19 “Le jardin des supplices”

Non si era mai visto un ristorante simile, da Babilonia in poi. Le terrazze salivano, a gradini, verso la volta stellata. La rifrazione era eliminata, e pareva di cenare all’aperto sotto il cielo benché l’elegante pubblico fosse completamente al riparo dal clima. Uno schermo di luce nera, che incorniciava la facciata dell’albergo, cancellava fin l’ultimo riverbero delle luci della città, così che, sulla Sala Galattica, le stelle brillavano come su una foresta disabitata.

I mondi lontani dell’universo parevano quasi a portata di mano, e lo splendore stesso della sala derivava da oggetti che provenivano da quei mondi. Lo speciale aspetto delle pareti, che disegnavano curve ininterrotte, era dovuto alla disposizione di prodotti extraterrestri: ciottoli di tinte vivaci, affissi, pitture, alberi magici tintinnanti fatti in leghe bizzarre, strutture di luce viva a zigzag, ciascuna inserita nelle nicchie, lungo i diversi livelli. I tavoli sembravano spuntare dal pavimento, coperto da un tappeto costituito da un organismo semi-sensibile che si trovava su un pianeta di Aldebaran. A essere sinceri, il tappeto somigliava molto a limo terrestre lavorato in uno stampo; ma la direzione non si faceva scrupolo di vantarne la composizione, e la consistenza era estremamente soffice.

Nei punti strategici della Sala Galattica crescevano arbusti in vaso, piante fiorifere odorose, alberi nani, tutte cose (si diceva) importate da altri mondi. Persino il lampadario era di produzione extraterrestre: una colossale fioritura di gocce dorate, ricavate dalla secrezione, simile all’ambra, di un bestione marino che viveva lungo le coste grìgie di un pianeta Centaurino.

Nella Sala Galattica, le cene costavano cifre astronomiche, ma tutti i tavoli erano occupati, tutte le sere: bisognava prenotarli con delle settimane di anticipo. I fortunati di quella sera ebbero l’inatteso privilegio di vedere l’astronauta e la fanciulla dai molti figli; ma erano anch’essi stessi, per la maggior parte, delle celebrità, e dedicarono solo un’attenzione momentanea a quella coppia intorno alla quale si faceva tanta pubblicità. Un rapido sguardo, e tornarono a occuparsi del proprio piatto.

Lona aveva attraversato le spesse porte trasparenti tenendosi stretta al braccio di Burris, conficcandovi le piccole dita al punto che temeva di fargli male. Si trovò ritta su una stretta piattaforma sopraelevata. Davanti a lei si spalancava un’enorme distesa vuota, col cielo stellato sul capo. Il centro del ristorante era incavato, largo quasi un centinaio di metri da una parte all’altra; le file dei tavoli aderivano come scaglie al guscio esterno, procurando a ogni cliente una poltrona di prima fila sullo spazio cosmico.

Lei ebbe l’impressione di cadere in avanti, e di ruzzolare nel pozzo che si apriva davanti ai suoi piedi.

Le tremavano le ginocchia, aveva la gola secca, ondeggiava sui tacchi e sbatteva rapidamente gli occhi. Il terrore la trafiggeva in mille punti. Forse sarebbe caduta nell’abisso, forse quella strega dalle poppe gigantesche sarebbe ricomparsa aggredendoli mentre mangiavano: lei stessa, avrebbe commesso qualche orribile goffaggine a tavola o avuto un improvviso attacco di nausea. Poteva succedere di tutto. Era un ristorante di sogno. Ma non era detto che fosse un bel sogno.

Una voce vellutata, che usciva dal nulla, mormorò: — Signor Burris, signorina Kelvin, benvenuti nella Sala Galattica. Per favore, avanzate.

— Dobbiamo metterci su quella lastra di gravità.

La lastra, che pareva di rame, costituiva un disco, dello spessore di un paio di centimetri, con due metri di diametro, che sporgeva dall’orlo della piattaforma su cui stavano. Burris, vi condusse Lona e subito, disormeggiato, il disco scivolò in avanti e verso l’alto. Lona non guardò giù. La lastra galleggiante nell’aria li trasportò sul lato opposto della gran sala e andò a fermarsi accanto a un tavolo vuoto, appollaiato su una sporgenza a mensola. Burris smontò e aiutò Lona a passare sulla sporgenza. Il loro disco trasportatore svolazzò via, tornando al suo posto. Lona, per un attimo, lo vide di taglio, in un alone sgargiante di luce riflessa.

Il tavolo, a un sol piede, pareva solidale con la sporgenza. Fu un sollievo, per Lona, prendere posto sulla sua sedia, che istantaneamente aderì alle sue forme. Quella stretta confidenziale aveva un che di osceno, ma era rassicurante, avrebbe evitato che un giramento di testa la facesse cadere nel vuoto alla sua sinistra.

— Ti piace? — chiese Burris, guardandola negli occhi.

— Incredibile. Non immaginavo assolutamente nulla di simile. — Non gli disse che era sconvolta.

— Abbiamo un tavolo in posizione privilegiata. Probabilmente, quello stesso di Chalk, quando cena qui.

— Non supponevo che ci fossero tante stelle!

Alzarono gli occhi. Da dov’erano, il loro sguardo spaziava senza ostacoli su un arco di Centocinquanta gradi. Burris le indicò le stelle e i pianeti.

— Marte — disse. — È facile: quello grande, color arancio. Ma riesci a vedere Saturno? Naturalmente non si vedono i suoi anelli; ma… — Le prese la mano, la guidò, puntandola, e descrisse la configurazione celeste, finché non ritenne che avesse capito. — Presto saremo lassù, anche noi, Lona. Da qui non possiamo vedere Titano a occhio nudo; ma ci andremo fra poco. E allora li vedremo, gli anelli! Guarda, guarda lì Orione. E Pegaso. — Le disse i nomi delle costellazioni, delle stelle, provando un piacere quasi sensuale a pronunciarli: Sirio, Arturo, la Polare, Antares, Betelgeuse, Aldebaran, Procione, Vega… — Ognuna è un sole — disse. — La maggior, parte ha dei pianeti. Guardale, tutte spiegate dinanzi ai nostri occhi.

— Hai raggiunto molti altri soli?

— Undici, nove dei quali avevano dei pianeti.

— Anche qualcuno di quelli che hai nominato? Mi piacciono quei nomi.

Egli scosse il capo. — I soli dove sono andato io sono indicati con dei numeri, non con dei nomi. O meglio, non hanno dei nomi dati da terrestri. Per lo più, ne hanno degli altri, e alcuni li ho anche saputi. — Lei vide che gli angoli della sua bocca si allargavano e si richiudevano rapidamente. Lona aveva imparato a riconoscere, in lui, questo segno di tensione. Si chiese se fosse opportuno parlargli delle stelle. Forse preferiva che nessuno gliele ricordasse.

Sotto quel baldacchino scintillante, tuttavia, lei non poteva farne a meno.

— Tornerai mai lassù? — chiese.

— Fuori del nostro sistema? Ne dubito. Non sono più in servizio. E non ci sono voli turistici per le stelle vicine. Ma naturalmente partirò ancora dalla Terra. Con te. Per il giro planetario. Non è proprio la stessa cosa… ma è più sicura.

— Mi puoi… Mi puoi… — Esitò e poi si lanciò: — Mi puoi indicare il pianeta dove ti hanno… catturato?

Tre rapide contorsioni della bocca di Burris. — È un sole azzurrastro. Da questo emisfero non si vede. E a occhio nudo non si vede nemmeno più in giù. Sei pianeti. Manipol è il quarto. Quando orbitavamo intorno a esso, preparandoci a scendere, provai una strana eccitazione. Come se il destino stesso mi conducesse in quel luogo. Forse ho una minima dose di preveggenza; che ne dici, Lona? Non c’è dubbio che, nel mio destino, Manipol abbia avuto una grossa importanza… Ma sono certo di non avere il dono della preveggenza. Pensa: di tanto in tanto mi colpisce profondamente la sensazione che mi aspetta un viaggio per tornare lì. È assurdo. Tornarci! Rivederli!… — Il suo pugno si chiuse improvvisamente, irrigidendosi con uno scatto convulso che fece contrarre tutto il braccio. Un vaso, con dei fiori dai petali carnosi, per poco non volò via nel vuoto. Lona lo afferrò. Notò che quando egli chiudeva la mano, il piccolo tentacolo esterno si avvolgeva ordinatamente intorno al dorso delle sue dita. Con entrambe le mani, lei gli coprì le nocche fino a quando la tensione sfumò e le dita si aprirono.

— Non parliamo di Manipol — propose. — Però le stelle sono belle.

— Sì. Ma io l’ho pensato solo dopo essere tornato sulla Terra dal mio primo viaggio. Ci sembrano, da qui, puntini luminosi. Ma quando si è presi nella rete dei loro raggi, rimbalzando qua e là come vogliono le stelle… è diverso. Ti lasciano il segno. Lo sai, Lona, che da questa sala si ha una vista delle stelle quasi altrettanto netta che dai portelli di un’astronave?

— Come mai? Non ho mai visto niente di simile.

Egli cercò di spiegare il funzionamento dello sbarramento di luce nera. Dopo la terza frase, Lona non ci capì più nulla, ma continuò a fissarlo negli occhi con aria attenta, fingendo di ascoltare, decisa a non deluderlo. Quante cose sapeva! Tuttavia, in quel luogo di delizie, era spaventato quanto lei. Parlando, creavano una barriera contro la paura; ma, nei silenzi, Lona sentiva acutamente, con estremo imbarazzo, la presenza delle centinaia di persone ricche, sofisticate, che la circondavano, e del lusso schiacciante, e dell’abisso che si apriva accanto a lei, e della propria ignoranza e inesperienza. Sotto quello sfolgorio di stelle si sentiva come nuda e persino Burris, negli intervalli della conversazione, le ridiventava estraneo, e le sue deformità chirurgiche, che aveva quasi smesso di notare, assumevano tutt’a un tratto una evidenza paurosa.

— Beviamo qualcosa? — egli chiese.

— Sì. Sì, per favore, ordina tu. Io non so che cosa prendere.

Non c’era in vista nessun cameriere, né umano né paraumano. Lona non ne vedeva nemmeno agli altri tavoli. Burris ordinò, semplicemente, parlando a una piccola griglia d’oro che aveva alla sua sinistra. Lei provò una reverente ammirazione di fronte al suo modo di fare calmo ed esperto; anzi, ebbe il sospetto di dover manifestare questa ammirazione. Disse: — Sei venuto spesso a mangiare qui? Hai l’aria di sapere quel che bisogna fare.

— Sono venuto una volta. Più di dieci anni fa. Non è un posto che si dimentica facilmente.

— Eri già un astronauta, a quel tempo?

— Oh, sì. Avevo compiuto un paio di missioni. Ero in licenza e volevo fare impressione su una certa ragazza…

— Oh!

— Non l’ho fatta. Lei ha sposato un altro. Morirono in viaggio di nozze, nel disastro del Disco Volante.

Più di dieci anni fa, pensò Lona. Lei, allora, aveva meno di sette anni. Di fronte a lui sì sentiva rimpicciolire, con la sua giovinezza. Fu lieta di veder arrivare le bibite.

Arrivarono su un piccolo vassoio a gravitroni, volando attraverso quel baratro vuoto. Lona si accorse che quei vassoi di servizio erano piuttosto numerosi, e si meravigliò che non si scontrassero, alzandosi vero i tavoli rispettivi. Ma naturalmente non ci voleva granché a programmare delle orbite che non si intersecassero.

La sua bevanda venne in una piccola ciotola di pietra nera levigata, consistente al tatto eppure morbida e gracile alle labbra. La prese e se la portò alla bocca con gesto automatico; e prima di sorseggiarla si accorse dello sbaglio. Burris, sorridente, aspettava, col bicchiere ancora dinanzi a sé.

Quando sorride così, pensò Lona, ha una maledetta aria da maestro di scuola. Sembra che mi sgridi senza aprir bocca. Lo so, che cosa pensa! Che sono una piccola vagabonda ignorante che non sa comportarsi.

Lasciò sbollire l’ira. Ma si accorse di essere arrabbiata con se stessa, non con lui, e questo le fu di aiuto, per calmarsi.

Guardò il bicchiere di Burris.

C’era qualcosa dentro, che sembrava nuotare.

Il bicchiere era di quarzo trasparente, pieno per tre quarti di un fluido denso, verde e viscoso. E un minuscolo animale a forma di goccia, dalla pelle color viola, andava avanti e indietro oziosamente, lasciando una lieve scia fosforescente.

— È messo lì volutamente? — chiese Lona.

Burris rise. — Mi sono fatto portare un cosiddetto martini Deneb. Che nome assurdo! Una specialità della casa.

— E quella cosa che c’è dentro?

— Una specie di girino. Una forma di vita anfibia, che proviene da un pianeta di Aldebaran.

— E lo inghiotti?

— Sì, vivo.

— Vivo! — Lona ebbe un brivido. — Perché? Ha un sapore così buono?

— Non ha alcun sapore, in realtà. È lì semplicemente per figura. La raffinatezza, compiuto l’intero giro, torna alle barbarie. Un sorso, e va giù.

— Ma è vivo!

Burris sorrise con gentilezza. — Scusami. Non l’avrei ordinato, se avessi pensato che poteva darti fastidio. Vuoi che lo faccia portare via?

— No. Lo berrebbe qualcun altro, immagino. Non volevo dire tutto questo. Ero solo un poco sconvolta, Minner. Ma è la tua bibita. Bevila tranquillamente.

— La rimando indietro.

— Per favore. — Gli toccò il tentacolo della mano sinistra. — Lo sai perché non sono d’accordo? Perché il fatto di inghiottire un essere vivente equivale a considerarsi un dio. Voglio dire: si è lì, giganteschi, e si distrugge un essere che non sa assolutamente il perché. Così come…

— Così come delle creature di un altro mondo possono prendere un organismo inferiore, e sottoporlo a intervento chirurgico senza prendersi il disturbo di spiegare il perché? — chiese egli. — Così come dei medici possono condurre un complicato esperimento sulle ovaie di una ragazza, senza tener conto del contraccolpo psicologico? Dio mio, Lona! Dobbiamo mettere da parte questi pensieri, e non continuare a tornarci su!

— Questo che hai ordinato per me, che cosa è?

— Un Gaudax. Da un pianeta del Centauro. È leggero e dolce, ti piacerà. Alla salute, Lona.

— Alla salute.

Egli fece orbitare il proprio bicchiere intorno alla ciotola nera di Lona, salutando l’uno e l’altra. Poi bevettero. L’aperitivo Centaurino le pizzicò leggermente la lingua; era vagamente oleoso, ma delicato, delizioso. Lei ebbe un fremito di piacere. Dopo tre rapidi sorsi, depose la ciotola.

L’esserino che nuotava era scomparso dal bicchiere di Burris.

— Vuoi gustare il mio? — le chiese egli.

— No, per favore.

Egli annuì. — Allora, ordiniamo la cena. Mi perdoni per la mia mancanza di riguardo?

Due cubi verde scuro, di dieci centimetri di lato, erano posati l’uno accanto all’altro sul tavolo. Lona aveva creduto che fossero solo ornamentali; ma quando Burris ne spinse uno verso di lei, si rese conto che dovevano essere la lista delle vivande. Nella mano, si accendeva di una luce calda e apparivano delle lettere luminose che sembravano stare uno o due centimetri sotto la superficie liscia. Lei fece rigirare il cubo. Minestre, carni, antipasti, dolci…

Non riconosceva nulla.

— Non dovrei trovarmi qui, Minner. Io mangio solo cose comuni. Tutto questo è talmente bizzarro che non so da dove cominciare.

— Vuoi che ordini per te?

— È meglio. Salvo che ci siano cose che vorrei realmente. Una bistecca tritata di proteine e un bicchiere di latte.

— Dimenticali. Assaggia un po’ delle specialità più rare.

— Ma è così falso, che io mi finga una conoscitrice.

— Non fingere niente. Mangia e goditela. La bistecca tritata di proteine non è il solo cibo dell’universo.

La sua calma si estendeva anche a lei, tenendola a freno ma senza avvolgerla interamente. Egli ordinò per entrambi. Lona era fiera della sua abilità. Il fatto di saper scegliere sul menu di un locale come quello non era gran cosa; ma lui era così esperto! Le infondeva un rispetto reverenziale. Se l’avessi incontrato prima, pensò Lona, quelli… E tagliò netto quel pensiero. Non era immaginabile un concorso di circostanze tale da metterla in contatto con Minner Burris prima che fosse mutilato. Non si sarebbe neanche accorto di lei. Doveva essere molto occupato con donne scodinzolanti come quella vecchia Elisa. La quale lo desiderava ancora, ma non lo avrebbe avuto. È mio! pensò Lona, con violenza. È mio. Mi hanno gettato un essere in pezzi e io sto contribuendo ad aggiustarlo: nessuno me lo toglierà.

Cominciarono ad arrivare le portate. Ognuna era una ghiottoneria di mondi lontani, sia autentica, importata dall’origine, sia riprodotta sulla Terra con la massima perfezione. Il tavolo si coprì rapidamente di stranezze. Piatti, ciotole, tazze di cose bizzarre, servite con un’opulenza da stordire. Burris gliene diceva i nomi, cercava di spiegarle che cos’erano; ma lei adesso si sentiva girare la testa e riusciva appena a capire. Che cos’era questa carne bianca, a lamine? E queste bacche dorate immerse nel miele? Questa zuppa pallida, cosparsa di formaggio aromatico? Già sulla Terra c’erano tante cucine diverse; il fatto di avere a disposizione quelle di una Galassia dava le vertigini e le tagliava l’appetito.

Lona mangiucchiò. Un boccone di questo, un sorso di quello. Continuava ad aspettarsi di trovare un essere vivente nel bicchierino successivo. Fu sazia molto prima che giungesse la portata di mezzo. C’erano due vini. Burris li mescolò, e cambiarono colore, passando dal turchese e dal rubino a una sfumatura inaspettata, opalina. — Reazione di catalisi — egli disse. — Qui, tengono conto dell’estetica quanto del gusto. — Ma lei poté berne appena un pochino.

Le stelle si erano forse messe a descrivere cerchi irregolari?

Lei udiva, tutto intorno, il ronzio delle conversazioni. Da più di un’ora riusciva a fingersi di trovarsi isolata, con Burris, in una piccola oasi privata; ma ora la presenza degli altri si faceva sentire. Guardavano. Commentavano. Andavano in giro, spostandosi di tavolo in tavolo sulle lastre a gravitroni. Hai visto? Che ne pensi? Che bello! Che strano! Che buffo!

— Minner, andiamo via.

— Ma non abbiamo ancora finito.

— Lo so. Non m’importa.

— Liquore prodotto nel gruppo del Procione. Caffè galattico.

— Minner… no. — Vide che gli si aprivano gli occhi quanto lo consentivano gli sportelli e capì che le aveva letto in viso una espressione che lo aveva colpito. Lei era sul punto di sentirsi male e forse Burris l’aveva visto chiaramente.

— Ce ne andiamo — le disse. — Il dessert lo prenderemo un’altra volta.

— Sono così spiacente, Minner — mormorò lei. — Non volevo sciupare la cena. Ma questo locale… Non mi sento proprio al mio posto. Mi impaurisce. Tutti quei cibi strani. E tutti ci guardano, vero? Se potessimo tornare in camera sarebbe molto meglio.

Egli stava già chiamando il disco trasportatore. Lona sentì che la sedia allentò la presa. Alzandosi, si accorse di avere le gambe molli. Non sapeva come fare un passo senza ribaltarsi. In quell’attimo di esitazione vide chiarissimi dei particolari isolati. Una donna grassa, ingioiellata, con una quantità di doppi menti. Una ragazza dorata, avvolta di trasparenze, non molto più vecchia ma certo molto più disinvolta di Lona. Il giardino di alberelli biforcuti, due livelli più giù. Un vassoio che scivolava attraverso lo spazio aperto, portando tre tazze di una cosa scura, sconosciuta e brillante. Lona oscillò. Burris la tenne salda e praticamente la mise sul disco sollevandola di peso, ma in un modo che non rivelava fino a qual punto la stesse sorreggendo.

Mentre attraversavano il baratro, verso la piattaforma d’ingresso, lei tenne lo sguardo fisso avanti.

Aveva il viso arrossato e imperlato di sudore. Le sembrava che nel suo stomaco gli animali extraterrestri fossero tornati in vita e nuotassero tranquillamente nei succhi gastrici. In qualche modo, lei e Burris oltrepassarono le porte di cristallo. Poi, giù nell’atrio attraverso la gabbia di discesa direttissima e di nuovo su, attraverso un’altra gabbia, fino al loro appartamento. Intravide Aoudad che vagolava nel corridoio e che si eclissò rapidamente dietro un grosso pilastro.

— Ti senti male? — le chiese.

— Non lo so. Sono lieta di essere fuori di lì. Qui c’è più calma. Hai chiuso bene la porta?

— Certamente. Posso fare qualcosa per te, Lona?

— Lasciami riposare. Pochi minuti, da sola.

Egli la trasportò nella sua camera e la posò sul letto rotondo. Poi uscì. Lona rimase sorpresa della rapidità con cui stava ritrovando l’equilibrio da quando era uscita dal ristorante. Per ultimo, le era sembrato che il cielo stesso fosse un occhio enorme che la spiava.

Più calma, ora, Lona decise di spogliarsi di tutto il suo falso fascino. Si mise sotto il vibraspray. Istantaneamente il suo abito sontuoso svanì. Lei si sentì subito più piccola e più giovane. Si preparò per la notte.

Accese una lampada tenue, disattivò il resto dell’illuminazione, e scivolò fra le lenzuola. Il loro contatto era fresco e gradevole sul corpo. Un quadro di comando regolava i movimenti del letto e la sua forma; ma Lona non se ne occupò. Disse piano in un intercom sotto il cuscino: — Minner, vuoi venire, adesso?

Egli entrò subito. Indossava ancora il suo sgargiante abito da sera, completo di cappa. Le coste sporgenti, simili a costole, erano così strane da annullare quasi completamente la stranezza del suo corpo.

Lei pensava che la cena era stata un disastro, che il ristorante con tutto il suo scintillio era stato come una camera di tortura per lei; ma che si poteva ancora salvare la serata.

— Prendimi fra le braccia — disse con voce fioca. — Sono ancora un po’ scossa, Minner.

Burris si avvicinò. Si sedette accanto a lei, che si sollevò un poco, facendo scivolare il lenzuolo. Egli volle abbracciarla, ma le coste dell’abito formavano una barriera rigida.

— È meglio che mi tolga la bardatura — disse lui.

— Lì c’è il vibraspray.

— Devo spegnere la luce?

— No, no.

Non lo abbandonò con gli occhi mentre egli attraversava la stanza.

Burris salì sulla piattaforma del vibraspray e lo aprì. Era fatto per pulire la pelle da qualsiasi materia aderente, e per prima cosa, naturalmente, sparì l’abito di sprayon.

Lona non aveva mai visto il suo corpo.

Impavida, pronta a qualsiasi rivelazione catastrofica, vide che l’uomo nudo si voltava. Avevano tutti e due un volto teso, poiché quella era una prova a doppio taglio, che avrebbe dimostrato se lei fosse in grado di fronteggiare l’ignoto ed egli potesse sopportare la scossa di fronteggiare la reazione di Lona.

Da giorni e giorni lei temeva quel momento. Ma era venuto e, con crescente meraviglia, lei si accorse che lo aveva superato senza danni.

Non terribile a vedersi, come credeva.

Certo, era strano. La sua pelle, come quella del viso e delle braccia, era lucida e irreale, un contenitore senza cuciture, diverso da qualsiasi altro che un uomo avesse mai avuto. Era senza peli. Non aveva ombelico né petto, cosa di cui Lona si accorse solo dopo avere cercato la causa della stranezza.

Egli aveva le braccia e le gambe attaccate al corpo in modo insolito, e, per vari centimetri, fuori posto. Il suo torace pareva troppo ampio in relazione alla larghezza dei fianchi. I suoi ginocchi non sporgevano normalmente dalle gambe. Quando si muoveva, i muscoli del suo corpo si increspavano in modo curioso.

Ma questi erano solo dei particolari, non delle autentiche deformità. Egli non portava il segno di cicatrici orrende, non aveva membra supplementari nascoste, non aveva occhi o bocche inattesi sul corpo. I veri cambiamenti erano interni e sul suo viso. E per quanto Lona poteva saperne, sembrava in possesso di una virilità normale.

Burris si avvicinò al letto. Lei sollevò le braccia. Un attimo dopo egli era accanto a lei, con la pelle a contatto della sua. La consistenza era strana, ma non spiacevole. In quel momento, egli sembrava bizzarramente timido. Lona si strinse maggiormente a lui. Chiuse gli occhi. Non voleva vedere, in quel momento, il suo viso alterato, e comunque, improvvisamente, persino la fioca luce della lampada le feriva la vista. Stese la mano su di lui. Le loro labbra si incontrarono.

Lona non era stata baciata spesso. Ma non era mai stata baciata così. Coloro che avevano dato una nuova forma alla bocca di Burris, non l’avevano destinata a baciare. Ma non era spiacevole. Poi Lona sentì le dita di Burris sulla sua carne. La pelle di Burris aveva un odore dolce e pungente. La luce si spense.

Nel corpo di Lona una molla si tendeva, si tendeva…

Era una molla che si stava tendendo sempre più da diciassette anni… E ora la sua forza scattò in un solo istante tumultuoso.

Lei staccò la bocca. Le sue mascelle si aprirono e uno strato muscolare vibrò nella sua gola. Fu trapassata da un’immagine lancinante: l’immagine di se stessa, stesa su una tavola operatoria, sotto anestesia, col corpo aperto alle sonde degli uomini in bianco. Fulminò questa immagine, frantumandola e scacciandola.

Si aggrappò a lui.

Finalmente! Finalmente!

Non le avrebbe dato dei bambini. Lei lo intuiva e non ne era turbata.

— Lona — disse egli, premendole il viso contro la clavicola e con voce che giungeva soffocata e roca. — Lona, Lona, Lona…

Ci fu una luminosità, come per l’esplosione di un sole. Lei fece scorrere la mano sulla sua schiena e le balenò in mente che quella pelle era asciutta, senza sudore. Poi, in una convulsa unità, dolore e piacere la soffocarono, e udì con stupore il proprio grido alto e frenetico.

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