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Non c’era luce.

Persino quel frammento d’informazione negativa era qualcosa cui aggrapparsi. Capire che quell’oscurità totale risultava dall’assenza di una cosa chiamata luce le era costato moltissimo, come ricordare che il tempo era fatto di momenti l’uno consecutivo all’altro, come i grani d’un rosario. E ora quei grani le sfuggivano tra le dita. E si assemblavano in una parodia di casualità.

Per tutto è necessario un contesto. Perché l’oscurità significhi qualcosa bisogna possedere il ricordo della luce. E quel ricordo stava scomparendo.

Conm’era già successo, come sarebbe successo ancora. A volte appariva un nome per identificare la consapevolezza disincarnata. Più spesso, c’era solo la coscienza.

Si trovava nel ventre della bestia.

(Quale bestia?)

L’avrebbe ricordato. I ricordi tornano sempre, se si aspetta il tempo necessario. E aspettare era facile. Lì, i millenni non valevano più dei secondi. L’edificio stratificato del tempo era in rovina.

Si chiamava Cirocco.

(Cos’è un Cirocco?)

"Ci-ro-cco. Ricorda un vento caldo del deserto, e anche un vecchio modello della Volkswagen. Mamma, non m’ha mai detto cos’aveva in testa in quel momento." Quella era la sua risposta abituale. S’accorse che la stava ripetendo, anche se avvertiva la forma d’intangibili labbra che ripetevano quelle parole per esse senza senso.

"Chiamami capitano Jones." (Capitano di cosa?)

"Del VSP Ringmaster. VSP significa Vascello Spazio Profondo. Diretto a Saturno con sette persone a bordo. Fra cui Gaby Plauget…"

(Chi è…)

"… e… un altro era… Bill."

(Cos’è quest’altro nome?) L’aveva sulla punta della lingua. La lingua è un pezzo di carne morbida che si trova nella bocca, che è…

Un momento fa lo sapeva, ma cos’è un momento?

Qualcosa che ha a che fare con la luce. Qualunque cosa questa sia.


Non c’era alcuna luce. Ma non era già stata lì? Ma sì, certo, ma non ci pensava, fermati un poco, non lasciare che i pensieri sfuggano. Non c’era luce, non c’era nient’altro. Già, ma cosa vuol dire nient’altro?

Nessun sapore. Nessun odore. Nessuna sensazione tattile. Nessuna percezione cinestesica del corpo. Nemmeno un senso di paralisi.

Cirocco! Si chiamava Cirocco.

Ringmaster. Saturno. Temi. Bill.

Le tornò tutto in mente all’improvviso come se lo rivivesse in un vivido secondo. Pensò che sarebbe impazzita a quel flusso di memorie e l’idea fece sorgere un altro ricordo, più lontano. Era già successo. Aveva già ricordato, e poi dimenticato. Era impazzita molte volte.

Sapeva che la presa che aveva sugli avvenimenti era flebile, ma era tutto quello che aveva. E adesso sapeva dov’era, conosceva la natura del suo problema.

Il fenomeno era stato studiato nel corso dell’ultimo secolo. Si chiude un uomo in una tuta di neoprene, gli si bendano gli occhi, gli si legano gambe e braccia in modo che non possa toccarsi, si elimina ogni rumore dall’ambiente, lo si lascia fluttuare nell’acqua calda, meglio ancora in caduta libera. Volendo, lo si nutre per via endovenosa e si eliminano tutti gli odori, ma non è indispensabile.

I risultati sono sorprendenti. Molti dei primi soggetti erano piloti collaudatori, uomini forti, decisi, sicuri. Ventiquattro ore di privazione sensoria li trasformavano in bambini docilissimi. Periodi più lunghi erano estremamente pericolosi: poco per volta la mente elimina tutte le distrazioni, il battito cardiaco, l’odore del neoprene, la pressione dell’acqua.

Cirocco conosceva quegli esperimenti, venti ore di privazione le aveva provate durante la preparazione per il viaggio. Cercò di respirare in fretta, di costringersi a tossire, ma non sentì niente. Allora decise di provare a muovere un muscolo, uno qualsiasi; bastava una smorfia della bocca. Doveva dimostrare a se stessa di non essere morta, come cominciava a temere.

Un’idea orribile. E se quella era la morte? Se la morte era una non-morte, una specie di vita eterna trascorsa in completa privazione sensoria? Era preferibile la pazzia. E se la gente non moriva, cosa succedeva allora?

Era inutile cercare di muoversi. Smise subito e cominciò a rovistare nei ricordi recenti, sperando che negli ultimi secondi di consapevolezza che aveva trascorso sul Ringmaster si nascondesse la chiave della sua situazione. Avrebbe voluto ridere, se solo fosse riuscita a trovare i muscoli per farlo. Se non era ancora morta, allora era intrappolata nel ventre di una bestia tanto grande da aver divorato la nave e tutto il suo equipaggio.

Dopo un po’, cominciò a sembrarle attraente. Se era vero, se era stata divorata ed era ancora viva, allora la morte stava arrivando. Qualsiasi cosa era migliore di quell’eternità da incubo la cui infinita futilità si stava stendendo su di lei.

Trovò che era possibile piangere senza un corpo. Senza lacrime né singhiozzi, senza sentirsi la gola irritata, Cirocco si sentiva disperata. Diventò come una bambina persa nel buio. Sentì che i ricordi stavano per svanire di nuovo, ne fu felice, e si morse la lingua.

Il sapore caldo del sangue le invase la bocca. Vi strisciò attraverso con paura disperata e con la fame di un pesciolino perso in uno strano mare salato. Adesso era un verme cieco, una bocca coi denti e con una lingua ferita. Il sapore del sangue era meraviglioso. Si morse di nuovo, furiosamente. Ancora quel sapore salato, e un dolore magnifico, esaltante. Puoi assaggiare un colore? si chiese. Ma non se ne preoccupò. Si ferì di nuovo, esaltandosi.

Il dolore la trasportò nel passato.

Sollevò il viso dai quadranti spezzati e dai vetri infranti del suo aereo privato e sentì il vento freddo entrarle nella bocca aperta. Si era morsicata la lingua. Si portò la mano alla bocca e due denti sporchi di sangue vennero via. Li guardò, senza capire da dove venivano. Settimane dopo, mentre lasciava l’ospedale li ritrovò in una tasca della sua giacca a vento. Li tenne in una scatoletta sul comodino, per i momenti in cui si svegliava di colpo sentendo il vento mortale che le bisbigliava all’orecchio. "Il secondo motore è partito, e qui sotto non ci sono altro che alberi e neve." Allora afferrava la scatoletta e la scuoteva. "Ce l’ho fatta, sono viva."

Ma, come ricordò a se stessa, era avvenuto anni prima.

… il viso pulsava. Le stavano togliendo le bende. Sembrava un film. È proprio un peccato che non posso vedere la scena. Visi ansiosi che si affollavano attorno — una veloce panoramica su tutti loro — garze sporche che cadevano di fianco al letto, bende su bende che si srotolavano… e poi… ma… ma dottore… è bellissima.

Ma non era vero. Avevano detto quello che lei voleva sentirsi dire. Due mostruosi occhi gonfi, pelle rossa e raggrinzita. I lineamenti erano intatti, non c’erano cicatrici, ma non era certo più bella di quanto era stata. Il naso aveva sempre quell’aria aquilina, e che altro? Be’, almeno non era rotto, e lei era orgogliosa del fatto che non aveva permesso che gliel’operassero per motivi puramente estetici.

(Nell’intimo, lei odiava quel naso anche se pensava che proprio per quel naso e per la sua statura le avessero affidato il comando del Ringmaster).

Sapeva che erano state fatte pressioni perché fosse selezionata una donna, ma quelli che decidevano non avrebbero certo affidato un’astronave così costosa a una cosina graziosa di un metro e mezzo…

Un’astronave così costosa…

Stai divagando. Morsicati la lingua.

Si morsicò, sentì il sangue…

… e rivide la finestra panoramica fracassata, sentì l’urto contro il pannello dei comandi, si trovò proiettata sull’abisso di vuoto, cercò di afferrare le gambe di un corpo avvolto nella tuta…

Si morse di nuovo, forte, e sentì qualcosa in mano. Passarono secoli, e sentì qualcosa che le toccava il ginocchio. Unì le due sensazioni e capì di essersi toccata.


Fu presa dal delirio per il proprio corpo. Si spostò, leccò e morse tutto ciò che riusciva a raggiungere con la bocca, mentre le sue mani carezzavano e pizzicavano. La sua pelle era liscia, morbida, perfettamente depilata.

Un liquido denso, quasi gelatinoso, si muoveva nelle sue narici quando tentava di respirare. Non era spiacevole, e nemmeno preoccupante.

E poi c’era un rumore, un battito sordo che doveva essere il suo cuore.

Riusciva a toccare solo il proprio corpo. Per un po’ provò anche a nuotare, ma non capiva se si spostasse o meno.

Poi si addormentò.


Il risveglio fu un processo incerto, lento. Per un certo tempo non capì se dormiva ancora o se era cosciente. Mordersi non serviva. Si può sognare un morso, non è vero?

Ma aveva davvero dormito? Com’era possibile addormentarsi in una situazione del genere? Le differenze fra uno stato di coscienza e l’altro diventavano esilissime, in quell’assenza quasi totale di sensazioni. Le porte della follia erano pericolosamente vicine.

Avvertiva il terrore aumentare col battito del proprio cuore. Stava per impazzire, e lo sapeva. Mentre la combatteva s’aggrappava con tenacia alla personalità che aveva faticosamente ricostruito strappandola ai turbini della follia.

Nome: Cirocco Jones. Età: trentaquattro anni. Razza: non nera, ma nemmeno bianca.

Legalmente era americana, ma in effetti era figlia di quella cultura di sradicati della Terza Cultura creata dalle multinazionali. Aveva vissuto qua e là, in ghetti di lusso tutti uguali, tutti deprimenti.

Sua madre, un ingegnere petrolifero che lavorava come consulente per diverse compagnie, non si era mai sposata e non voleva figli. Poi c’era stato un incidente di frontiera tra l’Iraq e l’Arabia Saudita, durante il quale era stata catturata e violentata. Mentre i rappresentanti della Texaco negoziavano la sua liberazione, Cirocco era venuta al mondo. Alcune atomiche erano state seminate nel deserto nel frattempo, e l’incidente di frontiera era ormai un lontano incidente bellico quando le truppe irano-brasiliane avevano liberato i prigionieri. Seguendo gli spostamenti della bilancia politica, la madre di Cirocco era riuscita a raggiungere Israele. Cinque anni dopo sua madre aveva contratto un cancro ai polmoni, grazie al fallout. Era sopravvissuta per altri quindici anni sottoponendosi a cure leggermente meno dolorose della malattia.

Cirocco era cresciuta in solitudine, con l’unica compagnia della madre. Aveva visto gli Stati Uniti per la prima volta a dodici anni. Sapeva già leggere e scrivere, quindi il sistema scolastico americano non riuscì a farle troppo male. La sua educazione sentimentale fu un’altra cosa. Non riusciva facilmente a crearsi amici, ma era leale fino all’inverosimile coi pochi che aveva. Sua madre era convinta che l’educazione di una ragazza, oltre che sulla danza e sul canto, dovesse basarsi anche sul karaté e sul tiro a segno; esteriormente pareva sicurìssima di sé. Lei era l’unica a conoscere le proprie paure, la propria vulnerabilità. Era il suo segreto, e lo aveva tenuto nascosto così bene da ingannare persino gli psicologi della NASA che le avevano affidato il comando di una nave.

Inutile mentire, ormai: sì, la responsabilità del comando la spaventava. Forse tutti i Comandanti erano segretamente insicuri, perché nell’intimo sapevano che non erano adatti per tutte le responsabilità che gravavano su loro. Ma non era quello il tipo di domande che ti facevano. E che importava poi se gli altri non erano atterriti? L’importante era salvare il proprio, di segreto.

Si scoprì a pensare a cos’avrebbe voluto d’altro che non fosse il comando di un’astronave. Cosa voleva d’altro?

"Ma allora perché ho assunto il comando dell’astronave, se non lo volevo? Cosa voglio? Vorrei uscire di qui. Vorrei che succedesse qualcosa."


E successe qualcosa.

Con la mano sinistra sentì una parete. Più tardi, ne sentì un’altra con la destra. Le pareti erano calde, lisce e resistenti, proprio come immaginava fossero le pareti di uno stomaco. Le intuiva muoversi oltre le sue mani.

Cominciarono a stringersi.

Adesso si trovava in un tunnel irregolare, a testa in avanti. Le pareti cominciarono a contrarsi. Per la prima volta in vita sua, provò un senso di claustrofobia. Gli spazi stretti non l’avevano mai disturbata prima.

Le pareti pulsavano, vibravano, la spingevano avanti. La sua testa si trovò contro qualcosa di freddo e duro. Si sentì schiacciare. Un fluido uscì dai suoi polmoni. Tossì, respirò, scoprì che aveva la bocca piena di sabbia. Tossì di nuovo, uscì altro fluido dai polmoni, ma adesso aveva le spalle libere. Spinse avanti la testa per non inghiottire altra sabbia. Starnutì, sputò, cominciò a respirare col naso.

Le si liberarono le braccia, poi i fianchi. Cominciò a scavare il materiale spugnoso che aveva attorno. Aveva lo stesso odore di un giorno dell’infanzia trascorso su un freddo, nudo pavimento in quello stretto passaggio in cui s’infilano gli adulti quando devono riparare un tubo. Le sembrava di avere nove anni e di scavare nel fango.

Liberò una gamba, poi l’altra. Rimase col capo chino in quella piccola sacca d’aria formata dalle sue braccia e dal torace. Respirava spasmodicamente.

La sabbia le scivolò giù per il collo, lungo il corpo, fino a riempire quasi tutto lo spazio disponibile. Era sepolta, ma viva. Doveva scavare di nuovo, ma non riusciva a muovere le braccia.

Respingendo il terrore, si costrinse ad alzarsi in piedi. Fu uno sforzo tremendo, ma la massa sopra di lei cedette.

La sua testa uscì alla luce, all’aria. Boccheggiando, sputando, tirò fuori un braccio, poi l’altro. Toccò qualcosa che sembrava erba fredda. Uscì dal buco carponi, cadde. Piantò le dita in quel terreno benedetto, pianse, si addormentò.


Cirocco non voleva svegliarsi. Fingeva di dormire. Poi aprì gli occhi di colpo, perché aveva l’impressione di precipitare di nuovo nell’oscurità mentre l’erba sembrava scomparire.

A qualche centimetro dal suo naso c’era un tappeto verde pallido di quella che sembrava erba. Aveva anche l’odore dell’erba. Quel tipo d’erba che si trova solo nei migliori campi di golf. Però era più calda dell’aria, e questo non lo capiva. Forse non era proprio erba.

Mosse attorno la mano per toccare, annusò di nuovo. Chiamala erba.

Si mise a sedere e qualcosa tintinnò, distraendola. Un anello di metallo lucido le cingeva il collo e c’erano altri anelli più piccoli alle braccia e ai piedi. Molti oggetti strani pendevano dall’anello più grande, tenuti assieme da fili. Se lo tolse dal collo e cominciò a chiedersi dove l’avesse già visto.

Era molto complicato concentrarsi. La cosa che aveva in mano era così complessa, così varia; era troppo per il suo spirito disperso.

Dopo uno sforzo, ricordò. Si trattava della sua tuta, da cui era sparita tutta la plastica e la gomma. Restava solo il metallo.

Ammucchiò gli oggetti e in quel momento si accorse di essere nuda. Non solo: sotto una pellicola di sporco il suo corpo era completamente depilato.

Erano scomparse anche le sopracciglia, e questo, chissà perché, la rese molto triste.

Nascose la faccia fra le mani e cominciò a piangere.

Cirocco non piangeva facilmente, né spesso. Non ne era capace. Ma dopo un tempo che era stato lunghissimo capì di nuovo chi era.

Adesso doveva solo scoprire dov’era.


Mezz’ora dopo si sentì pronta a mettersi in marcia. Ma subito nacquero le domande: mettersi in marcia verso dove?

La sua idea era quella di esplorare Temi, ma adesso non possedeva più l’astronave, le risorse della tecnologia terrestre. Aveva soltanto il suo corpo nudo, e qualche pezzetto di metallo.

Si trovava in una foresta composta d’erba e di un solo tipo d’alberi. Cioè: se una cosa è alta settanta metri, ha un tronco marrone e rotondo e in alto possiede cose che sembrano foglie, è un albero. Il che non significa che non sia capace di divorare un essere umano, se gli capita a tiro.

Ma non doveva preoccuparsi eccessivamente. Scarta le cose per le quali non puoi fare nulla, non agitarti troppo per le cose per cui puoi fare ben poco. E ricorda che se sarai troppo cauto come le regole della ragionevolezza vorrebbero, morirai di fame in una caverna. Quindi, per prima cosa, controllare l’aria. Poteva essere velenosa.

Trattenne un attimo il respiro: in bocca aveva un buon sapore fresco e non la faceva tossire.

Per l’acqua poteva fare ben poco. Ammesso che ne trovasse, prima o poi doveva decidersi a berla; anzi, bisognava spicciarsi a trovarla. Eventualmente, se possibile, l’avrebbe bollita; se no, l’avrebbe bevuta lo stesso, con microbi e tutto il resto.

E poi c’era il cibo, la preoccupazione maggiore. Anche se lì non c’era niente che volesse mangiare lei, come faceva a sapere se il cibo che avrebbe trovato non era velenoso o nutriente quanto il cellophane?

Esisteva sempre il rischio calcolato. Ma come si fa a calcolare un rischio quando un albero potrebbe non essere un albero?

Non sembravano proprio alberi. I tronchi erano come di marmo levigato. I rami erano alti, paralleli rispetto al suolo, e correvano per una distanza sempre uguale prima di piegarsi ad angolo retto. Le foglie, altissime, erano piatte e lunghe tre o quattro metri.

Cos’era azzardato e cos’era troppo prudente? Lì non c’era nessuna guida e i pericoli non erano certo segnalati. Ma senza un minimo d’autoconvincimento non si sarebbe potuta muovere, e lei non poteva restare ferma. Stava cominciando ad avere fame.

Provò a colpire un tronco con un pugno, ma non successe niente. Lo colpì col palmo della mano. Ma quello rimase immobile, indifferente.

— Solo uno stupido albero.

Esaminò il buco da cui era emersa.

Era una ferita scura nel tappeto d’erba, con zolle rovesciate attorno ai margini. Ormai era profondo solo mezzo metro, perché il terriccio lo aveva riempito.

— Qualcosa ha cercato di mangiarmi — disse. — Qualcosa ha mangiato tutte le parti organiche della mia tuta, e tutti i miei peli, poi ha emesso i pezzi di scarto. Me compresa. — Di passaggio notò che si sentiva soddisfatta d’essere stata giudicata qualcosa da scartare.

Una bestia enorme. Sapeva che la parte esterna del toro, cioè il terreno su cui era seduta, era spessa trenta chilometri. Era riuscita a ingoiare il Ringmaster da una distanza di 400 chilometri. E Cirocco era rimasta nel suo stomaco per tanto tempo, e la bestia non l’aveva digerita. Assurdo. Aveva digerito la tuta, l’astronave e aveva espulso lei.

Era una cosa senza senso. Se poteva ingerire la plastica, perché non l’aveva fatto anche con lei? Il capitano di una nave era forse troppo coriaceo?

Si era mangiato l’intera astronave, pezzi grandi quanto il motore del modulo, altri piccoli come i frammenti di vetro o quelle rotolanti, piccole figure chiuse nelle tute spaziali con elmetti ammaccati come quello di…

— Bill! — Scattò in piedi all’improvviso. — Bill! Sono qui! Sono viva! Tu dove sei?

Si batté una mano sulla fronte. Se solo fosse riuscita a liberarsi di quella fangosa sensazione in cui i suoi pensieri si muovevano con lentezza esasperante! No, non si era dimenticata del suo equipaggio, ma era solo in quel momento che riusciva a connetterli con la neonata Cirocco, ritta nuda e implume su quel terreno caldo.

— Bill! — urlò di nuovo. Attese per una risposta, poi ricadde con le gambe piegate sotto di lei. Si mise a strappare l’erba.

Probabilmente, la creatura aveva risputato anche Bill. Però lui era ferito.

"Già, ma lo ero anch’io, ora che ci penso." Si guardò le gambe, e non c’era segno di ferite. Il che non le disse niente: poteva essere rimasta nel ventre della bestia per cinque anni, o pochi mesi.

Anche gli altri potevano essere stati, o sarebbero stati, espulsi. Lì, vicino a lei, c’era quello che doveva essere l’apparato escretorio della creatura. Se anche gli altri uomini non le piacevano, come non era piaciuta lei, potevano ritrovarsi tutti assieme.

Restò seduta ad aspettarli.

Mezz’ora dopo (o erano passati solo dieci minuti?) capì che l’idea era stupida. Quella bestia era enorme. Aveva ingoiato il Ringmaster come fosse una mentina. Doveva essere grande quanto l’intero Temi. Impossibile che avesse un orifizio anale solo lì. Dovevano essercene altri, disseminati chissà dove in tutto quello spazio.

Dopo un po’ le venne un altro pensiero. Loro stavano arrivando da lontano, ma stavano arrivando, e lei gli era grata per questo. Il pensiero era semplice: aveva fame, aveva sete, e si sentiva sporca. La cosa che desiderava di più al mondo era l’acqua.

Il terreno scendeva dolcemente.

Era pronta a scommettere che sul fondo avrebbe trovato un corso d’acqua.

Si alzò, toccò con un piede i pezzi di metallo. Erano troppi per portarseli via tutti, ma non possedeva altre risorse. Prese uno degli anelli più piccoli e il più grande, che un tempo stava alla base del suo casco ed era ancora collegato ai componenti elettronici penzolanti. Non era molto, ma doveva bastarle. Infilò sulla spalla l’anello più grande e si incamminò giù per la discesa.


Trovò un torrente che correva in una piccola valle, formando una cascata alta due metri e una pozza d’acqua sotto la cascata. Gli alberi attorno erano fitti, non le permettevano di vedere il cielo.

Immobile su un sasso, Cirocco meditò sull’idea di buttarsi in acqua. Ma era impossibile giudicare la profondità della pozza e capire se contenesse creature viventi. Con un salto scavalcò la cascatella: la gravità di appena un quarto rendeva estremamente facili i salti. Camminò un po’ e arrivò a una piccola spiaggia sabbiosa.

L’acqua era dolce, tiepida, meravigliosa: la cosa migliore che avesse mai assaggiato. Ne bevve a sazietà, poi si lavò tenendo gli occhi bene aperti. Le pozze d’acqua sono posti in cui occorre essere cauti. Per la prima volta da quando si era risvegliata le parve di essere ragionevolmente umana. Si sdraiò sulla sabbia, lasciando i piedi a mollo.

L’acqua era più fresca dell’aria e del suolo, ma sorprendentemente calda, visto che quello sembrava un torrente alimentato dallo scioglimento dei ghiacci. Poi capì che la cosa aveva senso se, come avevano immaginato sul Ringmaster, il riscaldamento di Temi veniva dal basso. Il Sole non poteva certo bastare a creare un clima così mite. Ma sotto di lei c’erano i pannelli triangolari, che probabilmente raccoglievano e immagazzinavano il calore solare. Immaginò immani fiumi sotterranei di acqua calda, a poche centinaia di metri sotto il suolo.

Adesso doveva rimettersi in marcia, ma da che parte? Proseguire in quella direzione era fuori discussione, perché il terreno riprendeva a salire. Era meglio seguire il corso del fiume che scendeva a valle.

— Deciditi, deciditi — mormorò.

Guardò i pezzi di metallo che portava da… quanto tempo? Un mattino? Un pomeriggio? Impossibile avere un senso del tempo esatto: le ore erano come dilatate.

Il cerchio del casco le giaceva in mano. Corrugò la fronte mentre lo guardava da vicino.

La sua tuta conteneva una radio. Ovviamente era impossibile che fosse uscita intatta dal ventre della bestia, però si mise lo stesso a cercare quanto poteva essere rimasto. C’erano una minuscola batteria e i resti dell’interruttore, sulla posizione di acceso. Nient’altro. La maggior parte dei componenti era al silicio o metallo, il che dava una pallida speranza.

Guardò meglio: dov’era il ricevitore? Avrebbe dovuto restarne qualcosa, un auricolare di metallo. Infatti lo trovò e se lo portò all’orecchio.

— … Cinquantotto, cinquantanove, novecentosessanta…

— Gaby! — Cirocco scattò in piedi, urlò, ma la voce dell’altra continuò imperterrita a contare. Cirocco s’inginocchiò tra le rocce e radunò con mani tremanti i resti del suo elmetto, s’infilò il ricevitore nell’orecchio mentre frugava tra i componenti. Trovò il microfono laringeo.

— Gaby, Gaby, rispondimi. Mi senti?

— Ottanta… Rocky! Sei tu, Rocky?

— Sono io. Dove… Dove sei… — Si sforzò di calmarsi. — Stai bene? Hai visto gli altri?

— Oh, capitano. Le cose più orribili… — Gaby singhiozzò, le inviò un fiume incoerente di parole: com’era felice di udire la sua voce, che era stata sicura di essere l’unica sopravvissuta finché non aveva sentito altri suoni al ricevitore della sua radio.

— Suoni?

— Sì, dev’esserci almeno un’altra persona viva. A meno che non fossi tu che piangevi.

— Io… Sì, ho pianto parecchio. Potevo essere io.

— Non credo — disse Gaby. — Penso proprio che fosse Gene. A volte canta. Rocky, è meraviglioso sentire la tua voce.

— Lo so. Sono felice anch’io di sentire la tua. — Dovette prendere un altro ampio respiro e rilassare la stretta sul cerchio del casco. La voce di Gaby non era controllata, ma Cirocco si sentiva sull’orlo di una crisi isterica. La cosa non le piaceva per niente.

— Cosa non mi è successo — stava dicendo Gaby. — Sono morta, capitano, ed ero in paradiso, e io non sono nemmeno religiosa, però…

— Gaby, calmati. Ti capisco, ma non agitarti.

Un attimo di silenzio, punteggiato da singulti.

— Penso di essermi ripresa adesso. Scusami.

— Va tutto bene. Se t’è capitato quello che è successo a me, ti capisco perfettamente. Dove sei ora?

Una pausa, seguita da una risatina. — Qui non ci sono cartelli stradali. Comunque mi trovo in un canyon non molto profondo. È pieno di sassi e in mezzo c’è un fiume con questi alberi buffi attorno.

— Più o meno sembra lo stesso paesaggio di qui. Ma quale canyon? In che direzione stai andando? Stavi contando i passi?

— Sì. Seguo il fiume verso il basso. Se riuscissi a uscire da questa foresta riuscirei a vedere una metà di Temi.

— Già, lo penso anch’io.

— Avremmo bisogno di un paio di punti di riferimento per accertarci se siamo vicine.

— Penso che dovremmo esserlo, se no non ci sentiremmo. Qui l’orizzonte si curva verso l’alto.

— Sarei disposta a crederci se lo vedessi. A me sembra di essere nella foresta incantata di Disneyland verso sera.

— Disney avrebbe fatto un lavoro migliore. Avrebbe curato di più i particolari e messo mostri che spuntano da dietro gli alberi.

— Non dirlo nemmeno per scherzo. Hai visto niente del genere?

— Un paio d’insetti, o così sembravano.

— Io ho visto un gruppetto di pesci. Insomma, sembravano pesci. Non entrare in acqua; potrebbero essere pericolosi.

— Li ho visti anch’io. Dopo essere entrata in acqua. Ma non mi hanno fatto niente.

Si descrissero i posti che avevano oltrepassato. Gaby disse di aver visto parecchie cascate con una pozza d’acqua. Forse stavano seguendo lo stesso fiume, ma non potevano saperlo.

— D’accordo — disse Cirocco. — Facciamo così. Quando incontri una roccia rivolta controcorrente, facci sopra un segno con un sasso.

— Come?

— Con un altro sasso. — Ne trovò uno grande quanto il suo pugno e incise una C sulla roccia su cui si era seduta. Impossibile non capire che si trattava di un graffio fatto volutamente.

— Sto facendo ora il mio segno. Lascia un segnale ogni cento metri circa. Se stiamo seguendo lo stesso fiume, chi è dietro vedrà i segnali dell’altra e potremo ricongiungerci.

— Mi sembra una buona idea. Ehi, Rocky, quanto durano queste batterie?

Cirocco fece una smorfia, si grattò la testa.

— Direi un mese. Però dipende da quanto tempo… insomma, quanto tempo siamo rimaste sepolte là dentro? Io non ne ho idea. E tu?

— No. Senti, hai ancora peli?

— Nemmeno uno. — Cirocco si grattò il cranio pelato, e notò che non era più liscio come prima. — Però stanno ricrescendo.


Cirocco riprese a camminare, col microfono in mano e il ricevitore nell’orecchio per tenersi in contatto.

— Se penso al cibo mi viene fame — disse Gaby. — E in questo momento ci sto pensando. Hai visto quei cespugli con le bacche?

Cirocco non ne aveva visti.

— Le bacche sono gialle, grandi come la punta del pollice. Adesso ne ho in mano una. È morbida e trasparente. La mangio, cosa dici?

— Prima o poi bisognerà rischiare. Non credo che una sola bacca possa ucciderti.

— Tutt’al più mi farà star male — rise Gaby. Una pausa. — L’ho spezzata coi denti. Dentro c’è una gelatina gialla. Sembra miele ma sa di menta. Si scioglie in bocca. La buccia non è molto dolce, ma la mangio lo stesso. Forse è l’unica parte della bacca che abbia valore nutritivo.

"Speriamo lo sia" pensò Cirocco. Non c’era alcun motivo perché una singola parte della bacca avrebbe dovuto nutrirla. Era contenta che Gaby le avesse fatto una descrizione così perfetta, che però le ricordava dolorosamente la tecnica degli artificieri: quando un artificiere va a disinnescare una bomba, racconta tutto quello che succede agli altri via radio. Se la bomba esplode, gli altri hanno imparato qualcosa per la volta successiva.

Passò un po’ di tempo senza che si verificasse niente. Gaby mangiò altre bacche. Più tardi le trovò anche Cirocco: erano deliziose quanto la prima sorsata d’acqua.

— Gaby, io non ce la faccio più. Da quanto tempo siamo sveglie?

Non ci fu risposta. Cirocco dovette ripetere la frase.

— Cosa? Oh… Dove sono finita? — Gaby sembrava leggermentc ubriaca.

— Dove sei? Gaby, cosa ti succede?

— Mi sono seduta un momento a riposare. Devo essermi addormentata.

— Cercati un posto adatto per dormire.

Cirocco si stava già guardando attorno. Un bel problema. Addormentarsi così, all’aperto, in un posto sconosciuto? L’unica idea peggiore era continuare a camminare. Avanzò nella foresta e scoprì che l’erba sotto i suoi piedi era morbidissima. Mettersi a riposare un minuto sarebbe stato meraviglioso.


Cirocco si svegliò sull’erba, si mise a sedere e si guardò attorno. Non si muoveva niente.

Nel raggio di un metro dal punto in cui aveva dormito l’erba era diventata marrone e secca come paglia.

Si alzò, si avvicinò a una roccia, le girò attorno. Sull’altro lato era graffiata la lettera G.

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