gli strumenti per cucire, matita e carta, altri pezzi di spago — qualsiasi cosa fosse utile o di valore. I degenti si affezionavano alle loro calze: la vita era ridotta all’osso, in un «reparto duro», e questo era un modo per rimpolparla, per sentirsi qualcosa di più di una semplice creatura dell’istituto. I ricoverati lottavano duramente per conservare le proprie calze allorché gli infermieri decidevano di confiscarle. Quando ciò avveniva, oltre alla calza, si perdevano i vestiti e si veniva gettati in una camera di sicurezza con un camicione di stoffa antistrappo, o si era incamiciati, ammanettati e legati in maniera da non potersi rompere le nocche tirando pugni al muro.

Durante gli ultimi anni a Ganderhill avevo una camera in un buon reparto al Blocco F e godevo di tutti i privilegi che l’istituto poteva darmi. Ma nei primi tempi di solito stavo fra gli uomini tristi, e spesso in una camera di sicurezza con la camicia di forza. Ricordo la prima volta che accadde: un paio di infermieri avevano incominciato a parlare di me mentre sedevo a fumare dall’altra parte della sala di soggiorno. Guardando nella mia direzione, un infermiere disse all’altro che ero lì perché avevo assassinato mia madre. Naturalmente io lo smentii; dissi loro che non ero stato io, ma mio padre, a ucciderla. Loro risero, e per un po’ parlarono d’altro. Ma dopo qualche minuto ripresero a discutere di me, e di nuovo fu detto che avevo ammazzato mia madre. Negai ancora; loro mi dissero di non arrabbiarmi, di non farmi venire una «crisi».

Era proprio bella. Ricordo che incominciai a dondolare avanti e indietro sulla panca (una cosa incontrollabile), e le dita mi tremavano violentemente. Spider faceva disperati movimenti di fuga, avanti e indietro, in un senso e poi nell’altro, così mi pareva, cercando con angoscia crescente una nicchia o una fessura per infilarvisi. Rapidamente la sala di soggiorno si fece scura; i due infermieri sedevano guardandomi con intensità animalesca mentre le mie oscillazioni diventavano sempre più violente. Ci furono rumori e grida, e mi bloccarono a terra mentre la luce andava e veniva. Poi ci fu lo scatto stranamente familiare delle manette e, con una sensazione di crescente costrizione mentre gli stringevano i legacci, il frenetico Spider vide finalmente il suo buco e vi si infilò e basta, finché non si ritrovò in una camera di sicurezza, legato come un cappone di Natale e con un unico pensiero che girava girava girava nella sua testa ed era: suo padre, suo padre, suo padre suo padre suo padre…

Non è facile ripensare a quei tempi adesso (forse il fatto che possa rifletterci su è un segno dei miei cosiddetti «progressi»), ma molto del lavoro di quei primi anni a Ganderhill fu imparare a sopportare simili provocazioni, cosa che alla fine feci: venne un momento in cui potevo ascoltarli mentre tentavano di suscitare in me reazioni violente, mentre mormoravano tra loro qualcosa a proposito di mia madre; invece di agitarsi — incominciando a dondolare, a tremare e a correre come un granchio in cerca di un sasso —, invece di tutto questo, Spider sviluppò strutture che potevano reggere l’assalto — le ricostruiva infaticabile, le saggiava con costante diligenza — e così imparò ad affrontare le provocazioni e, dal momento in cui iniziò a farlo, queste diminuirono e fu lasciato in pace. La vita a Ganderhill prese allora a migliorare.

Sono seduto vicino al fiume, l’ombrello chiuso appoggiato alla panchina, di fianco a me. Una giornata coperta e molto ventosa. Sono intontito dai medicinali, forse anche questo mi aiuta a pensare ai primi anni a Ganderhill senza agitarmi. Gli altri pazienti — John Giles, Derek Shadwell — non mi avrebbero mai fatto quello che rischiavo dagli infermieri: tra di noi non avevamo ragioni per dubitare o per mentire. Mi viene in mente, però, che una funzione delle provocazioni, deliberate o meno, era di costringermi ad affrontare quanto era accaduto a Kitchener Street: per questo, capite, quando lo affrontai, le provocazioni cessarono, anche se ciò non avvenne rapidamente, no, ci vollero anni; c’erano frequenti ricadute che vedevano di nuovo Spider rannicchiato come un bambino sotto una coperta, o addormentato su una panchina con la testa poggiata su una scarpa. Ma ciò che avvenne durante quel periodo fu l’ulteriore sviluppo del sistema a due teste: là di dietro, dove viveva Spider, c’era il triste e veritiero racconto di Kitchener Street (quello che vi sto narrando adesso). E nel reparto, nella sala di soggiorno, a Ganderhill, c’era il paziente Dennis Cleg, che si muoveva imperturbato, una maschera, uno spettro, un pupazzo, tra false voci, accuse scandalose e provocazioni assurde — perché Spider era altrove! (Fino a quando, cioè, il dottor Austin Marshall andò in pensione e arrivò un nuovo direttore sanitario, e quest’uomo riuscì, nel giro di due pomeriggi, a minare tutto il mio lavoro; ma di lui parlerò ancora al momento opportuno.)

Brutti anni, quindi, i primi anni: anni di persecuzioni. I mesi iniziali furono i peggiori, sotto questo aspetto, prima che mi adattassi ai loro modi. (È molto più difficile parlare di quei giorni: vedete come siedo impettito sulla panchina, adesso, fissando i pali nel fiume mentre un gabbiano passa stridendo nel vento, e come sono bianche le nocche delle mie mani ossute, strette intorno al manico dell’ombrello.) Perché mi avrebbero reso una loro creatura, se non avessi trovato il modo di resistere. Immaginatemi, dunque, in una fredda camera piastrellata davanti all’amministrazione del reparto, lavato e disinfettato, nudo come un verme e pieno di brividi: un lungo ragazzo magro, con la pelle foruncolosa, bianca come il latte, e il terrore negli occhi. Mi hanno portato via i vestiti e stanno per darmi quelli grigi dell’istituto. Il mio vecchio io, il ragazzo di Kitchener Street, lo Spider di Londra, è stato eliminato; prima che io vesta l’uniforme di pazzo ci sono questi pochi minuti, che passo nudo nella triste stanza piastrellata, durante i quali in realtà non sono nulla, né una cosa né l’altra, ed ecco qualcosa di strano: in quei minuti di puro nulla rabbrividente, sono colto da una sensazione così intensa che mi fa ridere forte; e l’infermiere si volta dalla scrivania dove si sta occupando dei miei pochi e poveri averi e aggrotta la fronte verso di me, mentre io saltello da un piede all’altro e tento di controllare ondate di gioia inesplicabile — subito estinta quando tento di entrare in una maglietta troppo piccola e in pantaloni troppo grandi e in un paio di scarpe da manicomio con le suole spesse, a cui sono state tolte le stringhe. Mi ha preso la matita e le poche monete che possedevo e le ha chiuse in una busta con il mio nome e la data scritti sul davanti, dicendomi che mi saranno restituite quando uscirò. Così, entrato in quella stanza come Spider di Londra, ne uscii come pazzo, irriconoscibile anche a me stesso; e il terrore, momentaneamente cancellato da quel breve, strano scoppio di ilarità, allora tornò; l’unica cosa di cui fui consapevole era il contatto di materiali estranei con la mia pelle e gli odori ignoti nelle narici. Adesso avevo paura, una paura terribile, più forte di quanto mi fosse mai accaduto prima, e la sola cosa che volevo era tornare nella mia stanza sopra la cucina al numero 27. Quella strana risata, però… Adesso credo che fosse di sollievo.

John Giles fu il primo paziente che incontrai al mio arrivo, John, con le sue grandi spalle e le sopracciglia cespugliose. Entrò a Ganderhill il mio stesso giorno: quando lo vidi per la prima volta stava guardando un muro vicino all’ingresso del reparto e parlava da solo, rapidamente e in tono molto animato. Dietro di lui, nel reparto, un piccoletto pelato sedeva sul pavimento gemendo dolcemente, mentre continuava a tirarsi il colletto della camicia; alle sue spalle, immobile come una statua, un uomo si guardava il palmo della mano aperta e le dita distese. Devo essermi fermato, lì sulla soglia, perché ricordo l’infermiere che mormorava: «Coraggio, figliolo, andiamo.»

Andammo. Nel reparto circolavano pochi pazienti; la maggior parte era rinchiusa in celle con le sbarre alle porte e le pareti di cemento armato. I «rinchiusi» indossavano camicioni e dormivano per terra con le ginocchia sollevate fino al mento. Un uomo, gli occhi spiritati e i capelli ritti sulla testa in ciuffi bagnati, si precipitò contro la porta al mio passaggio e, aggrappandosi alle sbarre, schiamazzò verso di me finché l’infermiere gli andò vicino con una mano alzata, e lui si ritirò con un mugolio di spavento. A metà del reparto, la porta di una cella vuota venne aperta facendola scorrere su binari di metallo. «Eccoci, figliolo,» disse l’infermiere. «Non ti rinchiuderò a chiave, per ora.» Rimasi immobile, guardando verso l’interno: una piccola finestrella con le sbarre, alta sulla parete, un gabinetto di cemento senza coperchio e senza sedile, e un letto dello stesso materiale. «Se non ti metti nei guai, figliolo,» disse, «presto ti porteremo da basso.» Era alto come me, quell’uomo, e più tardi seppi che si chiamava «signor Thomas». Si voltò e ripercorse il reparto al contrario, guardandosi intorno mentre con una mano batteva una grossa chiave nel palmo dell’altra. Immaginatemi: seduto sul bordo del letto di cemento coi gomiti sulle ginocchia, le mani che pendevano abbandonate fra le gambe e la testa china. Nella gola avvertivo una sensazione di caldo soffocante; fissai ammiccando il pavimento e vidi due o tre lacrime cadermi fra i piedi. Un’ombra calò nella cella; alzai gli occhi sussultando: era John Giles, il gigante. «Hai da fumare?» disse. Io scossi la testa; lui si allontanò.

Consumai la cena nella mia cella, da un piatto di carta con un cucchiaio di legno; poco dopo, mi furono dati un paio di coperte e tre pezzi di carta igienica. Poi la porta venne chiusa con un gran clang rimbombante e le luci furono spente, tutte tranne una o due che diffondevano una tenue luminosità al centro del corridoio, sufficiente perché vedessi l’uomo nella cella di fronte. Mi distesi sul letto e, per la prima volta, imparai a usare una scarpa come cuscino. I rumori del reparto cambiarono; gli uomini che avevo visto rannicchiati con le ginocchia sollevate fino al mento sembrarono svegliarsi col buio, e si alzò un clamore così pietoso di gemiti, grida e lamenti che mi misi le mani sulle orecchie e rimasi immobile sul cemento, rigido, con gli occhi spalancati e fìssi al soffitto, dove la luce del corridoio proiettava sull’intonaco una rete di sbarre stranamente allungata. Neanche così riuscivo a sfuggire alle voci e, nel giro di pochi minuti, mi ritrovai a passeggiare avanti e indietro nella cella, sempre stringendomi la testa e borbottando febbrilmente per cercare di soverchiare con la mia voce l’insopportabile angoscia delle loro. Poi arrivò un infermiere alla mia porta. «Mettiti giù, figliolo,» mormorò, «non lasciarti turbare.» Non dissi nulla: rimasi fermo nella cella e fissai l’uomo. Dopo qualche istante, lui ripeté: «Mettiti giù, figliolo», e io ubbidii. Quindi se ne andò, e lo sentii zittire i gemiti e i lamenti, finché il reparto non fu quasi silenzioso. Rimasi sdraiato per quella che mi sembrò un’eternità, guardando il reticolo di ombre disegnato sul soffitto; poi incominciai a vedere le ragnatele sotto il tetto del casotto di mio padre; ne ottenni un certo conforto, perché riuscii ad addormentarmi.

I giorni successivi passarono con cicli alterni di monotonia e pandemonio. Mi lasciavo facilmente turbare e mettere in agitazione — cosa tutt’altro che sorprendente —, e ben presto persi la camicia e i pantaloni e fui costretto in un camicione antistrappo. Oh, questo fu il punto più basso; rabbrividisco, adesso, pensando a ciò che devo aver passato per fare quanto feci. Tale era la mia disperazione, il mio dolore, la totale devastazione e miseria del mio isolamento che buttai via il camicione e usai le mie feci per scrivere il mio nome sul muro — il mio vero nome, voglio dire, cioè «Spider», impiastricciato e spantegato in umide macchie marrone sull’intonaco. E adesso immaginatemi accovacciato nudo, che sorrido alla parete dove il mio nome cola merda da lettere alte mezzo metro, e per pochi brevi istanti sono una creatura mia, non loro, non loro. Ma poi guardate come vengo sospinto poco gentilmente verso il bagno, mentre la mia cella è ripulita con acqua calda e candeggina, confermato, ai loro occhi, come pazzo da questa azione sporca, malgrado ai miei occhi fosse esattamente il contrario!

Brutti giorni, quindi, anche se col tempo riuscii a elaborare, come dicevo, il sistema delle due teste e a offrir loro il pazzo, mentre Spider se ne stava per conto suo. Questo era dovuto in parte al tabacco: a Ganderhill, il tabacco era uno di quei rozzi strumenti che gli uomini usano per dare una forma alle loro giornate. Veniva distribuito dopo colazione e dopo cena, prelevato da una scatola all’ingresso del reparto. Presto imparai a unirmi agli altri quando facevano la fila, anche se non era tanto il tabacco che procurava piacere: la scarsità, la modestia della distribuzione mattutina rendeva impazienti di quella serale (avendolo fumato tutto entro mezzogiorno), così come la fine della dose serale faceva aspettare avidamente nelle lunghe ore insonni della notte l’arrivo del mattino. Dunque il piacere stava tutto nell’attesa, nella pregustazione: ed è in questo modo che ci rendevano delle loro creature, perché se ti mettevi nei guai perdevi il diritto al tabacco, e il dolce ritmo di aspettativa e soddisfazione scompariva dalla giornata — e, allora, come diventava triste e cupa quella giornata! Fu anche questo che mi spinse a creare il sistema a due teste, perché se sapevo offrir loro un buon pazzo mi davano il tabacco due volte al giorno, e io potevo conservarlo o fumarlo a mio piacimento. Non che il tabacco potesse fare tutto: i degenti continuavano a battere la testa contro il muro fino a sanguinare, si strappavano i punti, si facevano buchi nella carne con le sigarette, ficcavano i loro camicioni nei gabinetti e poi facevano scorrere l’acqua finché non inondava la cella e scorreva nel corridoio. Perché questo era un «reparto duro» e ci trovavamo lì perché avevamo fallito; tuttavia imparai a dar loro un buon pazzo, e fu a questo punto che decisi che ero pronto per vedere il dottor Austin Marshall.

Il colloquio non fu lungo. Ebbe luogo nel suo ufficio; lui seduto, io in piedi, con il signor Thomas sulla soglia alle mie spalle. C’era una cartelletta aperta sulla scrivania; capii che era la mia; in qualche modo, non mi era venuto in mente che avessi una cartella. Il dottore frugò nella sua pipa con un fiammifero. «Sei molto giovane per essere tanto malato,» mormorò, guardandomi con la pipa stretta fra le dita. «Come te la cavi nel reparto?»

«Bene,» dissi. (Mi avevano detto di rispondere così.)

«Signore,» disse il signor Thomas tranquillamente. Signore, dissi.

«Ti piacerebbe provare a scendere da basso, Dennis?»

«Sissignore,» dissi.

«Già,» mormorò, mentre i suoi occhi tornavano alla cartella. Poi: «Perché l’hai fatto, figliolo? Nessuna idea?»

«Non volevo farlo, signore. È stato un errore.»

«Ti dispiace di averlo fatto, quindi?» Sissignore.

«Be’, questo è un inizio. Eh, signor Thomas, questo è un inizio, eh?»

«Sissignore,» disse il signor Thomas dalla soglia.

«Non credo che lo rifarai,» disse il dottor Austin Marshall. «Abbiamo solo una madre, dopo tutto.» Mi guardò, sollevando le sopracciglia; mi avevano detto di non dire assolutamente quello che aveva fatto mio padre. Il signor Thomas si schiarì la voce, un avvertimento. Io rimasi zitto. Il direttore scrisse sulla mia cartella per qualche momento, poi disse rapidamente: «Proviamo a metterlo in un reparto da basso e vediamo come se la cava. Blocco B, signor Thomas. Posso lasciare a lei i dettagli?»

«Sissignore.»

«Bene. Non sai niente di storia navale, credo, Dennis?» disse, alzandosi e indicando vagamente col cannello della pipa un quadro a olio raffigurante una battaglia navale. Io non riuscivo a guardare quella roba, tutto quel fumo e quel sangue, uomini urlanti in un mare ribollente, con alberi maestri abbattuti e cannoni che vomitavano fiamme: mi sembrava di sentire i rumori, gli odori, non volevo saperne. «No, naturalmente no,» disse. «Ma dovresti, un ragazzo dell’East End come te. E la Royal Navy che ha reso grande questo paese, dico bene, signor Thomas?»

«Molto bene, signore.»

«Ottimamente, allora. Be’, andate pure.»

Ce ne andammo, e così incominciai il mio primo tentativo in un reparto da basso. Anni più tardi, scoprii che in generale si riusciva a vedere il dottor Austin Marshall solo quando non se ne aveva affatto bisogno. Strano, eh?


Il gabbiano si è posato su un palo del fiume e mi sembra impossibile distogliere lo sguardo dall’animale. Brutto e grasso, con gli occhi a palla e le zampe palmate, adesso solleva il becco a uncino ed emette uno stridio gracchiante; immaginate quel becco che si avvicina alla vostra faccia, vi cava un occhio come fosse un grano di loglio, lasciando un’orbita vuota e una guancia insanguinata — una guancia insanguinata! Un nervo scoperto! Nervo scoperto, nervo, nervo, malattia nervosa — odio gli uccelli. Adesso l’acqua ribolle e schiuma intorno ai pali; le onde sono cresciute, la corrente si muove veloce, vi trascina al mare come frammenti di relitti, morte per acqua, morte per gas, morte per canapa canapa canapa: avrebbero dovuto appendere Horace per il collo e farlo dondolare. Horace — Horror! Horror Cleg! Horror e il suo uccello Hilda: avrebbero dovuto appenderli tutti e due! Il Tower Bridge, una fragile struttura grigia di matite e fili contro la luce fioca di questo pomeriggio tempestoso, lunghe strisce di nuvole grigio scuro scivolano nel cielo verso ovest, in mezzo pochi squarci sbrindellati, isolati, con il chiaro che filtra; io sulla panchina appoggiato all’ombrello, mentre il vento mi sputa in faccia brandelli di fiume e il gabbiano si leva dal palo con altri stridi gracchianti e un disordinato battere d’ali sporche, prima di allontanarsi nel vento e lasciare che io mi alzi finalmente in piedi e mi avvii verso casa.

Di sopra, senza essere visto; fuori il quaderno. Come una volpe, Spider, perché quando lei ha scoperto la fune e le pastiglie nel caminetto non ha trovato il quaderno: ero troppo furbo per lei. Perché dentro la canna fumaria, proprio sotto la cappa che spiove sull’attacco del gas, c’è un piccolo ripiano, una sporgenza, e io metto il quaderno lì e lo fermo con un mattone in verticale. C’è un solo modo per recuperarlo quando è in quel punto: disteso sulla schiena, con la testa contro l’attacco del gas, il braccio nel buco, dentro al caminetto, su per la canna fumaria: mi sforzo, mi tendo, e le mie dita riescono appena a toccare il mattone e a tirarlo giù, e il libro lo segue; malgrado il sacchetto marrone è più sporco che mai, adesso. Matite: le ho rubate in giro per la casa, non ha senso che sappia ciò che faccio; sto usando il vecchio sistema di Ganderhill per esse, la calza nei pantaloni. Perciò fuori la matita, aprire il quaderno e guardare dalla finestra il cielo, adesso buio — e tornare con la mente ai vecchi tempi.


* * *

La vita era senza dubbio migliore in un reparto da basso. Tabacco e libri, una camera con una porta, aria fresca sulle terrazze. Quest’ultima cosa era la mia grande gioia. C’erano delle panchine sulle terrazze (la mia vita è stata un viaggio da una panchina all’altra, e finirà su una panchina col coperchio!), dalle quali vedevo chiaramente gli orti e il campo da cricket, il muro giù in fondo e, al di là, la campagna che gradualmente sfumava verso le colline boscose in lontananza. Quando il vento soffiava da sud, portava dalla fattoria un buon odore di letame, e anche questo mi procurava piacere. Per un ragazzo cresciuto a Kitchener Street, per il quale gli orti e il Tamigi erano tutto quanto sapeva della natura, questa ondata di campagna era un vero trionfo. E i cieli che mi offriva! I miei erano cieli di Londra; questi invece erano blu, con grandi nuvole bianche che si muovevano rapide in un corteo ordinato, e il mio spirito esultava: nel vostro vecchio Spider qualcosa si svegliò quando incontrò per la prima volta questi cieli — ed è ancora lì, debole adesso, e coperto di cenere, ma è ancora lì. Ricordo come, un giorno, seduto sulla panchina del Blocco B, guardavo gli uomini al lavoro negli orti, coi pantaloni di velluto giallo che sbattevano e i maglioni verdi, e quando tornai dentro (ci lasciavano solo mezz’ora sulla terrazza) quelli che lavoravano negli orti erano ancora là, e io pensai: questo è il lavoro per me.

Ci vollero anni. A volte mi agitavo, facevo qualcosa di stupido e tornavo di sopra. John Giles era sempre là ad accogliermi, sebbene il suo sorriso sia spettrale, adesso, perché dopo che staccò un orecchio a un infermiere gli tolsero tutti i denti. John scese da basso una sola volta in vent’anni, anche dopo che incominciarono a fargli gli elettroshock; è tuttora su nel «reparto duro». Ma io ero diverso, stavo imparando a dar loro un buon pazzo, e man mano che il tempo passava, e Spider si rendeva la vita più sicura nella zona di dietro, diventò sempre meno necessario mantenermi nel reparto. Le provocazioni diminuirono, la mia agitazione si placò, e io passai periodi più lunghi di sotto. Sedevo sulla terrazza e guardavo gli uomini negli orti, pensando: quello è il lavoro per me.

Sì, quello era il lavoro per me. Ah, Dio buono, ricominciano? Sono ancora loro, con le voci che crepitano contro di me attraverso la lampadina? Penso che non riuscirei a superare un’altra notte così. Mi guardo le dita — mi sembrano così lontane da me: dapprima credo di vedere una specie di granchio posato sulla pagina aperta, un granchio giallo con le chele solide, una creatura senza alcun rapporto con me. Seguo il mio braccio fino alla spalla, ho bisogno di farlo per verificare che quella roba è parte di me, o almeno è connessa a questo insieme, a questa armatura male assemblata e scompigliata di cartilagine, pelle e ossa. Perché sono quasi vuoto ormai, il cattivo sapore che ho in bocca lo dimostra, e naturalmente anche l’odore di gas — e mi chiedo (questi sono i miei pensieri notturni) cosa troveranno quando mi apriranno dopo la morte (se non sono già morto). Una mostruosità anatomica, di sicuro: il mio piccolo intestino è strettamente attorcigliato alla parte bassa della colonna vertebrale e sale in una stretta spirale, allargandosi considerevolmente nel colon a metà del percorso e svettando verso l’alto della schiena come un boa constrictor; il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria (i miei capelli sarebbero sporchi e puzzolenti, se non fosse per la benedetta pioggia che ogni giorno mi ripulisce). Da quando è avvenuto questo cambiamento (una sera tardi, la settimana scorsa) ho cercato di non mangiare, perché il movimento della materia negli intestini è diventato dolorosamente intenso per me: una serie di spasmi sussultanti come se una specie di verme mi strisciasse intorno alla spina dorsale. Altri organi sono stati compressi contro lo scheletro in maniera da creare un vuoto, uno spazio nel tronco, e non ho capito perché sia accaduto questo. Uno dei miei polmoni è scomparso; c’è un verme nell’altro, ma per fortuna mi è ancora possibile fumare. Un solo tubo sottile pesca l’acqua dal mio stomaco (appiattito e schiacciato contro la cassa toracica), prima di scendere nel vuoto e collegarsi alla cosa fra le mie gambe, che a malapena assomiglia a un organo maschile adulto. C’è della materia che marcisce lentamente dentro di me, i resti putrefatti degli organi di cui non ho più bisogno; poiché i miasmi derivanti da questo processo hanno incominciato a filtrare dai pori della pelle (la mia pelle, il mio guscio, la mia conchiglia, la mia apparenza!), adesso ho avvolto il torace e le membra in giornali e cartoni fissati con spago, nastro adesivo, elastici, qualsiasi cosa sia riuscito a rubare nella casa. Tutto questo, tutto questo posso sopportarlo: ciò che mi ossessiona, adesso, è il pensiero che il mio corpo venga preparato per qualcosa, che mi stiano svuotando internamente per fare spazio a qualcos’altro — e nel momento stesso in cui scrivo queste parole e le sottolineo con un tratto incerto, un forte scroscio di risa arriva improvviso dalla lampadina, e dal solaio proviene una successione di passi che scuote le pareti e fa oscillare il bulbo appeso al cavo, e io resto seduto qui terrorizzato, aggrappandomi al tavolo con entrambe le mani mentre la lampadina oscillante getta nella stanza blocchi di luce e ombra che si agitano selvaggiamente.

Il rumore si riduce a un sussurro e a uno scricchiolio, e io mi alzo dal tavolo: devo lasciare la stanza, fosse solo per cinque minuti. Mi dirigo alla porta, e c’è un terribile ululato da sopra quando metto la mano sulla maniglia e la ruoto: ma la loro rabbia posso sopportarla, almeno per un breve periodo. Via, lungo il pianerottolo buio, verso il bagno, dove resto in piedi al gabinetto e, con dita tremanti, mi sbottono i pantaloni. Un piccolo apparato a forma di tubo, qualcosa proveniente dalla cassetta degli attrezzi di un idraulico, sbuca fuori e incomincia a orinare nella tazza minuscoli ragni neri, che si raggrinzano in puntolini e galleggiano sull’acqua. Sembra che ne sia infestato; sembra che dia alloggio a una colonia di ragni; sembra che io sia una rete per le uova.

Di nuovo nella mia camera; resto in piedi vicino al tavolo appoggiandomi sulle mani e guardo gli alberi spogli del parco sottostante. Illuminati fiocamente dalla luce del lampione, i loro esili rami formano un pallido intreccio contro il buio. Il cielo notturno è nuvoloso, non c’è luna. Niente si muove là fuori. Mi lascio cadere con rumore di giornali e cartone sulla sedia e prendo in mano la matita. Pensavo che non avrei superato un’altra notte così; in questo — come in tutto il resto — mi sbaglio, mi illudo con l’idea di essere libero, di avere il controllo, di poter agire. Non è così. Sono una loro creatura.


Questo è il lavoro per me, avevo pensato, guardando gli uomini negli orti. Dopo numerose richieste, ebbi la mia occasione e non li delusi. Ormai avevo passato quasi dieci anni a Ganderhill ed ero una figura ben nota. Avevo una stanza nel Blocco F e qualche legittima proprietà (qualcuna anche illecita, nascosta in qualche buco). Ero a mio agio, avevo la mia nicchia; ero conosciuto come un tipo solitario, benché coltivassi una specie di amicizia con Derek Shadwell, un nigeriano che, come me, era stato ingiustamente accusato di aver ucciso sua madre; Derek e io giocavamo a biliardo insieme nella sala di soggiorno tutte le sere. Ero in buoni rapporti con gli infermieri e venivo regolarmente salutato sulla terrazza dal dottor Austin Marshall. Chiedere un posto in una squadra di lavoro degli orti fu in un certo senso l’apice della mia carriera a Ganderhill; ero sicuro che, applicando ciò che mio padre mi aveva insegnato da ragazzo, sarei riuscito a fare tutto quello che ci si aspettava da me.

All’estremità orientale di una delle terrazze, una serie di scalini di pietra scendeva fino a un appezzamento di terreno delle dimensioni all’inarca di un campo da football, chiuso su un lato da una parte del muto di cinta, all’ombra del quale si trovava un vecchio olmo. Perpendicolari al muro, sul lato sud, altri gradini scendevano verso il campo di cricket, mentre in direzione nord c’era una ripida salita che attraversava una zona incolta di cespugli e alberi, fino alle terrazze più alte. Questo pezzo di terra aveva un aspetto derelitto e abbandonato, e un tempo era stato un giardinetto per il tè, perché alcuni elementi di un antiquato arredamento da giardino — un paio di sedie di vimini, un tavolino di ferro battuto — restavano a marcire e ad arrugginire sotto l’olmo. Altrove crescevano rigogliosi ciuffi d’erbacce e arbusti selvatici; poiché era ottobre, le foglie morte stavano ammonticchiate contro il muro in strisce umide e muschiose, in cui si erano sviluppate colonie di funghi maculati. Vicino al muro, ai piedi della salita alberata, c’era un mucchio disordinato di legni e rami secchi. La prima mattina di lavoro negli orti fui messo a ripulire questo terreno per la semina di primavera. Avevo una carriola e un forcone; c’erano vanghe e zappe nel casotto, per quando ne avessi avuto bisogno.

Mi misi al lavoro. Ero più giovane, allora: ero forte e potevo trasportare con la carriola ceppi pesanti, portarli fino ai gradini e trascinarli sul mucchio dietro al casotto. Era un punto ventoso e, benché il lavoro mi riscaldasse, tenni addosso la giacca con il bavero alzato. Mi avevano fornito dei pantaloni di velluto giallo, stivali neri e un maglione verde. Mi ci volle una giornata per togliere i rami e attaccare con le foglie secche; il lavoro mi stancava, ma mi metteva anche di buonumore, e quando mi fermai brevemente per fumare una sigaretta, mi appoggiai al forcone e guardai il panorama, mi sentii in pace. Prima avevo avuto un lavoro nel laboratorio di Ganderhill, stavo di fianco a Derek Shadwell a martellare chiodi tutto il giorno; lì c’era solo una piccola finestra con le sbarre che dava su un muro, niente luce, tranne quella che proveniva da un neon polveroso e crepitante.

Continuai con le foglie, spingendo la carriola sulla salita e lungo la terrazza fino al mucchio del compost, molto più grande di quello di mio padre, perché raccoglieva i rifiuti organici dell’intero istituto. Nel corso di questi viaggi con la carriola, passavo vicino ai compagni della squadra, che dicevano: «Tutto bene, Dennis?» oppure: «Non esagerare, Dennis», e io rispondevo: «Tutto bene, Jimmy» o cose del genere. Eliminati i rami e le foglie, mi misi all’opera per tagliare le erbacce e, quando ebbi finito, tolsi le radici con la zappa. Fu il terzo o il quarto pomeriggio, dopo aver rovesciato un carico di erbacce e di radici sul compost, mentre spingevo la carriola vuota lungo il vialetto verso il casotto, che scorsi una figurina con il cappotto e la sciarpa neri in cima alle scale, di spalle; appena la vidi, scese gli scalini.

Mi bloccai di colpo e lasciai i manici della carriola. Non mi ero aspettato di vederla, dopo tanto tempo, dopo essere rimasto deluso molte volte. Corsi dietro al casotto, fino in cima alla scala e guardai giù nel giardinetto del tè. Era immerso nell’ombra, perché erano passate le cinque e il sole era basso nel cielo. Restai alla sommità della scala — ai lati avevo due colonnine quadrate di mattoni con una palla di pietra in cima — e con gli occhi passai in rassegna la zona. Là, vicino al cumulo disordinato di rami e legna nell’angolo più lontano, sicuramente vidi per un attimo una figura che scivolava nell’oscurità! Scesi velocemente i gradini e corsi nel campo; raggiunto il muro, guardai la salita alberata che arrivava fino alle terrazze più alte. L’avevo vista davvero? M’inerpicai lungo la salita, spezzando rami e ramoscelli secchi con gli stivali. A metà strada, mi fermai e mi guardai intorno ansioso: un profondo silenzio regnava fra gli alberi, ed era ormai troppo scuro per distinguere qualcosa. Per parecchi minuti, rimasi là, senza fare alcun rumore o movimento; poi tornai giù nel campo, che sembrava più desolato che mai mentre il buio scendeva rapidamente. In qualche modo la mia improvvisa eccitazione si placò e fu sostituita da un vago senso di attesa, dall’impressione che qualcosa di importante si fosse appena messo in moto. Riattraversai il campo e risalii i gradini, raccogliendo gli attrezzi, che rimisi a posto nel casotto, prima di tornare al Blocco F con gli altri uomini.

Ah, lei mi tormentava, come loro mi tormentano adesso. Sentiteli! Sicuramente devo essere dannato e già all’inferno per sopportare una cosa del genere, sicuramente devo essere già morto, morto e sepolto, e questo mio corpo vestito dev’essere animato solo da qualche strano spirito infernale, per tollerare tutto questo! Sì, lei mi tormentava: nei mesi e negli anni che seguirono, innumerevoli volte la scorsi mentre fuggiva, mi stuzzicava, come ho detto: quella figurina magra con cappotto e sciarpa, che stringeva la borsetta e stava, ricordo, all’ombra dell’olmo vicino al muro, in un pomeriggio d’estate, con la testa girata da un’altra parte, e io in ginocchio in un campo di cavoli o di insalata o di cipollotti lasciavo cadere la zappa, mi alzavo e, un momento dopo, saltavo le file di verdura (sempre pensando, nella mia pazzia: questa, questa è la volta buona) — e trovavo solo un ingannevole gioco di luce e di ombre creato dal sole che filtrava attraverso la coltre di foglie. Ci fu un’estate in cui la sua presenza fu particolarmente vivida: la vedevo quasi ogni giorno e la udii perfino pronunciare il mio nome mentre lavoravo da solo negli orti; la sentii sussurrare: «Spider! Spider!», mi voltai di scatto verso nulla, nessuno — silenzio. Ma verso la fine di quell’estate — doveva essere settembre, avevamo avuto una delle più belle estati a memoria d’uomo e Ganderhill era così ricca di verdure fresche che le vendevamo nei paesi vicini —, verso la fine di quell’estate ci fu una serie di pomeriggi in cui guardavo verso meridione dalla terrazza e il cielo si trasformava: una luce azzurra dorata di straordinaria intensità, una grande striscia luminosa con al centro un punto esattamente a sud della mia posizione, si spandeva nel cielo, riempiendone da un sesto a un quarto, dall’orizzonte fino al punto più alto che si riusciva a vedere — e allora compresi una cosa, meravigliandomi per il puro splendore e per la magnificenza dello spettacolo, sulla natura della presenza di mia madre a Ganderhill. Peccato, però, che più tardi quello stesso anno, in autunno e in inverno, quando lei restava nell’ombra e veniva solo al crepuscolo, io smarrii quell’intuizione e provai di nuovo un senso di frustrazione e, a volte, una rabbiosa impazienza per il fatto che continuava a prendermi in giro e a tormentarmi in quel modo. Eppure preferivo la sua presenza spettrale al nulla.

Questi sono gli anni che chiamo «belli», con Spider in pace. Alla sera giocavo a biliardo con Derek Shadwell, e poi (Derek morì a Ganderhill) con Frank Tremble. Leggevo i tascabili che passavano di mano in mano al Blocco F, molto raramente un giornale; non ascoltavo quasi mai la radio (apparentemente, grandi cose accaddero nei primi anni, ma io non volevo saperne). Mi beavo della presenza di mia madre, nella parte di dietro dove l’avevo sempre tenuta, e non parlavo di lei con nessuno, neanche con Derek quand’era vivo. Diventai un buon giardiniere e, poiché la verdura fresca era in genere un bene scarso e apprezzato a Ganderhill, il mio accesso a essa contribuì considerevolmente al mio status nell’istituto. Il dottor Austin Marshall dimostrava una calorosa affabilità nei miei confronti e si ricordava quasi sempre il mio nome quando veniva zoppicando sulla terrazza con il bastone. Spesso aveva con sé i suoi cani, una coppia di grandi setter irlandesi con il pelo lucido, verso i quali io manifestavo un affetto che non provavo; pensavo con un certo piacere a quello che John Giles avrebbe fatto a quei cani dopo aver finito col direttore.

(Immaginatemi fuori sul pianerottolo, adesso, con le mani aggrappate alla maniglia della porta che dà sulla scala del solaio, mentre la scuoto e piango a dirotto, e le loro risate stridono e ululano nelle mie orecchie: mi accanisco invano, naturalmente, la porta è chiusa a chiave, ovvio, per cui pensatemi mentre torno al tavolo e lì cado, scricchiolando irrigidito, sulla sedia e prendo del tabacco per arrotolarmi una «grassa», ne ho bisogno. Adesso il frastuono diminuisce, mentre con dita tremanti la accendo e tiro la prima buona boccata, che sento scendermi nella gola, scacciare il terrore, sbucare in dense volute nel mio unico polmone, in fondo al quale si trova un verme che perlopiù sonnecchia, i segmenti del suo grasso corpo bianco ammonticchiati l’uno sull’altro in forma circolare. Il fumo riempie rapidamente il sacco, viene assorbito dal tessuto spugnoso grigiastro, entra nel sistema di filamenti che disegnano le loro biforcazioni (ancora!) nella carnosa superfìcie interna del mio guscio e arriva al cranio e al cervello. Niente sembra troppo triste dopo una fumata.)

Ogni pomeriggio verso le quattro, la mezza dozzina di uomini che lavorava negli orti si riuniva nel casotto per una tazza di tè, insieme a Fred Sims, il nostro infermiere. Sims era un tipo tranquillo, di cui ci si poteva fidare per avere notizie. Ricordo il giorno in cui ci disse che il direttore stava per andare in pensione. La pioggia batteva sul tetto del casotto, noi eravamo dentro, seduti su casse di legno, con i pantaloni gialli, lui aveva l’uniforme nera e il cappellino a punta; la porta era aperta. Ci fu un moto di disagio a questa informazione; i pazienti nella nostra posizione non apprezzavano i cambiamenti. «Cosa, il dottor Austin Marshall?»

Sims annuì, con gli occhi a terra, mentre si toglieva un filo di tabacco dalla punta della lingua. Un altro moto di sorpresa. «E perché, Fred?»

Lui sollevò le sopracciglia e si strinse nelle spalle. «Troppo vecchio, vogliono uno più giovane.»

«Uno più giovane, eh?»

Lui si tolse il berretto e si grattò la testa. Era molto sottile in cima. «Sembra che l’abbiano già scelto,» disse.

«E chi è, Fred?»

«È un certo dottor Jebb, di Londra.»

«Jebb,» disse Frank.

«Mai sentito,» disse Jimmy. «Che tipo è?»

«Ha idee nuove,» disse Sims.

Un silenzio molto teso, a questo punto, e strofinii di stivali sul pavimento. Intorno a noi, nell’oscurità, gli attrezzi pendevano dai chiodi alle pareti: vanghe, rastrelli, forconi, zappe, picconi, palette, cesoie. Sul pavimento, annaffiatoi ammaccati, mucchi di vasi, file di casse di legno. Scaffali con mazzi di indicatori tenuti insieme da elastici, cassette basse per la semina, rotoli di rete, gomitoli di spago, coltelli, matite, cucchiai, forbici, balle di reticella, vecchi giornali. Un forte odore di terra e di umidità. Fuori, l’uniforme scroscio della pioggia. «Idee nuove,» disse Jimmy. «Sembra che tu sia disoccupato, allora, Fred.» Ci facemmo una bella risata a questa battuta ma, quel pomeriggio, in tutti noi fu piantato il germe dell’ansia, perché nessuno voleva un cambiamento: né Frank, né Jimmy, né Sims, né io.

(Derek, naturalmente, non visse fino a vedere i cambiamenti che avvennero con l’arrivo del dottor Jebb, e fu fortunato. Ricordo che una volta mi disse che, per ogni sigaretta che lui fumava, sua madre doveva andare a letto con un marinaio. Povero vecchio Derek, sua madre era morta, anche se naturalmente non glielo ricordai. In quel momento stavamo giocando a biliardo, e la cosa peggiore, disse sparando una cannonata e imbucando la biglia rossa, era che lui stava fumando più che mai! Credo che possa essere stato questo che alla fine lo spinse a farlo.)


* * *

Dopo l’«estate di splendida luce», come giunsi a chiamarla, la presenza del fantasma di mia madre a Ganderhill si fece sempre più rara. Quell’estate fu il picco, l’acme, da questo punto di vista, e ci fu perfino un periodo — pochi giorni, non di più — in cui il tempo atmosferico finì sotto il controllo dei miei pensieri e delle mie azioni. Quelli furono giorni esilaranti, ma lo sforzo necessario per mantenere la splendida luce si rivelò alla fine eccessivo per me, così lentamente la lasciai svanire. In seguito, come ho detto, le sue apparizioni divennero più saltuarie e irregolari e, negli ultimi anni, l’ho vista forse non più di tre o quattro volte, e sempre al crepuscolo, nelle vicinanze del vecchio giardinetto del tè, ora coltivato a cavoli, cipollotti e patate, con una fila di paletti per i cetrioli sul lato sud.

Un giorno, Sims ci disse che il dottor Austin Marshall aveva sgomberato il suo ufficio e se n’era andato. Ci fu un banchetto di addio nel club dei dipendenti, durante il quale gli fu offerta una sedia a rotelle speciale, appositamente costruita nei laboratori di Ganderhill, perché sembrava che la sua gamba malata gli rendesse ormai impossibile camminare. Ci furono discorsi, e tutti si mostrarono molto commossi. Si parlò di una menzione nella Honors List dell’anno successivo.

Poi sembrò che Ganderhill trattenesse il fiato, in attesa degli sviluppi. Le notizie che Sims ci dava erano alternativamente allarmanti e rassicuranti. Si diceva che Jebb avesse intenzione di assumere nuovi psichiatri. Comunque, aumentò generosamente le distribuzioni di tabacco. L’atteggiamento di Sims verso il nuovo direttore era cauto e sospettoso come il mio.

Fui convocato nel suo ufficio una mattina alla fine di giugno. Avevo visto quell’uomo sulla terrazza, ma solo da lontano; per lui, niente tweed, niente cani, niente dell’affabilità cortese del suo predecessore. No, Jebb si muoveva in una nube turbolenta di decisione e vigore, che serviva solo a confermare le mie previsioni; indossava un abito scuro. Sedetti fuori dal suo ufficio su una sedia dura del corridoio, con le unghie sporche di terra e i pantaloni di velluto giallo: ero venuto direttamente dagli orti. Sedetti lì per trenta minuti, senza fumare; poi finalmente la porta si aprì, e un gruppo di infermieri anziani uscì con l’aria abbattuta. Il dottor Jebb allora mi guardò dalla soglia. «Le chiedo ancora un minuto,» disse, e tornò dentro, chiudendo la porta. Quindici minuti dopo mi chiamò.

Primo shock: mi disse di sedere, aggrottò la fronte leggendo la mia cartella, alzò la testa e si tolse gli occhiali — e io mi trovai a guardare dritto in due occhi della stessa fredda sfumatura di azzurro di quelli di mio padre! Mi ritrassi sulla sedia (dura, di legno). Aveva gli stessi capelli di mio padre — neri, fini, unti, pettinati all’indietro sulla fronte stretta e ondulati sulle tempie —, vi passava spesso la mano quando aggrottava la fronte. Lo stesso naso sottile, gli stessi baffetti che delineavano nettamente il labbro superiore, la stessa corporatura nervosa e lo stesso tono di energia esplosiva: che scherzo era questo? «Da quanto tempo è a Ganderhill?» disse senza preamboli, e fui sollevato nello scoprire che almeno la voce era differente.

Io mi agitai sulla sedia e mi schiarii la voce. Tutto ciò che riuscii a emettere fu una specie di gracchiare impotente. Lui aggrottò la fronte. «Quasi vent’anni, signor Cleg. Lei era molto disturbato al momento del ricovero…» — qui si rimise gli occhiali e lesse la cartella — «’… negativo… chiuso… non collaborativo… aggressivo.’ Si è calmato piuttosto alla svelta, però; ha fatto qualche amicizia, è diventato un buon lavoratore e, negli ultimi dieci anni, ha avuto un posto di fiducia come giardiniere, una fiducia di cui non ha abusato.» Si tolse gli occhiali di nuovo e mi guardò con quegli occhi di ghiaccio familiari. «Che ne direbbe di sperimentare la vita fuori di qui?»

Era quello che temevo. Malgrado ciò, non mi ero preparato una risposta. Mi mossi a disagio, guardai fuori dalla finestra, osservai le pareti: per fortuna, le battaglie navali non c’erano più. «Ebbene?» disse il dottor Jebb, battendo sulla scrivania con la punta di una matita: tap tap tap tap tap.

Io continuai a tacere, ad agitarmi interiormente in preda alla perplessità e allo sgomento. «Signor Cleg,» disse lui, sfregandosi gli occhi col pollice e l’indice della mano sinistra, «vediamo se riesco a immaginare quello che sta pensando. Da una parte…» — smise di sfregarsi gli occhi, li volse al soffitto, formò una guglia con le dita e vi appoggiò il mento — «… da una parte lei ha paura di abbandonare Ganderhill. Ha degli amici, qui, una routine, un lavoro…» — incominciò a contare le mie «credenziali» sulle dita — «… una certa…» — qui alzò le sopracciglia, comunicando ironia — «… anzianità all’interno della comunità dei pazienti e una profonda conoscenza del funzionamento dell’ospedale. [Si chiamava «ospedale», adesso?] Lasciare tutto questo, entrare in un mondo ignoto, è minaccioso; lei percepisce le difficoltà, i pericoli che la aspettano — e ha ragione, naturalmente, ci saranno delle difficoltà: la sua apprensione è perfettamente comprensibile.» Appoggiò le mani piatte sulla scrivania e mi fissò con indulgenza. Le mie mani si stavano comportando molto stranamente, a questo punto: sembrava che si stessero torcendo, ruotavano sui polsi, si rovesciavano; me le strinsi fra le ginocchia e afferrai la mia calza per confortarmi. «Dall’altra parte,» disse il dottor Jebb, «lei immagina come dev’essere la vita fuori da Ganderhill — senza porte chiuse e mura. Immagina come dev’essere bere un bicchiere di birra alla sera, conoscere delle donne. La prospettiva finirà per vincere le sue preoccupazioni. [Bere birra? Conoscere donne?] È, concordo con lei, un dilemma: non creda, la prego, che non me ne renda conto.»

Chiaramente si aspettava da me qualche risposta, ma io non potevo parlare senza fumare e non potevo fumare senza parlare. Dopo qualche momento di disagio, il dottor Jebb riprese: «Signor Cleg, vediamo se riesco a ricostruire la sua storia qui dentro. Quando lei giunse a Ganderhill era un ragazzo molto ammalato; in effetti, mostrava la maggior parte dei sintomi classici della schizofrenia. Aveva frequenti allucinazioni nelle sfere visiva, auditiva e olfattiva; le sue reazioni emotive erano stranamente inadeguate; aveva numerose idee fìsse, era affetto da una sindrome regressiva, soffriva di manie di persecuzione e di confusione mentale.» Guardò la cartella. «Era aggressivo in reparto e spesso doveva essere isolato in camera di sicurezza, legato. Mostrava di non comprendere il suo ambiente, né perché era stato condotto a Ganderhill. Io credo,» disse, chiudendo la cartella, «che tutto questo sia cambiato.»

«Cambiato,» mormorai.

«Cambiato,» ribadì. «Negli ultimi dieci anni lei si è assunto sempre più la responsabilità della sua vita. L’ospedale le ha imposto dei doveri, signor Cleg, doveri relativi alla pulizia, alla puntualità, alla competenza, alla socievolezza e alla cooperazione; lei ha risposto positivamente a queste richieste. La sua terapia è stata implicita nel ritmo quotidiano di impegni e contatti; non possiamo fare più niente per lei.»

«Più niente,» dissi debolmente.

«Ho bisogno del suo letto, signor Cleg.»

Il mio letto!

«Ganderhill è sovraffollato, e io credo che lei stia abbastanza bene da poterci lasciare. Ci sono delle ragioni per cui non dovrei affidarla alle cure di una comunità?»

«Sì!» gridai d’un tratto, senza averne l’intenzione; poi, scioccato dalla mia stessa audacia, caddi nel mutismo.

«E cioè?»

Silenzio.

«Cioè, signor Cleg?»

Niente.

«Signor Cleg, credo che lei dubiti della sua capacità di comportarsi adeguatamente nella società. È questo il problema?»

Ancora niente.

«Credo che forse è giunto il momento di parlare di sua madre.»

«Non sono affari suoi!» gridai.

«Ah. Dunque è così. Non sono affari miei.» Si tolse gli occhiali; un leggero sorriso aleggiava sulle sue labbra sottili ed esangui, un sorriso che conoscevo fin dall’infanzia, un sorriso che non prometteva niente di buono per me. «Signor Cleg,» disse improvvisamente serio e deciso, «io sono il suo responsabile medico. Gli affari suoi sono affari miei.»


Quando arrivai agli orti, gli uomini stavano rientrando per il pranzo, per cui tornai indietro con loro. A tavola, fui silenzioso e preoccupato, e mi lasciarono in pace. Verso le due e mezzo del pomeriggio, abbandonai quello che stavo facendo (un falò di rifiuti vegetali) e mi diressi verso il casotto. Mi chiusi la porta alle spalle, sedetti su una cassa e, con un coltello che usavamo per togliere gli occhi alle patate da semina, mi aprii i polsi. Venti minuti dopo, Fred Sims mi trovò col sangue che gocciolava in un vaso da fiori pieno di terra. Mi ricucirono nell’infermeria e, all’ora di cena, stavo in una camera di sicurezza di un «reparto duro», con addosso un camicione di stoffa antistrappo, sorvegliato a vista.


* * *

Ho continuato a scrivere nelle lunghe ore notturne. Ho fumato quasi senza interruzione, accendendo ogni sigaretta con il mozzicone di quella precedente. Il verme che ho nel polmone non si è svegliato, credo in conseguenza del fumo. Sporadiche esplosioni in solaio, niente che non abbia già sopportato altre volte. Ero molto attento alle sensazioni provenienti dallo spazio vuoto nel mio petto, perché adesso avevo ragione di ritenerlo infestato da ragni. Immaginavo trame di ragnatele scintillanti nell’oscurità, umide trappole di seta tese dallo sterno alla spina dorsale, dalle costole al bacino. Creature che correvano, filavano e tessevano dentro di me — a quale scopo? Per sei giorni, rimasi nel «reparto duro», e dopo dieci anni al Blocco F lo shock fu enorme.

Tornò tutto come prima. Gabinetti senza porte, l’umiliazione di essere sempre visibile, sempre accessibile a occhi ostili. E gli odori! Candeggina scadente, soprattutto, quei pavimenti di piastrelle sbeccate erano passati due, tre, quattro volte al giorno con acqua bollente e candeggina: sembrava sempre che ci fosse qualcuno che camminava lungo il corridoio, o avanti e indietro nel salone, con un vecchio spazzolone dell’istituto che terminava in un nido di ciuffi grigi e un secchio di alluminio con un attrezzo di metallo sull’orlo interno e un manico che si premeva per stringere i rebbi di quell’arnese sullo straccio e strizzarne fuori l’acqua sporca. Avevo dimenticato anche l’umiliazione quotidiana di dover chiedere minime quantità delle cose più essenziali: qualche pezzo di carta igienica, una presa di tabacco, un goccio di acqua calda. Magari la richiesta veniva esaudita, ma più spesso si restava lì a passare il peso da un piede all’altro mentre l’infermiere aggrottava la fronte infastidito e diceva di tornare più tardi, oppure ti sottoponeva a uno sguardo di fredda valutazione, lasciava trascorrere un momento, poi ti ignorava — tutto per tre riquadri di carta igienica dura, per pochi fili di tabacco pallido! Oh, la cortesia è sprecata con un pazzo, questo era il messaggio inciso nel freddo cuore di pietra di Ganderhill, è sprecata con un pazzo di un «reparto duro»!

Sei giorni rimasi nel «reparto duro»; poi una mattina mi condussero in fondo alla sezione per incontrare il dottor Jebb. Lui mi fece entrare nella saletta laterale e ci sedemmo. Pareti verdi, una finestra con le sbarre, una lampadina, un tavolo, due sedie di legno — nient’altro. Un portacenere di metallo in mezzo al tavolo. Io ero in maglietta e pantaloni grigi, con scarpe senza lacci. Lui aveva un abito scuro e una cravatta che immediatamente attirò la mia attenzione: era verde scuro e non aveva un disegno ripetitivo, ma un’unica immagine, in cui la figura dominante, uno scudo sostenuto da una coppia di draghi e sormontato da una specie di elmo alato, mostrava un serpente attorcigliato a un bastone. Allora non potevo capire appieno il significato della cravatta di Jebb; solo più tardi, riuscii a interpretarla in relazione ai cambiamenti che si verifìcavano all’interno del mio corpo e alla mia morte. Ciononostante essa provocò in me una sensazione di disagio. «Prego, fumi pure,» disse. Silenzio per qualche minuto, mentre con dita tremanti mi arrotolavo una «magra» e lui si toglieva gli occhiali e si produceva in quel familiare massaggio sugli occhi col pollice e l’indice — quante volte avevo visto lo stesso gesto, la stessa impazienza, nella cucina del numero 27! Poi, con un piccolo gesto delle dita verso i miei polsi fasciati, disse: «Assolutamente non necessario, signor Cleg, e molto melodrammatico. Mi ha deluso.»

Io non ero forte. Ero nel «reparto duro» da una settimana, ero stato completamente umiliato, non avevo nulla che potessi dire mio: niente stringhe, niente cintura, neanche una calza dentro i pantaloni. Non ero in condizione di reggere questa creatura dagli occhi freddi, questa copia di mio padre — questo Cleg-Jebb, o quello che fosse. Il silenzio era la mia unica arma, la ritirata di Spider nella zona di dietro, in qualche buco; tentai di fare questo mentre la voce saliva e scendeva, rimbombava e sibilava, e «Jebb» si rattrappiva, diventava minuscolo, e immense distese si aprivano in quella stanza dalle pareti verdi e dall’odore di candeggina. Ma dopo un momento… panico. Lunghi anni nel Blocco F, lunghi anni passati da uomo indipendente negli orti: qualcosa si era atrofizzato e, per quanto lottassi, non potevo sfuggire alla minuscola figura rimbombante dall’altra parte del grande tavolo. Si fece buio nella stanza, il ben noto incubo era su di me; ero rigido, pesante, bloccato; mi dibattevo nel davanti del mio cervello, incapace di sfuggire ai boati e ai sibili, agli occhi, alle mani, di questo Cleg-Jebb al di là del tavolo. «Un grido di aiuto,» rombava; «puro panico,» rintronava; «la necessità di affrontare,» sibilava mentre io mi contorcevo, non più Spider — lui era il ragno e io la mosca! «Sfuggire alla responsabilità dell’incidente,» sibilava; «lei ha ucciso sua madre,» rimbombava, e io mi alzai selvaggiamente in piedi e gli puntai contro un dito tremante. «Sei stato tu!» gridai. «Non io, tu

La porta che si apriva — infermieri; subito in una camera di sicurezza, e solo allora, solo allora Spider riguadagnò finalmente la sua antica prontezza e si infilò in un buco e mi lasciò a dondolare avanti e indietro in un angolo.


Passai a Ganderhill altri tre mesi: uno nel «reparto duro», due giù al Blocco F. Ci furono altri colloqui con il direttore, nel corso dei quali egli ricostruì la mia «storia». Poi, una mattina fredda e nebbiosa all’inizio di ottobre, mi dimise. Immaginatemi in piedi davanti al portone principale, sotto l’orologio, in un vecchio vestito grigio, con in mano una valigia di cartone quasi vuota; pensatemi mentre giro la testa a destra e a sinistra, pensate al mio sgomento. In tasca avevo tre biglietti da una sterlina, qualche moneta e un pezzo di carta con su scritto l’indirizzo della signora Wilkinson.


* * *

Cleg-Jebb aveva ricostruito la mia storia, ma l’aveva ricostruita sbagliata sbagliata sbagliata: era una brutta storia. Se sapeva qualcosa del piano di mio padre per mandarmi in Canada non lo disse, così come non disse se capiva il mio terrore a quella prospettiva, se in altri termini aveva saputo ciò che era realmente avvenuto di mia madre. Non era difficile immaginare quello che sarebbe seguito: sarei stato attirato agli orti in una notte di nebbia e là, fortificato dal bere e dalla presenza di Hilda, mio padre mi avrebbe abbattuto con un attrezzo da giardiniere. Avrebbe scavato un’altra buca (mostrando di nuovo quella sollecitudine stranamente incongrua per le piante di patate), poi, sempre sotto lo sguardo di approvazione di Hilda, mi avrebbe buttato dentro e ricoperto di terra e, senza neanche il benefìcio di un lenzuolo, sarei ben presto diventato cibo per larve, scarafaggi e vermi, che non avrebbero lasciato di me altro che un mucchio di lunghe ossa staccate e scollegate, destinate a diventare sempre più divise a ogni movimento del terreno, finché la mia fragile struttura avrebbe perduto la poca coerenza e integrità che aveva posseduto in vita e si sarebbe dispersa nel sottosuolo di Londra! Poi, giù al Dog and Beggar, quando gli uomini avessero chiesto: «Dov’è finito quel tuo ragazzo, Horace?» o: «Dov’è il piccolo Dennis?», mio padre avrebbe detto, col suo sorrisino astuto, magari asciugandosi la birra dal labbro superiore: «Ha raggiunto sua madre in Canada» — e Hilda non sarebbe riuscita a reprimere una rauca esplosione di risa antipatiche, e questo sarebbe stato il mio epitaffio.

Sedetti in camera mia e li sentii mormorare giù in cucina. Poi uno strascichio di sedie, Hilda che salì brevemente, e pochi minuti dopo se ne andarono dalla porta sul retro. Io scesi da basso e uscii dietro di loro. Li vidi nel vicolo, a braccetto, che svoltavano a destra in fondo, verso il Rochester. Tornai di sopra, allora, e tirai fuori da sotto il letto un gomitolo di spago marrone che avevo rubato. Ne tagliai un pezzo e legai un’estremità alla gamba del letto. L’altro capo lo lasciai cadere fuori dalla finestra; si raccolse in un rotolo arruffato nel cortile, vicino alla porta. Scesi di nuovo, tirai dentro la corda dalla finestra della cucina (aperta un centimetro) e la legai a uno dei rubinetti della cucina economica. Tornai di sopra e, seduto vicino alla finestra aperta, tirai lo spago finché fu ben teso fra le mie dita. A questo punto incominciai a strattonarlo dolcemente; potete immaginare a che scopo.

Andai su e giù per la mezz’ora seguente, sistemando lo spago, cercando di farlo funzionare. La corda si tendeva, ma il rubinetto del gas non si apriva e, se tiravo più forte, si spezzava nel punto in cui sfregava contro la finestra. Incominciai a pensare a qualche meccanismo per farla scorrere bene, una sorta di spoletta montata su un perno o su una bobina, ma come attaccare un aggeggio simile alla finestra della cucina senza che lo si notasse? Poi sentii il suono degli stivali chiodati nel vicolo e le voci forti, per cui liberai il rubinetto, corsi di sopra e ritirai la corda. Entrarono in cortile, Horace e Hilda, Harold e Glad, a braccetto e sconvolti dal bere — Hilda, ridendo sguaiatamente della propria mancanza di equilibrio quando si allontanò da mio padre (che era il più sobrio dei due), si schiantò contro il gabinetto, dove la sentii gridare, battere alla porta e cercare di accendere la candela. Gli altri entrarono, e la luce della cucina venne accesa; poi Hilda uscì dal gabinetto, tirandosi giù la gonna, e prima ancora di raggiungere la porta sul retro aveva preso a esprimere ad alta voce il suo stupore per il fatto di vivere con un idraulico incapace di riparare il proprio water. Era una vera disgrazia (si peritava di informarci), ma a questo punto Gladys stava strillando in cucina; al che, sentii Hilda dire: «Dai, Glad, bevi qualcosa, ti farà bene.» Chiusi la porta, tornai alla finestra e cercai di dimenticare il loro rumore. Quando finalmente Harold e Glad se ne andarono, mi misi ad ascoltare attentamente alla porta: Hilda salì per prima, mio padre poco dopo; non si sarebbe addormentato sulla sedia vicino alla stufa, quella notte.


I giorni seguenti furono pieni di stranezze e terrori. Non riuscivo a stare in casa e, quando uscivo, i miei passi sembravano portarmi sempre contro la mia volontà agli orti, all’orto di mio padre — e questo malgrado sapessi che intendeva uccidermi là. Nelle giornate molto fredde, mi intrufolavo nel casotto, dove accendevo le candele e mi avvolgevo nei sacchi delle patate per riscaldarmi. Una volta, al tramonto, scorsi mia madre vicino ai resti del mucchio di compost; ma quando corsi là, lei era scomparsa. Un’altra volta, vidi dal ponte della ferrovia che il casotto era in fiamme — un furioso, grande falò nell’immobilità della luce pomeridiana —, ma quanto più mi avvicinavo, tanto più diminuiva, e quando raggiunsi il cancello la costruzione appariva com’era sempre stata. Spesso mi sdraiavo sul terreno gelato per sentire mia madre che mi cercava; sovente restavo deluso, ma in parecchie occasioni mi invitò a raggiungerla: questo mi faceva soffrire acutamente; l’amore e il terrore permeavano il mio cuore in eguai misura, con eguale passione, così mi sembrava.

Talvolta scendevo in cantina e sedevo in un angolo annusando il carbone e guardando i germi neri danzare nelle poche lame di luce del giorno che filtravano dalle assi del pavimento di sopra. Faceva freddo, laggiù nella carbonaia, per cui mi avvolgevo la testa e le spalle in un pezzo di sacco sporco a forma di saio e rannicchiavo le ginocchia al petto e le circondavo con le braccia; rabbrividivo e sbuffavo la condensa del fiato verso i raggi di luce: allora vedevo i piccoli germi, i diavoletti, girare e ondeggiare selvaggiamente, e questo mi faceva ridere. Un pomeriggio, mentre ero seduto immobile e in silenzio, un topo uscì strisciando e andò lungo il muro a piccoli scatti, fermandosi ogni pochi passi per arricciare il musino. Dopo questo fatto, tirai fuori il formaggio dalle trappole e lo sparsi a pezzetti sul pavimento; così facendo, potei vedere parecchi topi contemporaneamente. Mi piacevano le loro code, com’erano lunghe, grassocce e pallide, e coperte da una leggera peluria, mentre strisciavano dietro di loro come corde sul ponte di una nave. Una volta, Hilda mi senti ridere laggiù, e la porta si aprì, la luce penetrò dall’alto. «Cosa fai lì?» gridò. Seduto nel mio angolo, avvolto nel mio saio, nell’ombra, non dissi nulla; lei scese di qualche passo in quel suo strano modo laterale di percorrere le scale e vide i topi. Con un grido di orrore, risalì, e la porta si chiuse di scatto alle sue spalle! Risate dall’ombra. Quando mio padre tornò a casa dal lavoro, lo costrinse a scendere e ad armare le trappole. Il giorno dopo c’erano due topi morti. Me li misi in tasca. Risistemai io stesso le trappole: mi piacevano sia morti che vivi. Una volta, mentre ero nell’angolo, sentii una voce che diceva: «Spider!» Non era la voce di mia madre, era una voce spezzata e profonda, come quella di una vecchia, e io capii che era la strega che viveva nel muro. Non tornai più in cantina, dopo questo fatto.

Presi ad aggirarmi sotto il ponte del canale, dove c’era buio. C’erano molte cose, nel mondo visibile, che ormai mi procuravano una terribile ansia — avevo costantemente la sensazione che stesse per verificarsi qualche immane catastrofe e questa percezione talvolta diventava così forte che stramazzavo al suolo vicino al muro sotto il ponte e mi coprivo gli occhi e le orecchie con le braccia. Era la paura che mio padre mi facesse raggiungere mia madre in Canada, era la paura di essere aggredito con un attrezzo da giardiniere nel momento in cui meno me lo aspettavo. Tentai di non fargli capire quello che sapevo, ma non potevo più dormire al numero 27, e mangiavo a malapena — perché avrei dovuto farlo? Perché avrei dovuto toccare carni o verdure preparate da Hilda? Le loro facce stavano cambiando, adesso: li vedevo mangiare, con le mascelle in movimento, gli occhi brillanti nell’oscurità della cucina, i denti che si chiudevano su pezzi di cibo, ma ogni immagine era fissata in uno spazio diverso e distinto, e solo combinando frammenti dei loro volti e delle loro mani riuscivo a metterli a fuoco e a prestare attenzione alle loro attività. Ben presto persero qualsiasi parvenza di umanità potessero aver avuto e, in quell’aspetto frantumato, mostravano la loro vera natura, la loro morte e la loro animalità; quando vedevo ciò, la sensazione di disastro incombente quasi mi sopraffaceva e fuggivo dalla cucina terrorizzato, ignorando le loro grida e i loro gemiti di fame frustrata, perché pensavano di mangiarmi, pensavano di divorarmi.

Alla notte ero più calmo, in parte come conseguenza del buio, in parte perché loro erano spesso fuori di casa. Talvolta li seguivo quando andavano al Rochester, li guardavo dalle finestre mentre bevevano e, se Hilda andava in bagno, salivo sopra una botte per spiarla mentre pisciava. In altre occasioni, restavo a casa e facevo delle prove con pezzi di spago tesi dalla mia finestra al rubinetto della cucina economica. Una volta, mentre tiravo lo spago e cercavo di far ruotare il rubinetto, ma sentii la bocca riempirsi di uccellini, che stritolai fra i denti: le piume, il sangue e le ossa frantumate incominciarono a soffocarmi e vomitai e vomitai, ma non venne fuori nulla. Un’altra volta, trovai una bottiglia di latte vicino al canale; in essa c’era il cadavere putrefatto di un uomo che mio padre aveva assassinato la sera prima; la aprii e bevvi il latte. Un’altra volta ancora, trovai un bambino con un buco in cima alla testa, attraverso il quale succhiai e inghiottii tutto ciò che c’era nel capo del bimbo, finché la sua faccia collassò come una maschera di gomma vuota. Più tardi, mi ricordai che questo è il modo in cui i ragni divorano gli insetti. Quella sera casualmente caddi addormentato, e mio padre entrò e mi compresse il cranio con un pappagallo da idraulico e, quando mi svegliai, avevo la testa a forma di pera: questo perché si adattasse al sacco che avevano preparato per assassinarmici dentro.

Diventavano sempre più affamati man mano che i giorni passavano, e io sapevo che il momento sarebbe arrivato presto. Quando Hilda mi guardava, la saliva le colava dalla bocca e le scivolava sul mento rozzo. Mio padre era più furtivo nelle sue manifestazioni di appetito: mi guardava sempre con la coda dell’occhio. Le sue mani, notai, somigliavano a zampe, adesso. Morte e animalità: non avevo un nome per creature del genere: non ce l’ho neanche adesso, malgrado il fatto che una di esse in questo momento giaccia addormentata dall’altra parte della casa, tranquilla per la convinzione che le sue creature in solaio — a dispetto del loro momentaneo tradimento — la preserveranno dal male. Ascoltatele!


Ascoltatele. C’è un ritmo nella loro attività, tre onde distinte, ciascuna che sale e scende, ciascuna separata dalla precedente da un momento di calma o iato durante il quale provo sia il sollievo sia il tormento dell’attesa (un’anticipazione intensa quanto l’onda stessa). Ciascuna incomincia al livello della massima veemenza di quella che l’ha preceduta, per cui c’è un massiccio incremento di volume e di frenesia tra la prima e l’ultima parte della notte. E cos’è che fanno? Impossibile essere precisi: ci sono canti, passi e anche sibili, grida, urla e strilli solo in parte intelligibili, scrosci di risa, voci di persone che ho conosciuto che dicono cose assolutamente imprevedibili: il dottor Austin Marshall recita versi osceni, per esempio. Usano il mio nome liberamente, ci giocano su, lo invertono: «gelc», mi chiamano, «gelc», e recentemente hanno inventato la canzone: «gelc SINNED gelc sinned gelc sinned gelc sinned gelc SINNED gelc sinned gelc sinned gelc sinned…» La ripetono in continuazione, sempre più forte, battendo i piedi in modo tale che la lampadina oscilla avanti e indietro appesa al cavo, e io sono immerso nell’ombra, poi riportato alla lurida vita, immerso nell’ombra, riportato alla lurida luce — e mi raggomitolo sulla sedia con le gambe rannicchiate sul petto e la testa fra le ginocchia e le mani sulle orecchie, piangendo piangendo piangendo, mentre loro mi spingono fino al limite della sopportazione. Poi tutto finisce in stridule risa, tutto questo gradualmente scema, seguito da borbottii — e lentamente alzo la testa e mi aggrappo tremante all’orlo del tavolo, magari prendo la matita o mi arrotolo una sigaretta veloce, mentre loro si preparano alla prossima ondata — che incomincia, come ho detto, al culmine della frenesia dell’ultima!

Tre onde, seguite dalla spossatezza. Finalmente mi alzo dalla sedia e resto immobile a guardare fuori dalla finestra, a guardare verso est per cogliere il primo debole segno dell’alba, e mi ripeto: «Basta.» Mi aggiro per la casa addormentata, davanti a porte oltre le quali sognano le anime morte; scendo le scale in punta di piedi e vado in cucina, torno nell’atrio, getto un’occhiata nell’ufficio della signora Wilkinson — ed è allora che le vedo: sulla sua scrivania, sparpagliate nel buio, le chiavi della casa. Le chiavi della casa. Un silenzioso grido di gioia risuona dentro il vostro vecchio Spider mentre attraversa la stanza e, con un agile e rapido movimento, intasca il mazzo. Poi via, con lunghi passi da ragno, di nuovo di sopra, di nuovo in camera sua, non visto, non udito, non fermato da nessuno.


* * *

Con la valigia di cartone in mano e le tre banconote da una sterlina in tasca, mi voltai per dare un’ultima occhiata al portone di Ganderhill. Fiancheggiato da una coppia di torrette quadrate, era alto cinque metri e terminava con un arco a sesto acuto, al di sopra del quale c’era un enorme orologio che segnava le dieci e un minuto. Era una bella mattina chiara, e il sole autunnale illuminava morbidamente i mattoni. Una porticina si apriva nel battente di sinistra, ed era da questa porticina che io ero emerso. Il signor Thomas stava sulla soglia; era capo infermiere adesso e si era occupato dei dettagli della mia dimissione; mi aveva anche omaggiato di un paio di pacchetti di Capstan Full Strenght. Sollevò la mano, io alzai la mia; tornò dentro e la porta venne richiusa.

In qualche modo, trovai la strada per il paese e salii a bordo dell’autobus giusto. Sedetti vicino al finestrino e fumai; osservai la campagna mentre ci dirigevamo verso Londra, cercando di controllare le forti ondate di spaesamento e di nostalgia che a tratti quasi mi sopraffacevano. Mi sentivo, in un certo senso, come dopo la morte di mia madre — la stessa sensazione di essere isolato, senza amici, in un mondo estraneo e minaccioso. Vent’anni a Ganderhill, come conoscevo bene quel posto! I cortili e i corridoi, i giardini e i gabinetti — permeati, tutti, dai fugaci sussurri della sua presenza, poiché mi si mostrava timidamente, di quando in quando, nell’ombra irregolare di un olmo, su una terrazza solitaria al crepuscolo. E, oh, i ritmi e i rituali che governavano la vita lì — in tutto questo, io avevo un posto, ci si preoccupava che avessi un posto. Mentre sedevo su quel lento autobus diretto a Londra, fra le casalinghe con le borse della spesa, seppi con assoluta certezza che non potevo sperare nulla di meglio — non io, non il vecchio Spider; adesso era finita davvero, perché Jebb non mi avrebbe mai ripreso, me l’aveva fatto capire abbastanza chiaramente. Ora sui miei pensieri aleggiava un’ombra infausta, perché sentivo i primi leggeri segnali del disastro che si avvicinava — là fuori, nel lontano orizzonte, qualcosa di grosso e nero e terribile si stava muovendo verso di me. Perché cosa potevo dare io a questo mondo nel quale ero stato gettato all’improvviso, e cosa poteva darmi lui?

Poi arrivammo sulla strada principale e si andò più velocemente. Io cercavo di vedere cosa mi aspettava, ma non ci riuscivo: non riuscivo a immaginare il tipo di vita che dovevo condurre adesso. Come avrei vissuto? Chi sarei stato? Dennis Cleg di Ganderhill? Il pazzo? Oh, sicuramente no: sapevo immaginarmi almeno l’effetto che avrebbe avuto, gli sguardi freddi, i sogghigni, i sussurri sprezzanti — gli schemi di pensiero, insomma. All’improvviso, mi vidi scagliato nel vuoto e, per alcuni minuti, divenni scollegato per il terrore e mi bloccai rigido sul sedile con la sigaretta a metà strada verso le labbra. Immediatamente sentii gli occhi delle donne su di me, le loro teste che si chinavano l’una verso l’altra, i mormorii, le risate sommesse, gli sbuffi di disprezzo. Passò abbastanza alla svelta, grazie a Dio, e con uno sforzo riuscii a conservare la calma. Poi incominciai a vedere strade e palazzi, e capii che eravamo alla periferia della città, e questo mi diede un piccolo conforto; io sono Spider di Londra, dopo tutto! Lungo le rive vicino al ponte di Westminster, il Tamigi brillava di una luce verde scintillante nel sole autunnale, e la sua vista mi fece bene. Un po’ di familiarità, ecco tutto, qualcosa di noto, addolcisce l’anima, dà forza. Tirai fuori il foglietto con l’indirizzo della signora Wilkinson: conoscevo il posto, ci ero andato spesso da ragazzo. Era nell’East End, sapete.

Qualche problema con la gente, all’inizio — gli occhi, gli schemi di pensiero! L’aria ne era piena, e di nuovo mi scollegai, rimasi nel centro della Victoria Coach Station, aggrappato alla mia valigia e immobile come una statua. Ma questa era Londra, dopo tutto, e io la conoscevo, e ben presto uscii per cercare l’autobus numero 27 — o era il 37, o il 137?


Nel tardo pomeriggio, arrivai alla porta della signora Wilkinson. Mi ero perso parecchie volte, perché la città era cambiata in modi per me incomprensibili. Bussai; lei aprì la porta. «Signor Cleg?» disse. «L’aspettavamo.» Entrai, esausto e confuso e prossimo alle lacrime, e neanche per un istante capii chi era. Solo adesso riesco a cogliere le implicazioni di quelle sue prime parole. Avrebbe potuto dire: «L’aspettavamo per poter finire il lavoro incominciato in Kitchener Street vent’anni fa.»


* * *

Mi avvolsi in giornali nuovi, trovai delle calze pulite nel comò e buttai le vecchie in un buco dietro l’attacco del gas. Poi, disteso supino sul letto, le mani dietro la testa, le gambe incrociate alle caviglie, guardai il fumo della sigaretta che saliva e volteggiava verso il soffitto. Nei pantaloni, fra le cosce, nella mia calza, la solida pressione delle chiavi di casa. Sono fermate da un grosso elastico, per impedire che sbattano l’una contro l’altra e tradiscano così la loro presenza.

La campanella, finalmente, e io mi alzo dal letto e scendo allegramente le scale, mentre le prime anime morte emergono dai loro buchi, battendo le palpebre. Tutto come al solito in cucina — la «baffona» che fa cadere la cenere nella pentola, la tela cerata sul tavolo appena pulita e puzzolente di candeggina, il sibilante borbottio del porridge mentre il vapore sale dalla pentola e si mescola al fumo di sigaretta nel raggio di sole invernale proveniente dalla finestra sopra il lavandino. Le anime morte entrano, io bevo il tè, niente latte, molto zucchero. Non mangio adesso, essendo il mio intestino avvolto alla spina dorsale, ma bevo il tè: ripulisce dai ragni.

Poi Hilda riempie la porta, squadrandoci da molto in alto e chiedendoci se abbiamo visto le sue chiavi. Una contrazione di eccitata colpevolezza laggiù, dove la calza appesantita preme contro le mie cosce ben coperte. Oh lei aggrotta la fronte, oh il magnifico terrore, oh che furia, oh immaginare di cedere e, con deliziosa vergogna, estrarre la calza e porgergliela con le dita tremanti e gli occhi bassi, le guance in fiamme, desiderando la punizione, chiedendo l’umiliazione, l’abbattimento, la pena! Ma conservo la calma, la fisso (che volpe!) con gli occhi vuoti e la bocca aperta, scuoto la mia lenta testa quando i suoi occhi penetranti ruotano verso di me, mi bruciano l’anima: ma la verità è che non c’è anima, solo ragni adesso, solo ragni! Poi, aggrottata e tempestosa, se ne va; io bevo dell’altro tè, tocco la calza, mi arrotolo una «grassa», nascondo la mia felicità.

Poi fuori, fuori nell’aria frizzante e chiara, ma non senza un incontro finale vicino alla porta d’ingresso, non senza che lei mi chieda se ero sicuro di non sapere nulla delle sue chiavi. Vuota, muta e inutile stretta di spalle da parte dell’astuto Spider, la cui presenza segreta è tutta nella calza, mentre la faccia in alto registra solo una stupida, sorpresa ignoranza.

All’inizio, cammino velocemente — velocemente per me — oltre il parco, dove i corvi battono le ali sui rami nudi, oltre il cimitero chiuso; poi una brusca svolta a sinistra e giù lungo il viadotto della ferrovia (scorci dei gasometri attraverso le arcate) e dopo, con passo sempre più lento, verso il canale. Verde nerastro nella luce mattutina, improvvisi bagliori di diamanti sull’acqua, sole invernale — e c’è mia madre sul ponte gobbo, che mi dà le spalle, e io mi fermo immobile, divento scollegato, guardo attonito, con gioia vertiginosa, la chiarezza della sua forma in controluce. Con il viso ancora nascosto dalla sciarpa, lei prosegue e si perde dietro a un muro dall’altra parte, dal lato di Kitchener Street.

E ora finalmente percorro il sentiero fino al ponte e, per la prima volta da vent’anni, tocco il corrimano di ferro: sento quanto è freddo, e vado avanti. Oh, terrore! Oh, con quei primi passi un caos di turbolenze e un vortice di fluidi dentro di me, e voci che si levano, cachinni increduli, gemiti di paura — ma a dispetto di tutto ciò, io attraverso il ponte: continuando ad avanzare alla cieca con tutte e due le mani sulla ringhiera, attraverso il ponte.

E adesso cammino per strade nello stesso tempo familiari e sconosciute, stranamente vuote, in qualche modo stranamente desolate. Mi imbatto in un uomo con un cavallo. Sono fermi in fondo a una strada senza uscita, sotto un alto muro di mattoni. L’uomo indossa una camicia bianca con le maniche rimboccate; il cavallo ha solo una briglia. Io resto immobile e guardo l’uomo che afferra la redine e, voltato di sbieco verso il cavallo, lo guida lentamente in mezzo alla strada. Incomincia a correre, gridando al cavallo, che alza gli zoccoli, i ferri risuonano sul selciato freddo, e ritrae le labbra scoprendo i denti mentre la lunga testa si solleva ed emette un forte nitrito. Vengono verso di me nella strada vuota: l’uomo mezzo girato che corre in maniche di camicia bianca e il cavallo al trotto che agita la testa; si formano delle nuvolette mentre il loro respiro diventa nebbia nell’aria fredda. L’uomo fa rallentare il cavallo quando sono vicini alla mia estremità della strada, lo mette al passo, poi la fa voltare — io guardo i fianchi ansimanti della bestia! — e lo riporta al trotto verso l’estremità opposta.

Mi allontano cercando mia madre. All’angolo, vedo un pub bruciato da un incendio, le bianche pareti macchiate e annerite dal fumo e le finestre come semplici buchi neri, prive di vetri, occhi ciechi. Sopra la porta, sbarrata con assi, pende l’insegna, ma il metallo si è contorto per il calore e la scritta risulta talmente rovinata che il nome è illeggibile. Svolto un altro angolo — e mi trovo all’ombra dei gasometri di Spleen Street.

Oh Cristo, il rubinetto della stufa a gas, il rubinetto il rubinetto il rubinetto della stufa in cucina; oh Cristo, evitami questa prova: uno spinotto scanalato di materiale duro fissato da dietro con una vite a un tubo attaccato al bruciatore del gas. In uno dei rubinetti una vite rivolta verso la finestra: un paio di giri con un cacciavite ed essa uscì quanto bastava perché io potessi legarvi un pezzo di spago, che poi tirai non fuori dalla finestra, ma fino a un gancio fissato al pavimento e poi lungo l’impiantito e sotto la porta fino a un chiodo che avevo piantato di fianco alla scala, appena sopra il pavimento, poi su in verticale fino al pianerottolo. E quando lo tirai, si tese dal rubinetto al gancio, dal gancio al chiodo e dal chiodo a me; e quando lo strattonai delicatamente, il rubinetto si aprì leggermente e il gas incominciò a diffondersi nella cucina…

Oh, distolgo gli occhi, volto le spalle alle massicce cupole, la loro vernice scrostata e rugginosa orribilmente vivida nella luce mattutina e le loro strutture a croce che si moltiplicano all’infinito sopra la mia testa: qui c’è orrore, l’orrore della riproduzione, per cui distogliendo lo sguardo mi allontano. Devo andare a casa, mi dico, devo andare a casa, devo andare alla casa di Kitchener Street, dove mia madre mi sta aspettando vicino alla porta sul retro.

Adesso le strade sono dolorosamente familiari, e i ricordi sorgono a mucchi dai profondi recessi della mia mente, e io resto scollegato per molti minuti e devo appoggiarmi a un muro e, con dita incerte, tentare di arrotolarmi una sigaretta; nel mio polmone, il verme sembra stirarsi. Una donna con una borsa a rete piena di pacchi avvolti in carta marrone e legati con lo spago si ferma davanti a me e mi chiede se sto male. Io mi stacco dal muro e mi allontano. Devo andare a casa da mia madre! Allora scendo lungo Victoria Street e non quest’angolo, non il prossimo, ma quello dopo è Kitchener Street. Ascoltatele adesso! Che banda maledetta! Ma arriva lui, l’abile vecchio Spider, la stoffa che sbatte sulle membra coperte di giornale, trenta metri, quindici — oh, un gran martellare nel mio petto adesso, il verme si sveglia, e poi sono all’angolo, lo svolto e guardo…

Niente. Una barriera di lamiera ondulata. Cosa mi sta succedendo? Attraverso una fessura nella recinzione vedo un terreno desolato, pieno di buche. È disseminato di mucchi di mattoni e macerie e di erbacce con fiori viola, e qua e là ci sono pezzi di tubo nero di gomma, lattine arrugginite, vecchie scarpe, copertoni. Cosa mi sta succedendo? Scrosci di risa, un cane che abbaia. È opera mia, questa?


* * *

Di nuovo al mio tavolo, adesso. Molto scosso da ciò che ho visto stamattina, molto fragile, molto debole. Mi ero lanciato nella strada in preda al panico, passando da un lampione all’altro come un ubriaco, fino al punto in cui doveva trovarsi il numero 27. Un buco nella recinzione: ci avevo attaccato l’occhio e avevo trovato un altro buco, una leggera depressione piena di pezzi di mattoni, tegole, legni, spazzatura, le solite erbacce coi fiori viola che oscillavano nel vento; e una voce aveva detto: «Questa è opera tua.»

E allora, mentre stavo appoggiato alla recinzione, disperato e in lacrime, era giunto un odore, e poi un ricordo, uscito da qualche piega profonda della mia mente: vidi me stesso seduto alla finestra della mia camera sopra la cucina, che guardavo Horace e Hilda uscire per andare al pub. Poi vidi me stesso che scendevo lentamente le scale, percorrevo il corridoio ed entravo in cucina. Vidi me stesso sistemare la mia trappola: attaccai un capo dello spago alla vite sul rubinetto della stufa a gas, poi lo feci passare attentamente nell’anello e sotto la porta e fuori nel corridoio fino al chiodo accanto alla scala. Stando a metà della scala, lo avvolsi delicatamente al chiodo e poi, salendo fino in cima, lo fissai alla balaustra. Quindi rientrai in camera mia e attesi il loro ritorno.

Vidi me stesso di nuovo seduto alla finestra con la luce spenta. Ricordo che avvertivo una specie di ronzio nelle orecchie che annientava tutti gli altri suoni, sicché quando tornarono Horace e Hilda sembrarono attraversare il cortile in perfetto silenzio, e al rallentatore; i loro movimenti erano goffi e scoordinati, e io dovetti ficcarmi un lenzuolo in bocca per bloccare l’ondata di risa che lo spettacolo provocava in me. Finalmente raggiunsero la porta sul retro ed entrarono; sentii le voci forti per qualche minuto, poi il passo lento e pesante di Hilda sulle scale, di Hilda sola. Questo produsse un silenzioso grido di esultanza nel giovane e inquieto Spider: come fu difficile soffocare le mie risa, allora! Aspettai cinque, dieci, venticinque minuti — venticinque minuti che sembrarono venticinque anni! Poi scivolai silenziosamente fuori dalla mia camera: la casa era buia e silenziosa, la porta della cucina era chiusa. Quasi senza respirare, sedetti in cima alle scale e slegai lo spago dalla balaustra. Delicatamente, molto delicatamente lo tirai; nella mia immaginazione lo vedevo tendersi dal rubinetto all’anello, dall’anello al chiodo e dal chiodo a me; lo trattenni un lungo momento, pensando: lo spago è nelle mie dita, la sua vita nelle mie mani. Poi tirai — si mosse —, abbastanza. Legai di nuovo lo spago alla balaustra e scivolai in camera mia.

Insonne per il trionfo, sedetti a gambe incrociate sul letto, al buio. Sussultavo ridendo silenziosamente. Poi lentamente, lentamente dal basso, alla fine salì alle mie avide narici in attesa un debole ma inequivocabile odore di gas…

Sì, quella era proprio opera mia. Mi ero allontanato dalla recinzione; il panico si era placato e mi sentivo stranamente calmo (anche se con tutta quell’eccitazione il verme nel mio polmone si era svegliato). Notai allora che, sull’altro lato, le case coi numeri pari erano intatte, sebbene le finestre apparissero sbarrate; c’erano degli edifìci ancora in piedi anche da questa parte, verso il fondo. Proseguii più sicuro adesso, diretto verso il fondo della strada. Là trovai tre case: numero 53, sbarrata; numero 55, anch’essa sbarrata; e il Dog and Beggar. Il Dog and Beggar! Mi appoggiai al muro e risi: sì, immaginate un po’, immaginate un po’ il vostro Spider che a questo punto si appoggia a un muro col suo grosso mento sollevato e lascia partire una breve, roca risata, sommessa e ansimante. Ma, dopo un momento, si staccò dal muro, andò all’ingresso del locale pubblico ed entrò.

L’uscio si chiuse alle sue spalle. Nulla era cambiato. Erano le undici di mattina, e la fredda luce del sole entrava dalla finestra vicino alla porta. Un piccolo fuoco di carbone bruciava nel caminetto, e a un tavolo lì accanto sedeva un uomo anziano con un bicchiere di birra; per il resto, la sala era vuota. Il pavimento di legno, lo specchio sopra il caminetto, la sbarra di ottone all’altezza della caviglia sul vetusto bancone scheggiato — nulla era cambiato qui. Gli odori della pipa del vecchio, della birra della sera prima, il crepitio del carbone che bruciava; sul banco un giornale piegato, chiuso alla pagina sportiva… Spider entrò e sedette su una seggiola vicino alla porta. Tutto era fermo e silenzioso; la polvere danzava nella luce invernale e un orologio ticchettava da qualche parte dietro il bancone.

Spider sedette come in trance e ascoltò il ticchettio dell’orologio, guardando i granelli di polvere. Un uomo apparve dietro al bancone, lucidando un bicchiere col grembiule. Era lui! Era Ernie Ratcliff! Le stesse mani sottili, gli stessi occhi stretti, la stessa aria astuta da donnola; anche se i capelli erano più radi adesso, l’amarezza era incisa profondamente nei lineamenti. Guardò Spider. «Cosa desidera?» disse. Spider fissò l’uomo. Ernie Ratcliff — una delle ultime persone che aveva visto sua madre viva! «’Sera, signora Cleg. Cerca il suo vecchio? Era qui, ma credo che sia andato via.» Quasi le ultime parole amichevoli che lei aveva sentito: non tanto amichevoli, perché Ratcliff non era mai stato quello che si dice «un tipo amichevole». «Cosa desidera allora?» ripeté, posando il bicchiere lucidato e passandosi le mani nel grembiule. Spider si alzò in piedi e pescò nelle sue numerose tasche, tirando fuori qualche moneta, un pezzo da tre penny, qualche mezzo penny. Andò al bar e mise le monete sul bancone. Ratcliff le guardò e, senza una parola, prese un bicchiere.

Spider siede vicino alla porta con una mezza mild. Non succede niente. Un secondo vecchio si unisce al primo, bisbigliano fra loro e poi restano in silenzio. Spider studia i disegni sul séparé di vetro; gli fanno venire in mente le foglie di una qualche pianta, le foglie di una verdura, forse una rapa. Sì, era opera sua, gelc aveva peccato ben bene. Assaggia la birra — un immediato sibilo di disgusto da parte del verme nel polmone, una frenetica attività dei ragni. Si ricorda il racconto di sua madre sui ragni nell’olmo, e pensa al proprio corpo e alle creature che vi si sono installate. Sono una rete per le uova, pensa, e dovrei penzolare da un ramo appeso a un filo. Resta seduto lì, al caldo, fino alle tre e mezzo, quando Ernie Ratcliff lo scaccia.


* * *

Nei giorni seguenti, Spider andò spesso al Dog and Beggar. Camminava su e giù per Kitchener Street per un’ora circa, sperando di scorgere sua madre, anche se in qualche modo sapeva da quando aveva visto quel pietoso mucchio di rovine dove un tempo c’era il numero 27 che non l’avrebbe rivista mai più. E allora cosa lo riportava lì? Dio solo lo sa: forse ci andava semplicemente per contemplare la desolazione e dirsi: «Questa è opera tua, sei stato tu.» Dopo la terza o la quarta volta, riuscì ad affrontare quello scenario senza farsi prendere dalla disperazione: una curiosa calma lo pervadeva allora, un senso di rallentamento, di arrivare a una decisione, non disgiunto dalla costante e rassicurante presenza della calza appesa dentro i pantaloni. Si trattava di una calma triste, vaga, sonnacchiosa, o piuttosto di una malinconia, ed era disturbata solo dagli strilli notturni nel solaio e dalle contorsioni del verme polmonare intrappolato nel suo corpo. Adesso si muoveva adagio ma con decisione all’interno del suo spazio predeterminato, e ogni giorno passava qualche ora nel locale del bar del Dog. Gli restava solo da sistemare i conti con Hilda.

Poi un pomeriggio lasciò il Dog e seguì la vecchia e ben nota strada fino al canale, sul ponte e verso Omdurman Close, fino agli orti. A quell’ora del pomeriggio, il sole stava calando verso il fiume e la luce si ispessiva sensibilmente. Percorrendo il sentiero, si inoltrò fino al cancello di suo padre; il posto era deserto. Entrò nell’orto e si inginocchiò nel campo delle patate, poi si distese sul terreno invernale. Giacque lì, immobile, per parecchi minuti. C’era uno strano silenzio negli orti, la sua profondità e immobilità erano in qualche modo intensificate dal fioco e lontano abbaiare di un cane. C’era silenzio anche nel terreno, per cui si alzò lentamente e si diresse dietro al casotto, da dove si vedeva chiaramente l’area desolata che un tempo era chiamata «le Tegole», e al di là una distesa di magazzini e docks, e ancora più lontano il fiume. A quell’ora, il sole aveva colorato il cielo di una specie di rosso polveroso che si faceva sempre più intenso e profondo mentre lo guardava. Il fiume scintillava già delle luci della città, e adesso una flottiglia di nuvole con i bordi sfrangiati formava una lunga linea sopra il sole, con la parte inferiore arrossata dagli ultimi raggi. Il Tower Bridge si stagliava nero contro il rosso e, proprio al di sopra di esso, vide quelle che sembravano poche righe spezzate di una scritta confusa e illeggibile. Poi si voltò e si allontanò nell’oscurità dell’orto, mentre il giorno svaniva, moriva…

Oh, butto la matita disgustato. Non sono tenero o malinconico o sdolcinato, ho un pessimo umore, e questi ultimi giorni sono stati un vero inferno: non riesco a dormire, non riesco a mangiare e non riesco a sfuggire alla sensazione costante, pervasiva, quasi paralizzante, che tutto intorno a me stia diventando silenzioso e vuoto e morto. L’aria stessa sembra piena di morte! Più di una volta mi è venuto in mente di essere morto io — la presenza nel mio corpo del verme e dei ragni sembrerebbe indicarlo, il restringimento dei miei organi vitali, l’odore di marcio che filtra ormai continuamente dai miei pori — non sono questi segni di morte? Quando accadrà? C’è stato un momento della morte, un momento in cui si poteva dire: «Adesso è vivo, adesso è morto»? Non penso. Credo che sia stato qualcosa di graduale, una morte lenta che iniziò il giorno in cui mi trovai sotto l’orologio di Ganderhill con la valigia di cartone e le tre sterline — anche se, nel momento in cui lo scrivo, mi sovviene che forse incominciò anche prima, incominciò la sera in cui morì mia madre, e che da allora sono andato spegnendomi, riducendomi in cenere e polvere dentro di me, conservando solo i movimenti esterni, i goffi gesti e le posture della vita. Per cui, forse la mia non è stata affatto una vita, ma uno sbriciolamento, una costruzione infantile tenuta insieme da bastoncini e pezzi di spago — e adesso rimangono solo cenere e polvere, e i ragni che si nutrono di questo compost. Suona la campanella per la cena, ma non ho intenzione di scendere. Hilda è laggiù da qualche parte, probabilmente cerca ancora le sue chiavi. So che pensa che le abbia io, c’è il suo odore in camera e non se ne vuole andare. Sono ancora nella mia calza, ma l’ironia è che, a quanto pare, non trovo il coraggio di usarle — penso che, se dovessi aprire la porta che dà sulle scale del solaio e salire, verrei fatto a pezzi e divorato; e così subisco le loro offese piuttosto che affrontarli. E come sempre sono solo il diario e il tabacco che mi forniscono quel poco di struttura portante che posseggo.

Dopo un po’, sento la radio che suona musica da ballo nel salotto; ancora più tardi, tubi gemono e schioccano e scrosciano quando le anime morte vanno in bagno e al gabinetto per lavarsi i denti malati e svuotare le vesciche avvizzite. Anime morte! Sono la più morta delle anime morte, adesso: guardatemi sdraiato sul letto a fumare una «magra» per tenere a bada il verme del polmone, osservate questo zombie debole!

Ancora più tardi, la casa si fa silenziosa e, nella prima parte della notte, prima che inizino a cantare, mi muovo da un piano all’altro, perché mi piacciono le ombre. Mi piace soprattutto il modo in cui la luce del lampione filtra dai vetri coperti di brina della porta e diffonde una fioca luminosità nell’ingresso; siedo spesso al buio in cima alla prima rampa di scale e contemplo quel chiarore, credo che mi renda tranquillo. Ciò che mi rende ancora più tranquillo è stare in cucina a notte fonda, quando tutto è silenzioso. Una notte scoprii l’armadietto sotto il lavandino e, grazie al mio accendino, potei esaminarne il contenuto con attenzione: c’era un tubo a U che scendeva dall’acquaio; c’era una scatola di attrezzi; c’erano bottiglie di candeggina e di ammoniaca; pagliette; detersivi; una pila di giornali ingialliti; un secchio di metallo con uno spazzolone e un pezzo di sapone fenico: anche la mia fune l’ho trovata lì. Passai mezz’ora seduto a gambe incrociate a guardare nell’armadietto, con l’accendino acceso sul pavimento davanti a me. Tirai fuori tutto, disposi ordinatamente ogni cosa sul pavimento della cucina ed entrai io — non fu facile, non sono piccolo! Ma con la testa reclinata sul petto, il tubo a U premuto contro la pancia e le braccia intorno alle ginocchia riuscii a ficcarmi dentro e a chiudere la porta. Per dieci minuti, restai rannicchiato al buio e avvertii una grande pace. Poi uscii e aprii i rubinetti; col rumore dell’acqua corrente nel tubo l’armadietto era davvero accogliente; adesso ci passo trenta o quaranta minuti ogni notte.

Ma se ci resto troppo, me la fanno pagare, per cui mi vedrete emergere all’improvviso da sotto il lavandino e tornare di corsa in camera mia in preda al panico per il senso di colpa! Ah, quelle creature! Spesso ora lavorano sul soffitto: lo usano come uno schermo e vi proiettano immagini e perfino intere scene, che sono distorsioni, o elaborate parodie, di frammenti del mio passato. Hanno imparato anche l’insidiosa tecnica di prendere il contenuto dei miei pensieri del giorno e renderlo osceno o assurdo o grottesco, e a volte perfino mentre scrivo, se non riesco a impedirmi di guardare verso l’alto, vedo una rozza imitazione dell’argomento della pagina che ho di fronte — guardate adesso! Lo stanno facendo proprio adesso! Guardate come sono enormi le mie mani, sproporzionatamente enormi, e la mia faccia è lunga e gialla con la pelle che cade a scaglie come quella di un merluzzo sotto il coltello del pescivendolo! Oh guardatelo là, povero mostro, che pasticcia con la sua matita e quelle zampacce informi — la matita talmente piccola e delicata, mentre lui tenta di afferrarla e guidarla sulla carta. E io distolgo gli occhi, mi costringo a tornare al quaderno, e intanto si alza una risata stridula, ed è impossibile non sentirvi dentro la voce di Hilda, il suo tono rauco e il suo feroce sibilo di minaccia.

La colazione è un’impresa, perché i loro occhi possiedono i mezzi per distruggermi; più rischioso ancora è attraversare l’atrio verso la porta d’ingresso: il mio incubo è di scollegarmi a metà strada. Il timore lo fa succedere, per cui mi trovo alla fine della colazione a tentare di non pensare di scollegarmi; ci riesco di rado. «Signor Cleg!» griderà lei. «Dov’è il suo cappotto?» o: «Dov’è il suo cappello?» Un giorno ha detto: «È proprio ora di tagliare quelle unghie.» Il suo volto ha incominciato a frantumarsi come accadeva a Kitchener Street, occhi e mento e capelli e naso separati l’uno dall’altro e vaganti, sicché io devo riunirli con la mente per ottenere una faccia. Non cerca più di nascondere la sua inessenzialità e la sua animalità: sono evidenti nelle sue dita, che si contraggono e si allentano con rabbia e fame appena mascherate. Indossa lo stesso golf che aveva la notte in cui accompagnò mio padre al canale vicino ai gasometri, e talvolta penso che lo apra per offrirmi il suo seno, è accaduto l’altra notte; a questo pensiero, avverto un movimento nei miei polmoni. Si prende il suo tempo, però; ogni incontro si svolge improvviso e imprevisto, e mi lascia confuso. Una volta mi ha detto: «Signor Cleg, sa qualcosa del coltello per il pane?» Quel giorno salì di nuovo in camera mia, sentii il suo odore quando tornai. Era come se un branco di animali selvatici avesse vissuto lì, neanche il tabacco e la finestra aperta riuscivano a liberare la stanza da quel puzzo.

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